Assestamenti della riforma pensionistica e dintorni
La riforma pensionistica (dal d.l. n. 98/2011 alla l. n. 214/2011), annunciata come definitiva, sta ancora sul tavolo del governo, alimentando delicate questioni di assestamento e un dibattito che stenta a trovare uno sbocco. In attesa presumibilmente di nuovi interventi nella legge di stabilità, si registra (solo per i dipendenti delle p.a.) un ripensamento nel d.l. n. 101/2013, art. 2, co. 4 e 5 circa l’impatto di diritto transitorio di cui all’art. 24, co. 3 e 4, d.l. n. 201/2011 quanto alla operatività dei nuovi requisiti di accesso; per altro verso, la sentenza della Corte cost. n. 116/2013, avendo soppresso il contributo di perequazione, costringe a cercare nuove soluzioni per redistribuire le risorse destinate alla previdenza pensionistica e la loro coordinazione con gli ammortizzatori sociali. Si è aggiunta una pioggerellina di interventi minori, che evidenziano un vero e proprio disagio dell’ordinamento: in tema di rivalutazione delle pensioni e di ricongiunzione dei contributi, oltre che sulla vigilanza delle forme pensionistiche di 1° e di 2° livello private. Del che si tenterà una riconduzione a sistema, in una ideale saldatura con le precedenti analisi di questa opera.
È fuori discussione che l’anno 2011 e la massiccia coda del 2012 (artt. 2,3 e 4 l. 28.6.2012, n. 92), con le varie puntate che hanno costellato in quel biennio le riforme previdenziali, specialmente pensionistiche, costituisca il momento di svolta del sistema, senza per questo negare il carattere derivativo dalle riforme degli inizi degli anni ’90: ché, anzi, sarà utile risalire al d.lgs. 20.11.1990, n. 357, recante disposizioni sugli enti pubblici creditizi, da cui il rientro dei regimi sostitutivi o esonerativi nel regime ordinario Ivs e la nascita della relativa gestione speciale presso l’Inps (art. 1, co. 2 e 3), della quale il decreto del Ministero del lavoro 12.12.2012 (G.U. n. 108/2013) ha finalmente sancito la fine per esaurimento della funzione: circa ventidue anni per normalizzare uno spicchio di sistema! Non deve perciò sorprendere che le riforme del biennio 2011/2012 registrino ancora momenti di sofferenza, e che non sia mai cessato un intenso dibattito, sul piano socioeconomico e su quello giuridico istituzionale, per una più equa ripartizione delle risorse destinate alla previdenza, sia quelle presenti sia quelle future. Al di là degli episodi legislativi minori, che pure sono meritevoli di attenzione, la riforma1 è stata scossa da due episodi, che verranno esaminate nell’ordine: dall’esterno, secondo la dinamica propria dei giudizi incidentali di costituzionalità, si è imposta la sentenza n. 116/2013 della Corte costituzionale, recante la soppressione del contributo di perequazione (v. infra, § 1.1); dall’interno, per esigenze di chiarezza, si è ricorsi ad una norma di interpretazione per l’applicazione in via transitoria, ma limitatamente ai pubblici dipendenti, delle disposizioni che presiedono il passaggio da uno ad altro regime di età pensionabile.
1.1 Illegittimità costituzionale del contributo di perequazione
Come risulta dai precedenti saggi in materia di questa opera, il legislatore del secondo semestre 2011, nella continuità delle manovre pensionistiche del periodo estivo e di quello invernale, aveva messo a punto – art. 18, co. 22-bis, d.l. 6.7.2011, n. 98 e successive modifiche – il contributo definito di perequazione, destinato «all’entrata del bilancio dello Stato»: un prelievo, dunque, decisamente fiscale, frutto anche della oramai insistita e pervasiva applicazione di meccanismi e logiche proprie del diritto tributario all’impianto, diverso, del sistema pensionistico. Con la sentenza, 5.6.2013, n. 116, la Corte, nel dichiararne la incostituzionalità, ribadisce la distinzione fra equità fiscale ed equità previdenziale.
Isolata dal contesto della motivazione, ed ove si volesse prescindere dalla successione dei dati normativi accumulatisi nel secondo semestre 2011, la sentenza può lasciare perplessi, ed ha effettivamente suscitato commenti negativi2, ma va rilevato che il parametro utilizzato per definire la violazione del principio di uguaglianza è stato non già l’art. 38, co. 2, Cost., sibbene – in combinazione con l’art. 3 – l’art. 53 Cost., che la Corte (C. cost., 24.7.2000, n. 341) aveva già richiamato precisando che «la Costituzione … esige … un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)», cosicché il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione, appunto, dell’art. 3 Cost., va ricondotto ad un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (C. cost., 10.1.1997, n. 11): sentenze tutte precedenti di gran lunga la dichiarazione di incostituzionalità della l. 30.7.2010, n. 122, art. 9, co. 2 (C. cost., 11.10.2012, n. 2233), che costituisce il precedente immediato della sentenza n. 116/20134.
In realtà, la stessa Corte costituzionale ha effettuato una ricostruzione alquanto approssimativa del dato normativo nella ricerca del tertium comparationis, identificato nel contributo di solidarietà sui redditi annui superiori ai 300.000 euro, fissato nella misura del 3% (art. 2, co. 2, d.l. 13.8.2011, n. 138, nella versione modificata di cui alla l. 14.9.2011, n. 148). La Corte, infatti, non prende minimamente in considerazione la misura di detto prelievo, che è il frutto del ridimensionamento proprio della legge di conversione, a fronte della originaria formulazione dell’art. 2, co. 2 quale disposto dal d.l. n. 138/2011, laddove non casualmente si introduceva, al pari del contributo di perequazione sulle pensioni, il – peraltro anche esso temporaneo - contributo di solidarietà sulla generalità dei redditi, scandito esattamente secondo identiche aliquote e stessi scaglioni del contributo sulle pensioni. Se non fosse intervenuto il ridimensionamento disposto con la legge di conversione n. 148/2011, sarebbe risultato attenuato, e forse si sarebbe del tutto evitato, il profilo di incostituzionalità; profilo invece aggravatosi per effetto dell’inasprimento del prelievo sulle pensioni determinato dalla introduzione di un terzo scaglione nella legge “Salva Italia”. Una evidente violazione, che avrebbe potuto essere sanata dalla stessa Corte costituzionale, se, anziché sopprimere il contributo di perequazione, avesse ripristinato con tecnica manipolativa il meccanismo di prelievo sulla generalità dei redditi, con una sorta di riproposizione della ricordata norma originaria utilizzata quale schema normativo costituzionalmente più compatibile.
1.2 Il regime transitorio dell’età pensionabile nella p.a.
Meno critica, ma sintomatica di un qualche disorientamento, è la vicenda che ha indotto il governo ad una interpretazione autentica delle due disposizioni regolatrici della operatività dei nuovi limiti di età pensionabile, al di qua ed al di là del 31.12.2011, limitata all’area del lavoro pubblico, d.l. 31.8.2013, n. 101, art. 2, co. 3 e 4, confidando evidentemente sulla circostanza della diversa correlazione esistente nelle due aree quanto ai reciproci condizionamenti tra accesso al trattamento pensionistico e protrazione del rapporto di lavoro.
