Assistenza e beneficenza
«È necessario che cambi, se deve migliorare», scriveva G.C. Lichtenberg nel suo Libretto di consolazione nel secolo XVIII. Cosa doveva cambiare per i poveri veneziani nell’Ottocento? Tutto.
«Cambiare tutto» era una risposta utopica per eliminare un fenomeno complesso quale il pauperismo, provocato da una serie di concause che accompagnano la storia di ogni civiltà, senza soluzione nel tempo; variando soltanto i molteplici intrecci che le determinano e fanno dipendere l’assistenza dei poveri da istituzioni pubbliche o da privati benefattori, ponendoli comunque in una condizione di dipendenza difficilmente superabile, non da ultimo perché ogni società ha bisogno dei suoi poveri. La povertà è un elemento interstiziale nella struttura sociale, così insinuante da fondersi con la trama connettiva su cui poggia la società stessa. Nonostante tutto ciò che in proposito è stato teorizzato nei secoli, la soluzione del problema posto dal pauperismo in epoca storica non è mai consistita nella sua totale eliminazione — se non in termini astratti, teorici —, bensì nel suo controllo e contenimento(1). Questa onnipresente massa di popolazione marginale, se debitamente circoscritta, ha sempre rappresentato una duttile forza lavoro per le più disparate emergenze, oppure per progetti evolutivi quali la colonizzazione o l’avvio dell’industrializzazione.
L’approccio integrale al problema, necessario al citato cambiamento che avrebbe indotto il miglioramento, imponeva che la definizione di povertà fosse distinta da quella delle disuguaglianze sociali, sensibili sia al numero dei poveri sia all’intensità delle privazioni, ma questa è cronaca, perché è pressoché impossibile elaborare per il passato validi indicatori sulla qualità della vita del popolo per mancanza delle necessarie informazioni(2). Inoltre, le categorie di analisi usate dagli amministratori delle opere pie veneziane dell’Ottocento per stabilire coloro che erano indigenti, e a volte acriticamente riprese dagli studiosi contemporanei, spesso risentivano della carenza di una precisa contestualizzazione, dovuta soprattutto all’incomprensione del mutamento socioeconomico in atto e, non ultimo, perché determinavano la «linea della povertà» considerando solo la pura sussistenza, tralasciando i rapporti sociali complessivi. L’individuo che non era in grado di soddisfare autonomamente i fondamentali bisogni quotidiani era considerato povero, ciò poteva avvenire per sua impotenza oppure perché esercitava un’attività che gli dava un salario insufficiente (poveri lavoratori); erano comunque condizioni che indicavano nella mera sussistenza l’elemento selettivo del pauperismo e, pertanto, inducevano a considerare indigenti anche coloro che esercitavano stabilmente un lavoro inadeguato al suo raggiungimento. È emblematico in proposito quanto è stato rilevato ad Anversa a fine Settecento: due terzi della popolazione era considerata povera e tra questi bisognosi la maggioranza era rappresentata da operai tessili in attività(3).
Nel XIX secolo per gran parte dei soggetti assistenziali veneziani la povertà era una condizione che li accompagnava dalla culla alla tomba, con insignificanti variazioni, sia tra i poveri strutturali, ‘clienti stabili’ delle più disparate istituzioni, sia tra i poveri congiunturali, prodotti dalla dissestata economia dell’epoca e che, ripetutamente nel corso della loro esistenza, cadevano in stato di necessità. Per gli amministratori la differenza formale tra queste due tipologie di bisognosi consisteva solo nella frequenza del soccorso erogato, al quale, peraltro, era subordinato anche il moralismo sull’origine dell’indigenza. Una discriminante molto concreta determinava le elargizioni dei sussidi, ispirata dalla sperequazione tra l’esuberanza di quanti chiedevano aiuto e l’esiguità delle risorse disponibili, funzionale alla soluzione politico-amministrativa degli effetti deteriori della povertà, ma non delle sue cause. Sostanzialmente le iscrizioni negli elenchi dei poveri si basavano sul meccanismo dei ‘vasi comunicanti’, i cui livelli erano influenzati dalla sommatoria di una miriade di elementi esterni al pauperismo, con una ponderata dinamica che inseguiva l’equilibrio contabile in primo luogo e poi l’ordine sociale, le opportunità relazionali, l’inveterato clientelismo, il tutto permeato dalla tradizionale pietas e nel secondo Ottocento da una filantropia innovativa. Le variazioni della disponibilità finanziaria e della pressione sociale, determinate dal comportamento della cosiddetta ‘classe civile’, facevano innalzare o abbassare il numero dei sussidiati, oppure quello dei non aventi diritto al sussidio, con un andamento ciclico quasi prevedibile, incessante da secoli come l’alternarsi delle maree della città lagunare(4). Confermando l’impossibilità di interventi risolutivi nel variegato mondo dei poveri.
Stabilire la ‘soglia di povertà’ è sempre arduo, e tanto più lo è quando ci si rivolge al passato, della cui miseria abbiamo ampi scenari — anche se sovente deformati dalla memoria collettiva —, ma non validi strumenti per individuarla con obiettività. Le definizioni di povertà strutturale e povertà congiunturale in ambito veneziano, derivanti da interpretazioni del contesto socioeconomico o da disquisizioni terminologiche non sempre condivisibili, hanno indotto sovente a sottostimare o sovrastimare il fenomeno — forse un po’ rozzamente —, come ovunque d’altronde, privilegiando la sua quantificazione a scapito della ‘qualità’ dello stesso dato, costringendo nella tradizionale dicotomia strutturale-congiunturale le molteplici variabili del pauperismo, anche se «proprio la fluidità e la relatività della condizione di povero rifiutano la rigidezza di ogni catalogazione»(5). L’ambiguità terminologica della materia induce tuttavia ad affrontare l’analisi dei soggetti assistenziali iniziando dalla dicotomia strutturale-congiunturale, un metodo convenzionalmente accettato per inquadrare il fenomeno e procedere, quindi, alle necessarie precisazioni all’interno delle due categorie.
È relativamente più semplice circoscrivere i poveri strutturali delle grandi città perché erano visibili: essendo coloro che se incapaci di autosostentarsi erano ricoverati nelle istituzioni caritative oppure mendicavano, la loro esistenza dipendeva dalla beneficenza pubblica e privata. Essi producevano una domanda assistenziale pressoché stabile, occupando un posto riconosciuto nella struttura sociale veneziana, infatti nei censimenti della Serenissima i «Poveri d’hospitali» e i mendicanti rappresentavano categorie distintamente riportate.
Tab. 1. Censimenti dei poveri a Venezia, 1552-1766 Censimenti 1552 1563 1586 1642 1766 Poveri d’ospedali 741 1.479 1.111 1.945 1.476 Poveri mendicanti — 539 447 — — Popolazione di Venezia — 168.627 148.640 — 140.256 Fonte: Karl J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, Firenze 1994, pp. 401-402.
Tali cifre censuali suscitano non poche perplessità a causa della relativa esiguità, che può anche essere interpretata come un indice dell’attenzione che le autorità ponevano nel valutare le ‘capacità residue’ degli individui al fine di non incentivare ozio e apatia con la carità indiscriminata, prima di istituzionalizzarli o di concedere loro una regolare autorizzazione per mendicare. A discapito dei dati censuari, avvalorando quindi implicitamente l’ipotesi della sottostima, basti ricordare che nel 1762 si riteneva che Venezia avesse bisogno di un Albergo dei Poveri — senza distinzione di categoria — capace di 6.000 posti(6), una capienza decisamente elevata anche in un periodo di «Decrepitezza delle istituzioni e fiacchezza degli uomini»(7). Certamente esisteva nell’ombra una massa ondivaga di bisognosi, individuabili in coloro che non avevano stabile dimora in città ma che, comunque, vi gravitavano, perché il «pianeta assistenza» era urbano ed essi con l’acume del bisogno riuscivano a passare attraverso le strette maglie di una rete caritativa destinata ai residenti; forse, sommando l’ufficiale all’ufficioso, il trend di queste misere figure anche a Venezia, tra Quattro e Settecento, si attestava sulla media delle altre grandi città europee, oscillante tra 4 e 8%(8). La determinazione delle categorie assistenziali è un fenomeno che va oltre l’aspetto economico immediato, perché sta alla base di una politica sociale che ha inciso profondamente nella pietas veneziana, tanto da farla sopravvivere ben oltre la caduta della Repubblica, capace di raggiungere il popolo minuto attraverso iniziative caritative diffuse, specializzate e gestite da una pluralità di persone appartenenti alle varie classi sociali, anche quelle inferiori, aspetto quest’ultimo che facilitava gli interventi mirati nonché l’accettazione degli stessi. E questo era il sistema in cui i cittadini continuavano a credere ancora nell’Ottocento.
È certamente più difficile individuare i fluttuanti ‘involontari’ poveri congiunturali, prodotti dalle ricorrenti crisi di varia origine, che in epoca storica assumevano innumerevoli modulazioni, ma comportavano sempre pesanti sovvertimenti fra gli infimi lavoratori. In proposito è importante considerare la statistica sulla povertà veneziana del 1789, ultimo scenario del pauperismo nella Repubblica veneta, che presenta lo stato della popolazione assistita secondo una concezione destinata a scomparire, ma i cui effetti si proietteranno ancora per decenni. I lavoratori poveri congiunturali si identificavano, quasi totalmente, nella categoria degli artigiani, stante l’economia dell’epoca(9). La stessa topografia sociale confermava la negatività del momento, rilevando nei popolari sestieri di Castello e Cannaregio le più alte concentrazioni di lavoratori bisognosi, nonché il maggiore numero di assistiti; pur considerando che numerose opere pie di quelle contrade accoglievano malati e «impotenti» di tutta la città, che a Castello si trovavano tre dei quattro grandi ospedali veneziani e l’ormai fatiscente Arsenale, la differenza rispetto agli altri quartieri era comunque notevole.
Tab. 2. Popolazione assistita nel 1789 Sestieri Infermi Artigiani Impotenti Vergognosi Questuanti Totale S. Marco 241 833 256 209 48 1.587 Castello 412 2.403 2.374 209 217 5.615 Cannaregio 495 3.848 1.307 481 307 6.438 S. Polo 117 314 431 368 57 1.287 S. Croce 183 315 2.583 327 64 3.472 Dorsoduro 424 574 2.153 70 76 3.297 Totale 1.872 8.287 9.104 1.664 769 21.696 Totale popolazione veneziana 136.803 Fonti: per le categorie degli assistiti v. Alberto Errera, Storia dell’economia politica nei secoli XVII e XVIII negli stati della Repubblica Veneta, Venezia 1877, p. 264 (la categoria artigiani comprendeva i poveri «lavoratori» e congiunturali); per il totale della popolazione veneziana, riferita al 1790, v. K.J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, p. 398.
Dal presente prospetto si desume che un cittadino su sei era assistito, un risultato che essendo la sommatoria di poveri strutturali e congiunturali dà adito a qualche dubbio, tale da indurre a considerare una sottostima cui non era estranea l’interpretazione contingente dei soggetti assistenziali, soprattutto tra i capifamiglia lavoratori poveri, perché i loro famigliari non erano calcolati in maniera univoca: forse la regola che stabiliva la popolazione «utile-inutile» estrometteva alcuni membri in età attiva ma senza occupazione dalla famiglia sussidiata. Per quanto concerne il sestiere di Castello è significativo il caso del brefotrofio di S. Maria della Pietà, che accoglieva indistintamente tutti coloro che erano deposti nella sua scafetta: «l’utenza dell’istituto proveniva non solo dalla città e dal suo immediato circondario — insulare e non —, ma anche da zone dotate di un proprio brefotrofio e lontane giorni di viaggio», persino dall’Istria e dalla Dalmazia(10), facendo artificiosamente innalzare il numero degli impotenti per età di quel sestiere. Negli altri luoghi pii, invece, qualche impedimento al ricovero indiscriminato era sempre presente. E l’ospizio della Pietà era il più importante dei grandi ospedali veneziani, per numero di assistiti e per capitali. Infatti, non ritengo che siano casuali il 1789 quale data della citata statistica sui poveri e il «Piano di generale regolazione del Pio Ospitale della Pietà»(11), perché povertà e abbandono dei bambini sono fenomeni strettamente congiunti(12). Lo ‘sbilancio’ del sistema assistenziale veneziano era divenuto estremo e la situazione del brefotrofio bene lo esplicitava: a fronte di 476 bambini accolti nell’anno (more veneto) 1789, al 20 agosto 1790 aveva in ruolo 721 ricoverati, di cui 289 femmine dai 13 ai 30 anni e 224 dai 30 e oltre(13). Queste cifre indicano chiaramente una fuorviante interpretazione del fine istituzionale della Pietà, vocata all’assistenza degli esposti sino alla loro emancipazione, ma le cui risorse, di fatto, servivano in buona parte per il mantenimento delle «figlie della Pietà» giubilate. Il sistema assistenziale istituzionale veneziano alla fine del XVIII secolo era in una generalizzata situazione deficitaria, dovuta alla cattiva gestione economica e alla inosservanza del fine istituzionale(14).
