Abstract
Il rapporto fra elementi di frattura e di continuità; le forze ideali ed i soggetti politici che si confrontarono in Assemblea Costituente, vengono descritti attraverso alcuni momenti ritenuti esemplari.
La necessità di stabilire una netta cesura con l’ordine costituzionale precedente fu chiara in Italia fin dalle ultime fasi del secondo conflitto mondiale. Già il d.-l. lgt. del 25.6.1944, n. 151, stabiliva (art. 1) che «dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato.» Poco meno di due anni dopo, il d. lgs. lgt., 10.3.1946, n. 74 stabiliva le relative norme elettorali (per la «fase preparatoria del percorso costituente» si veda Cheli, E., I giuristi alla Costituente, in Il Contributo italiano alla storia del pensiero – Diritto, Roma, 2012, 583-588, e con particolare riguardo alla Commissione Forti ivi, 583-584).
Com’è noto, le elezioni si svolsero il 2 giugno 1946, in base al sistema proporzionale, fissato dal d. lgs. lgt. n. 74/1946, con una partecipazione prossima al 90 % dell’elettorato, per la prima volta anche femminile.
In seno alla Costituente si formò dunque una Commissione per la Costituzione, detta dei Settantacinque. Questa si divise in tre sottocommissioni, relative ai «diritti e doveri dei cittadini», all'«ordinamento costituzionale della repubblica», ai «diritti e doveri economico-sociali». La Commissione dei Settantacinque redasse poi (attraverso un comitato di redazione) un progetto di Costituzione, presentato all’Assemblea il 31 gennaio 1947. La discussione non cominciò prima del 4 marzo successivo, per concludersi il 22 dicembre 1947 con la votazione sul testo complessivo, approvato con 453 voti contro 62, su 515 presenti.
La Costituzione entrò quindi in vigore il 1° gennaio 1948.
Prima ancora di essere un nuovo potere ordinatore, la Costituente fu appunto un’assemblea, quindi a determinarne la struttura furono anzitutto i soggetti che la composero: principalmente i singoli individui, i partiti in cui questi si riconoscevano, e i gruppi in cui si organizzarono.
Le elezioni del 2 giugno 1946, che elessero i 556 membri della Costituente, fornirono il seguente quadro di massima: la Democrazia cristiana con il 35,2 % dei voti otteneva 207 seggi; il PSIUP con il 20,7 % otteneva 115 seggi; il PCI con il 19 % otteneva 104 seggi; l’Unione Democratica Nazionale con il 6,8 % otteneva 41 seggi; il Fronte dell’Uomo Qualunque, con il 5,3 %, 30 seggi; il Partito Repubblicano (4,4%) 23 seggi; il Blocco Nazionale della Libertà (2,8%) 16 seggi; il Partito d’Azione, con l’1,4%, otteneva 7 seggi. Seguivano altre formazioni che ottennero da 1 a 4 seggi ciascuna (Il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, 0,7 %, 4 seggi; la Concentrazione Democratica Repubblicana, 0,4 %, 2 seggi; il Partito Sardo d'Azione, 0,3 %, 2 seggi; infine, ciascuno con un solo seggio, il Partito dei Contadini d’Italia, 0,4 %; il Movimento Unionista Italiano, 0,3 %; il Partito Cristiano Sociale, 0,2 %; il Partito Democratico del Lavoro – ma Democrazia del Lavoro contava deputati anche con l’Unione Democratica Nazionale - 0,2 %; il Fronte Democratico Progressista Repubblicano) (Istituto Centrale di Statistica e Ministero dell'Interno, Elezioni per l'Assemblea Costituente e Referendum istituzionale: 2 giugno 1946, Roma, 1948, pp. L ss.; Ghisalberti, C., Storia costituzionale d’Italia. 1848/1948, III ed., Bari, 1983; si veda pure:http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=A&dtel=02/06/1946&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S).
Tuttavia, nel corso del tempo la dinamica interna ai partiti non poté non riflettersi nella composizione dei gruppi: ad esempio, con la scissione di Palazzo Barberini (gennaio 1947) il gruppo originario del PSIUP si spaccò in due tronconi, da cui presero vita i gruppi del Partito socialista italiano e del Partito socialista dei lavoratori italiani, di Giuseppe Saragat e (tra gli altri) Ignazio Silone. Alla fine della Costituente, i due gruppi contavano 65 membri il primo, 49 il secondo.
