Assise di Capua
Le Assise di Capua costituiscono il primo complesso normativo emanato da Federico II al rientro nel Regno dopo l'assenza per la conquista della corona imperiale e dopo la solenne incoronazione in basilica Beati Petri: si prestano, quindi, a una serie molteplice di considerazioni in ordine al chiarimento non solo dei profili peculiari della specifica normativa ma anche della effettiva valenza innovativa che può esser attribuita all'operato del puer Apuliae elevato alla dignità imperiale.
È indice di prudente cautela storiografica l'esigenza di compensare la linea sottesa a smitizzare la figura di Federico, per analizzarne criticamente la complessità, con il riconoscimento, per lo Svevo, di essersi trovato in una congiuntura politica fuori del comune, e della quale, perciò, va sempre tenuta congrua considerazione. Non di meno, ancor oggi determina stupore la singolarità manifestata dal fiero oppositore dell'autorità della Chiesa allorché la 'sua' politica ebbe a esprimersi normativamente. Inscindibile per chi, entro una lettura di continuità del XIII sec., ha inteso riproporre la iuris dictio come trait d'union nel binomio princeps-iudex (Costa, 2002), il nesso tra giustizia e legge, teorizzato dalla dottrina politica medievale (Kantorowicz, 1957), desta sempre non poca meraviglia in quanti con riferimento a Federico II sono adusi "a pensare illuministicamente al legislatore" e "a legiferare e a giudicare come a due attività rigidamente distinte" (Costa, 2002, p. 148). Se, infatti, tuttora lo stretto legame medievale tra legiferare e giudicare non sempre risulta ben messo a fuoco in studi fridericiani "che pure colgono adeguatamente la funzione della legge in ordine alla tutela del diritto" (Caravale, 1998, p. 7), appare, comunque, indubbio che la storiografia più recente si mostra consapevole di quel legame essendo riuscita "a mettere da parte il paradigma dello Stato contemporaneo per l'analisi degli ordinamenti medievali" (ibid., p. 8). Si è venuta affermando una decisa rimozione storiografica di 'parametri' incoerenti al contesto preso in esame, fra i quali anzitutto il convincimento secondo cui l'essenza e l'espressione precipue dell'autorità sovrana siano state sempre costituite, rispettivamente, dalla potestà e dall'attività legislativa: un'idea affermatasi solo in età illuministica e tradotta poi nell'utopia della legge come strumento proprio dell'organizzazione dello stato. Ma è da notare che fu appunto tale idea, fallace, a segnare una rinnovata fortuna per Federico 'legislatore', per il suo Liber Constitutionum, per quella concezione 'ambigua' espressa nella costituzione Non sine grandi, in cui la personalità di chi si proponeva come pater, filius et minister justitiae era intesa allo stesso tempo come sacra e profana, soprattutto per quella 'programmatica' individuazione delle funzioni proprie del sovrano finalizzate, pro posse, ad assicurare pacem populis eisdemque pacificatis justitiam e sinteticamente delineate nel Prooemium delle Constitutiones Regni Siciliae con la formula colendo justitiam et jura condendo. Nel medesimo tessuto normativo, invero, il polivalente inciso del proemio trovava una puntuale focalizzazione in condendae legis jus et imperium della Non sine grandi. Ma era appunto in quella norma che Federico precisava il suo effettivo disegno politico per il Regno: l'edere justitiam, che assieme al fine di 'conservazione' della stessa realizzava la sostanza dell'esser pater et dominus iustitiae, si coniugava non tam utiliter, quam necessario alla funzione propria dell'esser la medesima persona minister justitiae, quant'è a dire chi si assumeva investito ("nobis cordi est") del compito fra i sudditi "absque exceptione qualibet personarum, universis et singulis, prompto zelo, justitiam ministrare". Federico 'legislatore', che ordina di osservare inviolabiliter le sue Costituzioni, in cui al fine di segnalare una linea di continuità con il passato ha ordinato di trasfondere "praecedentes omnes Regum Siciliae et Sanctiones nostras, quas servari decernimus", nell'accordare una costante precedenza alla giustizia, si configura ancora e precipuamente nel Regno come il giustiziere per antonomasia (Grossi, 1995, p. 134), cui al di sopra del gran maestro giustiziere e dei giustizieri incombe assicurare le 'legittime' ragioni a tutti i sudditi, in considerazione proprio d'aver imposto "per universas et singulas partes Regni nostri" il 'culto della pace'.