La normativa originaria, indipendentemente dall’interpretazione del Legislatore, ha determinato vari problemi di applicazione, dei quali qui non ci si occupa se non per qualche possibile contraccolpo determinato proprio dalla nuova norma. Rispetto a quest’ultima si pone la questione di individuare, se c’è, un fondamento alla limitazione dell’intervento alla sola area del lavoro pubblico. Al riguardo, è ragionevole sottolineare la circostanza che nell’ambito del lavoro privato il conseguimento dei requisiti di accesso al trattamento pensionistico apre la porta all’esercizio della facoltà di recesso datoriale senza alcun effetto risolutivo automatico, laddove nell’area del lavoro pubblico, di norma ed a seconda della specifica regolamentazione, al conseguimento dei requisiti pensionistici corrisponde una doverosità per la p.a. di far cessare il rapporto. La rigorosità di questa disciplina affonda su di una lettura ampia dello stesso art. 97 Cost., quale proposta dalla Cassazione, che secondo un consolidato orientamento5 afferma «che l’art. 97 Cost. impone (per la verità, non si tratta di previsione esplicita: n.d.r.) che sia prevista per il lavoro pubblico, sulla base di disposizioni di legge non derogabili dalla contrattazione collettiva, l’estinzione del rapporto al compimento di un’età massima, salve le ipotesi di protrazione per periodi definiti a domanda del dipendente ed, eventualmente, con il consenso dell’amministrazione»; si tratta di una rigorosità correlata, oltre che al requisito dell’età pensionabile, alle regole sulla risolubilità – ma non automatica e comunque previo preavviso – del rapporto di lavoro pubblico in relazione, anche, al conseguimento dell’anzianità massima contributiva, secondo quanto ora disposto dall’art. 72, co. 11, l. 6.8.2008, n. 133. Questo è il quadro normativo che il co. 3 dell’art. 24 del decreto “Salva Italia” cristallizza6, lasciando la piena operatività delle varie opzioni in mano alla p.a., destinate ad essere utilizzate durante il periodo transitorio in cui i dipendenti approdano all’ordinario requisito anagrafico.
Così ricostruita la situazione normativa, e le relative fattispecie preesistenti, si può anche fugare il sospetto immediato di disparità fra lavoro pubblico – in quanto caratterizzato dal profilo della obbligatorietà dell’estinzione, ribadita nel co. 2 – e lavoro privato, stante il ben noto criterio della legittima differenziazione normativa fra fattispecie contigue ma diverse, indotta dalla norma interpretativa7.
Non si può tuttavia non rilevare che la nuova lettura delle due norme, e per quanto fin qui detto, essenzialmente del co. 3, possa finire per orientare anche la interpretazione (libera, non imposta) volta a conseguire in parallelo l’effetto di cristallizzazione per il lavoro privato, non certo nel senso della obbligatorietà del recesso, ma nel più pertinente senso della, oramai intervenuta, acquisizione della facoltà di recesso.
Quanto alla portata del co. 4, secondo la imposta interpretazione, per l’area del lavoro pubblico – a parte la generale elevazione dell’età pensionabile al 66° e 67° anno di età, con i correlati adeguamenti in ragione della speranza matematica – si ricava, laddove esistano dei limiti ordinamentali specifici più elevati (anche qui per contrastare fughe in avanti della giurisprudenza), una sorta di neutralizzazione della elevazione opzionale dell’età pensionabile e soprattutto si profila una netta esclusione dell’opzione meramente potestativo per la protrazione del rapporto fino a 70 anni.
Il ripensamento del legislatore, pur giustificatamente limitato al lavoro pubblico, non ha determinato l’occasione – che anche era stata proposta8 – per qualche precisazione concernente l’area del lavoro privato: continua così a risultare affidato solo ad una oscillante giurisprudenza la questione di ordine procedimentale, se e come cioè debba essere manifestata al datore di lavoro ed all’Inps l’esercizio dell’opzione, e sul piano sostanziale l’ammissibilità di una attenuazione della categoricità degli effetti dell’opzione verso i 70 anni, in ragione di un più che ragionevole contemperamento con l’esigenza della organizzazione lavorativa volta al rinnovamento anagrafico della forza lavoro: un profilo, questo, ben presente nella stessa relatività del principio di parità applicato al parametro dell’età anagrafica (cfr sul punto l’art. 3, co. 4-bis e 4 ter, d.lgs. 9.7.2003, n. 216).
Se le questioni finora trattate costituiscono i profili ritenuti di spicco nel corso del periodo in esame, varie sono le problematiche minori che vi fanno da contorno, presenti essenzialmente nell’unico articolo della l. 24.12.2012, n. 228, di stabilità per il 2013, cui si riferiscono i commi di seguito citati, salva diversa indicazione.
2.1 Sulle pensioni di base (l. n. 228/2012): rivalutazione
Il co. 236, ripropone il blocco della rivalutazione automatica delle pensioni, ricollegandosi dunque al co. 25 dell’art. 24 della l. 22.12.2011, n. 214 che aveva disposto in tema per il biennio 2012-2013. Nella nuova disposizione si alza la soglia del blocco (il legislatore parla di “non riconoscimento”) da tre a sei volte il minimo, si attribuisce alla norma una efficacia differita (dal 1.1.2014), ma, soprattutto, se ne condiziona comunque, in tutto od in parte, l’operatività al risultato di una valutazione – da effettuare entro il 30.9.2013 – del fabbisogno finanziario del sistema degli ammortizzatori sociali, quale risultante dalle iniziative programmate nei commi immediatamente precedenti, da 231 a 235, esplicitamente richiamati dal co. 236. Quest’ultimo punto merita una attenta riflessione: si afferma l’idea che eventuali risparmi sulla spesa previdenziale – frutto di un ragionevole contenimento delle prestazioni di livello più elevato (questo è uno dei vari requisiti di legittimità prospettati dalla C. cost., 11.11.2010, n. 316) – debbano essere destinati al finanziamento di altri tipi di prestazioni previdenziali, in una sorta di riconsiderazione, quantitativa e qualitativa, della relativa scala dei valori in vista di una finalità redistributiva. Potrebbe essere proprio questo uno dei modi di attenuare l’impatto di un facilmente prevedibile giudizio di costituzionalità che si attiverebbe qualora dovesse entrare in applicazione la norma.
2.2 Ricongiunzione e regimi speciali
Gli ex regimi speciali, con riferimento al tema della ricongiunzione o cumulo dei periodi assicurativi, continuano ad affaticare il legislatore. Il tema ha fatto la sua irruzione sulla scena legislativa con la l. 30.7.2010, n. 122, in cui l’art. 12, co. 12- septies/novies ribaltava – con enorme aggravio del costo per l’interessato – i meccanismi finanziari della ricongiunzione, estendendo al passaggio dal fondo speciale verso quello generale (art. 1, l. 7.2.1979, n. 29) lo stesso meccanismo oneroso previsto per la fattispecie ordinaria (art. 2, co. 2, 3, 4 stessa legge), ed applicando dal 1.7.2010 lo stesso meccanismo anche al semplice trasferimento verso il regime generale da vari fondi speciali (elettrici, telefonia): il tutto, ignorando elementari criteri attuariali e profili di equità, esponendosi a non irragionevoli questioni di legittimità costituzionale, sacrificate alle esigenze di “cassa”9. Il faro resta acceso sui regimi speciali nella l. n. 214/2011, che istituisce (o, forse meglio, ripristina) un contributo di solidarietà sulle posizioni in essere fino al 31.12.1995, secondo una soluzione già positivamente apprezzata da chi scrive10.