Inoltre, la composizione dell’Assemblea presentava elementi di discontinuità anche con gli equilibri politici e culturali emersi nel corso della lotta clandestina antifascista (si vedano le osservazioni di Pavone, C., La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in Piscitelli, E. et al., Italia 1945-48. Le origini della Repubblica, Torino, 1974, 1391-289, ora in Pavone, C., Alle origini della Repubblica, Torino, 1995, 70-159, 116 ss.). Tra questi, forse il più evidente è quello legato ai deputati azionisti: i sette eletti di quel partito entrarono tutti nel Gruppo Autonomista, con l’aggiunta di Emilio Lussu e Pietro Mastino del Partito Sardo d’Azione, e di Giulio Bordon, eletto per il valdostano Fronte Democratico Progressista Repubblicano. Ferruccio Parri e Ugo La Malfa, che nel febbraio del ’46 avevano lasciato il partito per poi essere eletti con la lista della Concentrazione Democratica Repubblicana, confluivano intanto nel gruppo Repubblicano.
È stato scritto che il Partito d’Azione era arrivato in qualche modo a porsi «quasi come un super-partito dell’antifascismo, di un antifascismo peraltro declinato in senso positivo come programma di ricostruzione democratica. La caduta del governo Parri segnò la crisi di questo tentativo». Infatti «nel congresso che si tiene a Roma […] dal 4 all’8 febbraio 1946, ciò che lacera il partito non è solo il conflitto fra l’anima liberal-democratica e quella socialista, ma è, ancor più, il tema del rapporto con una sua possibile e autonoma base elettorale: la crisi nasce soprattutto dal tentativo di Parri di spostare l’asse del partito verso il ceto medio e la borghesia. […] Parri è convinto di poter raccogliere il consenso dei ceti medi e della borghesia progressista così da avere su una posizione spiccatamente democratica, ma priva di richiami al socialismo, 20-25 deputati all’Assemblea costituente. Questa convinzione, condivisa da Ugo La Malfa, porta alla scissione del partito e alla nascita del Movimento democratico repubblicano, che di fatto avrà alla Costituente due soli seggi e scomparirà poi dalla scena politica» (Scoppola, P., La repubblica dei partiti, Bologna, 1991, 96).
Non si vuole qui in alcun modo discutere le ragioni che portarono alla scissione e al tracollo elettorale del Partito d’Azione. Ma resta indubbio che già solo con la sua sparizione come soggetto unitario (perché la sua cultura di origine ebbe naturalmente modo di esprimersi alla Costituente, tramite le singole personalità che da esso provenivano), il quadro e gli equilibri fra i partiti, e fra le loro culture, prendevano una forma quantomeno sostanzialmente diversa da quella che aveva caratterizzato la storia dell’antifascismo tra le due guerre nonché, poi, quella della Resistenza e dei Comitati di Liberazione Nazionale.
Del resto, gli elementi di frattura o di continuità con gli ordinamenti, le culture giuridiche e politiche che la precedevano non possono non essere al centro delle riflessioni sull’Assemblea Costituente. Né è possibile scindere questo tema da quello, più generale, delle dinamiche fra continuità e discontinuità nella storia giuridica e istituzionale dell’Italia unita, soprattutto a partire dalle riflessioni di C. Pavone su questo punto (Pavone, C., La continuità dello Stato, cit.).
Certamente a segnare la frattura più profonda con la precedente tradizione statutaria sono l’apertura ai cd. “diritti sociali”, e l’idea di un testo costituzionale vivente ed attivo nei confronti dell’ordinamento nel suo complesso, e in questo senso provvisto di organi suoi propri, a partire dalla Corte costituzionale. Ma per mostrare qui, almeno in generale e in estrema sintesi, i termini in cui le dinamiche di continuità e rottura si manifestarono in sede costituente, è forse opportuno procedere ricordando alcune scelte esemplari.
Un primo esempio di discussione in cui gli elementi di discontinuità si definiscono con chiarezza, può venire dalla formazione dell’art. 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»). Come si vede, qui i «diritti inviolabili dell’uomo» vengono rielaborati in relazione alle «formazioni sociali» e alla «personalità» dei singoli, nonché, infine, al concetto di «persona umana».
È possibile, fra i molti passi delle discussioni, fare riferimento a due testi in particolare, che paiono quanto meno esemplari delle trasformazioni ideali in corso, e dell’incontro e scontro di prospettive altrimenti lontanissime fra loro.