Per ben comprendere l'attività normativa di Federico riesce, quindi, preliminarmente indispensabile rimuovere tutte le interpretazioni che hanno inteso e sono tuttora inclini a presentarlo come "primo uomo moderno sul trono" (Burckhardt, 1860, ediz. 1876, p. 71). L'opera di mitizzazione della figura del re di Sicilia e imperatore, avviata già nella cronachistica medievale d'età coeva o immediatamente successiva allo Svevo ‒ per adesione (Matteo Paris, Niccolò Jamsilla) o in sua antitesi (Giovanni Villani, Salimbene de Adam) ‒, amplificata, poi, nel Cinquecento nelle sembianze di chi si riteneva aver precorso gli ideali politici rinascimentali (Pandolfo Collenuccio, Marino Freccia), ha trovato particolare eco nel Settecento in cui Federico è divenuto 'personificazione' stessa dei motivi laici e statalistici e ha trovato, infine, compiutezza nella storiografia dell'Ottocento che ha prospettato tout court lo Staufen come fondatore dello stato di diritto e dell'assolutismo monarchico illuminato (Liberati). Tale lettura si è resa possibile, com'è stato notato (Romano, in Racine, 1998, pp. IX-XIII), per la circostanza che l'opera politica e normativa dello Svevo fu di tal rilievo e dai tratti così complessi che "si prestava e si presta benissimo ad ogni tipo di interpretazione" per cui "con opportuni accorgimenti si può ben trovare in lui e nella sua azione tutto quello che si desidera". A ben vedere, perciò, la valenza 'effettiva' di quanto posto in essere da Federico emerge in tutta la sua dimensione proprio 'sfrondando' il mito e penetrando in un contesto che si presenta complesso e condizionato dall'ambiguità tipica dei momenti di transizione. Sottraendosi alle 'lusinghe' di una lettura meramente 'positivistica' dell'operato giuridico fridericiano, il contestuale quadro dell'esperienza appare, infatti, ricco e dinamico a molteplici livelli, tanto da rendere più intelligibile la stessa attività normativa. Ed è appunto in questa prospettiva che sembra muoversi la più recente storiografia fridericiana, sia che prenda le mosse da un'angolazione 'politica' sia che proceda sul terreno più squisitamente giuridico-istituzionale. Non più polarizzata dalla mera visione 'organica' del Liber Augustalis, l'attenzione storiografica punta al referente contemplato dalla specifica disciplina normativa, individuandovi l'elemento di precipua valenza storica. Il 'mito', non di meno, si ripropone nella latente difficoltà a valutare autonomamente il contesto d'intervento normativo precedente al 1231. È stato, a tal proposito, osservato che è proprio "all'idea di edificazione […] molto più che non a quella di depauperamento progressivo e massiccio del regno che sono legati molti luoghi comuni della cultura storiografica federiciana" (Trombetti Budriesi, 1987, p. 47): un orizzonte in cui la definizione di 'monumento del diritto', coniata da Calasso per il Liber Augustalis in analogia alla formula elaborata da Besta (1925, p. 731), costituisce una 'metafora' che rinvia alla straordinaria rete di costruzioni reali nonché all'edificio, anch'esso metaforico, costituito dal complesso sistema di officiali, che come le costruzioni di pietra dovevano testimoniare e rappresentare in maniera capillare sul territorio l'onnipresenza del sovrano. Ma, com'è stato puntualmente indicato (Cuozzo, Martin), si trattò di sviluppi nell'edilizia e nei luoghi del potere successivi alla crociata del 1228-1229. Così, la fase precedente, come sul versante storico-politico, pur sul terreno giuridico-istituzionale postula una lettura specifica in assoluta analogia all'esigenza di tener ben distinte la sistematica politica di costruzione dei castelli e l'edificazione delle domus solaciorum dall'impostazione castellare successiva alla crociata. Solo dopo il 1231, ad esempio, Federico avvia una ordinata pratica demaniale richiedente nuovi metodi e strutture gestionali: uno scenario in cui le revocationes acquistano un significato ben diverso da quello già rivestito negli anni Venti.