Nel corso dell’Ottocento l’universo dei poveri si era popolato di una massa di figure incerte, lavoratori instabili che esercitavano mestieri in via di estinzione o già espulsi da un sistema per il quale non avevano più adeguate competenze professionali, forieri dei profondi rivolgimenti economici che avrebbero interessato la città lagunare, portatori di un malessere sociale che sembrava irrisolvibile nei sestieri veneziani dove, complice un reticolo di rituali parrocchiali, sopravviveva ancora l’assistenza delle antiche fraterne. Per loro il confine tra povertà congiunturale e strutturale era divenuto più labile, oltrepassarlo significava sovente porsi in condizione di non ritorno, cioè di miseria stabile, come ci ricorda un diffuso proverbio «miseria fa miseria», considerata peccato e pena al contempo. Era una situazione che derivava innanzitutto dal perdurante dissesto economico e da una struttura assistenziale che faticava a raggiungere l’organicità, non ultima complice la specificità ambientale di una città che nei secoli aveva sviluppato un sistema di soccorsi specializzati capillarmente diffusi nell’area urbana, fossero essi di carità domiciliare o di ricovero(15). I progetti, napoleonici prima e asburgici poi, di razionalizzazione e accentramento istituzionale avevano trovato un difficile ostacolo nella dispersione operativa e territoriale delle varie opere. L’imposizione della loro unificazione amministrativa raramente aveva ottenuto il consenso degli utenti, ancora legati alle tradizionali modalità assistenziali, rispettose del sentimento di appartenenza a una precisa parrocchia, consolidate dal perpetuarsi di un rapporto che, sovente, proponeva generazione dopo generazione gli stessi nomi tra benefattori e beneficati. La diffidenza dei poveri verso l’innovazione ostacolava una risposta coerente ai bisogni che erano impercettibilmente mutati per loro, ma forse non per gli amministratori dei governi succeduti alla Repubblica.
Gli indigenti, abituati a vivere ai limiti della sussistenza, avevano sviluppato una peculiare ‘etica del sottoconsumo’, sostenuti in questo dai malintesi intenti moralizzatori della Chiesa, al punto da rendere ardua una definizione della soglia di povertà diversa da quella tradizionalmente acquisita da genealogie di poveri. Così iniziative caritative che consolidavano e giustificavano le disuguaglianze sociali finivano per essere rafforzate dalla filantropia paternalistica dell’Ottocento, in linea con la politica sociale del capitalismo di allora.
Il pensiero che si andava profilando, però, induceva anche a chiedersi se questi individui
devono forse, prima di poter essere registrati nell’elenco dei poveri, trovarsi in una situazione di bisogno tanto grave da costringerli a vivere nelle peggiori ristrettezze, in uno stato terribile in cui un’ulteriore privazione, non importa quanto piccola, li porterebbe oltre il limite della resistenza fisica e psicologica?(16).
La sensibilità sociale che si coglie in questa domanda è alquanto diversa da quella che considerava solo la sussistenza quotidiana; altre valutazioni si andavano proponendo circa le necessità dei poveri, com’è stato incisivamente scritto da Adam Smith:
Per necessario non intendo soltanto ciò che è assolutamente indispensabile per la vita, ma qualsiasi cosa di cui, secondo le convenzioni di un paese, è indecente che la gente per bene, anche del più basso rango, sia priva(17).
Questa concezione del pauperismo avrebbe sicuramente fatto aumentare il numero dei poveri veneziani dell’Ottocento rispetto a qualsiasi stima fatta sino a oggi(18). Inoltre, individuare la giusta modalità per stabilire il livello minimo della qualità di vita, considerando fattori che esulano dallo schema classico dei soccorsi limitati a ciò che concerneva vitto-alloggio e all’incapacità dell’individuo di acquisirli autonomamente, impone di riconsiderare sia la povertà assoluta sia la povertà relativa.
Il pauperismo è un fenomeno caratterizzato da tempi risolutivi lunghi, per gli individui a volte lunghi una vita, per gli Stati a volte lunghi secoli. A Venezia la povertà inizia ad attenuarsi, in maniera apprezzabile, solo dopo la Grande guerra. Estremizzando, l’essenza di tale fenomeno per alcuni aspetti non ha scansioni temporali, è una condizione sempre presente, stretta tra un passato troppo vicino e un futuro remoto: questi sono i tempi della miseria. L’Ottocento, nel nostro caso, segna il confine, o meglio il lento superamento senza ritorno di quella condizione di vita identificabile con un pauperismo in precedenza pressoché irrisolvibile per coloro che nascevano in tale situazione. Regole scritte dalla disperazione più che dai governanti segnavano la linea invisibile che delimitava il precario mondo dei miseri, in cui superare lo stato di permanente necessità per limitarlo a momenti di necessità costituiva una rilevante conquista. Tra i poveri strutturali si coglieva una forma di ‘riproduzione sociale’, perché forte era il condizionamento posto dai natali, quasi un’invalsa attitudine mentale che costringeva molti a identificare il proprio destino in quello di coloro che li avevano preceduti, rafforzati nella rassegnazione da una carità che, sostanzialmente, non era mai venuta meno — si esprimesse attraverso la possibilità di mendicare, di essere assistiti dalle variegate istituzioni di beneficenza o di avere soccorso anche attraverso le famigerate case di lavoro. Era usata e abusata la frase «il circolo vizioso della povertà», intesa come un’esistenza di deprivazione economica ed esclusione sociale le cui cause, per loro intrinseca natura, si riproducevano perpetuando condizioni di abiezione in individui sempre meno reattivi, che accettavano passivamente i vincoli del preesistente come ineluttabile eredità, perché
il pauperismo è l’agglomerazione e la concentrazione di individui, di famiglie in mezzo alla miseria, agglomerazione, concentrazione che diffonde, aggredisce quale il contagio la miseria, la rende persistente, la lascia in eredità, che finisce col togliere la speranza al povero e sostituire nel ricco lo spavento alla compassione. Fu assai bene definita: l’epidemia della miseria(19).
Nella povertà, come afferma Amartya Sen, c’è un aspetto «assolutista» sempre presente: fame e denutrizione(20). Un aspetto che nel periodo trattato è evidenziato dalle patologie ad esso connesse e, per diretta conseguenza, dai relativi interventi assistenziali di natura sanitaria e igienica che costituirono un duro fronte di lotta per gli amministratori veneziani nella seconda metà dell’Ottocento. La concezione di povertà, intesa come problema specifico e non residuale connesso ai mutamenti socioeconomici, è una conquista contemporanea; ancora negli anni Sessanta del Novecento c’erano studiosi che ricercavano l’origine del pauperismo attraverso l’analisi antropologica del fenomeno, cioè nella stessa cultura del povero, come nell’Ottocento avevano fatto molti pensatori sociali, per esempio Ceré, De Petris, Parenti, Neal, Buret, Brugham, i quali asserivano che i poveri morivano di fame per abitudine(21). Da un rapido esame delle cause di morte incluse nella categoria «morte per miseria», costantemente presente nei registri dei decessi, si desume che i poveri avessero «l’inveterata abitudine» di alimentarsi in maniera irregolare, procurandosi così quelle patologie ascrivibili alle ipovitaminosi e alla malnutrizione in generale, ultimo stadio di un’esistenza che sovente si riassumeva in un’infanzia rachitica, scrofolosa. Se i poveri riuscivano a raggiungere l’età adulta erano cronicamente anemici, facili prede di scorbuto, pellagra, tisi(22). Nel loro costo sociale, quindi, si doveva calcolare anche un’inferiore capacità lavorativa, un’alta morbilità e una mortalità più accentuata. L’assistenza a questa massa di indigenti, la cui consistenza varia nel corso del XIX secolo, rimanendo comunque sempre preoccupante, esigeva una risposta competente, efficace ed efficiente, per la quale, però, i tempi non erano maturi(23).
Estremizzando, i mali che affliggevano questi cittadini erano ancora quelli che Carlo M. Cipolla aveva individuato nei poveri dell’Europa preindustriale: «[che] soffriva[no] per gravi carenze alimentari, per inadeguatezza di vestiario, per miserabili condizioni di alloggio» e rappresentavano da tre quarti a quattro quinti della popolazione europea(24). Ma tale era anche il profilo del povero veneziano nell’Ottocento, com’era tracciato dai membri delle storiche fraterne parrocchiali, ispirato dalla pietas e dal banale buon senso, eccetto contingenti aggiustamenti da parte delle autorità comunali.
L’assistenza e la beneficenza del primo Ottocento sono state pesantemente condizionate dal negativo retaggio della scomparsa Repubblica di Venezia, che aveva lasciato un quadro di sconsolante miseria che la fitta rete di opere assistenziali della capitale non riusciva più a fronteggiare. Dopo tredici secoli di storia repubblicana Venezia aveva cambiato sei governi in cinquant’anni; il tormentato periodo tra il 1797 e il 1815, così denso di eventi politici succedutisi in un continuo alternarsi di speranze e delusioni, era stato particolarmente traumatico per la massa dei poveri strutturali e congiunturali della città ingrossata a dismisura dal confuso magma degli accadimenti, che avevano aumentato il depauperamento urbano e attratto i bisognosi del territorio circostante. Nei momenti di crisi l’immigrazione dei poveri determinava il saldo sociale positivo della città.
Gli abitanti in costante calo, dai 136.803 del 1790 ai 100.556 del 1823(25), mettevano in evidenza l’inarrestabile deterioramento della struttura sociale. Nel 1797 su poco più di 100.000 veneziani 40.000 potevano considerarsi poveri, quasi il 50% dei lavoratori(26). Il mondo della carità cittadina era stato connotato in modo indelebile dal governo della Serenissima, con un articolato sistema consolidato dalla tradizione, che nel tempo aveva moltiplicato luoghi pii e soccorsi a domicilio capaci di corrispondere alle più disparate necessità del popolo con mirata specificità a livello di parrocchia (contrada), non ultimo con lo scopo di delimitare per meglio controllare. Il succedersi in breve termine di diversi governi, però, aveva deteriorato in maniera irreversibile questo sistema. In un’atmosfera da tregenda avveniva la distruzione di secoli di civiltà; alcuni peculiari settori lavorativi della società del periodo dimostrano il tracollo della città:
Tab. 3. Alcuni settori lavorativi a Venezia, 1797-1824 Settori 1797 1824 Arsenale 3.302 773 Magistratura 3.447 2.397 Commercio 10.884 3.628 Gondolieri de casada 2.854 297 Gondolieri 3.902 900 Poveri ricoverati 1.446 4.919 Fonti: Jacopo Zennari, Memoria sulla beneficenza pubblica, Venezia 1845, pp. 32-36; Silvio Tramontin, Il patriarca Pyrker e la sua visita pastorale, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, p. L (pp. XLIII-CXXVII).