Si tratta delle relazioni presentate alla Prima Sottocommissione da Lelio Basso (su cui si vedano almeno, anche per la bibliografia, la voce di Craveri, P., Basso, Lelio in Diz. biogr. degli It., 34, Roma, 1988, 298-307; Giorgi, C., La sinistra alla Costituente: per una storia del dibattito istituzionale, Roma, 2001, 83 ss, e, più di recente, Giorgi, C., Un socialista del Novecento, Roma, 2015; Ippolito, D., Basso, Lelio, in Birocchi, I.-Cortese, E.-Mattone, A.-Miletti, M.N., Diz. biogr. dei giuristi it., 1, Bologna, 2013, 193-194) e Giorgio La Pira (su cui almeno, anche per la bibliografia, Bocchini Camaiani, B., La Pira, Giorgio, in Diz. biogr. degli It., 63, Roma, 2004, 724-729; De Siervo, U., La Pira, Giorgio, in Il contributo italiano alla storia del pensiero: diritto, Roma, 2012, 589-593; Grossi, P., Stile fiorentino, Milano, 1986, 99 ss., 198 ss.; Mattone, A., La Pira, Giorgio, in Diz. biogr. dei giuristi it., 1, cit., 1130-1133) in ordine ai rapporti civili. Basso riferisce anche sul testo che è alla base del futuro art. 3, dove, sebbene nel quadro di una formulazione diversa, già si trovano il riferimento agli «ostacoli» da rimuovere e alla «persona umana» («spetta alla collettività eliminare quegli ostacoli d'ordine sociale ed economico che, limitando la libertà e l'eguaglianza di fatto degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana, e il pieno sviluppo fisico e intellettuale, morale e materiale di ess.» Commissione per la Costituzione, Prima Sottocommissione, Relazione del deputato Basso Lelio sulle libertà civili, ora in Basso, L., Scritti scelti, Roma, 2003, 177-183, 182). Si tratta, spiega Basso, di «una norma nuova, non esistendo in alcuna costituzione. È una norma-principio, che viene a costituire poi la chiave di tutte quelle altre norme, che la Costituzione conterrà, attinenti al lavoro, all’impresa, alla proprietà, ai servizi pubblici. Sotto tale aspetto essa appare particolarmente consigliabile, e dà alla Costituzione una chiarezza di inquadratura e una solidità di base che altrove non è riscontrabile» (ivi; sulla vicenda Novacco, D. (a cura di), Storia del Parlamento italiano, 13, Palermo, 1969, 258 ss.; Giorgi, C., La sinistra alla Costituente, cit., 145 ss. e, in particolare, per l’assunzione della paternità del secondo comma dell’art. 3, nonché dell’art. 49 Cost., si veda Basso, L., Scritti scelti, cit., 210 ss.: «per la prima volta, abbiamo nell’ordinamento giuridico una norma che condanna l’ordine sociale esistente e impone allo Stato di correggerlo», ivi, p. 212; sul ruolo di Massimo Severo Giannini si veda Cassese, S., L’eguaglianza sostanziale nella Costituzione: genesi di una norma rivoluzionaria, in Le Carte e la Storia, 2017, 1, pp. 5-13).
Può essere interessante considerare i termini in cui La Pira, che condivide con Basso la funzione di relatore sul tema, chiarisce nella stessa sede la sua concezione del termine “persona”, centrale nel suo pensiero e cui ha peraltro dedicato un testo (La Pira, G., Il valore della persona umana, ora anche Firenze, 2009), che avrebbe dovuto essere edito nel 1943 ma lo è stato solo nel 1946: «lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato: ecco la premessa ineliminabile di uno Stato essenzialmente democratico» (Commissione per la Costituzione, Prima Sottocommissione, Relazione del deputato La Pira Giorgio sui Principii relativi ai rapporti civili, anche in La Pira, G., La casa comune. Una Costituzione per l’uomo, Firenze, 1979, 145-178, 146). Ma, «accogliendo la concezione organica della società che vede frapposte organicamente e progressivamente fra i singoli e lo Stato le comunità naturali attraverso le quali la personalità umana ordinatamente si svolge», occorre chiarire che «i diritti essenziali della persona umana non sono rispettati […] se non sono rispettati i diritti della comunità familiare, della comunità religiosa, della comunità di lavoro, della comunità locale, della comunità nazionale: perché la persona è necessariamente membro di ognuna di queste comunità, e ne possiede lo status.» Quindi «i diritti del singolo vanno integrati con quelli della famiglia, della comunità professionale, religiosa, locale e così via»; e «dal fatto che le persone sono membri di varie comunità naturali deriva che ciascuna di esse è titolare di tanti status diversi quante sono queste comunità fondamentali alle quali appartiene. Vi sarà uno status familiare, religioso, professionale, territoriale, nazionale […]» (ivi, 149-152).
Dalla comparazione dei due testi, risulta abbastanza chiaro come nella formazione del futuro art. 3, e in particolare nel ricorso al termine: “persona”, confluiscano almeno due distinte tradizioni di pensiero: da un lato quella socialista di Basso, incline a valorizzare il nesso fra diritti di libertà ed «eguaglianza di fatto degli individui»; dall’altra quella solidamente neotomista di La Pira, incline a valorizzare il nesso tra la «persona umana» individuale e la pluralità delle sue appartenenze, che arrivano a manifestarsi in forma di «status» (in linea con una concezione destinata ad una storia di particolare ricchezza e complessità, su cui ora si vedano almeno, anche per la bibliografia, Cianferotti, G., Il concetto di status nella scienza giuridica del Novecento, Milano, 2013; Id., Considerazioni sulla sineddoche della persona nella filosofia italiana e sul dualismo tra soggetto e persona nella civilistica nel secondo Novecento, «Riv. di Storia del diritto italiano», 87, 2014, 399-432).