L'ambito definito da una periodizzazione alquanto omogenea della vicenda del Mezzogiorno d'Italia, che trova i suoi estremi iniziale e terminale nel rientro nel Regnum dell'incoronato Federico e nel suo nuovo allontanamento per la crociata, propone in limine due momenti significativi: allorché "Romanos fines deserens et per Campaniam iter habens venit in regnum" (Riccardo di San Germano, in Ignoti monachi, 1888, p. 100) e quando sbarca in Sicilia, lasciata oltre otto anni addietro. I due momenti sono solennizzati da riunioni di assemblee generali al cospetto delle quali Federico intende manifestare i termini della sua majestas, che trova vera e propria proclamazione nella promulgazione di ascisias, venti a Capua e cinque a Messina.
Le clausole del cosiddetto 'testamento' d'Enrico VI (estratti, pur ambigui e dubbi, sono riportati in Gesta Innocentii papae III, 1855) manifestavano il suo desiderio di assicurare al figlio la doppia monarchia, ossia il trono imperiale e quello siciliano. La piega, tuttavia, presa dagli eventi dopo l'assassinio a Bamberga (21 giugno 1208) di Filippo di Svevia, che dieci anni prima, all'atto dell'improvvisa morte del fratello maggiore, ne aveva disatteso l'ordine di recare Federico Ruggero in Germania per l'educazione, preoccupandosi piuttosto di conservare agli Staufen la corona imperiale, e la riconferma con il diploma di Spira del 22 marzo 1209 delle promesse già fatte da Ottone, re dei Romani, con il diploma di Neuss (1201) a Innocenzo III, in particolare di riconoscere alla Santa Sede i diritti sul Patrimonio di S. Pietro oltre che la titolarità feudale sul Regno di Sicilia, avevano indicato un brusco arresto di quel disegno, come era solennizzato dall'incoronazione imperiale in basilica Beati Petri di Ottone IV il 4 ottobre 1209.
Intanto, 'agnello tra i lupi', segnato tuttavia dal ricordo costante della cerimonia dell'incoronazione della Pentecoste del 1198, sicuro, quindi, di essere l''unto del Signore', Federico appena riconosciuto maggiorenne, il 26 dicembre 1208, aveva preso in mano le redini del governo del Regno nel tentativo di rimettere ordine in una situazione disastrosa: dilapidato il tesoro regio, dissipato l'esteso demanio costituito dai re normanni, elargita smisuratamente ogni patente commerciale con grave danno per l'erario, vilipesa e mortificata l'autorità sovrana, costituiti abusivamente e con una sistematica opera di usurpazione ingovernabili feudi, sicuramente più possenti della Corona. Con finanze esaurite, scarse entrate prevedibili nel breve periodo, assenza di armati validi, pochi funzionari fedeli, a Federico s'impone il compito arduo di ricostituire le strutture e l'autorità della monarchia.
