ASSISI
(lat. Asisium)
Città dell'Italia centrale situata sulle propaggini occidentali del monte Subasio, in posizione dominante, all'ingresso della valle umbra. Insediamento di origine preromana, A. fu durante la repubblica una fedele alleata di Roma ed ebbe riconosciuto lo stato di municipio al termine delle guerre sociali.Del fiorente centro imperiale, appartenuto alla tribù Sergia, sopravvivono numerose testimonianze archeologiche e monumentali (Strazzulla, 1985); dopo la caduta di Roma, la città rientrò, in età giustinianea, nei domini della Pentapoli, per essere annessa sul finire del sec. 6° al ducato longobardo di Spoleto, divenendo gastaldato e presidio di difesa. La sua posizione strategica, tra la valle del Tevere a N-O e la via Flaminia a S-E, fu peraltro causa di rovinosi assedi da parte dei Goti di Totila nel 545 e durante la conquista carolingia sullo scorcio dell'8° secolo. Come per altri centri dell'Umbria, anche in territorio assisiate si diffusero nel primo Medioevo diverse isole cenobitiche (Iacobilli, 1647-1661, III; Penco, 1965), mentre numerose comunità di osservanza benedettina dipendenti inizialmente da S. Maria di Farfa, con l'esclusione del priorato di S. Maria di Valfabbrica legato a S. Silvestro di Nonantola, sono documentate dal sec. 11° (Sensi, 1981), come attestano le sopravvivenze architettoniche degli insediamenti suburbani di S. Crispolto de Plano Vitoni (1018) e di S. Benedetto de Monte Subasio (1041) e la fondazione di S. Pietro extra moenia (1029; Sensi, 1981, p. 28).La rinascita civile ed economica di A. e l'incremento demografico a partire dal Mille furono stimoli determinanti per un rinnovamento edilizio e per l'apertura di importanti cantieri religiosi. Nel corso della prima metà del sec. 11° il vescovo Ugone diede avvio alla fabbrica della cattedrale, trasferita prima del 1028 da S. Maria Maggiore nella chiesa di S. Rufino, e nella nuova basilica furono tumulate intorno al 1042 le spoglie del vescovo martire Rufino (Fortini, 1955). Pur restando considerevole il peso dell'autorità vescovile nelle vicende politiche cittadine ancora per tutto il sec. 12°, A. continuò a rimanere a tutti gli effetti nel ducato spoletino fino al 1167 e nel 1174 venne presa dall'arcivescovo Cristiano di Magonza, legato imperiale, per conto di Federico Barbarossa (Manselli, 1978). Questi aveva manifestato, con un diploma del 1160 (Pavia, 21 novembre), un proposito di annessione che, sebbene rendesse di fatto indipendente il comitatus assisano dal potere ducale, ne sanciva comunque la pertinenza "ad nostram imperialem iurisdicionem", indicandone l'estensione e i precisi confini territoriali.Soltanto sul finire del secolo, in concomitanza con l'indebolirsi del potere svevo e i tentativi di espansione della Chiesa nella regione, è documentato un governo consolare, ospitato dapprima in ambienti presso la platea Sancti Rufini e, dopo il 1212, in un casalinum situm in mercato, adiacente alla diruta chiesa di S. Donato, insediatasi nel c.d. tempio di Minerva (Waley, 1978). Al 1267 risale il primo atto che dichiari l'istituzione della magistratura del capitano del popolo (Grohmann, 1989, p. 56), che veniva ad affiancarsi alla figura del podestà. La costruzione di un palazzo pubblico attiguo al tempio di Minerva, divenuto nel frattempo sede degli uffici podestarili e del carcere, fu completata nel 1282. Tra il 1295 e il 1309 il Comune acquisì alcuni lotti sul lato opposto della piazza, sulla cui area fece edificare nel 1337-1338 il palazzo dei Priori, magistratura attestata ad A. dal 1330 (Abate, 1986; Grohmann, 1989). Accanto al fiorire delle istituzioni comunali, il Duecento assisiate resta storicamente contrassegnato dallo sviluppo e dalla diffusione del francescanesimo.Dopo una lunga parentesi di dipendenza dalla rivale Perugia, A. tornò tra il 1353 e il 1367 sotto il controllo pontificio per opera del cardinale Egidio Albornoz (Dupré Theseider, 1971). La perdita dell'autonomia comunale, le continue ingerenze di Perugia nelle lotte politiche interne e i frequenti saccheggi nel contado funestarono A. quanto le disgrazie naturali, quali il terremoto del 1345 e la peste del 1348-1349. Si apriva così un lungo periodo di sconvolgimenti intestini, di crisi dello stesso istituto vescovile, di sottomissione forzata a diverse signorie straniere e a capitani di ventura (Guglielmo di Carlo nel 1376-1385, Biordo Michelotti nel 1394-1398, Giangaleazzo Visconti nel 1400-1402, Braccio Fortebraccio da Montone fino al 1425) che, alternandosi a un più diretto dominio della Santa Sede, si sarebbero protratte per tutto il Quattrocento e gli inizi del secolo successivo, quando la città si trovò definitivamente inserita - con un ruolo subordinato - all'interno dello Stato della Chiesa, durante il pontificato di Paolo III Farnese (1534-1549).P.F. Pistillli
Dominata dalla rocca, la città è racchiusa ancora nel circuito delle mura antiche; le porte, il teatro, l'anfiteatro, le vie principali di collegamento territoriale sono tutti elementi antichi conservati e variamente riutilizzati. Il campanile della cattedrale di S. Rufino (sec. 11°) poggia su una cisterna romana e la piazza del mercato (poi piazza del Comune), sulla quale si conserva il prospetto del c.d. tempio di Minerva, conferma nella sua localizzazione il più importante spazio pubblico della città antica.Ai Benedettini si devono le fondazioni di S. Pietro extra moenia (970) e del priorato di S. Paolo, presso la piazza del mercato (1071); la cattedrale di S. Maria Maggiore venne trasferita in posizione più centrale, in S. Rufino (e ricostruita a partire dal 1134), sulla cui piazza si teneva l'assemblea generale o arengo. La presenza imperiale, nel corso delle lotte tra comuni e impero della seconda metà del sec. 12°, consolidò il dominio territoriale e riuscì a ritardare l'affermarsi pieno dell'autorità comunale. Questa si manifestò, già pienamente capace di imporre il nuovo ordine politico, nella ribellione del 1198, quando gli Assisiati distrussero la rocca imperiale ed elessero i primi consoli, che, nello stesso anno, furono impegnati nel restauro delle mura cittadine. Gli anni immediatamente seguenti furono decisivi per il futuro assetto politico, economico e sociale della città: si attuò una politica di duro scontro con la nobiltà feudale filoimperiale e il Comune, sconfitto da Perugia (1202), si diede un assetto stabile attraverso la pacificazione tra boni homines e homines populi (1203), l'equiparazione dei mercanti ai milites, l'istituzione del podestà (1204) e infine una nuova pace, conosciuta come il Patto di A. (9 novembre 1210). Già in questi anni le vicende di Francesco, figlio di un mercante, prigioniero dei Perugini nel 1202, promotore di restauri di numerosi edifici religiosi, alcuni dei quali ottenuti dai Benedettini, si intrecciavano a quelle di A. (approvazione della Regola dei Frati Minori e, contemporanea pacificazione cittadina). In questo clima, che vedeva l'autorità comunale emergere come unico garante della pace e della prosperità, si collocava nel 1212 la cessione del tempio di Minerva, sulla piazza del mercato, da parte dell'abate di S. Benedetto al Comune stesso, per la propria nuova sede (dal 1215 vi risiedette il podestà) per la durata di cento anni, rinnovabile con la corresponsione della cifra simbolica di venti soldi. A fianco del tempio venne costruito, sempre su proprietà cedute dai Benedettini, il palazzo del Capitano del popolo (carica istituita nel 1230; compiuto nel 1282) e, tra i due edifici, la torre civica (1275-1305). La piazza del mercato, ribattezzata come platea nova Communis, venne ampliata attraverso acquisizioni e demolizioni di case (1229), mentre dal 1221 vi si riuniva l'arengo. Ma a partire dalla morte di s. Francesco lo sviluppo urbanistico della città, reso indispensabile anche per l'immigrazione dalle campagne, si legò strettamente alla grandiosa impresa della basilica del santo e, in generale, alla presenza in A. della sede principale dell'Ordine francescano. La fondazione della chiesa e del convento di S. Francesco, sul colle dell'Inferno (1228; altari consacrati nel 1253), fissò un traguardo monumentale, verso O, all'estensione delle difese urbane e pose il problema del collegamento con la città; parallelamente, in direzione E, si costruirono la chiesa e il convento di S. Chiara (1257-1265), e la cinta urbana venne subito ampliata per includerli (1260). La piazza antistante la basilica di S. Francesco fu regolarizzata nel 1246, in modo da permettere una completa visione del monumento (la chiesa doveva apparire liberam et expeditam). È soprattutto in questa direzione che la città tendeva a espandersi, anche per garantire una più efficace difesa alla basilica; iniziarono così nella seconda metà del Duecento gli acquisti, da parte del Comune, di aree e proprietà per l'ampliamento del circuito murario, mentre si realizzava la grandiosa strada di collegamento tra la basilica superiore e la città (via Superba, o di S. Francesco). Si trattava di una via accuratamente progettata ad andamento ancora leggermente curvo, ma già di grande ampiezza e concepita come strada maestra, in quanto elemento di connessione, anche simbolico, tra centro comunale e centro francescano; su di essa si costruirono l'ospedale della Misericordia (1267; poi Monte Frumentario) e, nei secoli seguenti, alcuni tra i principali palazzi della nobiltà assisiate.La grande espansione della cinta urbana, legata a una operazione di riequilibrio tra città e contado, maturò negli ultimi decenni del Duecento, in sintonia con gli ampliamenti di altri centri comunali. Se nel 1283 Niccolò IV poteva affermare che "Assisi civitas brevi concluditur spatio", è evidente che, a questa data, era già ben presente, e forse avviato a soluzione, il problema del sovraffollamento dell'area interna alle mura. La grande cinta incluse nuove aree soprattutto a N-O (dove racchiudeva il colle di S. Francesco), a S in direzione della pianura e a E oltre S. Chiara, per una lunghezza complessiva che superava i 4.600 metri. Esigenze strategiche di difesa si accompagnavano a esigenze di nuova urbanizzazione; accanto ad aree scoscese e inabitabili si trovavano zone pianeggianti, adatte a una sia pur limitata estensione della rete stradale e a una lottizzazione capace di ospitare sia i nuovi immigrati sia, in parte, i cittadini del nucleo antico della città. Questa operazione, che trova pochi riscontri coevi sia per il rigore progettuale sia per la ricchezza e il dettaglio della documentazione scritta pervenuta, fu interamente gestita dal Comune; le aree interessate all'ampliamento vennero espropriate ai proprietari ecclesiastici e laici. Si tracciarono nuove strade, si collegarono e razionalizzarono percorsi già esistenti, si lottizzarono le fronti stradali, si previdero servizi pubblici essenziali, come fornaci per la calce, fontane, chiese. I nuovi immigrati, provenienti da tutti i castelli del contado, si dovevano impegnare a costruire un'abitazione sul lotto assegnato, nei tempi e con le modalità stabilite. Più che di un piano regolatore come lo ha concepito, nella seconda metà del secolo scorso, la cultura europea, si trattava di un progetto di ampliamento estremamente dettagliato, che aveva lo scopo dichiarato di ingrandire la città (augmentatio), liberalizzare le proprietà immobiliari (affrancatio), migliorare l'aspetto di A., modernizzandolo (decoratio).Anche se non è stato possibile ricostruire completamente la trama di nuove strade e di nuovi lotti edificabili (casalini) progettati nell'area compresa tra le antiche e le nuove mura, sono state individuate due zone urbanizzate a seguito del piano del 1316: la prima, a S-O della città, è la zona alle spalle di S. Pietro, dove si sviluppò un insediamento consistente, a vie parallele e ortogonali al pensio; l'altra, la zona alle spalle di S. Chiara, di consistenza assai più limitata. I casalini venivano poi rivenduti dal Comune, a prezzo naturalmente maggiorato rispetto al costo di acquisto dei terreni, per compensare le spese di urbanizzazione; inoltre i prezzi variavano a seconda della localizzazione e quindi in relazione al mercato edilizio, da un massimo lungo le strade principali e nella zona centrale a un minimo nelle zone più periferiche e disagevoli.Del resto, una parte del ricavato dalla vendita dei casalini venne impiegata nell'acquisto di case intorno alla piazza Comunale, allo scopo sia di ampliarla ulteriormente sia di costruirvi nuovi edifici pubblici. Si gettavano così le premesse per la realizzazione del complesso del palazzo dei Priori sul lato lungo della piazza, verso valle (1332, 1337), che delimitava la parte nuova, sudorientale, della piazza Comunale. Anche queste sistemazioni derivavano direttamente dal progetto del 1316, che prevedeva una nuova strada, frutto più di uno sventramento vero e proprio che di un semplice ampliamento, collegante la piazza Comunale con S. Chiara: "dominus potestas qui nunc est et eius vicarius teneatur et debeat facere desygnari et aperiri et exanplari et disgomberari stratam novam fiendam a platea comunis ad Sanctam Claram secundum quodo erit designatam"; strada che venne chiamata strada nuova di S. Chiara (od. corso Mazzini). Le case demolite o danneggiate dovettero essere risistemate, sul