Sono cifre che si commentano da sé, in particolare per quelle attività esercitate nella unicità della realtà veneziana, che trovava inequivocabili figure della sua storica identità nell’arsenalotto e nel gondolier de casada, «servitore e amico della casa, turcimanno del padrone e confidente della padrona, che si appassionava pei loro come pei fatti suoi», la cui diminuzione era dovuta alla decadenza delle ricche famiglie presso cui lavorava, aristocratiche e non, le quali non potevano più permettersi la gondola privata. Quindi, accanto alla scomparsa di 2.557 gondolieri de casada, è presumibile anche la varia diminuzione di altrettanti patrimoni(27). Ma l’Arzanà, spogliato dai francesi e declassato dagli austriaci, dava forse l’immagine più tragica di ciò che era stata l’antica potenza, e la dispersione dei suoi orgogliosi lavoratori lo confermava(28). Le cause di natura politico-economica che avevano più che triplicato i ricoverati negli ospizi erano le stesse che impedivano ai lavoratori di guadagnarsi il pane.
Ma quel governo cessato, tutte le classi [7] nelle quali scompartivasi la popolazione videro in proporzione mancare od attenuarsi notabilmente le sorgenti delle ricchezze o delle agiate sussistenze loro […] il notabile cambiamento economico per ognuna di queste classi che tenne dietro al cambiamento politico, lasciò affatto senza provvedimento un numero considerevole di abitanti […] ogni sforzo per conservare il lustro di case principesche andò a sbilanciarsi per l’economia de’ ricchi per modo da rovinare affatto i loro patrimoni e molti fra quelli oggidì abbisognano di soccorso(29).
Popolani e nobili erano stati travolti dalla fine della Repubblica. Coloro che avevano lavorato alle dipendenze dello Stato — ed erano molti —, tramandando spesso l’impiego di padre in figlio, dovevano passare ad altra occupazione, ma i più non la trovavano. Tra questi lavoratori andavano annoverati anche gli addetti alla Marina (milizia, amministrazione, operai), per i quali difficilmente c’erano alternative: Venezia non aveva più navi, né più ne costruiva. Migliaia di famiglie di marinai e arsenalotti erano alla fame. I commerci si erano pressoché bloccati per l’interruzione delle relazioni e la mancanza di capitali; le attività artigianali, sia quelle maggiormente qualificate esercitate dai veneziani, sia quelle più vili lasciate solitamente agli immigrati — drasticamente diminuiti — erano ridotte al minimo. Solo i professionisti sembravano reggere la situazione in questo desolante panorama. Ma c’era un’altra categoria che era stata in gran parte espulsa dalle tradizionali mansioni, anche se non nominata nella classificazione statale tanto era poco considerata: «il servidorame che ingombrava i palazzi di Venezia, occupava migliaia di persone» e vantava la trasmissione generazionale, la specializzazione, quasi una dinastia parallela a quella che serviva, la quale concedeva ai suoi domestici privilegi e sinecure(30). La servitù era di difficile rilevazione, a volte dietro il lavoro di un domestico c’era quello di tutta la sua famiglia, oppure un individuo ricopriva incarichi diversi secondo i bisogni, oppure essendo giovane non era retribuito e quindi non era considerato tra i famigli… Una cifra che sembra essere attendibile, risalente al 1760, riporta 12.819 persone tra massere e servitori, su 138.955 abitanti, quasi il 10% della popolazione. Pur considerando il declino della città in atto nel secondo Settecento, è verosimile che la variazione percentuale di questa categoria sul totale della popolazione, che sino al 1802 è sempre stata superiore alle 130.000 unità, oscilli tra 1-2 punti percentuali, non ultimo perché il costo reale dei domestici si limitava molto spesso al puro mantenimento, il salario si poteva procrastinare per anni(31).
L’Ottocento si apriva in una Venezia che doveva affrontare il fenomeno della pauperizzazione di massa. I suoi cittadini erano privi in gran parte delle ordinarie fonti di reddito o salario, ma la soluzione di questa crisi economica e sociale neppure si intravedeva. In tale situazione sarebbe stata ovvia una massiccia emigrazione, ma così non fu, infatti il decremento della popolazione non era stato sufficiente a produrre quella decompressione demografica che avrebbe consentito a chi rimaneva di trovare la sussistenza in loco. Invece, si andava verificando un sovvertimento sociale che negava l’ordine in classi distinte, tanto meticolosamente conservato dalla Repubblica, a causa della mancanza di lavoro e del conseguente decadimento di tanti cittadini. Era caduta la rete delle relazioni di sostegno inserita nel consuetudinario orizzonte assistenziale, si imponeva la riformulazione dei tradizionali rapporti, non ultimo quelli di subordinazione benefattore-beneficato. A tale aspetto si affiancava la necessità di ricondurre le modalità assistenziali alla cultura che le produceva, contestualizzando correttamente la povertà della fase di transizione; diversamente, come in ogni azione sociale, i provvedimenti in merito potevano essere facilmente equivocabili. Tutto ciò induce a riflettere su chi definiva i contorni dell’universo assistenziale, e che povero non era; si trattava solitamente di un osservatore tanto attento quanto esterno alla realtà che doveva descrivere, perché i protagonisti avevano voce solo per mendicare lagnosamente o rivendicare il pane con la violenza della fame.
Durante la Repubblica di Venezia le incombenze della beneficenza pubblica erano variamente ripartite tra senato, procuratori di S. Marco e consiglio dei dieci; i soccorsi a domicilio, invece, erano gestiti da una fraterna grande e da sessantanove fraterne minori. Le opere pie con funzione di ricovero avevano autonomia amministrativa e la loro conduzione, di norma, era affidata a confraternite. Il governo, onde limitare il patrimonio fondiario dei luoghi pii e semplificarne l’amministrazione, nonché per favorire la circolazione dei beni, imponeva periodiche vendite mediante aste pubbliche: il primo di questi provvedimenti risaliva alla terminazione 24 settembre 1333 e l’ultimo alla terminazione 20 settembre 1767; ciò aveva comportato la trasformazione di parte del patrimonio degli istituti in capitali, depositati nella Veneta Zecca a sostegno e a debito dello Stato. Dall’ultimo Stato dei capitali, compilato nel 1796, si rilevava un capitale di L. 18.631.171, con una rendita annua del 3%, pari a L. 558.935; redditi aggiuntivi di altra provenienza per complessive L. 257.023 facevano ammontare la rendita totale a L. 815.958(32). La maggior parte dei capitali apparteneva ai quattro grandi ospedali — Pietà, Derelitti, Incurabili, Mendicanti —, la cuspide di un sistema cui si accedeva quando non c’era risposta assistenziale ai livelli inferiori. Questo complesso apparato aveva caratteristiche peculiari, dovute anche alla specificità territoriale di Venezia. Alcune istituzioni scomparvero ancora in età repubblicana per l’estinzione del fine statutario, altre furono adeguate ai nuovi bisogni, basti ricordare quelle nelle isole lagunari (prima ospizi o lazzaretti per gli appestati, poi manicomi, sanatori, ricoveri, ospedali per malattie infettive ed esotiche). La concezione di una rete assistenziale cittadina, diffusa su tutta la laguna urbanizzata, era stata sostenuta dal convinto spirito caritativo originario che aveva portato alla formazione di oltre cento luoghi pii(33).
Il sistema di carità legale instaurato dal riformismo illuminato doveva fronteggiare soprattutto il latente pauperismo di coloro, ed erano molti — artigiani, giornalieri, ecc. —, la cui attività non dipendeva dall’organizzazione d’impresa, ma erano posti in stato di necessità da eventi congiunturali difficilmente gestibili, che tendevano a proporsi con sempre maggiore frequenza. Essi rappresentavano una composita massa di poveri congiunturali in cui confluivano anche coloro che, con intima umiliazione, vi facevano parte per accidentale mancanza di lavoro e coloro che con calcolata astuzia si autodefinivano tali pur non avendone pienamente diritto, perché non erano ascrivibili a precise categorie lavorative, esperti nell’antica ‘arte di arrangiarsi’, capaci di inventare quotidianamente nuove professioni poiché in realtà non ne esercitavano nessuna. E questo avveniva mentre i poveri strutturali continuavano a essere meticolosamente definiti, dalle fraterne o dagli statuti delle istituzioni che li sovvenivano, onde limitare il più possibile il numero dei sussidiati. Le autorità miravano a contenere la povertà strutturale, con la consapevolezza della sua impossibile eliminazione, ma molto di più investivano in risorse umane ed economiche nei confronti della povertà congiunturale, considerata risolvibile attraverso adeguati interventi di tipo educativo-professionalizzante. Questa concezione assistenziale, però, faticava a emergere in un ambiente dove la tradizione repubblicana dei soccorsi a domicilio era ancora forte, sia tra gli assistiti sia tra i benefattori; inoltre, l’erogazione degli aiuti attraverso i secolari metodi significava, non ultimo, un teorico rifiuto del centralismo amministrativo, perché nella prassi era pressoché impossibile eluderlo.
Con slancio utopico nel 1797 la deputazione alla economia pubblica del governo democratico aveva progettato una «Casa Patria» per accogliere la moltitudine dei cittadini bisognosi, la quale avrebbe dovuto riunire tutte le amministrazioni dei luoghi pii in un’unica gestione, accorpando le istituzioni della zona settentrionale del sestiere di Castello, dall’ospedale dei Mendicanti sino alle mura dell’Arsenale (un quartiere assistenziale). I ricoverati/reclusi sarebbero stati adibiti ad appropriate attività e assistiti in caso di malattia. Ma la fugace avventura democratica tramontava lasciando il progetto sulla carta e Venezia con meno abitanti e più poveri, soprattutto «mendicanti di ogni età e di ogni condizione […] nel 1800 i classificati ufficialmente come tali erano più che ventimila»(34).
Per le anagrafi veneziane i poveri erano «persone senza fissa dimora e senza mestiere», in questa categoria confluivano donne di ogni età e maschi sotto i quattordici anni e sopra i sessanta, se impotenti al lavoro(35). Nell’universo del pauperismo cittadino, quindi, una particolare menzione meritava la problematica presenza femminile, perché il suo potenziale lavorativo non era considerato un efficace deterrente alla miseria, neppure in età adulta. Tale concezione, seppure con toni più sfumati, era presente ancora nel primo Ottocento, nella fase di passaggio verso forme diverse di assistenza femminile, volte all’inserimento nel mondo del lavoro e non più ad una passiva elargizione benefica. Orfane, malmaritate, ex prostitute, fanciulle in pericolo d’onore, vedove, erano solitarie figure di incerto valore sociale, che emergevano nei momenti di crisi in tutta la drammaticità di coloro che, sminuite perché donne sole (o forse perché ‘solo donne’), erano poste ai margini della società da rigide gerarchie di valori. È un fenomeno ancora oggi non adeguatamente studiato, pur essendo un evento che interveniva significativamente nelle dinamiche relazionali e interferiva nelle consuetudinarie modalità assistenziali; la sua conoscenza consentirebbe di ricostruire le pratiche sociali e l’immagine di un’emarginazione solo parzialmente conosciuta all’esterno delle istituzioni femminili di ricovero(36). Il percorso di vita di queste donne, poste ai limiti del vissuto femminile dalla società e dalle istituzioni, induce a considerare come i sistemi di aiuto messi in atto dalla comunità per erogare loro sussidi e conforti di vario genere fossero al contempo un atto caritativo e un tentativo — almeno nelle intenzioni — di arginare una forma di pauperismo che secondo i contemporanei era foriera di sicura immoralità(37). Gli istituti assistenziali nei confronti delle ricoverate, indipendentemente dall’estrazione sociale, avevano funzioni di tutela che si traducevano in compiti di protezione e controllo simili a quelli famigliari, proponendo indirettamente la famiglia quale unico ambito di vita per la donna(38). La massiccia presenza nella Serenissima di istituzioni e soccorsi a loro destinati, dal trecentesco Ospeal de le Pute di calle S. Domenico al settecentesco pio luogo delle Penitenti di S. Giobbe, si snoda nei secoli ininterrottamente con la fondazione di opere a favore di coloro che, allora a ragione, erano considerate nell’intero corso della loro esistenza i soggetti più deboli tra i poveri, una tradizione che continua anche nella Venezia ottocentesca con la creazione di istituti per le ragazze del proletariato urbano(39).