Ora (co. da 238 a 249) il legislatore torna, in parte, sui suoi passi, e ridisegna le regole per ovviare alle conseguenze dell’eccessiva onerosità indotta dalle norme del 2010. Nel co. 239 (limitatamente alla pensione di vecchiaia intesa secondo le nuove norme della l. n. 214/2011 su età e anzianità contributiva; ma il criterio viene adottato dal co. 240 negli stessi termini sia per la pensione di inabilità – non anche per quella di invalidità – sia per la pensione ai superstiti) si ripristina la facoltà del cumulo tout court dei periodi assicurativi in assenza di titolarità del trattamento pensionistico ed al fine di liquidare unica pensione (alias, totalizzazione come da d.lgs. 2.2.2006, n. 42). Dunque, a ben guardare, un ripensamento parziale rispetto alle soluzioni della l. n. 122/2012, nonostante la premessa della conferma delle vigenti disposizioni («ferme restando …») su ricongiunzione e su totalizzazione; un ripensamento disposto con una qualche reticenza dal legislatore, che attribuisce al nuovo impianto un effetto restitutorio di somme ingiustamente, se non proprio indebitamente versate, non già automatico, ma rimesso ad una esplicita manifestazione di recesso e di richiesta delle somme versate, per di più con la fissazione di un termine di decadenza di un anno dal 1.1.2013 (co. 247), nel quale sono coinvolti anche coloro che nel contesto dell’area del lavoro pubblico (iscritti Cpdel, Cps, Cpi, Cpug: cfr. co. 238) sono destinatari della sostanzialmente identica norma di ripensamento, ma costruita in termini più semplici come ricostituzione della posizione unitaria. Vale peraltro la pena di sottolineare che dal recesso sono esclusi, per di più, coloro che – necessitati da vicende occupazionali – abbiano già applicato le norme ripensate ma non soppresse: secondo un discutibilissimo criterio di consolidamento delle situazioni di svantaggio cui gli interessati siano indotti da norme malfatte.
2.3 Gli esodi vecchi e nuovi
La l. n. 228/2012, nei co. 231 a 235, riapre il capitolo degli esodati11 originariamente esclusi dal regime transitorio della riforma pensionistica di dicembre 2011, a parte il gruppo dei cd. salvaguardati dagli artt. 14 e 15 , già ampliato per effetto dell’art. 22 del d.l. 6.7.2012, n. 95 conv. in l. 7.8.2012, n.13512: le nuove norme definiscono, in ulteriore aggiunta rispetto a dette disposizioni, nuove aree di beneficiari dei requisiti di accesso e delle decorrenze precedenti, attraverso l’ampliamento dei parametri iniziali. Viene confermato il riferimento allo spartiacque del 31.12.2011, quale inevitabile punto di riferimento per evitare manovre postume elusive, se non addirittura fraudolente; si allunga dai ventiquattro ai trentasei mesi il periodo entro il quale vanno perfezionati i requisiti utili al pensionamento (salva la minor durata della mobilità ordinaria o in deroga: cfr. co. 231, lett. a o anche lett. d in combinazione con l’autorizzazione alla prosecuzione volontaria); si consente l’acquisizione di un reddito annuo da attività lavorativa non superiore a 7.500 euro, purché non derivante da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato: condizione, quest’ultima, incredibile e frutto di una evidente mitizzazione del lavoro a tempo indeterminato, se solo si pensa ad un rapporto, appunto a tempo determinato, che cessi bruscamente prima del raggiungimento della soglia dei 7.500 euro, od anche ad un rapporto a tempo indeterminato con tempo comunque non pieno.
Sulla ratio che ha condotto alla brusca applicazione dei nuovi criteri, e sui problemi indotti dalla imprecisa previsione del fabbisogno finanziario per fronteggiare gli effetti di una crisi occupazionale endemica sono sufficienti i richiami precedentemente svolti. È certo che la scelta rigorosa adottata intende rispondere non solo a strette logiche di bilancio, non causalmente esasperate dall’adozione del criterio della priorità temporale per la selezione fra gli aspiranti fruitori della misura, ma tende anche a spostare sul piano di una radicalmente diversa impostazione i futuri meccanismi di sostegno del reddito, quali oramai delineati dagli artt. 2 e 3 della l. n. 92/2012, con una conseguente riduzione dell’impegno della finanza pubblica.
In questa stessa prospettiva, non casualmente, il legislatore, nei primi commi dell’art. 4 l. n. 92/2012, successivamente modificati13, ha confinato le nuove regole dell’esodo incentivato, chiamando fuori la finanza pubblica dai processi aziendali di espulsione dei lavoratori più anziani. Presupposto materiale dell’incentivazione è l’eccedenza di personale, mentre fonte istitutiva e, ad un tempo, regolatrice dell’incentivazione stessa è l’accordo sindacale tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello aziendale; ciò, anche per le implicazioni di ordine fiscale14. La norma neppure ipotizza l’eventualità che manchino localmente organizzazioni sindacali, e tuttavia va ricercata per tale eventualità una soluzione alternativa, che potrà passare attraverso il riferimento alle organizzazioni sindacali territoriali, in coerenza con quanto già previsto dall’art. 4, co. 2, l. n. 223/1991.
Il collegamento dell’esodo incentivato con le procedure di licenziamento collettivo (artt. 4, 5 e 24 l. n. 223/1991) risulta dalla ritenuta compatibilità con esse dell’accordo di esodo (cfr. art. 4, co. 1, l. 92/2012), ben potendosi tale accordo configurare come fase del relativo procedimento negoziale, nell’ambito delle modalità valutabili, e normalmente valutate, a disposizione delle parti per raggiungere un risultato utile dalla procedura, appunto, di licenziamento collettivo, in quanto si tratta di una, oramai consolidata quanto valida ed opportuna, misura sociale alternativa di accompagnamento (art. 4, co. 5 l. 223/1991)15. In tale caso deve essere chiaro che la scelta degli esodandi assume valore di atto di esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro, con carattere unilaterale – secondo i criteri adottati ex lege n. 223/1991 ed alle condizioni date da quella normativa – per ciascuno dei soggetti residuali individuati, una volta esaurita la eventuale fase di adesione individuale, in sede di procedura mediante l’utilizzo di criteri negoziali in sostituzione di quelli tipizzati dal legislatore nell’art. 5, co. 1, lett. b)16. Per converso, ove uno specifico accordo di incentivazione all’esodo risulti estraneo ad una qualunque procedura di licenziamento collettivo, esso resta destinato ad operare solo nei confronti di quei lavoratori che, coinvolti nel programma in quanto titolari dei requisiti di prepensionabilità, aderiscano al programma stesso, secondo una scelta interpretativa coerente con le indicazioni che provengono dalla direttiva europea in tema di parità di trattamento e non discriminazione sul lavoro rispetto al parametro dell’età (dir. UE 2000/78)17.