nuovo allineamento, a spese del Comune. Con questo intervento la piazza Comunale fu collegata con la porta Nuova, attraverso la piazza di S. Chiara, da una grande strada a pareti rigorosamente rettilinee, lungo le quali si allinearono le nuove case e le facciate di quelle preesistenti, tagliate dai tecnici comunali con il consueto metodo dell'allineamento e della misurazione mediante corde.L'intensa attività costruttiva che coinvolse ogni aspetto della città tra il sec. 13° e il 14° produsse, tra l'altro, una tipologia residenziale abbastanza uniforme per dimensioni e materiali impiegati, ulteriormente codificata in seguito al piano del 1316. Le case avevano facciata in pietra e, accanto alla porta della bottega, la porta di accesso al piano superiore, rialzata. Il caratteristico arco in pietra squadrata (pietra rossa o bianca del Subasio), a sesto acuto, con ghiera a spessore fortemente variato e la muratura piena a blocchetti più o meno regolari sono elementi diffusi e conservati un po' dovunque, nonostante le manomissioni e i rifacimenti. Del resto, come in tutti gli altri comuni, l'autorità pubblica fissava rigidamente le misure per i mattoni e le tegole prodotte in tutto il territorio di A. (lapide inserita nel basamento della torre comunale e datata 1348).La decadenza economica e demografica iniziò, come per molti altri centri dell'Italia centrale, con la peste del 1348, mentre la perdita dell'autonomia politica venne sancita dalla ricostruzione della rocca, a opera del cardinale Egidio di Albornoz (m. nel 1367): con questo episodio si chiuse simbolicamente il periodo di massima espressione dell'originalità istituzionale, urbanistica, artistica del Comune, iniziata con l'abbattimento della rocca nel 1198. Le liti interne tra le due parti in cui si divideva la città (parte 'di sopra' e parte 'di sotto') e i saccheggi che A. dovette subire a opera delle truppe di capitani di ventura (Braccio Fortebraccio nel 1419; il Piccinino nel 1439), dei Perugini e del papa, provocarono distruzioni e abbandono, a stento compensati dalla sempre crescente fama della basilica di S. Francesco, meta di pellegrinaggi religiosi e artistici, e dall'aggiornamento continuo delle difese della rocca (torre poligonale di Pio II, 1458-1460, restauri di Sisto IV, torrione cilindrico di Paolo III, 1535-1538). La stasi economica dell'età moderna ha del resto consentito la conservazione di gran parte del tessuto urbanistico, dei caratteri ambientali e del tessuto monumentale ed edilizio della città medievale. A. consente ancora oggi - nonostante l'intenso sfruttamento turistico, alcuni pesanti restauri e qualche costruzione del secondo dopoguerra - di cogliere i valori essenziali dell'età comunale e del movimento francescano, nel territorio come nella città, nei suoi monumenti e nelle testimonianze artistiche.E. Guidoni
Perduta qualsiasi traccia di effettive presenze altomedievali in A. e nel suo contado, con l'eccezione di un sarcofago della seconda metà del sec. 8° rinvenuto in S. Maria Maggiore (Ciotti, 1966) e di due plutei carolingi - uno frammentario nella cripta di S. Rufino, l'altro già impiegato come altare nella Porziuncola e oggi conservato nel chiostro di S. Maria degli Angeli -, le testimonianze architettoniche intorno al Mille si limitano a due esempi di cripte triastili a pianta monoabsidata con coperture che insistono su mensole angolari in pietra. In questo novero la cripta dell'antica cattedrale di S. Maria Maggiore emerge per una più complessa planimetria, caratterizzata da uno sconnesso prolungamento laterale a due navate che, inteso come elemento di forte arcaismo, ha condotto a proporre una datazione troppo precoce al tardo sec. 9° (Martelli, 1966). Questa cronologia non trova infatti confronti nella regione ed esempi prossimi sono da ravvisare in territorio assisano nelle cripte più tarde (inizi del sec. 11°) degli insediamenti benedettini di S. Benedetto al Subasio, scoperta nel 1950 (Bacheca, 1956), e di S. Crispolto a Bettona, dove la volta è però sostenuta da un'unica colonna.L'apertura, prima del 1040, del cantiere della nuova cattedrale di S. Rufino, per volere del vescovo Ugone, sopra la parva basilica altomedievale intitolata al medesimo santo (Fortini, 1955), determinò il definitivo spostamento del centro episcopale, localizzato ancora al principio del Mille nel complesso di S. Maria Maggiore, e soprattutto una svolta nell'architettura religiosa assisiate. La committenza vescovile imponeva un preciso modello con la costruzione di una basilica a tre navate, di modeste dimensioni (Cardelli, 1929; 1969), ma provvista di una cripta a oratorio affrescata e di un attiguo impianto canonicale. La cripta, che insieme a una galleria del chiostro è stata risparmiata dalla demolizione del 1212 ca., si fece portatrice di una ventata di novità esercitando un'influenza tardiva sulle locali comunità benedettine, che, sul finire del sec. 11° o più probabilmente agli inizi del successivo, abbandonarono le precedenti esperienze pauperiste per allinearsi all'esempio del S. Rufino con la realizzazione di una seconda cripta in S. Benedetto al Subasio e di un'altra, in forma ridotta, in S. Masseo de Platea.L'importante fondazione di S. Benedetto al Subasio si venne quindi organizzando in monastero proprio negli ultimi decenni del sec. 11° e agli inizi del 12°, contemporaneamente a un'attenta opera di terrazzamento e di difesa del sito. Di questa fase costruttiva si conservano, oltre alla cripta a oratorio (primo quarto del sec. 12°), i muri perimetrali dell'abbaziale a navata unica molto sviluppata in lunghezza e quelli di una galleria coperta, lungo la fiancata meridionale della chiesa ma su un livello più basso. Questa, voltata inizialmente a botte e in seguito a crociera, doveva essere in comunicazione con la cripta e l'esterno (Pantoni, 1948).La successiva periodizzazione del Romanico assisiate si lega indubbiamente alle vicende della seconda ricostruzione di S. Rufino, avviata a un secolo di distanza dalla cattedrale ugoniana (1140) e affidata agli inizi a Giovanni da Gubbio, come precisa un'epigrafe conservata in sito. Controversa resta l'identificazione del maestro eugubino con quel Johannes menzionato nell'iscrizione del 1163 collocata sulla facciata di S. Maria Maggiore, divenuta nel frattempo la chiesa del vescovado. Non è ancora chiaro se il rinnovamento della cattedrale fosse motivato da necessità legate al manufatto o dalla presunta volontà di un'affermazione politica diocesana attraverso un'architettura più aggiornata e rappresentativa, affiancata da un possente campanile, forse ereditato dal complesso ugoniano (Cardelli, 1969; Pardi, 1975). La prima cattedrale romanica certamente sopravvisse alla demolizione almeno fino al 1212, in quanto i lavori della nuova basilica, che interessavano una vasta area situata alle spalle del fabbricato ugoniano, procedettero a più riprese e con estrema lentezza (la consacrazione ebbe luogo nel 1228). L'impostazione planimetrica dell'edificio, privo di transetto e a pilastri cruciformi, si deve far risalire al progetto di Giovanni da Gubbio; esso divenne, anche se la fabbrica rimase in abbandono per molto tempo, un riferimento per le chiese assisiati erette nel pieno sec. 12° (S. Maria Maggiore e S. Pietro).Il monumento, profondamente alterato al suo interno dal rifacimento cinquecentesco di Galeazzo Alessi, aveva subìto in corso d'opera diverse manomissioni. Un documento del 1210 ricorda la facciata non ancora compiuta (Cardelli, 1969), come sembrano confermare elementi archeologici - la campata di controfacciata presenta una luce più ampia pari alla lunghezza della cripta ugoniana - e dati stilistici. La sua costruzione avvenne in due fasi distinte, ma cronologicamente vicine. Il primo cantiere condusse i lavori fino ai tre rosoni, inventando per la fascia al di sotto della galleria un disegno a riquadri geometrici, che si diffuse dal secondo Duecento in una vasta area dell'Italia centrale, mentre i portali che incorniciano i più antichi rilievi delle lunette sono stati messi in rapporto (de Francovich, 1937) con la produzione romanica pavese. La complessità del programma iconografico rappresentato ha suggerito diversi tentativi di lettura (Elisei, 1893), tra cui un'interpretazione in chiave gioachimita (Prosperi, 1968).Di poco successivo (1230 ca.) è il completamento del fastigio, portato avanti non senza incertezze e ripensamenti da maestranze in sicuro rapporto con la fabbrica del duomo spoletino, dal quale si riprendeva la soluzione archiacuta del timpano. Il coro, leggermente sopraelevato, era sovrastato nell'ultima campata da una cupola-tiburio e forse affiancato da gallerie nelle navate laterali; la navata maggiore prevedeva una copertura a travatura lignea mentre le laterali erano impostate per ricevere una volta a botte, di cui rimangono ampie tracce nella navata di sinistra. Il sistema ad archidiaframma, limitato al vano presbiteriale, e lo stesso tiburio si dimostrano invece un adattamento protoduecentesco, rimasto probabilmente incompiuto.Ideale filiazione di S. Rufino è l'abbaziale benedettina di S. Pietro, il cui ruolo nelle vicende diocesane si andò accrescendo dal 1170 (Salmi, 1922). Venuta meno la tradizionale datazione al sec. 11°, l'edificio risulta essere il prodotto di due diversi cantieri. L'impianto a tre navate con transetto non sporgente e l'innalzamento del tiburio sono da ricondurre al pieno sec. 12°; i riferimenti al S. Rufino si mostrano evidenti nella soluzione orientale monoabsidata, nel presbiterio sopraelevato e nella copertura del corpo longitudinale 'a sala' per mezzo del sistema misto, a travatura al centro e a botte sulla navate laterali. La presenza della cupola su pennacchi sopra il vano presbiteriale condiziona però tutti gli altri elementi e riconduce il S. Pietro - anche per il parallelo con la pisana S. Paolo a Ripa d'Arno - nell'orbita delle fondazioni benedettine riformate dell'Italia centrale. Certamente al Duecento risale, in rapporto forse con la consacrazione di Innocenzo IV nel 1253, la realizzazione degli archi-diaframma sulla navata centrale, sistema ampiamente documentato in Umbria (Savi, 1987), mentre nel 1268 fu compiuta la ristrutturazione della facciata per ordine dell'abate Rustico.Di altre fondazioni religiose sopravvivono interessanti testimonianze, le cui fasi iniziali devono attribuirsi a non prima del sec. 12°, anche se per talune la veste attuale è frutto di profondi rimaneggiamenti duecenteschi. Le chiese urbane di S. Giacomo de muro rupto, di S. Paolo e di S. Stefano sono tutte accomunate da un semplice impianto a navata unica di modeste dimensioni; soprattutto quest'ultima sembra aggiornarsi nella fase del sec. 13° sulle novità espresse dai maggiori cantieri cittadini, facendo proprio il sistema ad archi-diaframma nel momento in cui si decise di prolungare il corpo dell'edificio, con un'operazione analoga a quella compiuta durante la ristrutturazione della zona orientale della chiesa abbaziale di S. Benedetto al Subasio.Demolito nel 1198 il castello svevo dagli Assisiati con l'aiuto dei Perugini, le principali fabbriche comunali, purtroppo oggi in un deplorevole stato di conservazione che ne impedisce un'attendibile analisi architettonica, sono collocate cronologicamente negli anni compresi tra la metà del sec. 13° e i primi decenni del successivo. Così il palazzo del Capitano del popolo (1270 ca.