Tenace, ora come un 'lupo', non esita a contestare la pretesa di mera approvazione sovrana dell'elezione pontificia dell'arcivescovo di Palermo, accetta di contrarre matrimonio, secondo il volere di Innocenzo III, con Costanza (v.), costituisce un collegio di giuristi incaricati di redigere un inventario dei beni usurpati alla Corona, al fine ardito e per il momento temerario di ricostituire il demanio regio, con un editto d'incerta data dispone senza meno la restituzione dei beni inalienabili usurpati. E pur con mezzi esigui, Federico fa applicare il suo decreto, cui cercano di opporsi alcuni nobili (i conti di Gerace e di Tropea, ad esempio), che vengono inesorabilmente arrestati. Tuttavia, mentre Federico, passo dopo passo, si afferma dominus del Regno di Sicilia, fin dalla primavera del 1210 Ottone decide di attaccare il Regnum e, con l'appoggio dei baroni ribelli speranzosi di far salvi i feudi usurpati e incurante delle minacce di Innocenzo III e della stessa solenne scomunica del 31 marzo 1211, sottomesse Puglia e Calabria, nel novembre 1211 si appresta a invadere l'isola. La situazione sembra disperata per Federico che, privo di una forza militare in grado di opporre una seria resistenza, tiene una nave pronta per la fuga a Tunisi. Insperata giunge la salvezza dalla diplomazia pontificia: Innocenzo III si rivolge a Filippo Augusto, re di Francia, perché, in odio a Ottone, nipote di Giovanni Senzaterra, si adoperi per la rinascita in Germania di un 'partito' staufico. Nel settembre 1211 a Norimberga un'assemblea di principi elegge Federico re dei Romani: è schiuso l'adito all'Impero. E, mentre Ottone rientra precipitosamente in Germania, nel gennaio 1212 giungono a Palermo i delegati Corrado d'Ursberg e Anselmo di Justingen per offrire a Federico la corona imperiale. Le obiezioni dei consiglieri e della consorte all'impresa sostenute dal rischio di abbandonare un Regno ancora 'convalescente' sono vinte dalla determinatezza impavida di Federico che, prima d'intraprendere la via di Roma e della Germania, in conformità al volere di Innocenzo III, fa incoronare il figlio Enrico, di appena un anno, re di Sicilia, nomina reggente la moglie Costanza, richiama a corte il cancelliere Gualtiero di Palearia.
Il 18 marzo 1212 Federico parte da Messina, non senza aver previamente ammesso i diritti della Chiesa romana sul Regno di Sicilia, prestato innanzi al legato apostolico, cardinale Gregorio di S. Teodoro, giuramento di fedeltà al papa ed alla Chiesa, promettendo di rinnovarlo personalmente al pontefice, ribadito il concordato di Costanza del 1198 (Historia diplomatica, I, 1, pp. 17-19) con la Santa Sede circa il censo annuo di 1.000 scifati e, soprattutto, riconfermato l'assenso acché "Electiones […] secundum Deum per totum regnum canonice fiant, de talibus quidem personis quibus nos et heredes nostri requisitum a nobis prebere debeamus assensum" (ibid., 2, pp. 201-203). Quest'ultimo costituiva, a ben vedere, un onere rilevantissimo per la sovranità (per le resistenze di Costanza v. Gesta Innocentii papae III, 1855, cap. XXI), ma necessario in vista delle mire imperiali per le quali, dopo aver formulato nell'incontro della Pasqua 1212 un giuramento di fedeltà che andava ben oltre i tradizionali termini feudali, nel 1213 da Eger Federico, nella sua nuova 'veste' ("Signum domini Friderici secundi, Romanorum regis invictissimi et regis Sicilie", Historia diplomatica, I, 2, p. 271), s'impegnava nei confronti di Innocenzo a far salvi i diritti vantati dalla Chiesa rinunziando a quello che viene definito "abusum" degli "antecessores ut que sunt Cesaris Cesari et que sunt Dei Deo recta distributione reddantur" (ibid., p. 269; M.G.H., Leges, 1896, p. 58).