Secondo l’espressa previsione del co. 2, coinvolgibili nel programma di incentivazione all’esodo sono solo quei lavoratori il cui accesso al trattamento pensionistico, sia esso di vecchiaia o anticipato, si consegua – secondo il regime in atto – entro quattro anni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Merita di essere rilevato che l’incentivazione si concreta nell’impegno alla erogazione, gravante appunto sul datore di lavoro, di un trattamento pari al trattamento pensionistico che spetterebbe in base alle regole vigenti. L’erogazione avviene necessariamente per il tramite dell’INPS che è garante formale ma non sostanziale, essendo sottratto per legge a qualsiasi rischio finanziario, essendo l’Ente protetto da fideiussione bancaria per il caso di inadempimento del datore di lavoro. Il programma incentivante si fonda sulla proiezione dei requisiti di accesso così come vigenti al momento della formazione del programma: si determina così un effetto di cristallizzazione dei requisiti di accesso, con inevitabile neutralizzazione della indicizzazione, secondo la speranza matematica di vita, delle età anagrafiche assunte a base del programma di incentivazione.
L’opzione fra il pensionamento di vecchiaia e quello anticipato non contrasta con la circostanza che il trattamento di pensione anticipata maturi prima di quello di vecchiaia: il programma dell’accordo assumerà tempi e misure correlati al tipo di trattamento prescelto, e dunque terrà debitamente conto della segnalata circostanza. Questo potrebbe essere un elemento di significativa distinzione fra accordi autonomi di esodo e procedure di esodo inserite in procedure di licenziamento collettivo, posto che in queste ultime nell’ambito della adozione dei criteri di scelta si farà presumibilmente riferimento alla data più vicina, con i riferiti profili di unilateralità del provvedimento. Insomma, nella fattispecie di esodo incentivato dei lavoratori più anziani si coglie, seppur con eccessivo distacco della finanza pubblica, la conferma dell’attribuzione al sistema pensionistico di un ruolo aggiuntivo a quello di semplice sostegno del reddito per la fase non attiva del lavoratore: il ruolo cioè di accompagnamento dinamico nella fase dell’uscita dal mondo del lavoro, tanto più significativo in ragione della pretesa del legislatore di affidare al solo lavoratore una scelta delicatissima in termini di produttività quale la protrazione unilaterale del rapporto di lavoro.
2.4 Risparmi forzosi e previdenza privata di base
Nel mentre erano ancora faticosamente in corso le operazioni tecniche, attuariali e finanziarie richieste/imposte dall’art. 24, co. 24, l. n. 214/2011 agli enti di previdenza di base, privati e privatizzati, volte a realizzare l’obiettivo dell’equilibrio sui cinquanta anni18 il legislatore con l’art. 8, co. 3, d.l. n. 95/2012, conv. in l. n. 135/2012, nel quadro delle varie misure concretamente adottate per fronteggiare il lievitare della spesa pubblica, ha disposto – a carico anche degli enti di cui ai d.lgs. nn. 509/1994 e 106/1993 – non solo la riduzione delle spese per consumi intermedi, ma, a fronte della riduzione dei trasferimenti dal bilancio dello Stato per gli enti ed organismi comunque finanziati, l’obbligo di riversamento a favore dell’Erario del frutto di detti risparmi. La problematica della riduzione delle spese ritorna per effetto dell’art. 10 bis d.l. 28.6.2013, n. 76, conv. in l. 9.8.2013, n. 99, seppure, come vedremo, con diversa destinazione del flusso.
Nella logica della attuale spending review, e, prima ancora, nel quadro delle precedenti numerose e variegate misure di contenimento dei costi della finanza pubblica allargata, il legislatore, attraverso l’ormai ricorrente riferimento al cd. “elenco Istat” (ex art. 1, co. 2, l. 31.12.2009, n. 196)19, coinvolge con relativa sistematicità detti enti, imponendo loro comportamenti “virtuosi” sotto il profilo della riduzione o contenimento delle spese di amministrazione nonché della contrazione del costo del personale (vedi, in particolare, artt. 6 e 9 della l. n. 122/2010). Orbene, non tanto sorprende l’inclusione di detti enti nell’ambito di applicazione della manovra di contenimento quanto la tecnica di prelievo forzoso che viene utilizzata, attraverso l’imposizione dell’obbligo di versamento delle somme risparmiate (in misura pari, a regime, al 10% delle spese per consumi intermedi risparmiata) in apposito capitolo delle Entrate dello Stato, assumendo dunque carattere di vero e proprio prelievo, di natura sostanzialmente tributaria – oltre tutto, di carattere continuativo, giacché ambiguamente la norma usa l’espressione “a decorrere dall’anno 2013” – , che non trova alcuna giustificazione in un principio o criterio di parità, ed anzi risulta assolutamente contraddittorio, sia per gli enti privati sia, ed ancor più, per gli enti privatizzati, posto che per tutti il co. 24 dell’art. 24 l. n. 201/2011 fissa – nella prospettiva di un equilibrio riferito all’arco di ben cinquanta anni – l’impegno alla realizzazione della massima economia possibile nell’interesse della platea degli iscritti, sia in quanto già titolari di prestazione sia quali titolari di posizione ancora attiva, di natura pensionistica. L’imposizione di tecniche di riduzione della spesa si pone dunque come obiettivo apprezzabile, ma l’arricchimento dell’Erario (dal quale in via istituzionale gli enti privati di previdenza nulla possono pretendere) determina solo un effetto di riduzione delle risorse disponibili per la erogazione delle prestazioni agli iscritti20.
Il precedente testé illustrato costituisce la cornice in cui si colloca l’intervento dell’art. 10 bis l. n. 76/2013, sintonico con la previsione del co. 108 della l. n. 228/2011 riferito agli enti pubblici di previdenza di base. Accentuando la spinta alla riduzione della spesa, si prevede che ulteriori risparmi gestionali degli enti privati di previdenza possano essere destinati alla realizzazione di interventi di welfare in favore degli iscritti (co. 1), in particolare per la promozione ed il sostegno del reddito, oltre che anticipare l’ingresso di giovani professionisti nel mercato del lavoro ed incentivare il ricorso alle forme societarie consentite per l’esercizio dell’attività professionale. La norma è stata inserita in sede di conversione, e merita più di una riflessione. Innanzitutto, i primi due commi sono infarciti di aggettivi quali “ulteriori” e “aggiuntivi”, per sottolineare che non solo si intende confermata la originaria azione di riduzione della spesa, ma che soprattutto non viene modificata la destinazione all’Erario del primo flusso di risparmio originato dall’art. 8, co. 3: dunque, un’occasione persa di ripensamento della stortura fiscale prodotta dalla norma iniziale, tanto più da evidenziare nella sua contraddittorietà rispetto ad interventi (cfr. art. 1, co. 236 l. n. 228/2012, ma anche art. 24, co. 21, l. n. 214/2011) in cui il contenimento della spesa ridonda a vantaggio di altre destinazioni previdenziali. Quanto alla filosofia di sistema, si avverte una linea di progressiva, ma forse estemporanea, espansione delle funzioni degli enti di previdenza privati e privatizzati verso nuovi obiettivi, che vengono ricondotti, nel quadro del rinnovato art. 8, co. 3, d.lgs. 10.2.1996, n. 103 ed in aggiunta alle previsioni dell’art. 1, co. 34 (assistenza sanitaria) e 35 (previdenza complementare) l. 23.8.2004, n. 243, nei riferiti termini di assistenza e sostegno, termini sconosciuti per la verità al richiamato co. 3: il che costituisce una significativa innovazione ed anche evoluzione.