-1282) con la torre civica, completata nel 1305, e il trecentesco palazzo dei Priori (Paul, 1963; Abate, 1986), ormai compromessi da ingenti quanto deleteri interventi di ripristino di inizio secolo (1926-1927), mentre il c.d. palazzo dei Consoli, di cui rimangono i muri basamentali in conci squadrati di pietra assisana e due bifore nei piani alti, non sarebbe altro che un edificio a uso privato. La maggiore articolazione del palazzo dei Priori è il risultato dell'accorpamento - avviato a partire dal 1337 - di tre nuclei edilizi disomogenei, segno di altrettante fasi di ampliamento. Da collegare a una sicura committenza pubblica è il Monte Frumentario (1267-1281), funzionante in origine come ospedale. Il passaggio di A. a una più stretta dipendenza dal papato, dopo la metà del Trecento, si riflette anche in un cambiamento del paesaggio urbano che vide la realizzazione - a iniziare dal 1362 - delle due rocche albornoziane nella parte alta dell'abitato. L'intervento, promosso dal cardinale Albornoz, rientrava in un più vasto disegno di militarizzazione della regione teso al controllo delle città di nuova riconquista e dei loro territori (Dupré Theseider, 1971) e, come per altre simili imprese, la direzione del cantiere assisiate venne affidata al conte Ugolino di Monte Marte, nella veste di rettore del ducato di Spoleto (Brizi, 1898). La rocca Maggiore, completata sul finire del Trecento durante la signoria di Biordo Michelotti e ristrutturata nei due secoli seguenti per meglio adattarla alle nuove esigenze belliche, e la rocca Minore, detta anche cassero di S. Antonio e documentata in piena efficienza nel 1385, presentano forti analogie nel nucleo principale, costituito da un semplice recinto quadrato, difeso da un'unica torre d'angolo in posizione leggermente avanzata, comprensivo all'interno di due ali abitative contigue raggiungibili da una scala esterna e di un piccolo cortile. La sovrapponibilità degli impianti sembra riconducibile, almeno per la fase progettuale, alla mano di uno stesso architetto, per il quale si è proposto anche il nome di Matteo Gattaponi.P.F. PistilliGli insediamenti dei primi Francescani in prossimità di A. hanno costituito poli di crescita architettonica e urbanistica per la città in età postmedievale, in conseguenza del valore di reliquia assunto dai luoghi della vita del santo fondatore dell'Ordine. Le connesse operazioni di ricostruzione e ampliamento hanno distrutto o trasformato le strutture quali si presentavano e furono elaborate al principio del Duecento, lasciandone in vista lacerti di difficile e comunque ipotetica interpretazione.Pur mantenendo nelle aggiunte successive, risalenti in prevalenza al sec. 16°, le forme dimesse e spoglie dell'architettura minoritica primitiva, il complesso di S. Damiano è cresciuto a partire da una piccola chiesa già ricordata nel 1030. Essa sembra corrispondere alla navata della chiesa attuale, ma la volta saliente a incerto andamento archiacuto viene indicata come prodotto del restauro apportato da s. Francesco nel 1207. Nel 1212, quando si insediò a S. Damiano il primo nucleo delle Povere Dame di s. Chiara, sarebbe stato aggiunto il soprastante stanzone coperto a capriate e illuminato da semplici finestre rettangolari, tradizionalmente denominato 'dormitorio di s. Chiara' e, ancora prima della metà del Duecento, il tratto orientale più basso, con abside leggermente fuori asse, della chiesa attuale, con il soprastante oratorio, pure absidato, che si lega mediante una scala al dormitorio (Romanini, 1986). Più difficilmente riferibili al primitivo convento femminile appaiono gli ambienti che si addossano ai lati est e sud di questo tratto orientale, tra i quali il 'coro di s. Chiara', mentre coeva forse alla chiesetta prefrancescana è l'aula del refettorio che vi si innesta perpendicolarmente a N, certo rimaneggiata in un successivo, difficilmente precisabile momento, soprattutto nella copertura a piatte crociere nervate.Una situazione analoga, benché ben testimoniata dalle fonti, è ormai appena intuibile a S. Maria degli Angeli, il grande complesso di basilica ed edifici conventuali che dal 1569 ha quasi totalmente cancellato un vasto agglomerato di piccole costruzioni sparse che si era formato da quando, nel 1209-1211, in quella località, denominata Porziuncola (nome derivante da un termine di uso catastale designante una piccola estensione di terra), s. Francesco e i suoi primi compagni avevano ottenuto dall'abate di S. Benedetto al Subasio una chiesetta con annessa abitazione. Benché alterata da rifacimenti nell'abside e in quasi tutte le aperture, la minuscola chiesa ad aula unica, oggi sorgente al centro del vano di cupola della basilica, è la sola costruzione superstite relativamente integra dell'età delle origini francescane e, con la copertura a botte ovoide inserita in rottura sui muri d'ambito (scoprendo in controfacciata i segni di una precedente volta a botte di più ribassato e regolare andamento archiacuto), conferma nelle modalità e nelle forme il restauro già visto in S. Damiano e testimoniato dalle fonti anche per la Porziuncola. Scavi condotti negli anni 1966-1967 sotto la basilica hanno rivelato una fitta rete di fondazioni (rilevate e fotografate; Canonici, Polidoro, 1970) di modesti edifici di epoche diverse e certo, almeno in parte, ripetutamente modificati e riadattati. Sono state conservate a vista, con la creazione di un'apposita cripta in cemento armato sotto il presbiterio, fondamenta e pavimentazione di un edificio che viene concordemente ritenuto la 'casa del Comune', secondo un altro episodio della vita del santo costruita a sua insaputa e contro la sua volontà dai cittadini di A. per uso dei frati nell'imminenza di un capitolo generale dell'Ordine, forse quello del 1221 divenuto famoso come il 'capitolo delle stuoie'. Si trattava di un edificio a pianta trapezoidale, costituito da un unico stanzone con segni di ampliamenti successivi e tracce di un primitivo sistema idrico. Quanto alla trecentesca cappella del Transito, insistente presso la Porziuncola, addossata al muro meridionale del coro della basilica, più recenti saggi praticati nello spessore del muro settentrionale e alla sua base (Righetti Tosti-Croce, 1986; Romanini, 1989b) hanno rivelato che ingloba un muro aperto da una porta ad arco pertinente a una modestissima struttura a destinazione agricola di età prefrancescana, identificabile con l'abitazione annessa alla chiesa concessa in uso ai primi Francescani e luogo in cui s. Francesco fu portato in attesa della morte. La cappella del Transito, costruita appunto in memoria dell'evento conservando come reliquia la porta dell'antica cella, avrebbe occupato non lo spazio della cella medesima, ma lo spazio aperto a essa antistante, dove, secondo la concorde testimonianza delle biografie, s. Francesco volle essere deposto in agonia.Le reliquie architettoniche di S. Damiano e della Porziuncola consentono dunque, sia pure in misura limitata e in via d'ipotesi, la verifica archeologica dei primordi francescani, in rapporto non solo alle vicende della leggenda del santo, ma a precise modalità insediative. Oltre all'assoluta modestia con palese valore di polemica antiarchitettonica - propria, in quanto tale, solo delle dimensioni degli insediamenti dell'età del santo - si tratta, anzitutto, del restauro di edifici concessi in uso ai frati, che resta una potenzialità costante dell'architettura francescana del Medioevo, e, in secondo luogo, del carattere aperto del convento francescano primitivo che, almeno nel sec. 13°, rifiuta il tradizionale modello monastico del blocco edilizio raggruppato intorno al chiostro in favore di tipi residenziali secolari, a cominciare dai più modesti esponenti dell'edilizia di pubblica assistenza o di destinazione agricola.Fu il culto dei due santi assisani fondatori del francescanesimo maschile e femminile, esploso subito dopo la loro morte e vigorosamente secondato dalle massime gerarchie della Chiesa, a rendere improvvisamente A. centro di risonanza europea. Ciò determinò una esuberante espansione della città sui riferimenti delle due grandi chiese sepolcrali subito edificate.La donazione di un primo appezzamento di terreno il 22 maggio 1228 (ampliato nel 1229 e 1246), la posa della prima pietra a opera di Gregorio IX il 17 luglio dello stesso anno (giorno successivo alla canonizzazione di s. Francesco), la traslazione del corpo santo dalla chiesa di S. Giorgio in A. - dove era stato deposto dopo la morte avvenuta il 3 ottobre 1226 - alla chiesa inferiore il 25 maggio 1230, la consacrazione degli altari celebrata da Innocenzo IV il 25 maggio 1253 sono i riferimenti cronologici salienti, non scarsi, ma non definitivi, per la costruzione della basilica di S. Francesco. Intorno a essi ruota una secolare discussione storico-critica, a tutt'oggi non sopita, che trova ragion d'essere nelle discontinuità di natura formale e statica tra le due chiese sovrapposte che compongono la basilica e nella singolarità della soluzione complessiva che riunisce, in apparente contrasto, la tipologia povera dell'aula unica, peraltro con ampio transetto, con la tipologia della chiesa doppia, resa illustre dalla tradizione dei monumenti memoriali e, ancor più, delle cappelle palatine.Mentre per il primo aspetto si è cercata spiegazione nel programmatico richiamo a chiese di comunità benedettine riformate sulla base di un rinnovato richiamo alla povertà evangelica (Wagner-Rieger, 1957-1958), il secondo trova evidente motivazione nella natura e funzione della basilica come chiesa sepolcrale e come cappella papale. Sin dalla prima donazione di terreno, il pontefice Gregorio IX se ne assumeva la proprietà in nome della Santa Sede, concedendola poi in uso ai frati nel mentre che la proclamava caput et mater del loro ordine (bolla Is qui del 22 aprile 1230), così come il convento annesso venne contestualmente fondato come palazzo apostolico (Di Mattia, 1966).La chiesa inferiore è un vano diviso in campate quasi quadrate, coperte da volte a crociera cupoliforme prive di archi longitudinali, ma con pesanti costoloni e archi trasversi a sezione rettangolare, impostate ad altezza d'uomo su tozzi pilastri a sezione triloba. Nella situazione originaria, la navata, illuminata da semplici monofore con arco a tutto sesto, simili a quelle ancora esistenti nell'abside - come documentano resti risparmiati dalle successive aperture delle cappelle -, era di tre sole campate con il coro a occidente dove sulla campata d'incrocio si innestano bracci di transetto coperti da volte a botte e abside semicircolare, larga quanto la navata e coperta a quarto di sfera. A oriente era chiusa da una parete - di cui sono state rimesse in luce le fondamenta in occasione del più recente rifacimento del pavimento (1947) - in corrispondenza del fascio di archivolti, ricadenti su pilastri palesemente rielaborati in irregolare andamento ovoide, che la stacca dall'attuale quarta campata, la cui volta a cinque vele, segnate da sottili costoloni ottagonali simili a quelli della chiesa superiore, si imposta in rottura sui muri d'ambito. Questi muri, coevi dunque alla chiesa inferiore, delimitavano un atrio che venne integrato alla navata nel contesto della costruzione della chiesa superiore, mentre il suo dilatamento nell'attuale transetto d'ingresso con una campata coperta da volta a crociera a S e una coperta da volta a botte (in mattoni) a N avvenne in tempi diversi e in prosecuzione della costruzione delle cappelle.Al linguaggio di radice padana e intonazione singolarmente arcaizzante che caratterizza la chiesa inferiore si adegua la torre campanaria che la affianca a S, a pesante canna quadrata con gli spigoli ribaditi da larghe paraste e le facce percorse da coppie di sottili lesene, tagliate da cornici marcapiano su file di archetti. Bifore e trifore a strette luci centinate su colonnine forano i piani inferiori. Conviene a una struttura del genere la data del 1239, anno di acquisto delle prime campane, mentre una sopraelevazione di poco posteriore si può considerare l'attuale cella campanaria (Poeschke, 1985), aperta da slanciate arcate leggermente archiacute e coronata in origine da una cuspide ottagonale, demolita nel sec. 16°, di cui restano l'anello d'imposta e i raccordi angolari a trombe.Lo spessore dei muri e le massicce basi cubiformi dei contrafforti cilindrici esterni indicano che la chiesa inferiore fu concepita come sostruzione per un edificio sovrastante. Ma lo scarto di linguaggio e struttura che essa presenta rispetto alla chiesa superiore mostra con altrettanta evidenza che la chiesa superiore corrispose a una revisione del progetto in esecuzione. Slanciata e luminosa, essa è divisa in campate grosso modo corrispondenti a quelle sottostanti, più un breve atrio interno, coperto a botte archiacuta che corrisponde a una sottostante struttura cava di contenimento del terrapieno della piazza. Sia nella navata sia nel transetto è coperta da volte a crociera a salita piatta, con sottili costoloni e archi trasversi dallo svelto taglio ottagonale, su pilastri composti da snelli fusti cilindrici attornianti un nucleo pieno. A un terzo dell'altezza il muro si riduce in spessore, determinando un passaggio che circonda all'interno il vano dilatandone illusivamente la spazialità e staccando la figura strutturale delle campate a crociera dalle pareti d'ambito mediante profondi fornici funzionanti come archi longitudinali di volta e collegamenti con i contrafforti esterni. Sull'asse dei lunettoni così formati si aprono finestre archiacute a due lancette e quadrilobo conclusivo. Le stesse forme definiscono il vano absidale che spezza in andamento 5/10 il semicerchio dell'abside sottostante, mentre nelle testate dei transetti ampie quadrifore raddoppiano e arricchiscono il disegno delle bifore di navata e coro.Alla statica, che applica il sistema del mur épais nelle forme sviluppate dall'architettura gotica principalmente della Champagne (Héliot, 1968), corrisponde il dettaglio della plastica architettonica nelle slargate basi a piatto su plinti ottagonali dei pilastri, nei trafori delle finestre e nei capitelli a crochet vegetali che sembrano collegarsi a forme caratteristiche del coro e transetto della cattedrale di Reims. All'esterno il muro è figurativamente risolto nel valore di astratta pagina parietale, priva di elaborazioni plastiche ed esaltata cromaticamente dall'alternanza tra i toni bianchi e rosati della pietra del Subasio, mentre il ricorso a forme e strutture proprie della contemporanea architettura francese appare superato nel corso della costruzione della facciata che, dopo il prezioso inserto del portale, gotico nel disegno a doppia apertura triloba e nella plastica architettonica, sembra tornare alla tradizione romanica specificamente umbra nel compatto schema a capanna, nella decorazione cosmatesca del rosone, nella pesante scultura dei simboli degli evangelisti che lo inquadrano e delle fantastiche forme animali e vegetali che animano la prima cornice marcapiano.Come architetto (o architetti) della chiesa sono stati proposti frate Elia da Cortona (Mariano da Firenze, Compendium