Un altro esempio può essere fornito dalle discussioni sul futuro art. 7, che integra nel nuovo ordine costituzionale il concordato del 1929 («Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.»).
Si è parlato a questo proposito di una forma di «canonizzazione costituzionale dei Patti lateranensi» (Jemolo, A.C., Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, 1974, 296 ss). Ma va almeno segnalato che giurisprudenza e dottrina sono andate poi precisando i termini del riferimento contenuto nell’art. 7 (si vedano almeno Albisetti, A., Il diritto ecclesiastico nella giurisprudenza della Corte costituzionale, IV ed., Milano, 2010, specie 16 ss.; Lariccia, S., Diritto ecclesiastico, III ed., Padova, 1986, 80 ss.; si vedano anche le osservazioni in Margiotta Broglio, F., La rilevanza costituzionale dei Patti Lateranensi tra ordinamento fascista e Carta repubblicana, ora in Cristiani d’Italia, 1, Roma, 2011, 713-719, 717 ss.).
La situazione si era in definitiva già cristallizzata nella Commissione per la Costituzione, se si considera che il testo dell’articolo lì approvato (il 5), non si discostava se non formalmente da quello che sarà il testo definitivo («Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale»).
Nel corso della discussione, gli interventi di particolare rilievo sono numerosi (fra i molti, quelli di Calamandrei, Basso, La Pira, Lussu, De Gasperi, Nenni, Orlando, Togliatti). In questa sede però è opportuno fermarsi solo su pochi di essi, utili a fornire almeno in sintesi un esempio delle ragioni che si contrapponevano. Il 4 e il 20 marzo 1947, Piero Calamandrei attacca il testo di base (sull’attività di Calamandrei alla Costituente almeno Barile, P., Piero Calamandrei all’Assemblea Costituente, in Barile, P., a cura di, Piero Calamandrei: ventidue saggi su un grande maestro, Milano, 1990, 333-356; Caretti, P., Piero Calamandrei e il problema della Costituente, ivi, 357-371; Lariccia, S., Il contributo di Piero Calamandrei per la laicità dello Stato e la libertà religiosa in Italia, ivi, 455-88; si vedano pure Grossi, P., Stile fiorentino, cit., 142 ss.; Merlini, S., a cura di, Piero Calamandrei e la costruzione dello stato democratico: 1944-1948, Bari, 2007; Vassalli, G. et al., Piero Calamandrei e la Costituzione, Atti del Convegno tenuto a Salice Terme nel 1997, Milano, 1997): principalmente il secondo comma, quello sui Patti Lateranensi. In base ad esso, vi sarebbero dunque «norme costituzionali che non potrebbero essere più modificate per volontà unilaterale dello Stato che ha fatto questa Costituzione», con una «vera e propria rinunzia ad una parte della nostra sovranità.» (Atti dell’Assemblea Costituente, Discussioni, III, Roma, s.d., 4 marzo 1947, 1749). In questo modo infatti i Patti Lateranensi entrano a far parte della Costituzione. Con essi però anche l’art. 1 del Trattato, che rinvia all’art. 1 dello Statuto albertino, «pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato.» Il principio di eguaglianza, la libertà di religione e di coscienza alla base della nuova Costituzione sono «in contrasto con l’articolo 1 del Trattato, che consacra la religione di Stato e quindi lo Stato confessionale»: perché «i Patti Lateranensi realizzano uno Stato confessionale. Su questo credo non ci sia dubbio» (Atti dell’Assemblea Costituente, cit., 20 marzo 1947, 2285-2288; sul punto si veda, anche per i riferimenti bibliografici, Lariccia, S., L’articolo 7, comma 2, della Costituzione: lunga vita di una disposizione normativa e ragioni che rendono necessaria e urgente la sua abrogazione, in Brunelli, G.-Cazzetta, G., a cura di, Dalla Costituzione “inattuata” alla Costituzione “inattuale”? Potere costituente e riforme costituzionali nell’Italia repubblicana, 103, Milano, 2013, 237-248).
Il giorno successivo, si alternano i due discorsi di Mario Cevolotto (Democrazia del lavoro, su cui Caravale, M., Cevolotto, Mario, in Diz. biogr. degli It., 24, Roma, 1980, 341-344) e Giuseppe Dossetti. Cevolotto riprende sostanzialmente gli argomenti di Calamandrei, e pone anzitutto il problema della «sovranità» riferita alla Chiesa cattolica dalla prima parte dell’articolo in discussione. A suo avviso, quell’affermazione non è «opportuna»: infatti, «come risolvere il problema della sovranità dell’ordinamento giuridico della Chiesa, che incide e insiste sullo stesso territorio e sugli stessi soggetti della sovranità dello Stato?» […] Sarebbe «come se i cittadini italiani fossero cittadini aventi due cittadinanze […]» (Atti dell’Assemblea Costituente, cit., 21 marzo 1947, 2310-2013).