2.5 Gli interventi sulle pensioni complementari: la Covip
Nel periodo qui considerato è dato registrare, per quanto concerne il secondo livello, alcuni interventi normativi di un qualche rilievo.
Quanto alla Covip, si può parlare di un annus horribilis. Soppressa per fusione in Ivass (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni) come dall’originario art. 13 del d.l. n. 95/2012, la Commissione è resuscitata grazie alle modifiche apportate, in sede di conversione, allo stesso art. 13. Via via assottigliatasi, senza ricambio, la composizione collegiale, la Commissione ha finito per ridursi ad un solo Commissario, senza tuttavia che l’organo si trasformasse in monocratico. Il legislatore (art. 10. co. 1, d.l. n. 76/2013 conv. in l. n. 99/2013) ha preso atto, dapprima in forma di urgenza, della situazione ed ha evitato il commissariamento formale dell’Ente, disponendo la continuità attraverso unico commissario delle funzioni e dell’azione della Covip, garantendone la legittimità degli atti posti in essere. Non è comunque un buon segnale, oltre che per l’Ente vigilante, anche e soprattutto per l’intero segmento della previdenza complementare, che registra – al di là delle proclamazioni formali – una sostanziale disattenzione.
2.6 I fondi squilibrati
Una disattenzione il cui stridore è sottolineato dalla circostanza che proprio il successivo co. 2 dell’art. 10 ora citato esalta i poteri della Commissione, seppure con riferimento a situazioni di criticità in cui taluni fondi pensione possono venire a trovarsi. Con una disposizione che si presenta come innovativa del d.lgs. 5.12.2005, n. 252 introducendo nell’art. 7 bis un co. 2-bis, si affronta – con riferimento ai fondi pensione che erogano direttamente le rendite – il delicatissimo tema della inadeguatezza dei mezzi patrimoniali rispetto al complesso degli impegni finanziari dai fondi stessi assunti. Con riferimento ad una tale eventualità, la norma configura una ipotesi di rideterminazione, da parte delle fonti istitutive, sia del finanziamento sia delle prestazioni, in essere o anche future, nell’evidente obiettivo di ripristinare una situazione di equilibrio finanziario, la cui valutazione è rimessa alla Covip.
L’apparente semplicità della disposizione va considerata alla luce dell’impatto sull’impianto risultante dal d.lgs. n. 252/2005. Il nuovo comma si inserisce nel complesso delle disposizioni relative ai mezzi patrimoniali, aventi ad oggetto tecniche e regole volti al conseguimento e mantenimento dell’equilibrio di quei fondi che sono esposti a rischi biometrici, a rischi finanziari ed al rischio da prestazione definita. L’art. 7 bis deve essere letto anche in stretta coordinazione con le norme del successivo art. 15, laddove nel co. 4 si affronta il tema della salvaguardia dell’equilibrio del fondo mentre nel co. 5 si contempla, senza nominarla, l’ipotesi della insolvenza del fondo, per disporre l’esclusiva applicazione della disciplina dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa, secondo le regole proprie del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia. In più, va sottolineato che l’art. 7 bis ha una derivazione comunitaria, e non casualmente il nuovo co. 2-bis, pur senza alcun esplicito riferimento, fa ora da sponda al recente decreto del Ministero dell’economia n. 259/2012, emanato appunto in attuazione del rinvio da tempo presente nel precedente co. 2.
Si delinea così un delicato meccanismo di rideterminazione delle prestazioni che, va subito detto, rischia di porsi in contrasto con l’idea della intangibilità del diritto alle prestazioni conseguite, ed anche della stessa indisponibilità delle prestazioni in corso di formazione, almeno pro-rata temporis. Da ciò l’interesse, anche in questa sede, ad una pur sommaria individuazione21 delle linee essenziali del regolamento, del quale va considerata la derivazione comunitaria.
L’art. 3 del citato decreto pone a carico dei fondi coinvolti dal decreto l’obbligo di adozione di metodi e criteri adeguati al fine di conseguire il riequilibrio di un fondo che risulti privo di adeguata patrimonializzazione e conferma l’obbligo di informazione periodica nei confronti della Covip, muovendo comunque dall’idea che la valutazione dell’equilibrio debba essere effettuata avendo riferimento ad un periodo di tempo di almeno trenta anni, ferma la intrasferibilità della responsabilità del fondo sui terzi eventualmente incaricati della realizzazione di siffatte metodologie di calcolo. Il punto più qualificante del decreto è l’insistito richiamo alla applicazione prudenziale dei vari parametri, che impegna fortemente la competenza professionale dell’attuario nella assunzione dei parametri stessi, come da art. 4, co. 1, 2 e 3, tutti centrati sui criteri di calcolo della riserva. In questo contesto, spicca la previsione del secondo periodo, della lett. a), co. 3 dell’art. 4 del decreto citato laddove si delinea l’oggetto della garanzia cui mirano le riserve: esso è costituito dalla «prosecuzione dell’erogazione ai beneficiari delle pensioni e delle altre prestazioni di cui è già iniziato il godimento (ed il fronteggiamento degli) impegni derivanti dai diritti già maturati dagli aderenti». È una formula estremamente ampia, che, nel distinguere fra prestazioni in essere (diritti in esercizio) ed impegni (per diritti maturati), abbraccia l’universo degli interessati, qualunque sia il grado di maturazione della rispettiva posizione: una soluzione dunque ispirata al criterio della parità assoluta, dal punto di vista della condizione creditoria, che però prepara il terreno alla ulteriore affermazione della parità di condizione fra rendite in pagamento e rendite future (art. 6) per l’ipotesi di inadeguata copertura patrimoniale delle riserve occorrenti secondo i calcoli dell’art. 4 del decreto citato.
Esaurita la procedura di calcolo della riserva, si riapre il percorso giuridico, per fronteggiare l’ipotesi della inadeguatezza delle risorse. Le situazioni che vengono qui prefigurate sono tutte riferite alla prospettiva di recupero dell’equilibrio, ammettendosi in deroga (con esclusione dei fondi aventi attività frontaliera (cfr. art. 4, co. 8), presumibilmente in omaggio alla necessità di evitare con situazioni deficitarie di contaminare il mercato europeo dei fondi pensione) temporanei deficit di risorse rispetto agli impegni assunti (cfr. comunque già il co. 2 dell’art. 7 bis d.lgs. n. 252/2005). Il richiamo all’assetto statutario del Fondo, e quindi alle caratteristiche dello stesso, è presente in via generale (art. 3, co. 4) per la formazione delle riserve ordinarie (art. 3), e costituisce anche un fattore di analisi specifico per i fondi preesistenti quanto alle cd. attività supplementari (art. 5, co. 3 in coda il riferimento è sempre al decreto citato).