chronicarum fratrum minorum, 1522), Jacopo o Lapo Tedesco (Vasari, Le Vite, a cura di Milanesi, 1878, p. 279 ss.), Jacopo Tedesco e Filippo da Campello (Angeli, 1704), Filippo da Campello e Paolo Luprandi (Thode, 1885), maestri comacini (Merzario, 1893), Giovanni da Penna (Sacconi, 19032; Venturi, 1908), ciascuna proposta essendo stata variamente ripresa e confutata. Ma si tratta di questione a tutt'oggi aperta, così come la cronologia della costruzione - e modificazione o meno del progetto d'origine - sulla quale le ipotesi avanzate sono ben più numerose e articolate (Cadei, 1988; 1989), sebbene - tolte alcune punte più estreme e discutibili, in quanto basate su interpretazioni forzate dei dati archeologici (Supino, 1924; Rocchi, 1982) - sostanzialmente riconducibili a due principali eventualità. La prima chiude tutta la costruzione tra il 1228 e il 1239, anno in cui veniva costretto a deporre la carica di ministro generale ed espulso dall'Ordine frate Elia da Cortona, che i documenti noti indicano non certo architetto, ma amministratore dell'impresa come fiduciario di papa Gregorio IX. La chiesa inferiore sarebbe stata compiuta al momento della traslazione nel 1230, mentre la consacrazione del 1253 sarebbe stata una cerimonia di circostanza, motivata dalla presenza ad A. di papa Innocenzo IV. L'altra ipotesi considera invece la data della consacrazione come termine applicabile al sostanziale compimento dei lavori e prolunga fino al 1239 la costruzione della chiesa inferiore. I riferimenti goticizzanti del sistema statico e della scultura architettonica della chiesa superiore, di fatto inconciliabili con un progetto che coerentemente includa la chiesa inferiore, si inscrivono piuttosto nell'ambiente di cultura transalpina che informa anche le prime fasi della decorazione della chiesa superiore, per il quale gli anni immediatamente successivi alla metà del Duecento sono il riferimento cronologico più plausibile.La storia architettonica successiva riguarda le cappelle che attorniano la chiesa inferiore (e ne hanno modificato in misura rilevante assetto e decorazione) e il complesso delle piazze e del convento, che ha assunto l'aspetto e l'estensione attuali nel corso di due secoli e mezzo di lavori ininterrotti, conclusi dalle opere di modernizzazione e consolidamento volute da papa Sisto IV negli anni 1472-1487.Nemmeno per le cappelle è disponibile una documentazione circostanziata: la loro costruzione si deve ritenere successiva a quella di elementi che esse presuppongono esistenti, come le basi dei rampanti esterni aggiunti al sistema statico della basilica probabilmente dopo un terremoto del 1279 e come la sacrestia menzionata per la prima volta nel 1284. Ciascuna cappella è poi documentata esistente dai patrocini privati che ne hanno curato decorazione e arredo, a cominciare da quelli di Giangaleazzo e Napoleone Orsini che per le due cappelle alle estremità del transetto porrebbero un ante quem agli anni 1300-1310, seguendo con quello del cardinale Gentile da Montefiore (m. nel 1312) per la cappella di S. Martino e della famiglia assisiate degli Aromatari (ante 1341) per la cappella di S. Andrea del lato sud, di Teobaldo Pontano, vescovo di A. dal 1296 al 1326 per la cappella della Maddalena, prima del fianco nord. Alla successiva cappella di S. Antonio da Padova fa riferimento un legato testamentario del 1341, mentre mancano dati per la cappella di S. Luigi, ultima del lato settentrionale. Datate con maggiore precisione sono le due cappelle che prospettano sul transetto d'ingresso: risale al 1360 quella di S. Antonio Abate fondata da Vagnuzio di Francesco e al 1362 quella di S. Caterina, patrocinata dal cardinale Egidio di Albornoz. In quegli stessi anni si deve collocare il braccio di transetto sul quale si aprono.Iniziato quasi certamente insieme con la basilica, il convento condivide nelle sue parti più antiche il severo, scarno linguaggio della chiesa inferiore, applicato a un genere di struttura che sembra rifarsi a modelli di architettura civile, pubblica o persino militare, più che monastica. Il nucleo originario è identificabile nell'ala settentrionale per una lunghezza, in sviluppo E-O, che corrisponde al chiostro detto di Sisto IV, ivi compreso lo spessore dell'ala di edificio che lo chiude a E. Isolato dal contesto del convento, questo tratto di edificio assume la fisionomia di un lungo palazzo con un piano allineato al livello della chiesa inferiore che contiene, nel tratto più largo adiacente alla chiesa, la sala capitolare quadrata di quattro campate coperte da volte a crociera nervata ricadenti mediante larghi archi trasversi su paraste a muro e un grosso monolite rotondo centrale con rozzo capitello a foglie lisce. Segue una lunga sala oggi divisa in due ambienti disuguali, voltata a botte ribassata ritmata da sottarchi e aperta su ambedue i lati da monofore centinate. Una sala analoga (oggi ospitante il museo e analogamente suddivisa), più alta e illuminata da due ordini di monofore, occupa il piano superiore. Aveva quasi certamente copertura lignea (le volte attuali sono del sec. 18°) e la funzione di appartamento pontificio. Non pare avere avuto collegamenti con il piano sottostante e si sono persi segni di eventuali accessi autonomi. Il piano intermedio si collega invece mediante una scala in spessore di muro sul lato settentrionale a una serie di ambienti sottostanti coperti da botti o piatte crociere nervate che su livelli diversi, determinati dallo scoscendimento del terreno roccioso, accompagnano per ca. 3/4 lo sviluppo dell'edificio. Dell'allestimento conventuale primitivo faceva verosimilmente parte il tratto di edificio a O del chiostro che fu realizzato - o che rifacimenti successivi hanno risparmiato - limitatamente al piano inferiore, con caratteristiche analoghe al piano inferiore del tratto settentrionale. L'irrigidimento a contrafforti dei lati esterni e l'allargarsi a torre delle testate conferivano a questi edifici l'aspetto di dimora fortificata, impostando costanti architettoniche rimaste dominanti negli ampliamenti successivi del complesso conventuale.L'impronta civile delle costruzioni primitive, non organizzate intorno a un chiostro (i documenti più antichi le designano come palatium, così come chiamano pratum lo spazio tra esse e l'abside della basilica), venne riassorbita nel lungo processo di ampliamenti, rifacimenti e riadattamenti, in una situazione di cantiere costantemente aperto che è durata almeno sino alla definitiva chiusura del blocco edilizio così come oggi appare, cominciata con i numerosi acquisti e lasciti di terreni circostanti la basilica documentati nel 1259 e conclusa nell'ultimo quarto del 15° secolo. Anche se solo nel 1360 avvenne la chiusura a chiostro colonnato dello spazio retrostante la basilica, il complesso doveva configurarsi per intero nei volumi attuali allo scadere del 14° secolo. Per pochi altri edifici o interventi attuati fino al 1400 soccorrono attestazioni documentarie, ma una recente rilevazione sistematica del Sacro Convento (Il Sacro Convento, 1988) ha individuato in modo quasi sempre plausibile le fasi costruttive anche di età medievale.A. CadeiL'arredo medievale della basilica è in parte conservato, in parte ricostruibile con l'aiuto di notizie storiche.Secondo Giuliano da Spira (Vita S. Francisci), già nel 1230, in occasione della traslazione del corpo del santo alla nuova basilica, il papa Gregorio IX avrebbe mandato una croce-reliquiario e vari arredi d'altare. Sembra che poco dopo, ancora in costruzione, la chiesa possedesse già tutto il necessario per celebrazioni solenni. L'inventario del 1338 (Alessandri, Pennacchi, 1914, p. 78, nr. 46) cita un altro dono di Gregorio IX, un altare portatile, arredo importantissimo per una chiesa non consacrata, forse lasciato alla basilica nel 1235 quando, secondo Tommaso di Eccleston (Tractatus de adventu), il papa celebrò nel giorno della festa di s. Francesco la messa all'aperto "quia non potuit esse in ecclesia prae multitudine populi". L'inventario del 1338 cita pure fra i dossali per gli altari maggiori tre panni mandati dall'imperatore dei Greci, due dei quali esistono tuttora; si tratta di ricami probabilmente siciliani della prima metà del Duecento. È assai probabile che il donatore sia identificabile con Giovanni di Brienne, morto nel 1237 e sepolto nella stessa basilica (Bonito Fanelli, 1980, pp. 79-81). I dossali hanno tuttora la grandezza sufficiente per coprire tre lati dell'altare maggiore della chiesa inferiore e, prima che esso assumesse la forma attuale, avrebbero potuto rivestire del tutto un eventuale altare provvisorio. Nel 1236 Giunta Pisano firmò una croce, oggi perduta, dipinta su commissione di frate Elia da Cortona, rappresentato egli stesso ai piedi del crocifisso. Dal 1513 al 1623 la croce si trovava sopra la trave del tramezzo della chiesa superiore (Rotondi, 1927; Documentazioni di vita assisana, 1974-1975, II, p. 1024), ma probabilmente era originariamente destinata alla chiesa inferiore.Nel 1253 Innocenzo IV consacrò la basilica di S. Francesco e gli altari, fra i quali erano senz'altro quelli maggiori delle due chiese sovrapposte. Rimane aperta la questione se l'altare sopra la tomba del santo possa aver avuto già allora la forma attuale. In gran parte le colonnine sembrano della fine del Duecento, ma devono averne sostituite altre simili, se è databile al 1260 ca. la tavola del Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco con il santo e quattro scene di miracoli, due delle quali fanno vedere la struttura dell'altare a colonnine con archetti (Il Tesoro, 1980, tavv. XVI-XVII). Non si hanno notizie sicure se già nel Duecento uno degli altari potesse essere riservato al papa e al suo legato. L'altare maggiore della chiesa superiore, dedicato alla Natività della Vergine, venne spostato più volte e la decorazione a mosaico rifatta nel 1940, pur rispettando il disegno originale; la parte scultorea è assai ben conservata; i capitelli ricordano quelli del rosone della stessa chiesa e seguono un tipo noto anche a Roma. Potrebbe essere opera di una maestranza romana della metà del Duecento, visto che anche il disegno dei mosaici trova riscontri nella città papale. L'altare di S. Michele nel transetto sud della chiesa superiore costituisce un buon esempio di come dovevano essere gli altari minori duecenteschi, in gran parte sostituiti già ai primi del Trecento dagli altari delle nuove cappelle.S. Bonaventura (Legenda Maior) parlò del pulpitum di pietra davanti all'altare di S. Francesco a proposito di un miracolo avvenuto prima dell'elezione di Alessandro IV (dicembre del 1254). A tale opera, distrutta intorno al 1300 per l'ampliamento della chiesa inferiore, sono riferibili le lastre con decorazione a mosaico reimpiegate per rivestire la tribuna della cappella di S. Stanislao e la parte bassa delle pareti intorno all'altare della Maddalena. Un attento esame del materiale erratico permette una ricostruzione approssimativa di quello che dovrebbe essere stato uno jubé con il piano superiore praticabile per tutta la larghezza della navata, lavorato forse da una maestranza umbra poco prima del 1254 (Hueck, 1984). Il posto originario di questa suddivisione della chiesa è segnato da due piccoli armadi in spessore di muro nell'ultima campata della navata, accanto ai quali dovevano essere due altari posti sul piano superiore dello jubé.Si è conservata la croce dipinta su due facce (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), opera del Maestro dei Crocifissi Blu, un umbro forse attivo non molto dopo la metà del Duecento. Scarpellini (1980, p. 39) cita in proposito l'inventario del 1600, il quale ricorda che "diece croce di legno depenti col crocefisso indorati, sono agli altari" ed è possibile che in quel numero fossero comprese sia la croce conservata ad A. sia quella più piccola dipinta dalla stessa mano e portata da A. a Colonia nel sec. 19° da Ramboux. La croce più grande potrebbe essere stata sospesa sotto la volta vicino all'altare maggiore della chiesa inferiore. Non è detto che gli altri crocifissi su fondo oro dell'inventario del 1600 fossero anch'essi duecenteschi. Per altari laterali addossati al muro era consueto il crocifisso affrescato, poco costoso, e un numero elevato di croci dipinte su legno diventava necessario solo per le cappelle trecentesche.Il trono papale nell'abside della chiesa superiore sta a significare che la basilica è direttamente sottoposta alla Santa Sede. Il gradino è decorato da un rilievo con aspide, basilisco, leone e drago e nell'iscrizione viene citato Sal. 90 (91), 13, con evidente riferimento al vicario di Cristo. Per le analogie con la cattedra di S. Giovanni in Laterano, rinnovata al tempo di Niccolò IV (1288-1292), è stato discusso dalla critica se la cattedra di A. fosse servita da modello per la commissione romana del primo papa francescano o se invece ambedue i troni riprendessero la simbologia da una precedente cattedra della basilica Lateranense. Nel trono di A. la forma dei capitelli e la decorazione a gattoni gotici non trova riscontri convincenti con opere della metà del Duecento. Il baldacchino dovette essere messo in opera prima che Cimabue e la sua bottega dipingessero la parte contigua, ma potrebbe aver