Essere sole ed essere donne costituiva un prerequisito di povertà, mentre per gli uomini lo spettro della miseria era da sempre individuato nella mancanza di lavoro nelle età estreme della vita o nella malattia; questo criterio aveva indirizzato la creazione delle istituzioni maschili prevalentemente per il ricovero di anziani e malati, lasciando l’assistenza dei ragazzi sotto i quattordici anni, indistintamente, agli orfanotrofi, nei quali lo spirito caritativo veneziano si preoccupava della loro educazione morale, dell’alfabetizzazione e, soprattutto, di insegnare un mestiere, perché quest’ultimo rappresentava la migliore garanzia contro il pauperismo e ogni forma di devianza(40). Invece, l’assistenza ai maschi in età adulta cominciò a mutare, significativamente, solo a fine Ottocento, quando furono avviati i primi interventi di carattere previdenziale(41).
Durante la prima epoca austriaca non vennero attuate incisive riforme delle opere pie, né delle congregazioni a esse preposte; degne di nota, sul piano teorico, furono la creazione di una magistratura denominata Delegazione alle pie fondazioni, con compiti di superiore tutela, e l’istituzione nel novembre 1800 della «Cassa detta de’ Poveri [con capitale proveniente da] spontanee offerte de’ Possidenti, e viventi d’industria col mezzo sì delle già insinuate volontarie sottoscrizioni, che nelle Casselle, che saranno istituite in tutte le Chiese, e delle Borse alle Prediche», cui si aggiungevano l’aumento del biglietto d’ingresso ai teatri, le somme provenienti da spettacoli e da varie imposizioni fiscali. L’onere dell’esecuzione di questa iniziativa spettava all’I.R. supremo tribunale di sanità(42). Ma, a causa dell’annosa cattiva amministrazione degli istituti e degli ulteriori dissesti avvenuti nell’ultimo periodo repubblicano, e soprattutto per la perdita dei capitali depositati in Zecca che il governo austriaco non aveva voluto riconoscere, la beneficenza veneziana rischiava di non poter più corrispondere ai suoi scopi. Il governo austriaco, pertanto, dovette assegnarle un sussidio annuale di L. 424.580 per l’esercizio delle competenti funzioni, erogazione che mantenne sino al 1805(43).
Il sistema caritativo cittadino era concettualmente antico a fronte delle nuove povertà emergenti dal marasma del succedersi dei vari governi, e indicava la fragilità di un mondo obsoleto in cui era difficile avviare le necessarie riforme di ammodernamento istituzionale senza ledere tradizioni e privilegi.
L’assistenza e la beneficenza veneziana del XIX secolo sono state segnate dalle idee francesi ben oltre la fine del governo italico: l’attività riformistica in questo settore, delineata dai fondamentali decreti del 18 giugno e 21 dicembre 1807, ha segnato l’inizio di una nuova politica assistenziale, improntata alla razionalizzazione amministrativa delle opere pie. La riforma assoggettava la beneficenza al Ministero dell’Interno e aveva il compito prioritario di imporre alle amministrazioni cittadine di sanare i bilanci delle istituzioni attraverso la fondazione delle congregazioni di carità. La congregazione era diretta dal prefetto del dipartimento, coadiuvato dal patriarca, dal presidente della Corte d’appello, dal podestà e da dieci cittadini di nomina regia appartenenti alle classi dei legali, dei proprietari e dei commercianti, i quali prestavano gratuitamente la loro opera. La congregazione aveva concentrato in un’unica amministrazione gli ospedali, gli ospizi, i lasciti e le fondazioni di pubblica beneficenza d’ogni genere; era articolata in tre commissioni le cui competenze erano così ripartite: ospedali, ospizi e orfanotrofi, fondi elemosinieri. In particolare, l’attività della terza commissione era stata profondamente innovativa per Venezia, perché a essa spettava la gestione delle tradizionali fraterne ricostituite in ogni parrocchia, ma prive di rendite proprie, poiché il governo aveva incamerato il loro patrimonio ancora nel 1806, azione ratificata poi con il decreto del 18 giugno 1807. Al Municipio spettava la gestione della pubblica beneficenza, finanziata con le rendite particolari dei vari istituti, sommate a quelle del neocostituito Monte Napoleone e di L. 500.000 annue derivanti dai capitali di Zecca. Inoltre, gli erano addebitate le spese per il culto — circa L. 200.000 annue — e i sussidi assunti dallo Stato per le congregazioni religiose e le sessantanove fraterne della città al tempo della prima demaniazione (28 luglio 1806)(44).
Ma l’onere della pubblica beneficenza aveva ulteriormente dissestato le già precarie finanze comunali, al punto che nell’agosto del 1811 si dovette procedere alla vendita straordinaria di alcuni beni a favore dell’Ospedale Civile, pena il suo funzionamento. L’ospedale era stato istituito con decreto italico 18 giugno 1807 e riuniva «gli ammalati dei veneti antichi quattro ospedali di SS. Pietro e Paolo a S. Gioacchino di Castello; di Messer Gesù Cristo in campo S. Antonio a Castello; Incurabili sulle Zattere e Derelitti a SS. Giovanni e Paolo»(45).
Nel 1811 il governo francese estendeva anche a Venezia il bando della questua; perché il secolare problema dei mendicanti era divenuto insostenibile, a esso si aggiunse nel gennaio dell’anno seguente, come ulteriore misura deterrente, l’istituzione delle Case di ricovero e d’industria collocate nell’ex convento di S. Lorenzo, destinate al lavoro volontario, compensato prima col vitto e dopo l’apprendimento di un’attività con denaro. S’intendeva così offrire
lavoro e mezzi di sussistenza ai poveri del Comune, atti al travaglio, che per qualsiasi circostanza mancassero del modo di guadagnarsi il necessario loro sostentamento e volontari si presentassero allo stabilimento, e di raccogliere, custodire e educare in un riparto apposito i fanciulli poveri del Comune abbandonati nell’ignoranza e nell’ozio per formare onesti e abili operai(46).
Riabilitare al lavoro è spesso impossibile e imporre il lavoro è tutt’altro che facile.
Il principio fondante delle istituzioni francesi era quello di collocare i bisognosi in luoghi rispondenti alle loro specifiche necessità, quindi per coloro che erano divenuti impotenti per età nel 1812 era fondata la Casa di ricovero presso l’ospedale dei Derelitti, lasciato libero l’anno precedente dagli orfani cui era stato parzialmente destinato in origine(47). Infatti nel 1811 gli orfani veneziani, maschi e femmine, sparsi in vari istituti con diverse finalità, erano ‘democraticamente’ concentrati nell’ex convento delle Carmelitane di S. Teresa — di qui il nome «alle Terese» —, in seguito destinato alle sole orfane. L’emergenza del momento aveva poi lasciato ai margini dell’interesse degli amministratori quest’opera, tanto che era divenuto un ‘contenitore assistenziale’ la cui unica prerogativa era di custodire e sfamare i ricoverati, cosa che peraltro faceva decisamente male(48).
L’indigenza «incolpevole» dilagava, le sovvenzioni governative straordinarie non riuscivano a sopperire ai crescenti bisogni di ospizi e fondi elemosinieri, la crisi economica in atto vanificava ogni intervento; la meteora napoleonica aveva assestato l’ultimo devastante colpo a una società fatiscente, che non aveva bisogno di elemosine bensì di un governo stabile e di lavoro. Ogni altro provvedimento sarebbe stato soltanto un placebo. Sicuro indice della negativa congiuntura era il decremento della popolazione cittadina, valutata in 117.000 unità nel 1808(49). E quanti erano i poveri fra questi? La mancanza di un criterio chiaro e univoco per stabilire chi fossero le persone realmente in stato di necessità rende impossibile azzardare qualsiasi cifra, perché risulterebbe comunque errata; ma se non si può pervenire a una quantificazione esatta, si può tentarne una stima. Il clero curato, come sempre, definiva i poveri in rapporto ai bisogni concreti della quotidianità, secondo un’accezione più ampia di quella civile, così che nei documenti parrocchiali risultavano sempre più numerosi che nei registri pubblici, perché a coloro che vivevano la povertà come propria costante condizione aggiungevano coloro che subivano i processi di impoverimento causati dalla fase congiunturale. Ciò induce a considerare che, mediamente, un quinto della popolazione del primo ventennio dell’Ottocento, pari a circa 22.000 persone, fosse genericamente povera, bisognosa di aiuto per sopperire alla giornaliera sussistenza; a questa deduzione, però, affiancherei un dubbio: quelli che avevano fame avrebbero dovuto essere molti di più sulla scorta delle precedenti rilevazioni(50). Raffrontando il pauperismo veneziano del periodo napoleonico con quanto rilevato da Woolf per Firenze nel 1810-1812 la mia presunzione di soprastima sarebbe avvalorata, infatti su una popolazione di 80.000 abitanti al 1808 la media annua dei poveri colà assistiti era di 8.600, poco più di un decimo(51). Ma si fa strada anche l’ipotesi che le erogazioni potessero essere diverse: erano ingenerosi i fiorentini oppure i veneziani davano aiuti meno consistenti, riuscendo così a raggiungere un maggior numero di bisognosi?
Gli interventi francesi, «demolitori e innovativi» per le opere pie, avevano certamente dato un significativo segnale a molte obsolete istituzioni veneziane, quando non drasticamente applicati, ma la loro efficacia era stata in gran parte vanificata dalla laicità che li ispirava e dall’arroganza di una normativa, minuta e pedante, pensata altrove e imposta con autoritarismo, che si scontrava con le consuetudini elevate a sistema, con particolarismi che consentivano di individuare esattamente il soggetto assistenziale(52). Diversa era invece la situazione delle istituzioni di ricovero, quale che fosse il loro compito, che dovevano rappresentare lo strumento più efficace dell’assistenza. Esse, sin dai primi tentativi francesi di razionalizzazione, avevano avviato una serie di adeguamenti e miglioramenti consoni alla nuova politica, con una strategia che aveva consentito, per molti aspetti, di mantenere un’organizzazione mai precisamente definita, bensì sempre suscettibile di ulteriori ridefinizioni, soddisfacendo più gli antichi benefattori che i nuovi assistiti(53).
Cesare Cantù nel 1813, in una Venezia devastata dalla carestia e da un’epidemia di tifo, asseriva che i poveri sussidiati dall’erario erano 44.000 su 140.000 abitanti, cifre sicuramente derivanti da una stima anziché da un preciso conteggio, che non concordano per eccesso con altre più attendibili informazioni, ma che comunque riportano una percezione contemporanea della gravità del momento(54). A fronte di un così alto numero di bisognosi l’esatta individuazione del confine teorico tra povertà strutturale e povertà congiunturale diveniva prioritaria, perché la povertà congiunturale poteva facilmente diventare una condizione irreversibile, cioè povertà stabile. Varcare la soglia del pauperismo congiunturale significava certamente entrare in un mondo di precarietà, ma anche mantenere la speranza di limitare la necessità alle fasi congiunturali.
In concreto il progetto assistenziale francese si era ridotto alla destrutturazione del vecchio sistema senza pervenire a una nuova organizzazione; forse erano mancati il tempo, i finanziamenti, o semplicemente la determinazione di arrivare a compimento. Il 2 ottobre 1796 Napoleone aveva scritto al Direttorio: «Di tutti i popoli d’Italia il veneziano è quello che ci odia di più»(55), sentimento confermato dai fatti, anche in ambito assistenziale.
La seconda dominazione austriaca iniziava con una decisa opera di disciplinamento in ogni settore della vita veneziana, e anche il caotico mondo dell’assistenza era avviato a profondi rivolgimenti istituzionali nel nome di una restaurazione che in questo settore, paradossalmente, significava innovazione(56). In ambito caritativo è opportuno ricordare il fermo controllo statale sulla Chiesa, che riecheggiava il non lontano giuseppinismo:
allo spirito di carità cristiana, preferirono appellarsi alla filantropia; all’obolo spontaneo sostituirono il principio del dovere sociale, alla mendicità il diritto all’assistenza […]. Vietarono l’accattonaggio, prescrissero l’inventariazione dei poveri. Burocratizzarono ospedali, brefotrofi e nosocomi […]. Riducendo lo spazio della carità privata(57).