Ma il problema più spinoso è quello «dell’inserzione nella Costituzione dei Patti lateranensi»: infatti, continua Cevolotto, nonostante l’opinione di Costantino Mortati, averli «richiamati in questo modo» significa «averli inseriti nella Costituzione stessa». Questo non può non comportare conseguenze gravissime, a partire dal fatto che il Trattato fa riferimento all’art. 1 dello Statuto albertino. Quest’ultimo «aveva subito un processo di evoluzione» e «si era progressivamente trasformato e annullato, fino al Trattato Lateranense. Perché nel Trattato, riaffermandosi che la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato, si creò lo Stato confessionale, si volle creare lo Stato confessionale. Non lo dico io, lo dice il Concordato, lo dicono tutti» (ivi, 2013-2014).
Anche per Cevolotto i pericoli di una “confessionalizzazione” della Repubblica toccano diversi aspetti: innanzitutto, il tema della libertà religiosa e più in generale di coscienza. Poi anche quello della libertà d’insegnamento (Cevolotto fa diretto riferimento anche alla vicenda di Ernesto Buonaiuti, ivi, 2316), con riguardo a tutti i gradi dell’istruzione («non si tratta solo del catechismo. Tutta l’istruzione deve essere improntata alle direttive della Chiesa cattolica. Questa è la portata dell’articolo 36» ivi, 2317). Infine, la disciplina del matrimonio. Per Cevolotto, «inserendo nella Costituzione questo Trattato e questo Concordato, noi riaffermiamo il carattere confessionale dello Stato con tutte le sue conseguenze.» Ma «creando uno Stato confessionale», si fa del «clericalismo», e da questo deriva il pericolo non tanto di una «guerra di religione» (perché «la religione è sempre stata assolutamente libera in Italia anche nei tempi del più acceso anticlericalismo»), quanto di una nuova «lotta contro la Chiesa da parte dei nuovi anticlericali» (ivi, 2016-2019).
Segue immediatamente l’intervento di Dossetti: il riferimento alla condizione sovrana della Chiesa consiste sostanzialmente nel riconoscere «alla Chiesa cattolica la qualità di ordinamento giuridico originario e perciò un’autonomia primaria», cosa che, «per un inoppugnabile dato storico», può dirsi di essa sola e non, ad esempio, delle Chiese «che si riconducono allo spirito della Riforma» e che, a partire dal rogo luterano del Corpus iuris canonici, «si negano, e vantano di negarsi, come ordinamento giuridici». Riproporre il tema dei rapporti fra Stato e Chiesa attraverso «le dibattute contrapposizioni ideologiche di laicismo o laicità e di confessionismo o confessionalità dello Stato» significa evocare solo «larve del passato», «fiori di pezza che hanno conservato i loro vivaci colori sotto campane di vetro» (ivi, 2322-2323).
Quanto al «riconoscimento dei Patti Lateranensi e l’impossibilità della loro modificazione se non per atto bilaterale», Dossetti, semplicemente, nega «si vogliano incorporare, incuneare, inserire, costituzionalizzare le norme del Trattato e del Concordato.» Egli insiste sulla distinzione tra norme «materiali» e «strumentali»: «più precisamente, nel caso» si tratta di «norme sulla produzione giuridica», che non disciplinano un fatto o un rapporto, ma solo definiscono l’iter di produzione di altre norme. Il comma in discussione non ha «per oggetto i molti precetti» contenuti nel Trattato e nel Concordato, ma «un precetto solo», ovvero «che le norme contenute nel Trattato e nel Concordato, debbono essere prodotte […] attraverso un determinato iter, cioè l’accordo bilaterale». Tanto che appunto per la loro modifica non è richiesto il procedimento di revisione costituzionale; procedimento richiesto, invece, laddove si volesse abbandonare il sistema dell’accordo bilaterale per quello della disciplina unilaterale delle relazioni con la Chiesa: così che «il passaggio dal Concordato a un sistema in tutto o in parte giurisdizionalista, non possa avvenire altro che attraverso il procedimento di revisione costituzionale».
Lo stesso articolo 1 del Trattato non comporta differenze giuridiche rilevanti tra quella cattolica e le altre confessione, ma solo discende dal «dato storico» per cui la religione cattolica è quella della maggioranza degli italiani, con la sola conseguenza che, «ove lo Stato creda di ricorrere ad una cerimonia religiosa, per questa deve valersi del culto cattolico». Si tratta in realtà di una norma che «non ha una portata giuridica rigida e predeterminata, ma riceve il suo significato giuridico positivo dal complesso dell’ordinamento, nel quale si inserisce» (ivi, 2326-2329). E per quanto riguarda l’istruzione religiosa, continua Dossetti, si tratta solo di assicurare «un modesto orario settimanale di istruzione catechistica nelle scuole elementari e medie», per le quali lo stesso ordinamento vigente prevede la dispensa su richiesta dei genitori (ivi, 2330).