ragione Poeschke (1985, p. 64) secondo il quale trono e dipinti furono eseguiti quasi contemporaneamente nel 1280 circa; in tal caso l'aggiunta del trono potrebbe essere connessa con la bolla Exit qui seminat del 14 agosto 1279 (Bullarium Franciscanum, 1759-1768, III, pp. 404-416, nr. CXXVII), con la quale Niccolò III prese in possesso della Santa Sede i beni dell'Ordine dei Francescani.Fra i numerosi arredi sacri offerti alla basilica da personaggi altolocati basta citare i doni del primo papa francescano, Niccolò IV, per l'altare di S. Francesco. Il più prezioso era l'"aurifrisium cum ystoria beati Francisci", perduto; si è invece conservato il calice firmato da Guccio di Mannaia, famoso per gli smalti traslucidi che costituiscono anche il primo programma iconografico chiaramente francescano nel campo dell'oreficeria.La decisione di togliere dalla chiesa inferiore lo jubé e di ampliare la basilica con cappelle laterali, comportò la modifica di gran parte degli altri arredi. A giudicare dalla rappresentazione duecentesca sulla tavola con S. Francesco e quattro miracoli conservata nel Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco (Il Tesoro, 1980, tavv. XVI-XVII), l'altare maggiore in un primo tempo non era sopraelevato su una serie di scalini. Per lungo tempo si è creduto che tale sopraelevazione fosse avvenuta ai tempi di Sisto IV, ma c'è da chiedersi se la presenza di colonnine tardoduecentesche fra quelle dell'altare non sia un indizio che sopraelevazione e ristrutturazione fossero avvenute ai primi del Trecento. La decisione di togliere lo jubé poteva derivare dalla necessità di rendere visibile dalla navata l'altare di S. Francesco, meta dei pellegrini. L'altare aveva una recinzione con colonne e trabeazione, descritta da fra' Ludovico da Pietralunga (Descrizione della Basilica, a cura di Scarpellini, 1982, pp. 49-50). Una vecchia fotografia mostra la recinzione nella ricostruzione arbitraria di Cavalcaselle nella chiesa superiore. Oggi ne rimane, nel lapidario del Chiostrino dei Morti, solo qualche capitello e un frammento della trabeazione con l'incavo per la decorazione musiva. Scarpellini (ivi, p. 259) considera i reperti ancora duecenteschi. I capitelli del repertorio classicheggiante hanno una fattura più carnosa e più morbida rispetto a quelli realizzati dal tardo Duecento in poi per le cappelle della basilica. Può darsi che la recinzione fosse stata eseguita poco prima della distruzione dello jubé in previsione della necessità di un'altra protezione effettiva della zona intorno all'altare di S. Francesco. La tribuna della cappella di S. Stanislao, costruita probabilmente nei primi del Trecento con materiale proveniente in gran parte dallo jubé, sostituiva quest'ultimo nella sua funzione di pulpito.Nel tardo Duecento, quando fu dipinto il ciclo di S. Francesco nella chiesa superiore, doveva già esistere la trave del tramezzo del quale si vedono ancora le mensole inserite nella prima e nell'ultima scena. È assai probabile l'ipotesi secondo la quale su di esso dovevano essere collocate, oltre al crocifisso, tavole con la Madonna e il Bambino e con S. Michele, in riferimento alla dedicazione degli altari, come si vedono nella scena dell'Accertamento delle stimmate del ciclo francescano.Il pulpito della chiesa superiore, addossato al pilastro d'angolo di sinistra fra navata e transetto, sembra un'opera del secondo quarto del Trecento, in ogni modo posteriore al 1317, poichè che fra i santi francescani è rappresentato S. Ludovico di Tolosa. Forse fu rinnovato nello stesso periodo anche il coro della chiesa superiore, il quale all'epoca doveva essere considerato moderno se, secondo un documento del 1349, i suoi stalli servirono da modello per il coro di S. Rufino (Documentazione, 1974-1975, I, p. 105).I. HueckOltre l'arredo liturgico, è conservato in S. Francesco un gruppo di monumenti funebri del sec. 14°, di differente qualità, tutti nella chiesa inferiore. Nonostante i tentativi di attribuzione, gli autori di queste opere restano anonimi. Il monumento Cerchi, nella campata iniziale dell'atrio, è probabilmente una memoria, come altri presenti nella vicina chiesa di S. Pietro, quali la tomba Soldano (Hueck, 1990). Il sarcofago è sostenuto da cinque mensole e la fronte è suddivisa in specchi marmorei su cui campeggia lo stemma di famiglia (tre cerchi bianchi su fondo blu), divisi da colonnine tortili staccate dal piano di fondo. Nella parte superiore un baldacchino con terminazione a timpano e dalla cornice molto aggettante racchiude un arco acuto trilobato. Databile entro i primi cinque anni del Trecento (Hueck, 1990), il monumento Cerchi era stato riferito da Venturi (1908) al maestro del portale della chiesa inferiore, ma è possibile che sia opera delle maestranze tudertine che iniziarono la costruzione delle cappelle. Accanto a questo si trova un monumento inquadrato in un'architettura pure con coronamento a timpano, inserita in una sorta di nicchia ricavata nella parete di fondo. Si innalza su un basamento di porfido ed è composto da uno zoccolo con cornici a dentelli e ovoli sulla cui faccia anteriore sei piccoli tabernacoli, suddivisi da pilastrini a sezione quadrata, sono decorati con lo stesso stemma (uno scudo con croci entro cerchi affiancati da quattro piccole croci in ciascuno dei quarti). All'estremità della parte anteriore e ai lati del basamento vi sono figure di apostoli entro nicchie. Sul basamento si trova il giacente, la cui figura non presenta in tutte le sue parti le stesse condizioni di conservazione (le gambe sono molto corrose). Davanti a esso due angeli, spostati eccessivamente in basso rispetto al defunto, scostano le cortine. Nell'ultima zona si trovano una Madonna con Bambino - il trono è appoggiato su una porzione di muro in cui sono ancora visibili tracce di un affresco precedente alla sistemazione del monumento - sulla destra e una figura coronata con le gambe accavallate seduta su un leone sulla sinistra. Il monumento, che costituirebbe il cenotafio di Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme (m. nel 1237; Gerola, 1931), non si trova nel luogo per cui era stato previsto, infatti la volta non è sufficientemente alta e si è dovuto spezzare uno dei pinnacoli: forse in origine si trovava nella navata prima che fosse aperta la cappella della Maddalena (Hertlein, 1966). Il personaggio coronato, in atteggiamento di giudice accanto alla Madonna, non rappresenterebbe il defunto ma Cristo, cosa che chiarirebbe la posizione non subalterna della statua rispetto a quella della Vergine (Hertlein, 1966). Diversa è l'opinione di Mertz (1965), secondo il quale la figura seduta e il leone non farebbero parte del monumento originale. Per ciò che riguarda l'area di provenienza dell'artista, si è sempre posto l'accento sulla sua formazione nordica e gotica (Toesca, 1951; Hertlein, 1966), forse portata a compimento in ambiente italiano (Venturi, 1908; Valentiner, 1951; Hertlein, 1966).Altri due monumenti sepolcrali, ad arcosolio, molto simili tra loro e di non grande qualità, si trovano nella cappella di S. Antonio Abate, quelli di Blasco e García Fernández, della famiglia di Albornoz, uccisi a Piediluco nel 1367 (Cristofani, 1866). I sarcofagi sono sostenuti da leoncini su mensole e decorati con gli stemmi della famiglia. Sono stati attribuiti senza fondati motivi a Vico, un lapicida che all'epoca lavorava per il convento (Supino, 1924).Nella cappella di S. Nicola, all'estremità del braccio destro del transetto, si trova il monumento funebre di Giovanni Gaetano Orsini - quasi sicuramente il fratello di Napoleone, che fu probabilmente committente del monumento - morto durante il conclave del 1292-1294 (Supino, 1926-1927). Il giacente è rappresentato come un giovane chierico e posto entro una nicchia, ai lati due angeli scostano le cortine osservando il defunto. Per la tipologia esso mostra una forte dipendenza dal sacello di Bonifacio VIII, dal quale riprende il concetto di cappella funeraria (Gardner, 1973; 1979), tuttavia l'avvicinamento ad Arnolfo appare più difficile dal punto di vista stilistico. Infondata l'attribuzione ad Agnolo di Ventura (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 129), anche quella fatta da Venturi (1906; 1908) a Giovanni di Cosma appare superata (Romano, 1990). Hueck (1983) si è recentemente interessata dell'unica lastra tombale trecentesca rimasta nella basilica, quella di Hugo de Hertepol (m. nel 1302), che mette in relazione con un'opera molto simile in S. Benedetto al Subasio e con la figura di S. Chiara di Simone Martini nella stessa basilica. La lastra, che sembra ispirarsi alla tecnica degli smalti, potrebbe risalire al 1330 ca. (Hueck, 1990).M.E. SaviLa costruzione della chiesa e del convento di S. Chiara ricalca, nelle modalità e vicende, quasi come schema collaudato, quanto era avvenuto per S. Francesco che della nuova costruzione è stata anche il modello architettonico diretto ed esclusivo.Anche la fondatrice dell'Ordine delle Clarisse (allora soltanto Povere Dame di S. Damiano), subito dopo la morte avvenuta l'11 agosto 1253, fu tumulata nella chiesa di S. Giorgio, posta all'estremità sudorientale dell'abitato di A., di poco esterna alla cinta muraria. Alla metà dell'agosto 1255 Chiara veniva proclamata santa ad Anagni e in quello stesso anno la trattativa di permuta tra S. Giorgio, dove le Clarisse aspiravano a stabilirsi, e la loro sede di S. Damiano è documentata in corso da una bolla di papa Alessandro IV. La resistenza dei canonici di S. Rufino, proprietari di S. Giorgio, poté essere superata con l'intervento dell'abate di Farfa, che nel 1256 donò alle suore la chiesa di S. Giacomo de muro rupto con le sue pertinenze che l'abbazia possedeva ad A. perché la usassero come contropartita di scambio più appetibile della misera proprietà di S. Damiano. Documento chiave è un arbitrato del 20 aprile 1257 che perfezionava la transazione e che venne reso operante dal papa il 9 luglio dello stesso anno e confermato con la bolla Inducunt nos vestrae del 10 maggio 1259. Da alcune espressioni del documento e dal fatto che alcune suore si trasferissero a S. Giorgio già nel 1257 si evince che era allora già in atto la riedificazione delle antiche strutture in chiesa e convento di S. Chiara. Il 2 ottobre 1260 i resti della santa erano traslati nella nuova chiesa che Clemente IV consacrava il 6 settembre 1265. La rapidità del processo di canonizzazione e la presenza e pressione dell'autorità pontificia in tutti gli atti essenziali per la costruzione del santuario indicano come, in analogia con S. Francesco, nel papa si debba identificare il committente dell'impresa. La chiesa superiore di S. Francesco fu il modello architettonico per S. Chiara, che ne replica, anzitutto, l'articolazione cruciforme della pianta: navata unica di quattro campate quasi quadrate con incrocio e transetti formati da campate uguali e abside poligonale 5/10 aperta direttamente sull'incrocio. Simile a quello della chiesa superiore ma nettamente semplificato è l'alzato, in cui pilastri a muro di tre elementi lungo la navata e cinque sull'incrocio impostano volte a crociera con costoloni piriformi separate da archi trasversi a sezione ottagona. Nell'articolazione di parete il muro massiccio sale continuo sino all'attacco delle volte, dove una cornice su mensole, allineata ai capitelli dei pilastri, gira tutto intorno alla chiesa. Lo svuotamento del muro e il passaggio continuo si determinano solo entro le lunette di volta, contenute da profondi fornici con funzione di archi longitudinali e aperte da monofore archiacute sugli assi delle campate. Il vano ricco di suggestioni di profondità illusiva e calcolate spezzature della chiesa superiore di S. Francesco, caratterizzato dall'instabile e dinamico equilibrio tra vuoti e pieni, pareti e membrature, viene tradotto, in S. Chiara, in immagine spaziale statica e chiusa, contenuta dallo svolgersi compatto di pareti ritmate da membrature architettoniche con funzione di profilature. Similmente la plastica architettonica riduce le effusioni vegetali goticizzanti dei capitelli di S. Francesco in lisce e scarne forme di crochets, assimilate otticamente alla cesura orizzontale della cornice, che riquadra il vano secondo intenzionalità spaziali di tradizione romanica umbro-laziale.All'esterno semplici contrafforti, semiottagonali a N, rettangolari a S, ritmano i fianchi, mentre il prevalere di un ritorno a valori di tradizione locale è particolarmente evidente nell'uniforme trattamento a fasce di delicata bicromia (pietra bianca e rosata del Subasio) e nella facciata cuspidata, calibrata in larghe e lisce specchiature da cornici su mensole, con le tre aperture in decrescendo del portale strombato a tutto sesto, del rosone e dell'oculo del timpano. A S. Chiara sembra essere toccato il ruolo di traduzione dell'internazionalismo linguistico e strutturale della chiesa superiore di S. Francesco nella più scarna parlata, caratterizzata da un ampio recupero di forme e tradizioni locali, propria della successiva generazione di architettura mendicante in Umbria.Aggiunte successivamente e forse non in una unica campagna di lavori sono le tre coppie di rampanti a quarto di cerchio entro profondi setti murari che contengono le campate più occidentali di