Venezia risultava subito svantaggiata dal nuovo assetto asburgico, perché era subordinata a Milano e a Trieste porto imperiale; lo svilimento della sua posizione era inequivocabile e assestava un duro colpo alla già disastrata situazione socioeconomica, producendo ulteriore depauperamento in una popolazione stremata dalla carestia e dalle malattie. Venezia «era in quel tempo quasi una città morta»(58). In questo frangente emergeva la figura del patriarca Ladislao Pyrker, espressione della politica ecclesiastica di Vienna che, quale presidente della commissione generale di pubblica beneficenza, nel luglio 1825 presentava a Francesco I una relazione sulla triste situazione della città, scrivendo tra l’altro:
Non si odono che lamenti di negozianti decaduti nell’estrema indigenza, di capitani mercantili che si querelano del loro ozio, di marinai, di fabbricatori, artisti e barcaioli licenziati dai loro padroni, senza saper dove ricorrere […]. Riconosco crescer l’indigenza tanto rapidamente quanto vanno scemando le attività commerciali.
Nel 1824 a Venezia su 99.827 abitanti erano «sovvenuti giornalmente dalla commissione come impotenti 2.563, sussidiati dalla stessa nei casi di bisogno 38.201», di qui i 40.764 iscritti nel registro dei poveri secondo le attestazioni di povertà rilasciate dai parroci: una cifra troppo contenuta per Pyrker, ma eccessiva per altri che li ritenevano invece «Artisti del tutto provveduti di perenne occupazione»(59). Il «Journal des Débats» del 19 novembre 1825, al fine di screditare il governo asburgico, sosteneva che ci fossero addirittura oltre 70.000 veneziani indigenti perché disoccupati. Il bailamme di queste cifre si commenta da sé, la discriminante povertà strutturale-congiunturale era lasciata alla libera interpretazione, o forse sarebbe più esatto dire «intuizione». Ciò che risalta, invece, è l’incapacità di determinare la linea di povertà di una società in gran parte abituata, da decenni, alla sottosussistenza come situazione di normalità e il numero di poveri concretamente prodotto dai fondi elemosinieri disponibili, come già rilevato in precedenza nel presente studio. Pyrker, in quell’occasione, sosteneva pure che, «crescendo l’indigenza tanto rapidamente quanto vanno scemando le attività Commerciali», l’unico freno al pauperismo consisteva nel risanamento dell’economia cittadina(60). Sostanzialmente ciò che ben quarant’anni dopo, nel 1865, avrebbe scritto anche il direttore di polizia di Venezia:
perché nulla avviene per impedire il progresso di questo male, per rianimare industria e commercio, per aprire al povero nuove fonti di guadagno […] a queste cose si dovrebbe rivolgere la mente e rivolgere inoltre il pensiero e le cure all’educazione delle basse classi della popolazione o affatto trascurata, o assai male diretta, se si vorrà vedere se non tolto, diminuito il male veramente vergognoso, veramente deplorabile, di cui si tratta, combattendolo nelle sue cagioni […] ma aggiungo che la fame, sia che essa derivi da colpa, da sventura dell’individuo o da cagioni a lui estranee, sarà sempre più potente a spingerlo al mendicare, di quello che possa essere a ritrarnelo la repressione più severa anche quando fosse certo di non poterla sfuggire(61).
Quarant’anni di mitizzato buon governo erano passati invano per i poveri cittadini.
L’interpretazione economica della genesi del pauperismo veneziano nella seconda dominazione austriaca risalta dalla comparazione della popolazione veneziana del 1797-1824, divisa per classi:
Tab. 4. Popolazione veneziana, 1797-1824 Classi 1797 1824 Nobili 3.477 2.164 Cittadini 5.090 3.339 Religiosi 1.341 *1.109 Monache 1.706 — Ebrei 1.642 1.980 Ricoverati 1.446 **4.919 Popolari 122.530 84.827 Pensionati — 2.909 * religiosi e monache; ** oltre un decimo erano rappresentati dagli assistiti del brefotrofio. Fonte: Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3382/23, Prospetto dimostrante la popolazione di Venezia 1797 col confronto di quella dell’anno 1824, c. 1.
Tutte le classi rilevate erano diminuite, solo ebrei e ricoverati erano aumentati, i «popolari», che costituivano la parte più numerosa della popolazione, avevano subito un calo di circa un terzo, come pure i nobili; in compenso appariva il nuovo aggravio di 2.909 pensionati.
Venezia passava dai 99.485 abitanti ‘indigeni’ del 1829 ai 127.925 del ’46, grazie al saldo sociale costantemente positivo, seppure sempre relativamente contenuto(62). Ma chi immigrava a Venezia? Povera gente che apparteneva ai tradizionali flussi di bellunesi, trevigiani, udinesi e isolani della laguna, che si adattavano a umili lavori mal remunerati e credevano ancora nel miraggio della città o, più precisamente, come in un recente passato, nelle sue generose istituzioni caritative. Un saldo sociale positivo che incrementava la povertà cittadina.
La ‘dinamicità carsica’ della Restaurazione, però, è stata parzialmente ostacolata dalla persistenza culturale nei veneziani degli elementi simbolici di una cultura della povertà ormai superata, ma forte di un nucleo di antichi valori in cui si riconosceva il sentimento di appartenenza alla storia caritativa dell’ex capitale(63). L’operato della commissione generale di pubblica beneficenza, particolarmente incisivo nei primi anni della Restaurazione, consente di comprendere questo atteggiamento. Fondata nel 1816, essendo patriarca Francesco Maria Milesi, favorito da un governo che ne assecondava l’opera, essa avocava a sé le funzioni elemosiniere e i soccorsi a domicilio, svolgendo la sua attività nell’insondabile disagio sociale che aveva travolto anche la società civile del periodo(64). L’organigramma era formato da cinque deputati preposti alla sezione amministrativa, da sei deputati preposti alla cassa e da cinque deputati preposti alle elemosine, ed era presieduta dal patriarca, che delegava in sua rappresentanza un vicepresidente laico(65). I finanziamenti su cui basava il suo operato erano quelli propri delle antiche fraterne, individuabili nelle elemosine, nei lasciti testamentari, nei proventi di alcune multe, nelle tasse a favore dei poveri stabilite sui biglietti teatrali e ogni altro provento che la commissione riusciva a realizzare. Settori d’intervento privilegiato erano: l’assistenza ai poveri inabili al lavoro riconosciuti tali dalle fraterne, che diversamente avrebbero dovuto mendicare; il collocamento di ragazzi superiori ai dieci anni orfani o abbandonati presso famiglie od ospizi; l’asilo alle ragazze «pericolanti»; il ricovero dei vecchi impotenti che non erano accolti nei pubblici istituti; il soccorso a domicilio dei malati poveri iscritti alle fraterne, fornendo loro cure e biancheria(66). Si desume chiaramente che la commissione esercitava le prerogative assistenziali delle fraterne di epoca repubblicana, ma con una diversa gestione economica e con i limiti posti dall’organizzazione austriaca che sollecitava ogni azione atta a togliere potenziali mendicanti e «mal viventi» dalla pubblica via. Comunque, a conferma della continuità dello spirito delle fraterne si consideri che gli organismi esecutivi erano le trenta fraterne parrocchiali — riorganizzate —, e tra il 1836 ed il 1856 le cinque deputazioni di carità di sestiere. Le deputazioni, nei vent’anni in cui operarono, avevano funzione di supervisione sull’attività fraternale, il che comportava molte controversie con i numerosi confratelli che non si adeguavano alle direttive amministrative del governo e intendevano agire con la tradizionale liberalità, mirata a soddisfare le necessità contingenti anziché a rimuovere le cause del bisogno. In funzione della capacità dimostrata dalle fraterne, in particolare nell’esercizio dei soccorsi a domicilio, nel 1830 e nel 1836 i loro regolamenti erano stati perfezionati, onde consentire un’azione più efficace, perché era oramai assodato che questo tipo di aiuti sgravava la ben più onerosa spesa delle istituzioni di ricovero, secondo il principio dell’«economicismo assistenziale» tanto esaltato dall’Austria(67). Sulla reale qualità degli aiuti derivanti da questo sistema si potrebbe disquisire a lungo. La commissione, tra meriti, demeriti e una significativa riforma nel ’56, era stata attiva sino al gennaio del 1865, quando fu assoggettata a un nuovo statuto che stabiliva quale suo scopo il concorso, mediante i soccorsi a domicilio e la cooperazione con altre istituzioni, al bando della questua, al fine di mantenere nel proprio domicilio coloro che diversamente si sarebbero riversati sulle strade a cercare sostentamento. Le sue fonti di finanziamento rimanevano inalterate. La commissione aveva quindi riorganizzato le fraterne, onde renderle efficacemente operative secondo le nuove direttive, trasformandole di fatto in associazioni fra liberi cittadini che contribuivano con quote annuali all’attività delegata di beneficenza elemosiniera, gestita in ultima istanza da una deputazione fraternale di sestiere. I rigidi limiti posti all’erogazione dei sussidi, la complessa contabilità cui la carità diretta era soggetta, segnarono la fine di un’azione che traeva origine direttamente dalla pietas paleocristiana. L’Austria incoraggiava la carità legale, ma i cattolici moltiplicavano gli sforzi per sovvenire coloro che ne erano esclusi. Le stesse opere parrocchiali di assistenza non tendevano a sostituirsi alla carità legale, garantivano però aiuto a quei bisognosi che esulavano dalle categorie individuate dalla carità legale con spirito filantropico (non ultimo per ribadire il loro potere sui poveri), perché le parrocchie dell’Ottocento erano organizzate «come servizio spirituale e materiale ai poveri»(68).
In questo contesto è significativo rilevare che nelle statistiche asburgiche era stata eliminata la categoria «persone senza fissa dimora e senza mestiere», perché la pubblica mendicità era stata bandita e, di conseguenza, questa tipologia di poveri era scomparsa d’ufficio; pertanto le istituzioni caritative specificamente preposte a tale scopo non avevano più motivo di esistere. Ma, nell’assistenza parrocchiale, i mendicanti occupavano il posto di sempre, quello individuato in base ai reali bisogni della sussistenza(69).
In parallelo alla restaurazione delle istituzioni caritative di matrice religiosa, così profondamente radicate nel popolo veneziano e non a caso oggetto di particolari attenzioni da parte di un governo che cercava di utilizzare il clero per i propri scopi anche attraverso l’esercizio della beneficenza, era stata avviata la riorganizzazione delle opere pie laicali, con numerosi — spesso fumosi — interventi legislativi. Il primo atto era consistito nella restituzione agli istituti di beneficenza, da parte del Municipio, di tutti i loro patrimoni amministrati in forza del decreto italico 7 dicembre 1807(70); successivamente, con la risoluzione sovrana 19 luglio 1819 era stata proclamata la generale riforma della pubblica beneficenza, che determinava tra l’altro la soppressione della congregazione di carità. Nel 1826 si perfezionava l’intervento organizzativo del governo sulle opere pie, dando loro completa autonomia nel rispetto delle «Tavole di fondazione», dello scopo e delle gestioni patrimoniali, basandosi sul principio che non potevano essere «cumulativamente amministrati se non quegli Istituti pei quali tale misura si fosse resa necessaria per imperiosi motivi di disciplina o di migliore economia»(71). Le istituzioni veneziane erano pertanto divise in sette gruppi: 1) Ospedale Civile; 2) Istituto esposti; 3) Casa d’industria; 4) Casa di ricovero, ospizi sparsi e fondazioni speciali; 5) Orfanotrofi, Casa delle Penitenti e commissaria Bartoli; 6) Zitelle, Catecumeni, Ca’ di Dio, commissaria Garzoni; 7) Commissione generale di pubblica beneficenza e fraterne parrocchiali (Venezia, Archivio StoricoComunale, Relazioni Municipali dal 1857 a tutto il 1871).