Ma anche all'indomani della domenica di Bouvines (24 luglio 1214) e dell'incoronazione di Aquisgrana (25 luglio 1215) la linea politica di Federico, pur condizionata pesantemente dal voto di organizzare la crociata, in vista dell'incoronazione imperiale è univoca. Il 1o luglio 1216, alla vigilia della propria morte (16 luglio), Innocenzo III (il verus Imperator) si fa promettere solennemente dall''imperatore eletto' (il Pfaffenkönig di Ottone, ma ufficialmente designato dal concilio lateranense del 1215) "ut postquam fuerimus imperii coronam adepti, protinus filium nostrum Henricum quem ad mandatum vestrum in regem fecimus coronari, emancipemus a patria potestate, ipsumque regnum Sicilie tam ultra pharum quam citra penitus relinquamus ab Ecclesia Romana tenendum, sicut nos illud ab ipsa sola tenemus; ita quod ex tunc nec habebimus nec nominabimus nos regem Sicilie, sed juxta beneplacitum vestrum procurabimus illud nomine ipsius filii nostri regis usque ad legitimam ejus etatem per personam idoneam gubernari, que de omni jure atque servitio Ecclesie Romane respondeat, ad quam solummodo ipsius regni dominium noscitur pertinere" (Historia diplomatica, I, 2, p. 469; M.G.H., Leges, 1896, p. 72). E ancora il 13 luglio 1220 a Norimberga, Federico, di fronte ai timori della Chiesa per la sorprendente promotio unanime da parte dei grandi principi elettori (Francoforte, 23 aprile 1220) a re dei Romani di Enrico ad majorem securitatem imperii, che alla prospettiva dell'ereditarietà della corona imperiale abbinava il disegno di una unione, quanto meno personale, delle corone (imperiale e siciliana), ribadiva l'impegno alla 'separazione' delle stesse (Historia diplomatica, I, 2, p. 804), avendo già emanato il 26 aprile la Constitutio in favorem principum ecclesiasticorum, con la quale, abdicando manifestamente agli attributi della sovranità, aveva conferito carattere statale alla giurisdizione ecclesiastica: "gladius materialis est constitutus in subsidium gladii spiritualis" (M.G.H., Leges, 1896, p. 90).
L'assenza dal Regnum del sovrano ‒ dal 1216 anche Costanza ed Enrico sono in Germania ‒ in Federico, fortemente dubbioso che la Chiesa avesse capacità ed effettiva volontà di ristabilirvi l'ordine, aveva, intanto, reso del tutto evidente quanto poco fossero affidabili per la Corona le forze presenti nel Mezzogiorno e, di conseguenza, quali margini di frattura si aprivano nella struttura del potere, messa a serio repentaglio da una eventuale partenza per la crociata. Si era in un sostanziale stato di anarchia: rivolta dei musulmani, veri e propri saccheggi dei baroni, continue usurpazioni delle città. L'assunzione a Roma della corona imperiale dalle mani di Onorio III, avvenuta solennemente il 22 novembre 1220, alla presenza di tutti i conti del Regnum, con la sola eccezione di Tommaso da Celano, dava a Federico quella legittimazione che, al di là del rinnovato impegno formale a tener separate le corone (Regesta Imperii, V, 1, p. 1201; De Vergottini, 1952, p. 81), gli consentiva di impostare una linea politica coerente al suo nuovo status.
Fin dall'aprile 1220, intanto, Onorio III aveva manifestato il proposito di voler legare all'unzione imperiale garanzie giuridiche in favore della Chiesa (De Vergottini, 1952, pp. 63-73), la cui stesura fu rimessa, il 10 novembre, dalla Curia pontificia a Federico, che poté, quindi, farne redigere il testo ufficiale dalla sua cancelleria ed emanarlo all'atto dell'incoronazione (Winkelmann, 1889-1897, p. 113; M.G.H., Leges, 1896, pp. 106-109). Alla promulgazione della Constitutio in basilica Beati Petri (Di Renzo Villata, 1999), per sua stessa affermazione, attesta di esser intervenuto Roffredo da Benevento (v.), aggregato alla comitiva imperiale in veste di redattore di testi normativi sin dal settembre 1220, allorché Federico aveva emanato il primo editto soppressivo degli statuti comunali contrari alle libertà ecclesiastiche (M.G.H., Leges, 1896, p. 100), mentre già stava predisponendo uno 'schema' progettuale della normativa capuana. Accanto a lui figurano, del resto, come iurisperiti altri due autorevoli giudici, Giovanni da Reggio e Roberto da S. Maria del Monte (De Vergottini, 1952, p. 89), qualificati il 24 novembre "viri sapientes et discreti" (Ficker, 1868-1874, IV, p. 321).