navata; dei tre archi a S, oggi privi di risalto visivo perché affogati nelle strutture del convento, l'intermedio è datato al 1351 da un'iscrizione in situ. Risale forse all'inizio del sec. 14° la cappella di S. Agnese, a pianta 5/8, che si affaccia sul lato settentrionale della campata di navata prossima all'incrocio, mentre di problematica datazione sono gli annessi che accompagnano il fianco meridionale: la cappella del Sacramento (o di S. Giorgio) di una campata all'angolo con il transetto, la successiva di due campate con funzione di coro delle monache e la sacrestia corrispondente alla campata occidentale della navata. Dopo la consacrazione, lavori alla chiesa e al convento sono documentati in corso da legati testamentari del 1315, 1335, 1342, 1344, ma una opportuna valutazione archeologica è ostacolata per le costruzioni del fianco meridionale, dai ripetuti rimaneggiamenti - radicale soprattutto uno del principio del nostro secolo - cui quei vani, cruciali per il difficile rapporto tra destinazione pubblica del santuario e disciplina di stretta clausura che regola il convento, sono andati soggetti.Degli antichi arredi della chiesa merita attenzione la recinzione dell'altare maggiore che, sia nelle colonne ottagone con capitelli fogliati e basi attiche sia nelle grate in ferro schermanti gli intercolumni, sembra manufatto databile ai primi anni del sec. 14°, oggi peraltro in situazione di rimontaggio che ne ha radicalmente alterato l'originario allestimento a sbarramento tra navata e capocroce.L'ininterrotto regime di clausura in cui sono vissute le monache sin dalla prima occupazione del monastero ha impedito sino a oggi la ricognizione delle strutture architettoniche del convento. Dal solo esame delle planimetrie sembrano pertinenti alla costruzione originaria, o comunque di età medievale, i tratti di fabbrica orientale e meridionale dei tre che con la chiesa formano il quadrilatero del convento. Come gli edifici conventuali originari di S. Francesco, anche questi sembrano adeguarsi a tipi residenziali semifortificati, robustamente contraffortati sui lati esterni. Sono significative, in questo senso, le denominazioni di palatia dominarum (1252) o novum palatium dominarum (1342) con cui il convento viene indicato nella documentazione più antica, non meno della circostanza per cui un vero e proprio chiostro porticato non ha mai preso forma.Un breve di Urbano IV del 1263 che incaricava il custode di S. Francesco di indagare su una supplica delle suore di S. Chiara, intesa a spostare la cappella di S. Giorgio preesistente al nuovo convento e di intralcio alla sua costruzione, sembra indicare che l'antica chiesetta, prima sede delle prestigiose spoglie dei fondatori di Francescani e Clarisse, sia stata demolita ancora entro il 13° secolo. Tentativi di individuarne resti sono stati comunque avanzati prendendo in esame sostruzioni degli annessi meridionali della chiesa, o, in alternativa, della cappellina insistente nell'angolo nordorientale del cortile interno del convento. Resti dell'ospedale S. Giorgio sussistono forse nel blocco di modesti edifici della foresteria esterni alla clausura all'estremità del braccio orientale del convento, dietro l'abside della chiesa e il campanile, costruito nel 1926 ma, pare, su fondamenta antiche.
La decorazione della basilica di S. Francesco cominciò con le vetrate. Se ne ebbe anche la chiesa inferiore originaria (Kleinschmidt, 1915-1928, II), esse sono totalmente perdute, ma già in esecuzione erano probabilmente quelle della chiesa superiore l'11 luglio 1253, quando, a poco più di un mese dalla consacrazione degli altari, papa Innocenzo IV rilasciò a fra' Filippo da Campello un privilegio che lo autorizzava a raccogliere offerte agli altari perché la chiesa potesse essere terminata nella parte architettonica e fornita di una decorazione insigne.Attualmente il complesso delle vetrate della chiesa superiore è il risultato di un ripristino degli anni Venti (Le vetrate, 1973), dopo secoli di danni e restauri, perdite, reintegrazioni e spostamenti (Giusto, 1911), spesso del tutto arbitrari, che hanno lasciato segni evidenti, ma che, con le inevitabili incertezze che la situazione induce, sembrano non poter nascondere profondi mutamenti apportati al programma iconografico già in corso d'opera.Le vetrate delle tre bifore del coro raffigurano Infanzia (a sinistra; originaria solo la prima scena in alto con il Crollo degli idoli in Egitto, le altre reintegrazioni ipotetiche del 1928), Vita pubblica (al centro) e Passione e Apparizioni di Cristo sino all'Ascensione (a destra; reintegrate nel 1928 Crocifissione e Seppellimento) sempre nella lancetta di destra, accompagnate nella sinistra da prefigurazioni veterotestamentarie, tutte nella sostanza originarie. Esse applicano un metodo espositivo basato sulla concordanza tra eventi o personaggi dell'Antico e del Nuovo Testamento (v. Tipologia) derivante da cicli di illustrazioni di alcuni tipi di manoscritti dell'area transalpina dei decenni immediatamente precedenti e seguenti il 1200 (Haussherr, 1978).Nel transetto meridionale il finestrone reca due lancette con Storie della Genesi e dei progenitori sino al Pianto di Caino sul corpo di Abele e due che presentano figure di sante vergini in trono sotto baldacchini; la quadrifora del transetto settentrionale affianca invece una lancetta con Apparizioni di Cristo a una con Apparizioni angeliche o interventi soprannaturali dell'Antico Testamento che sembrano proseguire, nella tematica e nel metodo, il programma delle vetrate del coro, pur non mostrando corrispondenze, nei soggetti specifici, con cicli tipologici transalpini. Le altre due lancette recano motivi di ruote contenenti otto petali. Solo parzialmente manomesso è il rosone alla sommità, con una grande Ascensione tra angeli e profeti, mentre nel rosone corrispondente a S sono originali solo un tondo con il profeta Geremia e i due quadrilobi minori con la Vergine tra profeti alludenti alla venuta di Cristo e Cristo adorato dai ss. Francesco e Antonio. Quest'ultima figurazione è l'unico indizio di una possibile integrazione della storia del francescanesimo primitivo alla tematica escatologica che sembra accomunare i vetri di transetto e coro (Cadei, 1983).Analogamente monco, da un lato, e complicato, dall'altro, da nuclei iconografici apparentemente incoerenti è il complesso vetrario della navata, che alla tematica escatologica del santuario giustappone la tematica apostolica. Le prime tre finestre - contando dal coro - del lato nord e le prime due del lato sud sono dedicate agli apostoli (mancano Pietro e Paolo), rappresentati in piedi sotto baldacchini nel terzo inferiore di ogni lancetta, in modo da formare coppie dialoganti all'interno di ogni finestra. Ma solo nelle due bifore mediane del lato nord alle figure (Ss. Giovanni Evangelista e Tommaso, Bartolomeo e Matteo) sono coordinate le storie rispettive nel tratto superiore della lancetta che, nelle altre, è completata con grandi motivi di palmette inscritte in quadrati od ovoidi lobati. Una vetrata di impianto analogo con figure e storie dei ss. Francesco e Antonio completa la serie del lato nord. Le vetrate delle prime due finestre dopo l'ingresso del lato sud recano invece: la prima, la Glorificazione di s. Francesco che compare sul petto di Cristo come Cristo sul petto della Vergine nella lancetta a fianco, sormontati da sei figure d'angeli alludenti forse alle gerarchie angeliche, o forse agli angeli che aprono i primi sigilli (Ap. 4, 5-6); la successiva, venti figure di profeti e santi della gerarchia ecclesiastica, disposti a coppie sotto arcate doppie in registri sovrapposti.Benché la vasta intrusione di vetri di restauro ostacoli il giudizio in proposito, lo stile delle vetrate sembra seguire le vicende di mutamenti di programma che l'iconografia lascia intravedere. Anteriori alla consacrazione si devono considerare le vetrate del coro, che sono state attribuite (Wentzel, 1952) a officine della Germania nordorientale esponenti di una fase stilistica rappresentata in quell'area tra il 1235 ca. e il 1250. In conseguenza del privilegio del 1253 fu con ogni probabilità impostata la vetratura di transetto e navata in cui si distinguono due partecipazioni fondamentali. Una è costituita da officine informate a modelli stilistici francesi degli anni 1255-1275 (Storie della Genesi dei cori delle cattedrali di Tours e Le Mans, Storie di s. Caterina della cappella della Vergine dell'abbaziale della Trinità a Fécamp), che hanno realizzato le Storie della Genesi del transetto meridionale e le vetrate apostoliche delle prime due finestre del lato nord della navata. L'altra corrisponde probabilmente a una sola officina, stilisticamente formata nell'ambito del Maestro di S. Francesco (v.), la quale, in immediata successione e in probabile parziale contemporaneità con le precedenti, ma su un arco piuttosto lungo di tempo, eseguì il finestrone del transetto nord, la vetrata dei Ss. Francesco e Antonio, quella con profeti e santi e le restanti vetrate apostoliche della navata. Risultano estranee anche stilisticamente al complesso la vetrata con la Glorificazione di s. Francesco e le lancette con le vergini del transetto meridionale. L'esistenza della prima nel 1296 sembra attestata dalla visione estatica che avrebbe allora provocato alla beata Angela da Foligno in visita alla basilica (Kleinschmidt, 1915-1928, II) ed è sostanzialmente confermata dal collegamento che, sul piano stilistico, pare istituirsi con la decorazione affrescata di Cimabue nel transetto sinistro. Probabilmente ancora più tarde, le figure delle vergini sembrano dovute, di nuovo, a maestri tedeschi, ma dell'asse stilistico renano nei decenni del passaggio tra 13° e 14° secolo.Il trapianto tecnico e stilistico dell'arte vetraria dal Nord gotico all'Italia centrale che le vetrate della chiesa superiore testimoniano (e che trovò un seguito immediato nella basilica con le vetrate delle cappelle della chiesa inferiore) trova il suo passaggio cruciale quando maestri transalpini lavorano ad A.; quel momento è segnato dalla lavorazione delle vetrate francesizzanti di transetto e navata, essendo le vetrate tedesche del coro, con ogni probabilità, pezzi di importazione. La circostanza trova conferma nella stretta parentela stilistica che quelle vetrate hanno con gli affreschi della zona alta del transetto settentrionale della chiesa superiore illustranti nelle due grandi lunette la Maiestas a O (se ne conservano solo lacerti lungo i bordi) e la Trasfigurazione a E (frammentaria e spulita, ma nel complesso meglio leggibile), due grandi figure dei profeti Davide e Isaia a lato del finestrone di testata, entro nicchie coordinate a un finto traforo che si espande su tutta la parete dilatando illusivamente il disegno del finestrone, gli apostoli sulle pareti di fondo degli pseudotrifori sotto le lunette (dei sei a E restano solo i primi due, S. Paolo e S. Giovanni Evangelista, quest'ultimo frammentario), finti trafori a gâbles, intercalati a tondi con busti d'angeli sulle paretine soprastanti le arcate degli pseudotrifori. Le parti figurate sono legate all'articolazione architettonica da un ricco formulario di bordure vegetali e geometriche che ricopre archi e costoloni, profila le vele azzurre della volta collocando al loro innesto teste coronate e barbute. Questi affreschi (in realtà pitture murali a tempera) sono staccati dagli altri di navata e transetto da inequivoche cesure di natura stilistica, iconografica (Belting, 1977) e tecnica (White, Zanardi, 1983) che ne indicano anche la sicura precedenza. Come ha mostrato l'analisi della scultura architettonica della chiesa superiore, anche l'architettura venne allora arricchita con l'inserimento a posteriori proprio degli pseudotrifori, in una operazione globale che sembra presumere un progetto unitario per le pitture murali e su vetro, così come per l'assetto architettonico (Cadei, 1983), funzionanti in perfetta sintonia. Nella finta tracery incorniciante le figure di Davide e Isaia, nelle teorie di apostoli del triforio la pittura riproduce schemi ed effetti della vetrata, mentre nella volta e nelle lunette, raccordandosi alle arcature e conformandosi a moduli di scultura architettonica, accentua illusivamente la diafania parietale. Anche iconograficamente vetrate e pitture transalpine del transetto settentrionale svolgono un pensiero unitario che pone l'Ascensione della vetrata nord a fulcro di una triade di teofanie e sembra allargare a tre ricorsi successivi l'esposizione tipologica della storia della salvezza, inserendo come adempimento finale l'età del rinnovamento introdotto dalla figura provvidenziale di s. Francesco. Nella forte impronta gioachimita del programma iconografico originario della chiesa superiore - che dopo il 1255, con la condanna ad Anagni di parte della dottrina gioachimita, usciva dall'ortodossia della Chiesa - sono dunque rintracciabili le ragioni per le quali tale programma venne subito abbandonato, la decorazione stessa non solo sospesa, ma profondamente modificata, almeno nelle vetrate.Accanto ai maestri vetrai attivi anche come frescanti, lavorarono nel transetto nord della chiesa superiore, segnatamente nell'emicoro di apostoli a E e negli angeli tra le ghimberghe