Tale ripartizione rimase in vigore sino alla risoluzione sovrana 29 dicembre 1861, quando per motivi organizzativi ed economici fu deciso l’accentramento dei pii istituti, verificatosi gradualmente tra il 1863 ed il 1865, garantendo però l’autonomia delle singole fondazioni e della commissione(72). La gerarchia di tale ripartizione, a posteriori, sembra si possa interpretare sulla base delle priorità determinate dalla valenza dell’intervento sociale in quelle forme di pauperismo che il governo asburgico era fermamente intenzionato a contenere e sottoporre a ferrei regolamenti di controllo sociale. Nel più generale programma assistenziale che privilegiava le istituzioni di ricovero e cura, l’Ospedale Civile e il brefotrofio di S. Maria della Pietà furono oggetto di particolari attenzioni, non solo per la disastrosa situazione in cui erano stati lasciati dal cessato governo, ma perché rientravano in un più ampio progetto che tendeva a restringere gli interventi di ricovero alla cura dei malati acuti e dell’infanzia abbandonata, peraltro abbassando la soglia dell’emancipazione degli illegittimi. Le Case d’industria e di ricovero quale scopo primario, ed esplicito, avevano la lotta alla mendicità, ma con metodi più di tipo poliziesco che caritativo; la Casa d’industria di S. Lorenzo era stata esclusa dalla riforma del 1826, perché direttamente dipendente dal Comune(73), già proprietario dello stabile sede dell’istituto dal gennaio 1812. Il patrimonio di questa controversa istituzione nel 1820 ammontava a L. 208.420 fra materie prime, manifatture, utensili e denaro, ed era costituito da fondi erariali(74). Le altre opere pie, ereditate dalla passata capitale repubblicana, sarebbero state oggetto di revisione al fine di corrispondere alle nuove emergenze, ma con la sapiente cautela di una classe di efficienti burocrati che dovevano rendere accettabili al popolo cambiamenti non sempre rispettosi di quel passato cui era così pervicacemente legato(75).
In questo contesto, è degna di nota l’attenzione riservata all’assistenza educativa di ricovero per gli orfani e l’infanzia bisognosa, sostenuta dall’emergenza di centinaia di bambini d’ambo i sessi istituzionalizzati ma in deplorevole abbandono morale e materiale, a causa dell’incompiuta riorganizzazione francese. Una percezione dell’infanzia bisognosa quale potenziale futura popolazione povera, relativa ai principi del tempo, determinava l’azione degli amministratori austriaci nei confronti di orfani e abbandonati: la soglia della loro autonomia — emancipazione — non era un evento anagrafico, bensì sociale ed economico. Queste categorie di poveri erano relativamente gestibili sotto il profilo del controllo sociale sino all’emancipazione, poi il loro inserimento nella società diventava essenziale, pena il fallimento dell’obiettivo che perseguiva la politica sociale asburgica: evitare che andassero a ingrossare le file degli assistiti. Ma il governo non prevedeva il loro futuro occupazionale, eccetto un certo numero di posti nella Marina per gli esposti «d’indole più fiera e ostinata», quasi una punizione anziché la garanzia di un lavoro(76).
Nel 1815 l’orfanotrofio alle Terese era diventato la sede definitiva dell’omologa istituzione femminile e i 110 orfani maschi erano accolti nell’ex convento dei Gesuati, di qui il nome dell’orfanotrofio maschile. Però, al progetto amministrativo di riorganizzazione degli orfanotrofi non era seguito il necessario impegno educativo e finanziario, così che nel 1830 il direttore dell’orfanotrofio dei Gesuati, i cui ricoverati erano destinati a diventare domestici e artieri (solitamente sarti e calzolai), dichiarava al patriarca Monico che i ragazzi uscivano dall’istituto senza sapere fare niente, né le cose migliorarono quando si affidarono gli orfani ad artigiani esterni come apprendisti. Situazione simile anche per l’orfanotrofio femminile, che accoglieva 224 ragazze istruite nei lavori donneschi: le orfane erano molto trascurate, al punto che vendevano le loro razioni di cibo e i vestiti in dotazione. Se gli orfani giunti all’età dell’emancipazione — 18 anni per i maschi e 24 per le femmine — non trovavano lavoro o marito, per entrambi non restava che la Casa di ricovero se erano malati e quella d’industria se erano sani(77).
L’antico Conservatorio delle Zitelle sotto l’Austria aveva ritrovato la sua specificità, ma non quei capitali che gli avevano consentito in passato di dotare convenientemente le educande all’atto dell’emancipazione, né la deputazione che si occupava di maritarle o comunque collocarle, al punto che, non potendo a norma di statuto licenziarle previa sistemazione, da molti anni le manteneva al suo interno. Nel 1851, quando l’istituto venne affidato alla Congregazione delle suore maestre di S. Dorotea, le ragazze sotto i 24 anni rappresentavano una quota inferiore al 25% delle assistite, percentuale destinata a mutare molto lentamente, così che otto anni dopo le suore abbandonavano il Conservatorio stante l’impossibilità di svolgere la loro mansione(78).
L’ultimo doge di Venezia, Ludovico Manin, nel suo testamento del 1802 aveva lasciato un ambizioso progetto destinato all’assistenza educativa che, ironia della sorte, doveva essere realizzato dagli austriaci; aveva lasciato 100.000 ducati a beneficio di pazzi, mentecatti, ragazzi e ragazze abbandonati o che non potevano ricevere adeguate cure dalle loro famiglie, affinché fossero avviati all’artigianato oppure all’agricoltura(79). A seguito delle vicissitudini politiche e della svalutazione del capitale iniziale, solo nel 1833 la commissione generale di pubblica beneficenza acquistava un vecchio edificio a S. Antonino per i ragazzi, dimostratosi subito insufficiente allo scopo, tanto che parte degli assistiti erano collocati presso artigiani veneziani o in campagna, e le ragazze, in genere non più di 50, presso famiglie contadine o in istituti veneziani. Dal 1854 alcune erano state ospitate nella scuola di carità delle Figlie di S. Giuseppe a S. Giovanni Decollato(80). Simbolicamente possiamo considerare questa istituzione l’ultima fondazione della Serenissima, che grazie al cospicuo lascito del conte Giambattista Sceriman nel 1857 poteva realizzare l’originario progetto, stabilendo nella sede di palazzo Sceriman la sezione maschile affidata ai padri Somaschi e quella femminile a S. Sebastiano affidata alle Figlie di S. Giuseppe. Gli allievi del «Manin» si emancipavano alla stessa età degli orfani degli altri istituti, ma per disposizione del fondatore erano affidati alla protezione di una dama, responsabile di fronte alla commissione generale di pubblica beneficenza(81).
Il sistema assistenziale austriaco presentava una funzionale articolazione e, per taluni aspetti, l’obiettiva capacità di razionalizzare gli interventi di controllo sociale che si proponeva, ma c’era chi lo accusava di essere rivolto a una popolazione «apparentemente incosciente» che si abbandonava alla divina Provvidenza, che viveva alla giornata perché solo di quella aveva certezza e l’imprevidenza era un modo per esorcizzare la malasorte. L’assistenza della seconda epoca austriaca aveva sempre oscillato tra la riprovazione morale per tali poveri e l’insuperabile dissesto economico delle opere pie, che non riusciva a controllare proprio perché non mirava alle cause del fenomeno, individuabili non nel deprecato atteggiamento del popolo ma nei problemi economici che travagliavano da decenni la città.
A Venezia nel luglio 1843 su 126.676 abitanti 41.716 erano «qualificati come giornalieri miseri, mentre un numero quasi pari ai poveri, cioè 41.296 si aveva nel 1836 sopra 120.293 abitanti»(82); pur nelle consuete improbabili catalogazioni dei bisognosi che rivelano queste definizioni, l’andamento socioeconomico negativo è evidente. Anche non affrontando l’irrisolto problema della determinazione della soglia di povertà o dei «poveri lavoratori», leggendo in filigrana la citazione si desume come la differenza tra lavoratori attestati su infimi e incerti salari, quali i giornalieri, e i poveri fosse puramente linguistica, almeno per i funzionari. E, forse, era giusto così, perché nella costante incertezza del guadagno minimo si trovavano tutti coloro che il nuovo mercato del lavoro, che si andava lentamente profilando anche nella sonnolenta Venezia proletaria di allora, non utilizzava per la loro inadeguata professionalità. I protagonisti di questo diverso scenario di povertà erano diventati, perciò, i giornalieri: lavoratori che potevano dare solo la forza delle loro braccia al migliore offerente, le capacità non contavano, l’importante era «coprire la giornata». Una massa di donne e di uomini d’ogni età disponibile per qualsiasi occupazione, ma anche pronta per nuove povertà. Il passaggio di alcuni beni e opere pie dalla Chiesa allo Stato aveva mutato le modalità dei soccorsi, non per questo però gli austriaci erano riusciti ad avviare una beneficenza ‘attiva’, ma passivamente perpetuavano una mentalità che consolidava il pauperismo anziché risolverlo. La relazione del podestà, Alessandro Marcello, al consiglio comunale di Venezia nella tornata del 14 dicembre 1858 sulle condizioni del decorso anno amministrativo, offriva una significativa testimonianza sulla povertà veneziana e sui principi che ispiravano i provvedimenti in materia durante il governo asburgico che, com’è già stato detto in precedenza, erano basati sul tentativo non sempre riuscito di conciliare tradizione, controllo sociale ed economicismo assistenziale:
[La] Commissione di pubblica Beneficenza […] [nell’]intento di migliorare le condizioni de’ poverelli, e impedire per quanto è possibile che cada in mano del parassita il danaro che deve alleviare i dolori della vera miseria, e non arrivi talora ad essere la facile limosina incentivo all’ozio e all’abbandono specialmente della gioventù […] all’idea morale ed astratta se ne aggiunge una positiva, pratica ed economica. Stabiliscono le leggi che il Comune debba accorrere in sussidio dei bisogni de’ poveri quante volte mancano le fondazioni e le elargizioni de’ cittadini; dunque ai preposti del Comune incombe di conoscere quanto siavi di lasciti, di redditi, di offerte, e come siano amministrati, mentre da ciò ne può risultare un ordinario o straordinario bisogno di sussidio da parte della Cassa Comunale. Scorsi i registri della Fraterna dei Poveri, si poté di leggiere riconoscere essere ben oltre una metà degli inscritti tutt’altro che da classificarsi fra coloro che meritano elemosina […]. Se ci limitassimo alla sola miseria impotente e permanente, si restringerebbe d’assai ancora il numero de’ nostri poveri. Nel senso delle nostre antiche istituzioni non sono quindi mendici tutti coloro che figurano nei registri delle Parrocchiali Fraterne, ed i realmente poveri non sono a Venezia in diversa proporzione che nelle altre città a pari condizioni. Pertanto dobbiamo conchiudere che quelle cifre favolose che si è piaciuto alcuno di portare talora in campo più a commiserazione che a provvedimento, devono essere ridotte di oltre la metà, come osservava anche di recente la Commissione generale di pubblica Beneficenza, ma sono tenute soltanto in evidenza pegli eventuali sussidi […]. [I nostri maggiori] pensarono a giovare fin troppo le classi meno agiate, in que’ tempi in cui le leggi politiche non avevano inventato la carità legale, avevano provveduto perché ogni Veneto cittadino cadesse malato e non avesse possidenza o commercio di rilevanza, fosse provveduto di medici e di medicine. Inscrivendosi nelle parrocchie in un secondo registro tenuto dai tutori e distributori de’ benefizii i cittadini meno agiati, s’intesero poscia formar parte di una stessa categoria. A codesti non poveri si fece titolo a sussidi, a dotazioni e ad altri provvedimenti […]. Alcuno non può esser ritenuto stabilmente povero che quando fisicamente o moralmente è inetto al lavoro e, per dargli elemosina, aggiungiamo, non possa esser ricoverato ne’ copiosi stabilimenti che il pubblico e i privati aprono alle svariate miserie dell’umanità. Perciò speriamo sempre più si renderanno scarsi in numero gli assegni fissi potendo largheggiarne la misura, e sempre più si terrà per fermo che, dando il proprio denaro in elemosina, basta a giustificarne l’impiego la buona intenzione, perché è liberalità — ma non basta l’intenzione a giustificarne l’impiego del denaro che gli altri affidano, poiché è distribuzione di giustizia […]. Per giovare alla morale ed insieme al bisogno di una classe interessantissima della popolazione, quella cioè dei barcaiuoli, il Municipio ha sistemato con misura uniforme un fondo di soccorso pei malati […] la dignità di bastare così a se stessi anche nei bisogni straordinarii, di non abbassarsi a chiedere aiuto a nessuno per le loro necessità […] in Venezia, dove a lode del sentimento dei passati e dei presenti non sembrano mancare i mezzi, ma piuttosto il concerto nell’uso più opportuno […]. Ad altri bisogni morali e materiali si diede opera [ma] […] le istituzioni presto si segnano in carta e tardi si piantano(83).