All'inizio del dicembre 1220 Federico lascia Roma e rientra, dopo otto anni di assenza, nel Regno di Sicilia accompagnato da uno staff fidatissimo, tra cui Berardo, arcivescovo di Palermo, Ermanno di Salza, Maestro dell'Ordine teutonico, e Roffredo da Benevento. Il 13 dicembre raggiunge San Germano, ove nomina Landolfo d'Aquino iustitiarius Terre Laboris, ed il giorno seguente sale a Cassino, accolto magnifice dall'abate Stefano, impegnato manu munifica ad assistere i convenuti: non di meno, "mensam campsorum et ius sanguinis, quod usque tunc habuit Casinensis ecclesia de tota terra sua ex concessione Henrici patris sui, revocat imperator in demanium suum" (Riccardo di San Germano, in Ignoti monachi, 1888, p. 101). L'inciso del cronista, cui nella prima stesura della narrazione (Chronica priora) segue la notizia "similiter Suessam, Teanum et Roccam Draconis recipit a comite Rogerio de Aquila" (ibid.), eventi più 'accuratamente' delineati nella seconda stesura mediante l'inversione dei termini revocat-recipit, tradisce la percezione che si avverte della congiuntura. Un'impressione che perdura nella descrizione: "Imperatrix vadit Suessam, imperator Capuam; ubi habita curia generali pro facto regni, subscriptas edidit sanctiones" (ibid.), nei Chronica priora; "et se recto tramite Capuam conferens, et regens ibi curiam generalem, pro bono statu regni suas ascisias promulgavit, que sub viginti capitulis continentur", nella seconda redazione (ibid., p. 100).
Tra il 17 ed il 22 dicembre, quindi, viene solennemente celebrata a Capua una Curia generale in occasione della quale Federico II, imperatore e re per unione personale, emana un editto costituito da venti capitoli messi a punto a seguito di una lunga elaborazione con esperti del diritto: l'importantissima assisa X, significativamente, reca l'espressione rationabiliter di pura matrice sapienziale. Del resto proprio sotto questo profilo, dissolvendosi ogni limite esterno per le determinazioni di Federico, si delineava netto il vincolo 'interno', volontario, ma non meno obbligante: "quamquam soluta imperialis a quibuscumque legibus sit Maiestas sic tamen in totum non est exempta iudicio rationis que juris est mater" (Historia diplomatica, V, 1, p. 162). Ci si trova in presenza di una peculiare argomentazione tecnica di matrice scolastica, non meno di quella presente nell'assisa XI dove si delinea la sottile distinzione tra tenere e detenere. Appare complessivamente chiaro il contributo dei consiglieri giuridici, e anzitutto di Roffredo (non ancora di Benedetto da Isernia, dottorato a Bologna nel 1221), all'impostazione della politica fridericiana al ritorno nel Regnum intesa, pur con prospettive originali connesse alla sua nuova, possente autorità, anzitutto a restaurare la situazione precedente, ridando pieno vigore a "omnes bonos usus et consuetudines, quibus consueverunt vivere tempore Regis Guillelmi" (Ass. I), inaugurando quel 'mito guglielmino' inteso a recuperare per il Regno meridionale "status, usus et modus qui tempore felicis recordationis regis Guillelmi II extitit observatus" (Calasso, 1952, p. 471).