A fronte di situazioni in cui le risorse patrimoniali dovessero risultare deficitarie rispetto alle riserve, si impone – in via di prevenzione rispetto all’ipotesi di insolvenza dichiarata – il necessario impegno alla elaborazione di piani di riequilibrio e recupero su basi concrete e realizzabili, in tempi rimessi alla valutazione degli autori del piano, ferma l’approvazione della Covip, cui competerà la valutazione della ragionevole durata del piano; con la prospettiva, in caso di insuccesso, di ipotesi di cessazione dell’attività del fondo (art. 4, co. 7), oltre che di blocco o limitazione anche a tempo indeterminato nella erogazione delle prestazioni (art. 6): dunque si profilano soluzioni che passano attraverso anche l’abbattimento delle prestazioni attese o di quelle stesse in erogazione, con ciò delineandosi, ut supra, un possibile contrasto con quelle linee giurisprudenziali volte a ritenere l’intangibilità dei diritti maturati.
Occorrerà poi verificare in sede Covip quali siano i margini di manovra che l’Autorità stessa consentirà ai sensi delle disposizioni ora richiamate, in cui il ruolo della Covip è sistematicamente confermato nella sua funzione di vigilanza e di approvazione dei piani, ma anche di intervento risolutore di default, sebbene manchi ad oggi un serio approfondimento dell’ipotesi di liquidazione straordinaria.
Si registra, nella complessiva valutazione del decreto – e, per relationem, della direttiva europea – una linea oscillante tra l’obiettivo di garantire l’erogazione delle prestazioni promesse e la conservazione per quanto possibile della forma pensionistica e relativo fondo, secondo la scelta originaria delle fonti istitutive. Il silenzio del decreto sulle modalità di realizzazione degli interventi della Covip – che permane anche nell’art. 10, co. 2 – deve essere colmato (in presenza di ampi margini procedimentali, che la direttiva lascia ai singoli ordinamenti nazionali) dalla scontata applicazione della regola della modificabilità degli assetti statutari disposta direttamente dall’organo di amministrazione del Fondo, in presenza di disposizione cogente della Covip (art. 19, co. 2, lett. b, e regolamento Covip, come da delibera del 15.7.2010), o anche – come confermato dalla stesso art. 10, co. 2 – sulla base di una specifica competenza attribuita dagli ordinamenti dei fondi agli organi interni.
2.7 Le anticipazioni per il sisma 2012
Nell’ambito della legislazione di supporto alla popolazione emiliana colpita dal sisma del maggio 2012 si è aperto un varco per una riconsiderazione anche del ruolo dei fondi pensione (cfr. art. 11, co. 4 d. l. n. 174/2012 conv. in l. n. 213/2012, concernente richieste di anticipazione ex art. 11, co. 7, lett. b e c d. lgs 252/2005): la norma ha disposto, appunto in relazione al sisma del 2012, la modifica, in via transitoria, dei presupposti temporali e del regime fiscale delle anticipazioni per motivi non sanitari, lasciando apparentemente ferma, in particolare, la misura delle anticipazioni cd. libere di cui alla lett. c).
È diffusa opinione, anche di chi scrive, considerare del tutto improvvido l’avere ammesso, ancorché in misura contenuta (30%), lo strumento della anticipazione libera quale modalità prestazionale del sistema di previdenza complementare, risultando essa profondamente incoerente con l’impianto complessivo ed in contrasto con tutte le finalità previdenziali che animano il d.lgs. n. 252/2005; come tale, la facolta di anticipazione libera è meritevole di essere soppressa22 o profondamente ridimensionato; tuttavia, non può essere questa la ragione capace di orientare in termini restrittivi ed ostili l’applicazione della norma nel caso specifico, dovendo prevalere una scelta applicativa più favorevole agli iscritti residenti nelle zone colpite dal terremoto, che finisce per tipizzare meritoriamente l’anticipazione libera, essa viene così intitolata alla emergenza sismica, per effetto della correlata esigenza di sovvenire in via generale ad un bisogno alternativo a quello pensionistico (primario, ma non esclusivo, del d.lgs. n. 252/2005), quello della stessa sopravvivenza socio-economica dei residenti nelle zone terremotate, la norma opera un rinvio formale al contenuto complessivo della lett. a) attraverso la chiarissima espressione «quanto previsto», dal che l’effetto di creazione di una norma transitoria – derivata da altra pricipale, che continua ad operare in via generale – parallela a quella della lett. a), ottenuta mediante integrale sostituzione della causale «spese sanitarie», con una avente riferimento alle causali cui alle lett. b) e c), ovviamente con delimitazione dell’ambito soggettivo (i residenti nella zona del sisma) e temporale (un triennio).
La categoricità del contenuto normativo della lett. a) non offre significativi spazi al riferimento a “statuti e regolamenti” (che fra l’altro sono sul punto sintomaticamente appiattiti alla norma di legge), la cui valenza è dunque limitata alle modalità operative (documentazione richiesta per le anticipazioni a fine abitativo), alla determinazione del cumulo ai fini del 75% ed alla eventuale reintegrazione.
Il punto è che la norma per i terremotati si pone come formula di apertura, seppure in via asistemica e del tutto occasionalmente, per la soddisfazione di nuovi bisogni sociali, lasciando così intravedere nuovi modi di essere e di operare della previdenza complementare.
Ripercorrendo i passaggi illustrati in questo saggio, emergono – al di là dei profili tecnici di immediata operatività – spunti di riflessione, che meritano di essere proposti come contributo al dibattito in corso, in vista di ulteriori sviluppi del sistema previdenziale.
a) La dichiarata incostituzionalità della improvvida manovra realizzata nel 2011 a più riprese con il contributo di perequazione lascia intatte le conseguenze di un passato, oramai decisamente superato quanto a capacità genetica di nuovi diritti, che ancora si proietta negativamente nella prospettiva generazionale propria del sistema pensionistico, grazie alla proiezione temporale di non pochi trattamenti ancora correlati alle ultime retribuzioni, e frequentemente, secondo criteri spesso variamente squilibranti23, che, proprio per la loro variegatezza, non sono facilmente suscettibili dell’adozione di unica soluzione effettivamente correttiva a fini perequativi. Il problema di una necessaria perequazione in chiave solidaristica torna dunque ad essere rimesso alla capacità del legislatore, in vista di una soluzione che sia rispettosa dei principi costituzionali, e chiami equilibratamente, non per mera apparenza, al concorso solidaristico gli altri redditi, nei termini che, esemplificativamente, seguono: ì) preliminarmente, l’adozione di corretti criteri di, per quanto possibile, recupero del valore della corrispettività delle prestazioni in presenza di deviazioni funzionali dallo schema retributivo, senza tuttavia la pretesa, giuridicamente e, forse anche, tecnicamente impossibile, di imporre retroattivamente un metodo contributivo per il generale ricalcolo delle pensioni e, ìì) conseguentemente, la individuazione di finalità omogenee cui destinare le risorse recuperate. Tentativi sono qua e là presenti nel recente percorso legislativo, ma questo tipo di iniziative dovrebbe seguire un piano organico, frutto di una accurata ricognizione (oggi agevolata dalla diffusa informatizzazione dei vari sistemi in cui è presente la finanza pubblica), che forse avrebbe potuto essere autorevolmente disposta dalla Corte costituzionale prima di pronunciarsi, come altre volte ha fatto dinanzi a problemi di forte rilevanza sociale : si ricordi l’iniziativa assunta dalla Corte in occasione della valutazione di legittimità delle norme per la istituzione ed il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, che condusse alla sentenza di rigetto n. 167/1986, previa ordinanza istruttoria n. 45/1985, con la quale il Governo fu invitato a fornire «ogni utile elemento di informazione circa le causali giuridiche e tecniche poste a fondamento e criterio nella determinazione dei contributi sociali di malattia dovuti dalle varie categorie di cittadini, nonché i dati relativi all’incidenza della contribuzione di malattia di ciascuna categoria sul finanziamento globale del Fondo nazionale per il periodo 1979-194» : dunque una iniziativa per la conoscenza e la trasparenza dei dati sui quali fondare sia le scelte legislative, sia le correlate valutazioni di costituzionalità, così da sottrarre agli interessi di parte la manipolazione dei numeri.