Ma la lucida descrizione dei poveri veneziani espressa con tanta partecipazione dal podestà Marcello senza essere mai disgiunta dal rispetto della dignità dei bisognosi, se dimostrava l’efficacia degli interventi mirati in circoscritte situazioni di bisogno, ribadiva però ancora una volta le annose discrepanze interpretative in merito alla povertà relativa, lasciando intendere ben più profonde divergenze ideologiche alla base del problema, non lontane da un confronto laico-clericale sulla carità.
Quanto il costo del pauperismo fosse una costante preoccupazione per gli amministratori veneziani era confermato con chiarezza anche dal podestà Pierluigi Bembo, che nel 1861, anticipando con lungimiranza il futuro assistenziale, così si esprimeva in proposito alla discutibile Casa d’industria:
È compito assai malagevole di volgere a maggiore utilità le ingenti somme che divora ogni anno questo istituto [Casa d’industria], e che meglio impiegate renderebbero men grave l’odioso spettacolo di una mendicità vagabonda ed ignava, che frodando le ragioni dei veri poveri, lorda le nostre contrade ed ischernisce alla nostra pietà. Non basta la frequenza delle pie istituzioni o la copia dei soccorsi; sono altri argomenti che conducono al miglioramento materiale e morale del povero(84).
La Casa d’industria era lo spauracchio dei poveri di ogni età; vi si facevano lavorare gli accattoni, ma in modo che non creassero concorrenza alle ditte esterne, quindi era perennemente in passivo. Non aveva mai corrisposto al suo fine: doveva essere autosufficiente e rifornire anche le altre istituzioni assistenziali dei propri prodotti (pane, stuoie, tappeti), sempre di pessima qualità, costosi, eccedenti il fabbisogno e impossibili da smerciare. Originata da una concezione che colpevolizzava la miseria, considerata conseguenza di cattiva condotta, era, di fatto, un’istituzione punitiva che l’Austria continuava a gestire con improduttivi metodi polizieschi. I ricoverati vivevano in vergognosa promiscuità e la morale era pessima, come aveva più volte lamentato il cappellano don Canal, reclamando ripetutamente presso le autorità civili e religiose senza ottenere ascolto. Ma, in una città dove l’accattonaggio era stato tollerato per secoli, c’erano pure i mendicanti di professione, anche se in certe circostanze, notava Bembo, si mendicava perché non c’erano adeguati strumenti mutualistici o previdenziali(85).
In questo contesto è rilevante sottolineare la volontà governativa di mantenere inalterato lo statu quo della composizione sociale, perché ciò che s’intendeva attuare era il controllo sociale e non la promozione sociale, di cui faceva paura lo squilibrio che il nuovo assetto avrebbe potuto determinare nella diversa composizione per classi. I poveri, quindi, sarebbero rimasti tali, ma trattati in modo che non provocassero fastidi alle autorità e alla società civile. Ad esempio i mendicanti, intesi quale espressione di povertà estrema e deleteria, dovevano certamente scomparire dalla città, di fatto però confluivano nella quota di povertà strutturale da adibire a lavori non qualificati, in quelle attività che per l’incertezza dell’occupazione e l’infimo guadagno sarebbero state rifiutate, se ci fosse stata alternativa. Anch’essi erano inseriti, impropriamente, nel grande serbatoio della manovalanza rappresentato dai giornalieri. L’economia veneziana di allora aveva bisogno di questa massa di lavoratori marginali, sempre disponibile perché su di loro si poteva accampare il diritto di fornire o meno la sussistenza: a queste condizioni una quota di poveri era destinata a perpetuarsi di autorità(86).
Gli anni Trenta avevano segnato anche l’avvio della definizione organizzativa delle istituzioni di ricovero per malati cronici e vecchi impotenti, infatti dal 1837 cessava ogni sussidio alla Casa di ricovero stante l’eredità di Catterina Casser Benzer Zecchini e col testamento di Giovanni Battista Soldini; nello stesso anno era aumentato il numero dei ricoverati. La Casa di ricovero, sita presso l’ex ospedale dei Derelitti, era l’ultima tappa nella vita di coloro che non erano stati previdenti durante l’età lavorativa o che non avevano trovato ospitalità presso parenti, oppure in uno dei piccoli ospizi sopravvissuti alle riforme che consentivano un’esistenza migliore. Il ricovero era giunto ad accogliere 1.000 persone, da un’inchiesta del 1835 risultava essere sovraffollato, con aria irrespirabile nelle corsie, cibo inadatto, parassiti e sporcizia, promiscuità tra malati e sani, una situazione limite, come aveva drammaticamente dimostrato il colera del 1836, che su 592 ospiti ne aveva uccisi 421(87). La spesa per i cronici colà assistiti nel 1850-1851 veniva assunta dal Comune per ottenere lo sgombero dei locali da essi occupati nell’ospedale, destinati ai militari malati.
A metà Ottocento, quando poteva considerarsi attuata la riorganizzazione dell’apparato assistenziale secondo le direttive austriache, i principali istituti di ricovero erano: 1) Ospedale SS. Giovanni e Paolo; 2) Casa d’industria a S. Lorenzo; 3) Pio luogo della Ca’ di Dio a S. Martino, ospizio per donne povere e «non nobili cittadine»; 4) Casa dei Catecumeni a S. Domenico; 5) Istituto delle Zitelle, per ragazze veneziane bisognose «di civile condizione», a S. Eufemia, Giudecca; 6) Istituto degli esposti S. Maria della Pietà in S. Giovanni in Bragora; 7)Istituto delle Penitenti a S. Giobbe per le «donne di malavita ravvedute e pentite»; 8) Orfanotrofio femminile alle Terese e maschile dei Gesuati, «mantenuti dal Comune per istruirli in lavori e mestieri orfani miserabili di ambo i sessi»; 9) Casa di ricovero SS. Giovanni e Paolo per vecchi e vecchie invalidi e «per tutti gli invalidi a qualunque lavoro»; 10) Ospedale di S. Servolo in Isola per la cura dei soldati infermi e piagati, in un primo periodo, poi manicomio delle province venete (Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico e cronologico delle deliberazioni emesse dal Consiglio Municipale di Venezia dal 1808 a tutto il 1866).
Era stato creato un sistema che prevedeva il ricovero di tutti quei bisognosi — fatta eccezione forse per i Catecumeni — che per diversi motivi non erano in grado di autosostentarsi o di avere un domicilio, e che, se lasciati privi di questa modalità di soccorso, sarebbero stati indotti a mendicare. Tale concezione rafforzava ulteriormente la lotta all’accattonaggio.
Il governo austriaco aveva perfezionato l’apparato assistenziale con la creazione di commissioni straordinarie di pubblica beneficenza dipendenti dalle delegazioni provinciali, aventi il compito precipuo di distinguere i poveri veri dai falsi: problema nodale da sempre. E forse queste commissioni non erano lontane da drastiche misure, quali ad esempio revocare i sussidi per eliminare gli accattoni, se non ci fosse stata la presenza temperante delle fraterne(88). Ma la gestione fallimentare di istituzioni e soccorsi dovuta a sperperi interni al sistema e, soprattutto, all’incapacità di individuare i mezzi per evitare le cause del pauperismo, anziché eliminare solo gli effetti, continuava a vanificare il proverbiale zelo di tanti funzionari asburgici. Con spirito riformista era stata affidata la gestione dell’assistenza comunale a una imperial regia delegazione, trasformata poi in commissione di pubblica beneficenza e infine nel 1863 in congregazione di carità; alcuni soggetti assistenziali erano passati per competenza alla Provincia, ma ciò non significava che fossero stati eliminati dallo scenario caritativo della città. Cambiavano gli enti erogatori ma non i soggetti assistiti, che nel cambio di amministrazione potevano essere catalogati in maniera diversa, mutando solo il loro totale ufficiale, un gioco di prestigio che bene si prestava a movimentare la palude burocratica austriaca, in particolare nell’ambito sanitario e per quanto concerneva la mai risolta questione degli ammalati cronici, settore particolarmente oneroso per le casse comunali. Quest’annosa vicenda si concludeva quasi alla fine dell’epoca austriaca, con una convenzione stipulata tra il Comune di Venezia e la congregazione di carità nel 1865, successivamente approvata dalla congregazione centrale lombardo-veneta, in cui si stabiliva che il Comune, per esimersi dall’obbligo di corrispondere alla Casa di ricovero un sussidio annuo sui fondi comunali, e per cooperare al sostentamento dei cronici degenti nel civico Ospedale ma aventi i requisiti per essere accolti nella Casa, assumeva l’onere di istituire 120 posti a essi riservati(89).
Al secondo governo austriaco spettava il merito indiscutibile di avere creato l’Ospedale Civile — organizzato su modello di quello viennese —, il manicomio e riorganizzato le condotte mediche e chirurgiche per i poveri «il cui ruolo era annualmente compilato dalle amministrazioni comunali in concorso con i rispettivi parroci», ma era stata anche una sanità non esente da faziosità, oberata da
una molteplicità di leggi le quali spesso si altera[va]no, spesso si modifica[va]no e spesso si distrugg[eva]no l’una con l’altra […]. Certo è che l’Austria apportò all’organizzazione sanitaria sopravvissuta alla repubblica dei dogi modifiche intese alla salvaguardia dei propri eserciti di stanza e a presidio del territorio occupato […] le attribuzioni ufficiali dei funzionari di sanità avvenivano in maniera tale che molti provvedimenti non arrivavano a conoscenza del medico provinciale, e non solo per oggetti di economia disciplinare di stabilimenti di pubblica beneficenza(90).
Una riflessione si impone sull’impossibile teorema asburgico in ambito assistenziale: eliminare i fastidi — e soprattutto le spese — prodotte dai poveri, ma tenendoli in quella particolare posizione di soggezione determinata dal bisogno; di qui anche la necessità del mantenimento delle antiche istituzioni, ammantata per l’occasione dal rispetto della tradizione. Tale concetto si chiarisce ulteriormente, ad esempio, considerando le molte attività a favore dei figli del popolo sorte in quel periodo, in cui l’educazione si proponeva come «prevenzione sociale» finalizzata al futuro controllo sull’individuo adulto. La stessa introduzione dell’istruzione elementare obbligatoria si inquadrava nella pubblica beneficenza(91).