La centralità delle norme in discussione deriva da altro: «abbiamo sentito qui dentro troppe affermazioni intese a sostenere la incompatibilità di singole disposizioni del Trattato e del Concordato con i principî della nostra nuova Costituzione e del nuovo Stato democratico». Occorre quindi «riconoscere esplicitamente che tra gli Accordi Lateranensi e le disposizioni della Costituzione non vi è contrasto, e stabilire formalmente che il passaggio dall’attuale sistema concordatario al sistema in cui lo Stato unilateralmente disciplina i rapporti con la Chiesa» non potrà avvenire «in forza di una legge deliberata quasi di sorpresa e con una maggioranza fittizia ed effimera, ma solo in forza di un atto solenne, che sia espressione sicura della maggioranza del popolo italiano, cioè in forza di procedimento di revisione costituzionale» (ivi, 2332-2333).
Del resto, poco prima sempre Dossetti aveva sottolineato come la sostanza dei Patti Lateranensi e la «soluzione della Questione romana», al di là delle singole disposizioni, erano una conquista che «la maggioranza del popolo italiano, ha democraticamente confermato e ratificato nelle elezioni del 2 giugno, dando il voto a quei partiti che hanno ora la maggioranza in questa Camera, specialmente a quei partiti popolari (che non sono soltanto la Democrazia cristiana) che avevano nel loro programma elettorale o nelle dichiarazioni solenni dei loro congressi come punto fermo il principio del riconoscimento dei Patti Lateranensi» (ivi, 2332).
Il 25 marzo 1947 in Assemblea Costituente risultano infruttuosi anche gli ultimi tentativi di emendare il testo, con le proposte di Calamandrei e altri azionisti (Atti dell’Assemblea Costituente, cit., 25 marzo 1947, 2438) e di Basso (ivi, 2445, su cui Jemolo, A.C., Chiesa e Stato, cit., 304). Con gli interventi di De Gasperi e Togliatti gli spazi di manovra si esauriscono (ivi, 305 ss.).
Com’è noto, fu molto particolare la posizione dei comunisti e dello stesso Togliatti. Già in prima Sottocommissione, il 18 dicembre 1946, Togliatti aveva dichiarato che, sebbene i comunisti non volessero denunciare il concordato e il trattato lateranense, pure si opponevano al loro inserimento nella Costituzione, potendo semmai l’Assemblea Costituente votare un ordine del giorno in cui «dichiari di ammettere che il Concordato e il Trattato del Laterano sono in vigore» (Atti dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Prima Sottocommissione, Discussioni, Roma, s. d., 18 dicembre 1946, 482-483). E il 23 gennaio 1947, in adunanza plenaria della Commissione dei Settantacinque, viene respinto un emendamento sempre di Togliatti secondo cui semplicemente «i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati in termini concordatari», senza riferimento ai Patti Lateranensi (Atti dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Adunanza plenaria, Discussioni, Roma, s. d., 23 gennaio 1947, 149-158).
Ma il 25 marzo 1947 la posizione comunista si inverte: Togliatti rivendica coerenza («Prima affermazione fondamentale: la rivendicazione delle libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Il progetto di Costituzione, per questa parte, ci soddisfa. […] Seconda affermazione: consideriamo definitiva la soluzione della questione romana, e non vogliamo in nessun modo riaprirla. Terza affermazione: riteniamo che il Concordato sia uno strumento bilaterale e che solo bilateralmente potrà essere riveduto»: Atti dell’Assemblea Costituente, cit., 25 marzo 1947, 2460). I comunisti hanno perseguito l’obbiettivo di arrivare ad una soluzione quanto più prossima all’unanimità (ivi, 2460-2461). Questo non è stato possibile, ed è inoltre «nostro dovere fare il necessario perché una scissione e un contrasto non si aprano tra la massa comunista e socialista da una parte e i lavoratori cattolici dall’altra.» Dunque i comunisti, per «responsabilità politica» più che per «coscienza e convinzione personale» voteranno il testo del futuro art. 7 («siamo di fronte a problemi economici e politici che si stanno accumulando e intrecciando l’uno con l’altro. In questa situazione, abbiamo bisogno della pace religiosa, né possiamo in nessun modo consentire a che essa venga turbata. Ora, il contrario del termine “pace” è “guerra”. È vero che per fare la guerra bisogna essere in due […] ma per dichiararla, la guerra, basta uno solo», ivi, 2463-2464).