b) Il ricorso a norme interpretative, oltre tutto disposte con decreto legge e dunque esposte, come sopra rilevato, al rischio della loro mancata conversione, seppure non possa ragionevolmente escludersi, non è da solo sufficiente a realizzare quegli assestamenti necessari per la manutenzione di una riforma pensionistica che, pur lungamente maturata in sede di elaborazione scientifica, è stata troppo repentinamente immessa nell’ordine giuridico. La mancata previsione di un prolungamento della delega attraverso la facoltà per il Governo di operare con la tecnica del decreto correttivo, impone ora al Governo successivo di intervenire autonomamente ma, seppure ispirato ad una linea politica non coincidente, evitando scostamenti dall’impianto rinnovato nella manovra invernale del 2011. La disciplina del sostegno al reddito con le abbreviazioni di durata, il ricorso ai meccanismi di solidarietà categoriale ed intercategoriale fondati su di una bilateralità meritevole di apprezzamento e di sostegno, di cui occorre comprendere i limiti di efficacia operativa, che non sembrano essere stati correttamente individuati da Corte cost. n. 108/201324, evidenzia una drasticità nella soluzione del distacco della finanza pubblica dai problemi della crisi economica complessiva, che può trovare una più sistematica compensazione nelle misure in corso di definizione per l’implementazione dell’occupazione giovanile ed il recupero delle classi anagraficamente intermedie. Tanto nell’obiettivo di una politica occupazionale volta alla immissione e conservazione della forza lavoro al mercato del lavoro attivo, e dunque considerando a parte le iniziative, come quelle di esodo incentivato, che si caratterizzano per una linea di accompagnamento della forza lavoro all’uscita, che finisce per essere riservata alle grandi e medio/grandi imprese.
c) Continuano gli sbandamenti del legislatore nei confronti delle forme private di previdenza per l’area del lavoro libero professionale. Il riconoscimento delle autonomie in questo settore non è certo impedito dalle formule utilizzate dall’art. 38 Cost., ma proprio la necessaria riconduzione ai co. 2 e 4 implica che a fronte della legittimità del modello privatistico si acquisisca coscienza che la funzione pubblica affidata agli enti di che trattasi ne giustifica la collocazione in un contesto definito di evidenza pubblica, che giustifica ragionevoli limitazioni e controlli (emblematica è la vicenda relativa all’assoggettamento degli enti privati di previdenza alla disciplina degli appalti di cui al d.lgs. n. 163/2006 ex art. 32 d.l. n. 98/2011 e l. conv. n. 111/2011). Ma questo non giustifica più o meno camuffati prelievi tributari aggiuntivi in violazione dell’art. 53 Cost.
d) La mancanza di spunti, e forse di idee, del legislatore della previdenza complementare lascia sgomenti. L’appiattimento in via di principio del secondo livello sulle soluzioni del primo livello, e la presenza delle cd. vie di fuga (riscatti, anticipi), aggravate da pur meritevoli quanto occasionali utilizzazioni per particolari bisogni (sisma del 2012), rende questa esperienza sostanzialmente scialba. Le inadeguate formule di governace ai vari livelli del sistema, la tendenza alla meccanica trasposizione degli strumenti propri del mercato finanziario ai fondi negoziali, la disattenzione istituzionale alla omissione contributiva, concorrono alla inappetibilità del sistema, sospeso fra obbligatorietà e semiautomatismo, oltre che dalla concorrenza della finanza pubblica per il Tfr non destinato.
In chiusura, una riflessione finale, maliziosamente indotta dall’art. 10, co. 2 del d.l. n. 76/2013: che la previdenza complementare – mosca cocchiera della previdenza di base per l’introduzione, a suo tempo, del metodo contributivo – debba ora fare da mosca cocchiera anche per la riduzione delle prestazioni in essere della previdenza di base?
1 Per una ricostruzione sistematica quanto essenziale della riforma pensionistica, cfr. Pandolfo, A.- Lucantoni, S., Le pensioni post-riforma , Milano, 2012.
2 Le prime reazioni alla sentenza sono registrate nel mio Commento alla sentenza apparso in Amministrazione in Cammino, Rivista Telematica Luiss.
3 Senza entrare in dettagli, non è da sottovalutare che il legislatore (l. 24.12.2012, n. 228, art. 1, co. da 98 a 100) abbia avvertito l’opportunità di correre ai ripari per fronteggiare un contenzioso dilagante indotto dalla citata sentenza in ordine alla mancata soppressione della rivalsa del 2,50% a carico dei dipendenti, cui la norma abrogata aveva pro-rata imposto dal 1.1.2011 il regime del TFR: il rimedio adottato è stato puramente e semplicemente quello del ripristino della normativa precedente, del conseguente ricalcolo della prestazione, e dell’azzeramento dei giudizi proposti: se pendenti, mediante estinzione di diritto dei processi, se definiti con sentenza – salvo il giudicato – mediante eliminazione degli effetti.
4 Era fin troppo facile ipotizzare la conferma di un tale orientamento della Corte; vedi Sandulli, P., Le pensioni nel decreto Salva Italia, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, in particolare nota 16. Tuttavia, la decisione della Corte italiana merita di essere confrontata con altra, pressochè contemporanea, vicenda di rango europeo: con le decisioni unificate nn. 62235/2012 e n. 57725/2012 (casi Antonio Augsto Da Conceicao e Lino Jesus Santos Januario entrambi contro lo Stato del Portogallo) è stata confermata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo la scelta operata dal legislatore portoghese di ridurre la gratifica di vacanza e quella natalizia (mensilità supplementari) per il 2012, adottata con la legge finanziaria per il 2012 (l. 64 a/2011), sulla base di accordi fra l'UE ed il Portogallo, funzionali alla concessione di sussidi richiesti dal Governo portoghese nella primavera del 2011. Il taglio di spesa definito per il triennio 2012-2014 è stato dapprima sottoposto al giudizio di costituzionalità e la locale Corte costituzionale, con sentenza 5.6.2012, n. 353, ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale per disparità di trattamento del provvedimento, ma – in ragione della grave situazione economica del Paese e tenuto conto che già il risparmio era stato contabilizzato per il 2012 – ne ha escluso l'applicazione con riferimento all'anno 2012. A questa decisione mediana la Corte europea dei diritto dell'uomo ha dato il suo avallo.