Circa il testo delle Assise capuane, Bartolomeo Capasso, desumendo dalla versione della Chronica di Riccardo di San Germano, di cui al Cod. Cass. 507, seguita da Winkelmann e ripresa da Giuseppe Del Re, ritenne irrimediabilmente perduto il testo delle Assise, nel senso che era dato individuarne sei, "le quali se non testualmente, del che non possiamo essere sicuri, almeno nel contenuto furono inserite senza alcun dubbio nel Codice del 1231", mentre delle altre quattordici "niente di certo può asserirsi" (Capasso, 1871, p. 389). In effetti, Capasso a sostegno della sua ipotesi, in particolare dell'emanazione a Capua della Quod bona stabilia per aliquos ecclesiasticos religiosis locis oblata veniant et alienari debeant, ossia la costituzione Praedecessorum nostrorum, adduceva due testimonianze: un diploma del 1224 di Montevergine (Historia diplomatica, II, p. 407) e un ordine a Paolo Logoteta, giustiziere nel 1228. Ambedue le testimonianze non reggono a un serrato esame filologico. La stessa De instrumentis conficiendis, che pure Capasso riferiva tra le sei capuane, non è appartenuta alla massa capuana. In effetti, come ebbe a rilevare Gaudenzi, a Capasso possono essere mossi due rilievi: il convincimento che quando una disposizione normativa di Federico II si trovi ricordata in documenti degli anni immediatamente seguenti il 1220 debba comunque, secondo ogni verosimiglianza, appartenere alla Assise di Capua e l'avere identificato con queste Assise le riforme che Federico stesso nella costituzione Nihil veterum dice di avere escogitato poco dopo la sua coronazione a imperatore. Dalla lettura della Nihil veterum scevra da preconcetti si può asserire, invece, seguendo Gaudenzi, che dal momento della sua coronazione in poi l'imperatore dovette continuamente pensare a correggere le leggi dei predecessori: "necessaria in ius continua nobis oportuit excogitare remedia". La I, 38, quindi, anziché riferirsi alla promulgazione delle Assise di Capua, sarebbe un riferimento preciso alla ininterrotta attività normativa di Federico.
Gaudenzi, intanto, aveva individuato la redazione dei Chronica priora di Riccardo di San Germano, recante, legato al manoscritto intitolato Ignoti monachi Cisterciensis S. Maria de Ferraria Chronica, il testo integrale delle Assise di Capua, che nel 1888 pubblicava nei 'Monumenti Storici' della Società Napoletana di Storia Patria. L'edizione era desunta dal Cod. Bol. A. 144 della Biblioteca Comunale che veniva ripreso con lievissime varianti nel 1936 da Garufi nei Rerum Italicarum Scriptores, tenendo conto anche del testo del Cod. Cass. 507.
Le venti assise presentano una struttura estremamente concisa e precettiva e si prestano a essere analizzate in cinque nuclei: 1. ripristino dello stato normanno e tutela dei diritti delle chiese (Ass. I, XIII, II); 2. ricostituzione del demanio (Ass. X, XV); 3. politica feudale (Ass. XI, XII, XVII); 4. organizzazione della giustizia regia e amministrazione (Ass. III, IV, V, VII, XVIII, VI, VIII, XVI); 5. affermazione dell'autorità regia (Ass. XX, XIX, XIV, IX).
Il ritorno all'età guglielmina (Ass. I) fissato per tutti i sudditi del Regno, laici ed ecclesiastici, assume immediatamente un tono ben diverso da quello tipico del periodo normanno: Ruggero aveva ordinato omnibus di osservare le proprie leggi, ma per le consuetudini aveva lasciato, in quanto compatibili, il ricorso a quelle non cassate; Federico, invece, ordina (precipimus) che tutti i 'buoni' usi e consuetudini vigenti all'epoca di Guglielmo siano osservati firmiter. L'intento di reprimere gli abusi realizzati dal 1189 e, soprattutto, durante la sua assenza dal Regno appare come criterio informatore di tutte le norme successive, con particolare riguardo alle pretese dei feudatari nei confronti dei vassalli (Ass. XIII) e alle prestazioni di decime o al rispetto dei diritti giurisdizionali delle chiese (Ass. II).