Al voto, per appello nominale, «socialisti, repubblicani, azionisti, democrazia del lavoro, il deputato cristiano-sociale votano per il no, tutti gli altri per il si» e, fra questi ultimi, Orlando, Nitti e Ruini (assenti Croce e Bonomi), col risultato che il testo viene approvato con 350 voti favorevoli e 149 contrari (Jemolo, A.C., Chiesa e Stato, cit., 308).
La formazione dell’art. 7 Cost. sembra riflettere abbastanza chiaramente i contraddittori nessi tra continuità e fratture che caratterizzano i lavori della Costituente: certamente appare nel segno della continuità il riferimento ai Patti Lateranensi, e finanche all’art. 1 dello Statuto albertino; ma quella che viene “costituzionalizzata” è proprio una frattura col più risalente ordinamento statutario. Le categorie giuridiche di riferimento sono quelle maturate alla fine dell’età liberale, compresa la teoria pluralista di Santi Romano, esplicitamente richiamata da Calamandrei ma che torna in altri discorsi, come quello di Dossetti. Il contesto tuttavia è radicalmente mutato: soprattutto, come è chiaro sia dal riferimento di Dossetti alle elezioni del 2 giugno, sia dall’intervento decisivo di De Gasperi e Togliatti, il principale strumento di legittimazione delle nuove norme costituzionali sono i maggiori partiti di massa.
Interrogandosi su quale fosse, se vi era, la «nota dominante» della «nostra Costituzione», Arturo Carlo Jemolo la indicava nel «pensiero cristiano-sociale» (Jemolo, A.C., La Costituzione: difetti, modifiche, integrazioni, ora in Jemolo, A.C., Tra diritto e storia 1960-1980, Milano, 1982, 89-109, 102-103). Allo stesso tempo però, Jemolo dichiarava di preferire sul piano tecnico lo Statuto albertino alla Costituzione del 1948, perché, diversamente che alla Costituente, sullo Statuto «a Torino quei primi del ’48 lavorava un piccolissimo numero di uomini, vecchi magistrati od amministratori, esperti di leggi, consapevoli del valore di ogni termine» (ivi, p. 100).
Guardando da tutt’altra prospettiva al risultato del lavoro alla Costituente, è stato scritto che «accanto al riconoscimento del ruolo dei partiti […] le innovazioni maggiori furono la Corte costituzionale e le regioni (oltre, naturalmente, la forma repubblicana dello Stato e il ripristino e miglior definizione di un vasto arco di libertà personali)» (Pavone, C., La continuità dello Stato, cit., 117).
Verosimilmente, gli elementi di discontinuità con le tradizioni costituzionali precedenti sono stati ancora molti: basti pensare ai processi di cessione della sovranità innescati dall’art. 11 o allo stesso ricorso a norme di indirizzo. Vi sono poi questioni circa le quali, più che di continuità o discontinuità, si può forse parlare di distanza: si pensi al tema delle amministrazioni pubbliche, sul quale l’atteggiamento dei costituenti sembra aver prodotto più di un elemento di grave debolezza del testo costituzionale, sia in ordine ai temi dell’amministrazione centrale, periferica e per enti (sul punto Giannetto, M.-Melis, G.-Tosatti, G., Percorsi dei costituenti: la pubblica amministrazione, in Fioravanti, M.-Guerrieri, S., a cura di, La Costituzione italiana, atti del convegno, Roma, 20-21 febbraio 1998, 191-205, specie 198 ss.; Allegretti, U.-Focardi, G., Amministrazione, Costituente, Costituzione, ivi, 359-416), sia a quelli del regionalismo (su cui Rotelli, E., L’avvento della regione in Italia, Milano, 1967, 295 ss.).
Tornando al tema dei soggetti, la cui attività caratterizzò i lavori della Costituente, si può dire che gli elementi di frattura e trasformazione che ne caratterizzarono comunque l’operato trovavano piena legittimazione nel nuovo ruolo dei principali partiti politici. Senza tenere conto di essi, il lavoro di quell’assemblea non sembra poter risultare pienamente comprensibile (su questo punto Scoppola, P., La Repubblica dei partiti, cit., 190 ss., e, con particolare riferimento all’art. 49 Cost. e alla posizione di Costantino Mortati, 204).
Quanto di quella forza trasformativa sia effettivamente penetrato nel testo della Costituzione; quanto e come abbia operato; quanto abbia giovato al superamento di altre fratture, pure profondamente presenti nel paese è, naturalmente, storia della giurisprudenza, della società e del diritto successivi.
d.-l. lgt. del 25.6.1944, n. 151; Costituzione della Repubblica Italiana.