5 Cass., 17.6.2010, n. 14628; Cass., 3.11.2008, n. 26377; Cass., 2.3.2005, n. 4355.
6 Con il determinato e determinante contenuto della circ. 8.3.2012, n. 2, a firma del Ministro per la funzione pubblica, avente ad oggetto «Limiti massimi della permanenza in servizio nelle pubbliche amministrazioni». Circ. che aveva orientato la decisione di Trib. Roma, 7.6.2012, in Mass. giur. lav., 2012, 11, 878 e che invece era stata contrastata, ed anzi addirittura annullata, da TAR Lazio, 7.3.2013, n. 2446, in http://www.giustizia-amministrativa.it ed invece riproposta – sulla base della norma di interpretazione – con messaggio 16.9.2013 dal Capo Dipartimento dello stesso Ministero.
7 Il d.l. 101/2013 è stato esposto al rischio della mancata conversione, che parlatro è intervenuta in extremis con la l. 30.10.2013, n. 125. Ove questa eventualità si fosse verificata, dovendosi escludere ogni valenza normativa propria della norma non convertita o comunque non rinnovata, il braccio di ferro fra l’autorità amministrativa e l’autorità giudiziaria avrebbe dovuto comunque ragionevolmente risolversi nel senso inizialmente accolto dalla circ. 8.3.2012, n. 2, posto che la valorizzazione dell’espressione di cui al co. 4 “fermi restando i limiti ordinamentali” è di per sé idonea a sostenere la tesi.
8 Cfr. Sandulli, P., Le pensioni nel decreto Salva Italia, cit. in particolare nota 32.
9 Sintomatica è l’intervista rilasciata dal Presidente dell’Inps il 17.4.2012 alla trasmissione televisiva “Otto e mezzo”.
10 Sandulli, P., Le pensioni nel decreto Salva Italia, cit., 409.
11 Una approfondita disamina della problematica proposta dalla collocazione nel sistema previdenziale pensionistico dei lavoratori coinvolti nel regime transitorio dell’art. 24 l.n. 214/2011, e come tali in attesa di una disciplina di accompagnamento sta in Cinelli, M.-Garofalo, D.-Tucci, G., “Esodati”, “salvaguardati”, “esclusi” nella riforma pensionistica Monti-Fornero, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, n. 3.
12 Cfr Faioli, M., La tutela pensionistica dei lavoratori cd. esodati, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, 414 ss.
13 I co. 7-bis e 7-ter sono stati inseriti dalla legge di conversione (l. 17.12.2012, n 221) con il co. 54, lett. b) dell’art. 34 (interamente riscritto) del d.l. 18.10.2012, n. 179, recante «Ulteriori provvedimenti per la crescita del Paese»; con la stessa lett. b) è stato aggiunto un periodo al co. 1, dal quale risulta la praticabilità della procedura di esodo all’interno di quelle rivolte alla riduzione del personale secondo la l. n. 223/1991, o anche la realizzabilità di accordi per la riduzione di personale dirigente. Per una più approfondita disamina del complesso delle norme dedicate agli esodi incentivati, vedi Sandulli, P., L’esodo incentivato, in Il nuovo mercato del lavoro-dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Cinelli M.-Ferraro G.-Mazzotta, O., a cura di, Torino, 2013, 559.
14 Emerge qui un ulteriore elemento di diversificazione rispetto al mero trattamento fiscale agevolato delle somme aggiuntive erogate una tantum in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro. A fronte della tesi sostenuta dal Ministero delle finanze con circ. 23.12.1997, n. 326 in cui si afferma che «in linea di principio, sia necessario che l’offerta del datore di lavoro a corrispondere maggiori somme, in funzione di detta cessazione anticipata, debba essere rivolta alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti in possesso dei requisiti previsti dalla norma, anche se poi di fatto venga utilizzata da uno soltanto dei destinatari dell’offerta», si registra un costante orientamento della Cassazione (Cass., 18.51999, n. 4811; Cass., 7.3.2005, n. 4910; Cass., 2.5.2005, n. 9049, volto ad ammettere il beneficio fiscale anche in presenza di accordo individuale al di fuori della cornice di accordo collettivo.
15 È proprio questo uno dei passaggi esplicativi adottati dall’art. 34, co. 54 cit, laddove si dispone, in aggiunta al co. 1, che: «La stessa prestazione può essere oggetto di accordi sindacali nell’ambito di procedure ex articoli 4 e 24 della legge n. 23 luglio 1991, n. 223, ovvero nell’ambito di processi di riduzione di personale dirigente conclusi con accordo firmato da associazione stipulante il contratto collettivi lavoro della categoria».
16 Si spiega così che, ove l’accordo di incentivazione all’esodo sia raggiunto muovendo da una procedura di riduzione del personale ex l. n. 223/1991, e nell’ambito di questa, il legislatore abbia avvertito la necessità di disporre – con riferimento ai lavoratori interessati dall’esodo – il recupero mediante conguaglio delle somme pagate all’Inps per il parziale finanziamento delle mobilità indotte dalla riduzione del personale.
17 Ballestrero, M.V., Pensionati recalcitranti e discriminazioni per età, in Lav. dir., 2011, 158, nonché Papa, V., Divieto di discriminazione per età e autonomia collettiva (L’illegittimità della clausola di ”pensionamento coatto” nel caso Prigge c. Deutsche Lufthansa), in RdSS, 2012, 313.
18 Sandulli, P., Le pensioni nel decreto Salva Italia, cit., 410-411.
19 Questo riferimento ha trovato una significativa conferma nella decisione del Cons. St., 30.10.2012, n. 6014.
20 Con la sentenza del 12.6.2013, n. 161353, Tar Lazio ha escluso ogni possibile dubbio di illegittimità della norma di cui al testo, uniformandosi al criterio, ritenuto di "comune buon senso" per cui "in un periodo di crisi economica (siano introducibili) retrizioni, in particolare a soggetti che beneficiano di contributi e finanziamenti pubblici": sia consentito rilevare superficialità e scarso approfondimento della specifica questione.
21 Per ulteriori approfondimenti, cfr. Sandulli, P., Profili giuridico-istituzionali del D. Min. Econ. n. 259/12 (G.U. n. 42 del 19/2), in Osservatorio giuridico MEFOP, n. 32/2013.
22 Era questo uno dei suggerimenti unanimemente proposti per la riforma del sistema, fra quelli prospettati al Presidente di Covip, nell’ambito di una interessante iniziativa dello stesso Presidente, volta a sollecitare l’apporto più o meno formale della dottrina: cfr. Considerazioni del Presidente in occasione della presentazione della relazione annuale per l’anno 2007, letta in data 24.6.2008.
23 Secondo un non certo esaustivo inventario, sono trattamenti volta a volta a) intrinsecamente generosi per carriere retributive molto dinamiche in assenza di, improvvidamente soppressi, massimali, oppure b) erogati in eccessivo anticipo (cd. baby pensioni, nell’area del pubblico impiego), oppure c) frutto di manipolazioni, come accadeva per effetto di regimi convenzionali all’estero e di retribuzioni finali libere, oppure d) esposti alle tecniche collusive, e) diffusione di regimi speciali tendenzialmente sfuggenti al principio/criterio di solidarietà.
24 V. Sandulli, P., “Sostegno del reddito degli apprendisti ed incentivo allo sviluppo del sistema di enti bilaterali: legittimità costituzionale sperimentale?” in Mercato e diritti, 2013, 2, 388.