soprastanti, anche maestri romani, affini a coloro che intorno al 1261 dipingevano Storie dei ss. Pietro e Paolo nell'atrio dell'antica S. Pietro a Roma (Hueck, 1969-1970; Wollesen, 1983), ma non più identificabili con essi (Aggiornamento, 1988). Chiari riflessi dell'attività dei maestri oltramontani si colgono, nella chiesa inferiore, nelle bordure delle volte della navata e nei lacerti di pitture murali con busti di profeti e una figura di s. Francesco a lato e all'interno del monumento funebre a baldacchino addossato alla parete di fondo.A. CadeiConclusasi la campagna decorativa che vide impegnata nei registri superiori delle pareti del transetto settentrionale la bottega dei frescanti oltramontani, con la collaborazione di maestri romani (Tomei, 1989; 1990), i lavori nella chiesa superiore proseguirono, dopo un intervallo di alcuni anni, sulle restanti superfici del transetto destro, dell'abside, del transetto sinistro e sulla volta dell'incrocio.L'impresa fu affidata a Cimabue (v.), affiancato da numerosi aiuti, tra cui forse alcuni dei pittori romani già in precedenza attivi nel transetto destro. Lo stato di conservazione degli affreschi non consente, se non in parte esigua, una lettura stilistica approfondita; estese alterazioni della biacca in un color bruno scuro e le vaste cadute dei ritocchi a tempera hanno infatti provocato un'inversione del rapporto cromatico tra i chiari e gli scuri. In alcune zone, nell'abside in particolare, ciò che resta della decorazione è, virtualmente, la sola stesura preparatoria eseguita a fresco, ma rimangono tuttavia ben percepibili la potente drammaticità e l'intensità espressiva del segno cimabuesco.Il programma iconografico dell'abside e dei transetti appare in ogni caso assai complesso e articolato. A sinistra, nella zona bassa delle pareti, a partire da quella occidentale, si svolge un ciclo apocalittico (Visione del trono e dei sette sigilli, Visione degli angeli ai quattro canti della terra, Cristo apocalittico, Caduta di Babilonia, S. Giovanni e l'angelo, Combattimento tra s. Michele e il drago), concluso in basso da una Crocifissione e in alto da angeli portatori di scettri, sulle paretine di fondo dei trifori sui lati occidentale e orientale del transetto, sovrastati da busti di angeli entro loggette trilobate. Altre figure angeliche, quasi interamente scomparse, si trovavano ai lati del finestrone sulla parete di fondo del transetto. L'insieme è collegato da nastri decorativi a girali racchiudenti busti di angeli entro cornici rettangolari.Nell'abside, un ciclo mariano comprende quattro scene, disposte su due registri nei lunettoni subito al di sotto della volta (Annuncio a Gioacchino, Offerta di Gioacchino, Natività della Vergine, Sposalizio della Vergine), e altre quattro situate nella zona bassa delle pareti (Commiato della Vergine, Dormizione, Assunzione, Cristo e la Vergine in gloria). Completano la decorazione figure di angeli e profeti, a figura intera e a mezzo busto, e due ritratti clipeati di pontefici, fiancheggianti il trono papale, al centro dell'abside. Nel transetto destro, nella zona bassa delle pareti, si susseguono Storie dei Ss. Pietro e Paolo (Pietro guarisce lo storpio, Pietro libera gli indemoniati e compie altre guarigioni, Caduta di Simon Mago, Crocifissione di Pietro e Decollazione di Paolo), concluse sempre da una grandiosa Crocifissione.Nelle quattro vele della volta dell'incrocio, i quattro evangelisti, seduti allo scrittoio, appaiono intenti a dare inizio alla propria opera sotto l'ispirazione di un angelo posto al vertice della vela. Li accompagnano i tradizionali simboli del tetramorfo e suggestive 'vedute' delle quattro città rappresentative delle regioni della terra da loro evangelizzate: Ytalia (rappresentata da Roma), Judea (Gerusalemme), Ipnacchaia (la Grecia, rappresentata da Corinto), Asia (Efeso).La complessa e articolata struttura iconografica del ciclo è stata più volte oggetto di esegesi mirate, tra l'altro, anche a trarne elementi per una sistemazione cronologica dell'intervento cimabuesco, da molto tempo fonte di dibattito critico. La datazione di questo intervento oscilla infatti, nelle diverse ipotesi moderne, tra gli ultimi anni dell'ottavo decennio del sec. 13° e la fine di quello successivo, corrispondenti rispettivamente al papato di Niccolò III (1277-1280) e a quello di Niccolò IV (1288-1292), primo pontefice appartenente all'Ordine francescano.Alla determinazione cronologica del ciclo poco aiutano le scarne notizie documentarie a disposizione: si sa infatti soltanto che nel 1281 scadeva la proroga di quindici anni concessa nel 1266 da papa Clemente IV all'impiego delle elemosine raccolte dall'Ordine per il completamento e la decorazione della basilica. In quello stesso giro di anni inoltre, dal 1274 al 1279, fu generale dell'Ordine Girolamo Masci da Lisciano (Ascoli Piceno), futuro papa Niccolò IV. Questi ebbe un'importanza fondamentale almeno per le successive fasi della vicenda artistica assisiate: tra i primi atti del suo pontificato furono infatti la conferma, nel 1288, dei privilegi pontifici precedentemente concessi e il rinnovo dell'autorizzazione a usare le elemosine per il proseguimento dei lavori nella basilica. Quest'ultimo fu con tutta probabilità l'atto decisivo per la ripresa dei lavori e l'esecuzione della decorazione a fresco delle volte e delle pareti della navata.L'analisi delle sovrapposizioni nel punto di giunzione degli strati di intonaco ha dimostrato che il lavoro ebbe inizio a partire dalla campata di incrocio e proseguì verso la facciata, muovendosi, come di consueto, dall'alto verso il basso e dunque partendo anzitutto dagli affreschi delle volte.Il piano iconografico della navata svolge, sui due registri superiori delle pareti e della controfacciata, i cicli paralleli - sedici scene ciascuno - dell'Antico (a destra) e del Nuovo Testamento (a sinistra), completati da due volte figurate, che si alternano ad altre due dipinte a cielo stellato. Nella seconda a partire dal transetto (la c.d. volta clipeata), il Cristo, la Vergine, S. Giovanni Battista e S. Francesco si dispongono entro clipei; nella quarta i Dottori della Chiesa (S. Gregorio, S. Agostino, S. Ambrogio, S. Girolamo) siedono allo scrittoio. Nella parte bassa delle pareti si snodano - da destra a sinistra e cioè dall'incrocio alla facciata e viceversa - le Storie della vita di s. Francesco, suddivise in ventotto episodi.Da oltre un secolo il ciclo vetero e neotestamentario è oggetto di una complessa vicenda critica riguardante soprattutto l'identificazione degli autori delle singole scene. È in ogni caso indiscutibile la presenza in esso di una pluralità, oltre che di artisti, anche di linguaggi e culture figurative, legati tra loro in una complessità resa più grave dalla mancanza di una qualsivoglia evidenza documentaria coeva, mentre neppure le fonti successive forniscono notizie particolarmente significative. Solo in tempi relativamente recenti sono state introdotte nel dibattito critico categorie di interpretazione che hanno superato la tradizionale divisione per 'scuole', privilegiando l'analisi dell'evoluzione interna di quello che è stato invece definito un 'linguaggio di cantiere', che sembra percorrere tutta la decorazione della chiesa superiore e che mostra modificazioni e/o rivolgimenti stilistici, a volte macroscopici, legati alle personalità artistiche che via via se ne trovavano alla direzione, conservando tuttavia, nel corso di oltre un quarto di secolo, anche un'intrinseca continuità tipologica e formale.Tra le poche personalità riconoscibili con relativa sicurezza nella prima fase della decorazione della navata, particolare evidenza assume Jacopo Torriti (v.), il quale dovette eseguire in prima persona la volta clipeata, la scena con la Creazione del mondo e, forse, anche quella dell'Ospitalità di Abramo, nel registro superiore della parete destra, trovandosi con ogni probabilità a capo del cantiere assisiate al momento della ripresa dei lavori promossa da Niccolò IV, committente, subito dopo, anche delle maggiori opere romane del pittore.Nella prima e seconda campata a partire dal transetto, Torriti appare a capo di una 'bottega' relativamente ampia, composta in parte da maestranze già presenti nel cantiere e attive in precedenza anche nel transetto. Sotto la direzione di Torriti il tono generale della decorazione vira verso caratteri di pacato classicismo, di elegante resa volumetrica dei corpi e di morbida fusione cromatica, in decisa distanza dagli intensi contrasti chiaroscurali e dalla concitata espressività degli affreschi eseguiti nell'abside e nel transetto sotto la guida e dalla stessa mano di Cimabue.Nel corso degli interventi conservativi eseguiti negli anni Cinquanta dall'Ist. Centrale per il Restauro di Roma (Carità, Mora, 1959) alcuni strappi riguardanti affreschi nelle prime due campate hanno restituito alla leggibilità alcuni dei disegni preparatori delle scene vetero e neotestamentarie; in particolare quelli del Creatore nella Creazione del mondo, della Creazione di Eva, del Sacrificio di Isacco, della Natività e della Cattura di Cristo, opere caratterizzate da una prassi esecutiva omogenea, pur nella evidente diversità dei pittori, i quali dovettero comunque operare secondo ben precise modalità di bottega.All'interno del gruppo di pittori operanti sotto la direzione torritiana del cantiere emerge, tra le altre, la personalità del Maestro della Cattura (v.), al quale vengono solitamente assegnati, oltre alla scena da cui deriva la sua denominazione, vari episodi neotestamentari nelle prime tre campate. Anche la presenza del giovane Duccio di Boninsegna (v.) è stata a più riprese ipotizzata, particolarmente a proposito delle scene della Cacciata dal paradiso terrestre sulla parete destra, della Crocifissione su quella opposta e di alcuni brani della volta dei Dottori (Longhi, 1948; Bologna, 1960; 1962; 1983). Altri nomi chiamati in causa - con maggiore o minore insistenza - sono quelli dello stesso Cimabue, di Gaddo Gaddi (v.), Pietro Cavallini (v.), Filippo Rusuti (v.), Memmo di Filippuccio (v.).Una cesura netta e innovativa nello svolgersi senza scosse della lingua 'di cantiere' propria ai pittori operanti sotto la direzione di Torriti è costituita, nella terza campata a partire dal transetto, dal dittico di affreschi che occupa il registro mediano della parete destra, raffigurante le Storie di Isacco. Le due scene - Isacco benedice Giacobbe e Isacco ed Esaù - introducono infatti un tipo di resa spaziale e un trattamento tridimensionale della figura umana inediti non solo per il cantiere assisiate ma più ampiamente per la pittura duecentesca europea. I personaggi si muovono in uno spazio 'abitabile', emergente dalla superficie muraria e definito in termini coerentemente tridimensionali dall'invaso della stanza entro cui si svolge l'evento, articolato in profondità su più piani con salda volumetria, così, del resto, come i corpi dei protagonisti umani, cui è affidato, nella narrazione, un ruolo 'storico' di grande intensità psicologica e moderna efficacia naturalistica.Le Storie di Isacco costituiscono, nella decorazione della basilica superiore, un unicum che ne condiziona lo svolgersi successivo sin dalla campata che subito le segue, adiacente alla facciata, anche se non viene, al primo momento, ben compreso dagli altri pittori attivi nel cantiere. Tuttavia, che questi affreschi segnino un cambiamento radicale di rotta nella direzione del cantiere si ricava da molti indizi, uno dei quali - il più evidente, se non il più significativo - appare proprio di fronte al dittico, nell'affresco con la Presentazione al tempio: il ciborio che vi appare posto sull'altare subì infatti una ridipintura in corso d'opera, al fine di renderne prospetticamente più illusiva e aggiornata la definizione spaziale (White, 1956).Anche la volta dei Dottori e le Storie di Giuseppe, che seguono sulla stessa parete le Storie di Isacco, documentano da una parte l'influsso di queste ultime, soprattutto nell'accentuata resa volumetrica delle figure e nei tentativi di collocarle in uno spazio più 'naturale', dall'altra la fatica con cui i pittori che le eseguirono tentarono, senza riuscirvi, di assimilarne la lezione profonda.Da molti decenni il dibattito critico sull'attribuzione delle Storie di Isacco costituisce uno dei punti cruciali della questione assisiate; si è pensato a questo proposito a Cavallini, a Gaddo Gaddi, a Giotto (v.) o, in alternativa, a una figura storicamente non identificabile e quindi convenzionalmente definita Maestro di Isacco (v.); più di recente, si è proposto il nome di Arnolfo di Cambio (v.), almeno come referente più diretto, soprattutto per ciò che riguarda, oltre che la resa spaziale e le novità di natura ottica, l'attenzione alla realtà fisica e alla caratterizzazione dei personaggi.Terminata l'esecuzione del ciclo vetero e neotestamentario, i lavori di decorazione della basilica proseguirono con l'affrescatura dello zoccolo della parete, a partire circa dalla metà dell'ultimo decennio del Duecento. Vennero qui dipinti ventotto episodi della Vita di s. Francesco, basati sulla narrazione della Legenda Maior, composta tra il 1260 e il 1263 da s. Bonaventura da Bagnoregio, da cui furono tratti anche i