Antonetti, N.-De Siervo, U.-Malgeri, F. (a cura di), I cattolici democratici e la Costituzione, Bologna, 1998 (in particolare i saggi di Antonetti, N., Dottrine politiche e dottrine giuridiche. I cattolici democratici e i problemi costituzionali, 1943-1946, ivi, 1, 109-174; De Siervo, U., Le scelte costituzionali, ivi, 1, 175-212; Malgeri, F., Il contesto politico, ivi, 1, 21-107, specie 95 ss.; nonché i documenti contenuti nei tre volumi dell’opera, specie nel terzo); Atripaldi, V. (a cura di), Costituente e Costituzione (1946-1948), Napoli, numero speciale di “Diritto e cultura”, VII, 1997; Bonini, F., Storia costituzionale della Repubblica. Un profilo dal 1946 a oggi, Roma, 2007, 34 ss.; Bonini, F., Storia della Corte costituzionale, Roma, 1996, 5 ss., 23 ss.; Brunelli, G.-Cazzetta, G. (a cura di), Dalla Costituzione “inattuata” alla Costituzione “inattuale”? Potere costituente e riforme costituzionali nell’Italia repubblicana, Milano, 2013; Buratti, A.-Fioravanti, M. (a cura di), Costituenti ombra, Roma, 2010; Capitini, A.-Lacaita, P. (a cura di), Gli atti dell'Assemblea costituente sull'art. 7 (con il testo dei Patti lateranensi e il discorso del Croce al Senato), Manduria - Bari - Perugia, 1960; Carlassare, L., L'articolo 11 della Costituzione nella visione dei costituenti, in Ronzitti, N. (a cura di), L'articolo 11 della Costituzione. Baluardo della vocazione internazionale dell'Italia, Napoli, 2013, 1-30; Cheli, E. (a cura di), La fondazione della Repubblica: dalla Costituzione provvisoria alla Assemblea costituente, Bologna, 1979 (e in generale i volumi intitolati a Il sistema delle autonomie: rapporti tra Stato e società civile: ricerca promossa dal Consiglio regionale della Toscana in occasione del 30° della Repubblica e della Costituzione); De Siervo, U. (a cura di), Scelte della Costituente e cultura giuridica, 1: Costituzione italiana e modelli stranieri, 2: Protagonisti e momenti del dibattito costituzionale, Bologna, 1980; De Siervo, U. (a cura di), Verso la nuova Costituzione: indice analitico dei lavori della Assemblea costituente; spoglio sistematico delle riviste giuridiche dell'epoca, Bologna, 1980; Falzone, V.-Grossi, P., Assemblea Costituente, in Enc. dir., III, Milano, 1958, 370-383; Fioravanti, M., Costituzione e popolo sovrano, Bologna, 1998, 11 ss., 100 ss.; Franceschini, C.-Guerrieri, S.-Monina, G. (a cura di), Le idee costituzionali della Resistenza: atti del Convegno di studi: Roma 19, 20 e 21 ottobre 1995, Roma, 1997; Ghisalberti, C., Storia costituzionale d’Italia. 1848/1948, III ed., Bari, 1983, 410 ss.; Magagnoli, S.-Mana, E.-Conte, L. (a cura di), La formazione della Repubblica: autonomie locali, regioni, governo, politica economica, Bologna, 1998; Martucci, R., Storia costituzionale italiana, Roma, 2002, 260 ss.; Monina, G. (a cura di), Le origini della Repubblica, 2 voll., Soveria Mannelli, 2007; Morelli, M.T.A. (a cura di), Le donne della Costituente, Bari, 2007; Onida, V. (a cura di), L' ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della costituzione repubblicana: testi e documenti: con due saggi introduttivi sul periodo costituente e sulla costituzione, Torino, 1991; Paladin, L., Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 46 ss.; Pombeni, P., La Costituente: un problema storico-politico, Bologna, 1995, 73 ss., 103 ss.; Ricci, A.G., Il compromesso costituente: 2 giugno 1946-18 aprile 1948: le radici del consociativismo, Foggia, 1999; Rodotà, S. (a cura di), Alle origini della Costituzione, Bologna, 1998 (tra cui Lanchester, F., Costantino Mortati e Weimar, ivi, 309-345, 330 ss.); Rogari, S. (a cura di), Dal 1848 al 1948: dagli Statuti alla Costituzione repubblicana, Firenze, 2010 (specie Bocchini Camaiani, B., La Chiesa, i cattolici e la Costituente, ivi, 143-175; Taverni, B., Il dibattito sulle autonomie: comuni, Province e Regioni nella fase costituente, ivi, 195-208); Ruffilli, R. (a cura di), Cultura politica e partiti nell'età della Costituente. 1, L'area liberal-democratica, il mondo cattolico e la Democrazia cristiana; 2, L'area socialista, il Partito comunista italiano, Bologna, 1979; Ruffilli, R. (a cura d), Autonomie e pluralismo nelle posizioni dei partiti e delle parti sociali, Bologna, 1981 (specie Duiella, G.-Ranci Ortigosa, E., Alle origini del sistema dei partiti dopo la caduta del fascismo, ivi, 23-183); Sale, G., Il Vaticano e la Costituzione, Milano, 2008.