Ugualmente 'capitali' si presentano le assise X e XV. La prima, programmatoria, decisa fermamente a ripristinare l'esausto patrimonio della Corona, sia nella prospettiva di un demanio usurpato e dilapidato che sotto il profilo degli introiti (redditos nostros) oggetto, alla pari dei vari diritti doganali, di concessioni senza criterio alcuno. Era questo il disegno più arduo, ma più vitale per Federico che, personalmente, aveva dovuto constatare come fosse complesso realizzare qualunque progetto senza adeguate risorse: non potevano esservi eccezioni né dilazioni. E a quel fine era, a ben vedere, orientata la stessa Ass. XV, la ben nota De resignandis privilegiis, con la quale, adducendo a motivazione l'usurpazione e falsificazione del sigillo imperiale, si disponeva districte ed entro un limitatissimo margine temporale a tutti di esibire alla cancelleria universa privilegia concessi dall'imperatore e dall'imperatrice, a pena di nullità per l'uso e d'incorrere nell'indignazione imperiale. L'esegesi di questa norma, per valutarne l'originalità, e quindi i motivi della reazione durissima da parte della Chiesa, ha coinvolto ampiamente l'interesse storiografico (Scheffer-Boichorst, Niese, Cuozzo) e porta a ritenere, anche sulla base di quanto dallo stesso Federico indicato (Gaudenzi, Prefazione, in Ignoti monachi, 1888, p. 76), che la disposizione, pur rientrante nel contesto della nuova problematica dell'autenticazione dei privilegi imperiali e regi, consentiva nello stesso tempo al fisco regio di disporre dell'arma giuridica che avrebbe permesso di ricostituire il demanio regio.
Le tre assise (XI, XII e XVII) che disciplinano la materia feudale si inquadrano perfettamente nella prospettiva di restaurare il regime guglielmino: sia per quanto attiene i feuda in capite (XI), di cui s'interdice il tenere, chiaramente a titolo esclusivo, consentendosene solo la titolarità regie curie con l'obbligo per il detemptor di resignare il feudo alla Curia; sia con riferimento al divieto assoluto (XII) di minuere un qualunque beneficio feudale in linea con la Scire volumus (III, 1) e la Constitutionem dive memorie (III, 5); ma anche con la previsione (XVII) dell'intervento autorizzativo ai matrimoni per i feudali "secundum consuetudinem regis Guillelmi", sì da esercitare un incisivo controllo sui legami familiari e sulle concentrazioni dei patrimoni.
Di particolare importanza si rivelano le assise relative alla giustizia e all'amministrazione: trovano, infatti, ferma riprovazione la vendetta privata e la rappresaglia (III), laddove l'assisa rogeriana XXXV del Codice Cassinese ricordava i giudizi di Dio come istituto ancora vigente; il divieto di porto d'armi (IV) e di ricettazione dei malviventi (V) sono i primi di un'ampia serie d'interventi intesi a riportare nel Regno una condizione minima di ordine pubblico.
Rilevantissima, e innovativa, l'assisa VI che impone ai mastri giustizieri e ai giustizieri il giuramento ad sancta Dei evangelia di rendere giustizia sine fraude, ma non meno importanti le assise VII (divieto ai castellani di fare alcunché extra castra, intromettersi de aliquo terre negotio e operare senza mandato regio), VIII (eliminazione di ogni platea, dogana, passaggio, porto, posti in essere dopo la morte dei genitori), XVI (perpetuità dei privilegi emanati dalla Curia).
Di eccezionale rilievo, e indubbiamente le più significative nel quadro politico del momento, sono le disposizioni delle assise XIV (totale sottomissione delle città, con divieto di avere magistrati propri e possibilità di far valere consuetudini esclusivamente 'approvate'), XX (totale sottomissione di tutti i feudali, obbligati a prestare il debitum servitium, pena la perdita del feudo), XIX (abbattimento funditus di tutti i castelli feudali costruiti dopo la morte del re Guglielmo, e decisione riservata a propria discrezione per i castelli in demanio regis) e soprattutto della IX, relativa al rigidissimo controllo che si viene a delineare sui traffici e commerci mediante la soppressione delle nuove nundine et mercata, istituite 'abusivamente' dalle città, stipulando spesso convenzioni con centri commerciali dell'Italia settentrionale, durante la sua minore età e la sua assenza dal Regno. Questa norma rivela appieno il senso fridericiano dell'autorità e l'intento di non lasciare, naturalmente pro bono statu regni, libero sviluppo ai centri del Mezzogiorno, ché, altrimenti, si sarebbero sottratti all'obiettivo ormai intransigibile per l'imperatore-re di assoluta concentrazione del potere.
fonti e bibliografia
Chronicon Suessanum, a cura di F. Zacharia, in Iter italicum per Italiam, Venetiis 1762, pp. 227-40.
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