tituli posti a esplicazione delle singole scene. Il ciclo ha inizio sulla parete destra, sempre a partire dal transetto, come avviene per le storie bibliche, prosegue sulla controfacciata e poi sulla parete sinistra fino a raggiungere l'incrocio.La discussione critica verte a questo proposito sull'attribuzione a Giotto, la cui presenza ad A. è ricordata dalle fonti più antiche: a partire dalla Compilatio chronologica di Riccobaldo Ferrarese (ca. 1312-1313), passando per Ghiberti (ca. 1450) e per il Libro di Antonio Billi (primo decennio del sec. 16°), per giungere alla seconda edizione delle Vite di Vasari (1568). In essa per la prima volta si afferma esplicitamente la paternità giottesca del ciclo francescano, eseguito su incarico di "fra' Giovanni da Muro della Marca, allora generale de' frati di San Francesco" (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 100). La citazione del committente costituisce anche un riferimento cronologico in quanto si sa che Giovanni Mincio da Murrovalle (Giovanni da Muro) fu generale dell'Ordine dal 1296 al 1304. La notizia vasariana fu accettata virtualmente senza riserve fino agli inizi dell'Ottocento, quando Witte (1821) la respinse, aprendo un dibattito storiografico ancora in corso (v. Giotto). In ogni caso, può ritenersi unanimemente riconosciuta nel ciclo francescano di A. la presenza di numerosi aiuti, tra i quali, nell'ampio ventaglio spesso contraddittorio delle attribuzioni, assume particolare rilevanza il Maestro della S. Cecilia (v.), più volte indicato come colui che portò materialmente a termine il ciclo; altri pittori in varie occasioni citati come suoi collaboratori sono Memmo di Filippuccio (v.) e il Maestro del Crocifisso di Montefalco.Le Storie di s. Francesco segnano la conclusione della pluridecennale impresa decorativa della basilica superiore; ma nel corso del Trecento l'Ordine non cessò di attendere al compito di rendere quanto più possibile degna della fama del santo la chiesa-memoriale a lui dedicata. L'attenzione si concentrò quindi sulla chiesa inferiore, destinata nel giro di un ventennio a divenire a sua volta un'antologia della pittura trecentesca.In realtà, la decorazione della chiesa inferiore aveva avuto inizio già da tempo, con quelli che possono essere considerati addirittura gli esordi di una decorazione pittorica del santuario di più schietto carattere francescano, soprattutto per ciò che concerne l'instaurarsi di una tradizione iconografica relativa alla vita del santo. Lungo le pareti della navata, a partire dalla seconda campata, furono infatti affrescati, intorno al 1260, due cicli paralleli, uno dedicato alle Storie della Passione di Cristo (parete destra), l'altro a episodi della Vita di s. Francesco, alter Christus, comprendenti ognuno cinque scene, rispettivamente: Preparazione alla Crocifissione, Crocifissione, Deposizione dalla croce, Compianto sul Cristo morto, Marie al sepolcro (quest'ultima scena è assai danneggiata e di difficile interpretazione e potrebbe anche raffigurare la Cena in Emmaus) e S. Francesco rinuncia ai beni paterni, Sogno di Innocenzo III, Predica agli uccelli, S. Francesco riceve le stimmate, Funerali di s. Francesco con la ricognizione delle stimmate. I cicli si presentano assai mal conservati, sia per la perdita di ampie aree di materia pittorica sia perché molte delle scene furono mutilate in conseguenza dello sfondamento delle pareti per la costruzione delle cappelle situate lungo il corpo longitudinale. Le membrature architettoniche delle volte della navata sono ricoperte da complessi elementi geometrizzanti e vegetali, in parte derivati da modelli franco-inglesi; le volte sono decorate con un motivo a cielo stellato, nelle cui stelle sono inglobati piccoli specchi convessi che riflettono la luceI cicli sono ormai da tempo riferiti a un ignoto maestro di formazione umbra, che la critica ha denominato Maestro di S. Francesco (v.) e attorno alla cui personalità ha accorpato un gruppo rilevante di opere. La sua formazione dovette avvenire nell'ambito del cantiere della basilica e nel suo linguaggio figurativo si risentono echi della pittura di Giunta Pisano (v.), che aveva eseguito ad A. due crocifissi su tavola: uno per il santuario francescano, perduto ma di cui si conosce la data (1236), l'altro tuttora conservato nel Mus. della Basilica Patriarcale S. Maria degli Angeli. Sulla scia del Maestro di S. Francesco si colloca un altro pittore ignoto, il Maestro dei Crocifissi Blu, di cui si conserva nel Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco una croce dipinta su ambedue le facce e che deve la sua definizione al blu intenso costituente la dominante cromatica delle sue opereProbabilmente coevo o di poco anteriore agli affreschi eseguiti da Cimabue nella chiesa superiore è un altro affresco, a lui stesso attribuito, situato nel transetto destro della chiesa inferiore, raffigurante la Madonna in trono con il Bambino tra angeli e, sulla destra, un'immagine stante di S. FrancescoNello stesso transetto destro si trovano altri gruppi di affreschi raffiguranti i Miracoli post mortem di s. Francesco e Storie cristologiche, insieme ad altre immagini isolate di santi e beati francescani. Più volte, a partire dalle fonti antiche, le Storie francescane e quelle cristologiche sono state poste in relazione all'attività di Giotto e della sua bottega. Nei dipinti delle vele della volta di incrocio sono invece raffigurate quattro allegorie francescane, anch'esse riferite a una stretta orbita giottesca, per il cui autore si è coniata la definizione convenzionale di Maestro delle Vele (v.)Al termine del transetto destro si apre la cappella di S. Nicola, contenente un ciclo di affreschi dedicato alla vita del santo titolare, anch'esso più volte riferito a Giotto e ai suoi collaboratori, tra cui il Maestro della cappella di S. NicolaNel transetto sinistro si dispiega un ampio ciclo dedicato alla Passione di Cristo, opera del senese Pietro Lorenzetti (v.), la cui datazione è oggetto di diverse ipotesi, tutte comunque comprese tra il terzo e il quarto decennio del Trecento. Anche all'estremità del transetto sinistro si apre una cappella, quella di S. Giovanni Battista, destinata ad accogliere il monumento sepolcrale, mai realizzato, del cardinale Napoleone Orsini che ne fu patrono. Doveva essere pure programmata una decorazione a fresco di cui fu eseguito solo uno splendido finto trittico sul muro sopra l'altare, opera di Pietro Lorenzetti, raffigurante la Madonna con il Bambino tra S. Giovanni Battista e S. Francesco. Da questa cappella proviene anche la tavola, oggi conservata nel Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco, raffigurante al centro S. Francesco e ai lati quattro miracoli post mortem, sulla cui attribuzione esistono pareri discordanti: da Giunta Pisano, a un non meglio identificato pittore pisano della metà del Duecento, a un ignoto maestro umbro influenzato dalla pittura costantinopolitana e della Terra Santa, attivo nel terzo quarto del secoloAnche le cappelle della navata conservano importanti cicli di affreschi. La prima sul lato sinistro, intitolata a S. Martino, presenta dieci episodi tratti dalla vita del santo, numerose figure di santi e beati e una scena di dedicazione, ove compare il committente, il cardinale Gentile Partino da Montefiore. L'autore del ciclo è ormai da lungo tempo unanimemente riconosciuto in Simone Martini (v.), con una cronologia oscillante, nelle diverse ipotesi critiche, tra il 1315 e il 1326Particolarmente importante è anche la decorazione pittorica della cappella della Maddalena, la terza e ultima sulla parete destra della navata. Le scene affrescate sulla volta e sulle pareti illustrano episodi delle Vite di Maria Maddalena, di Lazzaro e di Marta. Anche per questi affreschi è stato proposto il nome di Giotto, affiancato da stretti seguaci di bottega tra cui un ignoto pittore, detto appunto Maestro della Maddalena (v.), con un'ipotesi di collocazione cronologica nel primo decennio del TrecentoDi fronte alla cappella della Maddalena si trova la cappella di S. Stanislao, con dipinti attribuiti a Puccio Capanna (v.), la cui vicenda storiografica, relativamente alla sua presenza nella basilica di A., si lega a quella di altri due seguaci di Giotto, Stefano Fiorentino (v.) e Giottino (v.)Da ricordare, inoltre, una Maestà e ornati architettonici nella sacrestia della basilica inferiore, per la cui attribuzione la critica sembra convergere sul Maestro di Figline (v.) e/o su Giovanni di Bonino (v.), nonché la decorazione della cappella di S. Caterina nel transetto di ingresso, opera di un maestro di formazione bolognese, da una parte della critica identificato in Andrea de' Bartoli (v.)Come nella chiesa superiore, anche in quella inferiore si conservano importanti gruppi di vetrate, che qui sono però dislocati principalmente nelle varie cappelleLe prime vetrate in ordine cronologico sono verosimilmente quelle della cappella di S. Giovanni Battista, posta all'estremità del transetto sinistro; si tratta di opere già riferite dubitativamente a maestranze veneziane, ma per le quali si è anche ipotizzato un intervento di artefici umbro-romani, con tutta probabilità da datarsi verso la fine del DuecentoAgli inizi del secolo successivo, probabilmente nell'ambito del primo decennio, risalgono le vetrate delle cappelle della Maddalena e di S. Nicola, opere nettamente influenzate dalla lezione giottesca, ma che sembrano denunciare nel contempo l'appartenenza dei loro esecutori a un ambito culturale approssimativamente definibile come umbro-romanoNel corso del sec. 14° protagonista dell'esecuzione delle vetrate nella chiesa inferiore fu l'assisiate Giovanni di Bonino, in precedenza designato dalla critica come Maestro di Figline (o della Pietà Fogg), ma poi identificato con il pittorevetraio citato nei conti della Fabbrica del duomo di Orvieto; la sua presenza è stata riconosciuta in particolare nelle cappelle di S. Martino, S. Antonio da Padova, S. Ludovico, S. Caterina, le cui vetrate furono eseguite a volte in stretta collaborazione con i pittori colà impegnati, come nel caso di Simone MartiniL'altro grande polo della pittura assisiate è costituito dalla basilica di S. Chiara. Vi si conserva, tra l'altro, il crocifisso che, secondo la tradizione, parlò a Francesco nella chiesetta di S. Damiano. Databile alla fine del sec. 12°, presenta l'iconografia con il Cristo vivo, affiancato dalla Vergine, S. Giovanni, Longino, il Centurione e le Marie, mentre nella cimasa è rappresentata l'AscensioneNella chiesa, sopra l'altar maggiore, si trova un altro crocifisso su tavola, commissionato dalla badessa Benedetta che succedette a s. Chiara nella guida del convento, databile intorno alla metà del Duecento. Vi si riscontrano echi della pittura giuntesca, unitamente a stilemi di matrice bizantina, che si ritrovano in altre opere raggruppate attorno a questo pittore, convenzionalmente definito da una parte della critica Maestro della S. Chiara, poiché viene ritenuto - ma esistono sull'argomento pareri discordi - autore anche della tavola datata 1283 recante la figura della santa, al centro, tra storie della sua vita, conservata nella stessa chiesa. Affine a questo dipinto appare anche un'altra tavola raffigurante la Madonna in trono con il Bambino e due angeli, collocata nel braccio sinistro del transettoLa basilica di S. Chiara conserva anche resti cospicui di decorazioni a fresco, soprattutto nei transetti. In quello sinistro vi sono Storie dell'Antico Testamento, mentre in quello destro si trovano episodi neotestamentari e un Giudizio finale, unitamente a due scene dedicate alla Morte e alle Esequie di s. Chiara. Questi affreschi costituiscono un testo di primaria importanza per lo studio della pittura umbra del primo Trecento, riferendosene l'esecuzione al pittore convenzionalmente definito Maestro Espressionista di S. Chiara (v.), da molti ritenuto identificabile con Palmerino di Guido (v.), un artista che un documento del 1309 afferma essere stato collaboratore di GiottoAltri dipinti murali, raffiguranti un'Annunciazione, S. Giorgio che uccide il drago e altre immagini di santi, si trovano nella cappella di S. Giorgio e sono databili tra il quarto e il quinto decennio del Trecento; si devono a un pittore abbastanza eclettico, di cultura probabilmente senese ma fortemente influenzato anche dalle opere giottesche. Nella stessa cappella un finto trittico affrescato raffigurante la Vergine con il Bambino tra i ss. Chiara, Giovanni Battista, Francesco e l'Arcangelo Michele è attribuito dalla critica a Puccio Capanna (v.)Numerosi altri affreschi, staccati dalla loro sede originaria in varie chiese assisiati, sono oggi conservati nel Mus. e Pinacoteca Comunale. Si tratta di opere che spaziano dal terzo quarto del Duecento ai primi del Quattrocento, tra cui meritano segnalazione i frammenti della decorazione del palazzo del Capitano del popolo, con una scena di corteo cavalleresco, parti di un perduto ciclo dei mesi e stemmi araldici. Vi è poi una Madonna in maestà, proveniente dall'antico palazzo Comunale, ritenuta assegnabile alla bottega di Giotto e un interessante brano riferito a Puccio Capanna, proveniente dalla c.d. portella di GoriA. Tomei
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