Una nuova forma di assistenza educativa era stata introdotta a Venezia nel 1836 per i figli del popolo, sollecitata dall’abbandono in cui erano lasciati i bambini in età prescolare. In quell’anno presso il brefotrofio della Pietà (parrocchia di S. Giovanni in Bragora) era stata aperta la prima «scuola infantile di carità» — o asilo di carità —, grazie al filantropico impegno di un gruppo di cittadini fra cui spiccavano i nomi di quell’aristocrazia che già in età repubblicana era stata fautrice di innumerevoli iniziative benefiche, la quale nel 1835 aveva creato una commissione con lo scopo di reperire il finanziamento per l’opera e organizzarne la gestione. Determinante per la fondazione del primo asilo era stata l’elargizione di 3.000 lire austriache da parte di un sacerdote, un atto che perpetuava quella tradizione caritativa che nell’assistenza veneziana affiancava laici e clero al di fuori delle opere confessionali. Il progetto iniziale prevedeva l’istituzione di una scuola in ogni sestiere, capace di accogliere 250 bambini. Dalla seconda visita pastorale del patriarca Monico, nel 1845, si rilevava che erano stati istituiti asili nelle parrocchie della Bragora, di S. Marziale, di S. Giacomo dell’Orio e dell’Angelo Raffaele. Durante il governo austriaco ne erano state aperte complessivamente sei, che al culmine dell’attività avevano raggiunto i 1.000 iscritti, ma l’utenza aveva iniziato a declinare dopo i fatti del ’48 e alla fine del periodo asburgico era ridotta a circa la metà. Le scuole infantili avevano adottato il metodo pedagogico di Ferrante Aporti(92), ma in realtà esse seguivano un metodo un po’ confuso, chiaramente dominato dall’etica del lavoro cui doveva essere precocemente avviato ogni buon suddito. Anche questa istituzione rientrava nel disegno di un’istruzione mirata alle «arti e mestieri utili», intesa a plasmare sino dalla più tenera età operai e artigiani che solo un labile confine separava dagli indigenti, secondo una rigida concezione di classe, perché «il bene della società richiede che le conoscenze del popolo non vadano più in là delle sue occupazioni»(93). Jacopo Zennari, con il moralismo tipico dell’epoca, asseriva persino che l’indiscriminata istruzione aveva contribuito allo squilibrio sociale:
Il principio di una istruzione universale, anziché essere inteso in modo, che ad ogni classe venisse procacciata la conveniente educazione per prosperare in quel ramo d’industria od arte che l’era proprio trattandolo con intelligenza e progresso, fu interpretato per guisa, che si dovesse a ciascuno, qualunque fosse la famiglia e la classe cui apparteneva, darsi agli studii gravi(94).
La degradata esistenza delle classi popolari veneziane di metà Ottocento non migliorava, come si desume dalle visite pastorali dell’epoca: la popolosa parrocchia di S. Pietro era definita misera, quella operaia di S. Francesco «misera e desolata», all’Angelo Raffaele le levatrici non assistevano le partorienti perché nessuno pagava(95). La famiglia del proletariato urbano era generalmente nucleare, marito e moglie erano impegnati quotidianamente sul fronte del lavoro per la pura sopravvivenza, infatti non erano rari i casi di abbandono di lattanti legittimi perché la madre lavoratrice non li poteva accudire: questa era una storia antica per S. Maria della Pietà e i brefotrofi in genere, che l’economia del tempo riproponeva accentuata. Un’istituzione per l’accoglienza diurna dei bambini sotto i tre anni avrebbe, forse, contenuto l’abbandono e la diffusa incuria; tale era stato il principio che aveva portato alla creazione del «presepio» — asilo per lattanti — nel 1854 in campo S. Maria Nova, la cui fondazione era stata voluta dalla commissione generale di pubblica beneficenza, finanziata con fondi pubblici e privati(96). Si perfezionava così un sistema assistenziale per la prima infanzia che, in teoria, sovveniva i figli dei poveri dall’età di dodici giorni sino a quella scolare, passando per gli asili di carità che, a volte, continuavano la loro opera educativa di sostegno alla famiglia proletaria anche durante l’istruzione elementare.
Forme di pauperismo tipiche della città, quali l’infima qualità di vita dovuta ai bassi salari, la mancanza di tutela sul lavoro di donne e minori, lo sfruttamento degli apprendisti, si affiancavano al continuo flusso degli indigenti che venivano dalle zone endemicamente sottosviluppate delle isole e dai paesi della gronda lagunare, dalle province limitrofe, riproponendo le vecchie cause di povertà (mancanza di lavoro, sradicamento ed emarginazione sociale, malattie, inabilità cronica, ecc.). Il fenomeno era stato rilevato dalle autorità, che avevano anzi notato come si fosse ulteriormente diffuso rispetto ai tempi repubblicani, e avevano inoltre evidenziato l’incremento di alcune tipologie di poveri, quali gli anziani impotenti, le donne sole con figli, i minorenni in stato di abbandono, i giovani in cerca di occupazione; in realtà non erano «nuove povertà», ma il prodotto di una diversa sensibilità sociale che non consentiva più di ignorarle, o di sovvenirle in maniera generica, come in passato.
Nei funzionari dell’Impero si coglieva l’ansia di stabilire precise categorie, per inserire ordinatamente ogni tipologia di povero (veri, falsi o provveduti, sprovveduti o relativi, assoluti, ecc.), ma senza valutare i documenti di riferimento, perché non consideravano la natura delle diverse fonti usate per rilevarli: anagrafi, elenchi parrocchiali, Tafeln. Il che spiega le difformità dei dati e, ovviamente, l’impossibilità di raffrontarli. Spesso la documentazione risultava confusa, a volte troppo costrittiva nella formulazione teorica, tanto che il pauperismo si presentava con preoccupante fissità come irrisolvibile, era una inguaribile «piaga del corpo sociale» che l’assistenza asburgica non sapeva, o forse non poteva, guarire finché investiva più nell’assistenza che nel rilancio economico della città(97).
Nel 1863 era istituita per la seconda volta la congregazione di carità, che portava all’accentramento dei pii istituti con l’applicazione della sovrana risoluzione 29 dicembre 1861, la quale imponeva una nuova aggregazione per renderli consoni ai tempi e razionalizzarne l’amministrazione, fatta salva l’autonomia delle singole fondazioni. I principali istituti di ricovero divenivano pertanto: 1) Casa di ricovero, ospizi sparsi e commissarie Donà, Piccardi, Bragadin, Busetto, Bartolini; 2) Ospedale Civile generale; 3) Orfanotrofio maschile dei Gesuati; 4) Orfanotrofio femminile alle Terese; 5) Casa delle Penitenti, commissaria Bartoli; 6) Casa d’industria; 7) Conservatorio delle Zitelle; 8) Casa dei Catecumeni, commissaria Garzoni; 9) Ca’ di Dio (Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico).
La casa degli esposti era stata aggregata alla congregazione di carità successivamente, nel 1865.
Superando le informazioni amministrative, che interessano la maggior parte della documentazione conservata, leggendo tra le pieghe di una storia fatta non di sole cifre, si rileva come l’assistenza e la beneficenza fossero mere questioni contabili tra i vari enti di gestione e controllo. Interessi d’altro genere, come la qualità della vita dei ricoverati, erano puramente occasionali o imposti da situazioni limite.
L’annessione di Venezia al Regno d’Italia, nel 1866, era foriera di molte speranze, portava nuove prospettive di vita a un popolo che aveva bisogno di molte energie e progettualità per superare i non pochi problemi lasciati dal cessato governo. Indicativa in proposito è la dinamica demografica del periodo: nel 1869 i veneziani — esclusi gli «avventizi» — erano 125.774, cifra molto vicina a quella rilevata nel 1846 sulla «popolazione indigena», 127.925 unità; nel ’71 i cittadini presenti sommavano a 127.016(99). Forse non è azzardato parlare di stagnazione della popolazione nell’ultimo periodo austriaco, una situazione superata nel corso del decennio Ottanta, dopo una fase di assestamento della vita socioeconomica che proietta in ambito assistenziale un potenziale negativo composto soprattutto di poveri relativi, ancora una volta involontari protagonisti dei sovvertimenti politici veneziani.
La difficile fase di transizione era oberata di richieste di aiuto da parte di una moltitudine di poveri congiunturali, tale da giustificare l’iniziale scetticismo degli amministratori verso il nuovo governo.
Col 1° Gennaio 1868 avrebbe dovuto essere in attività e funzione la Congregazione di Carità a senso della legge sulle Opere pie 3 agosto 1862 […]. Essa assunse provvisoriamente le sole incumbenze della Preesistente Commissione di Beneficenza, e rimase frattanto in funzione l’antica Congregazione di Carità sotto il nome di Riunione degli istituti pii(100).
Il periodo postannessione segnava il difficile passaggio a una diversa concezione della carità legale, che avrebbe dovuto introdurre gradualmente la «pre-videnza» quale mezzo per il superamento della povertà congiunturale e, più in astratto, la generale soluzione dell’indigenza, in sinergia con un nuovo spirito filantropico, ma soprattutto con un nuovo corso economico. Una direttiva che mutava radicalmente la precedente politica assistenziale, che creava incomprensioni tra gli stessi addetti ai lavori al punto che tutto l’apparato assistenziale impiegava oltre un decennio per riattivarsi secondo i nuovi dettami, grazie all’intelligente opera del regio commissario Carlo Peri, il quale decideva l’unificazione dell’assistenza domiciliare e di ricovero nella congregazione di carità, al fine di evitare ingenti sperperi. La razionalizzazione del sistema assistenziale secondo le direttive italiane, dopo gli anni Ottanta, consentiva di raggruppare le istituzioni in due settori sulla base dell’età degli utenti: infanti-adolescenti e adulti.
Il decreto 11 ottobre 1879, che sanciva la nascita della nuova congregazione di carità, è un esempio significativo di razionalizzazione economica e organizzativa. Con esso si stabiliva che l’assistenza agli orfani, il Conservatorio delle Zitelle e l’Istituto «Manin» fossero riuniti nelle sezioni maschile e femminile del «Manin», ma senza la fusione dei rispettivi patrimoni. Le istituzioni interessate si opposero, ottenendo una riorganizzazione del sistema per fasce d’età, così che l’orfanotrofio alle Terese accoglieva la sezione femminile superiore e il «Manin» quella inferiore, l’orfanotrofio ai Gesuati la sezione maschile inferiore e il «Manin» quella superiore, un assetto istituzionale che durerà sino a Novecento inoltrato. Nel 1880 il direttore del «Manin», monsignor Caburlotto, a proposito della necessità di tenere le educande del «Manin» in istituto, così si esprimeva con il presidente della congregazione di carità conte Bembo: «Le ragazze mandate alla montagna ritornavano, infatti, imbestialite e quelle degli istituti di Venezia mentivano una educazione irregolare», giudizio condiviso dalla commissione generale di pubblica beneficenza e segno che la situazione degli orfanotrofi non era ancora a regime, né per gli assistiti né per il personale. È rilevante notare che monsignor Luigi Caburlotto nel ’69 era stato nominato commissario organizzatore del «Manin», di cui era divenuto direttore nel 1872, incarico mantenuto sino al 1883 quando veniva nominato sovrintendente degli istituti educativi della congregazione di carità sino alla sua morte nel 1897, diventando il funzionario di maggiore prestigio nel campo dell’assistenza educativa, e, probabilmente, non era estraneo al progetto complessivo sugli orfanotrofi veneziani(101). È altresì interessante notare che egli non godeva della simpatia dei cattolici intransigenti, sentimento rafforzato dal conferimento nel 1871 del titolo di cavaliere della Corona d’Italia per i meriti acquisiti riorganizzando il «Manin», e che, pur essendo un sacerdote, il suo incarico in seno alla congregazione non era stato messo in discussione dopo la laicizzazione delle opere pie avvenuta il 7 luglio 1890. Questa particolare figura di uomo e di sacerdote consente di comprendere le linee evolutive del settore in cui si era impegnato, secondo i tradizionali fini morali educativi dei cattolici, come si intuisce dal bilancio del suo primo anno al «Manin», quando definisce gli allievi «figli del popolo già riformati dalla loro originaria abiezione» grazie alla religione e al lavoro, ma era anche colui che con lungimiranza era stato capace di eliminare le tradizionali attività di apprendistato, che non potevano più garantire un inserimento nel mondo del lavoro, per incentivare l’introduzione della «macchina», affiancata a un elevamento dell’istruzione generale(102). L’assistenza educativa era così avviata verso un migliore funzionamento, che per gli utenti significava maggiori garanzie di inserimento sociale grazie alla scoperta di una dignità nuova per i ragazzi poveri, dovuta al ruolo non più marginale che avrebbero potuto ricoprire nel mercato del lavoro dopo l’emancipazione.
A integrazione dei provvedimenti per l’infanzia bisognosa ricordiamo il dibattito sullo sviluppo degli asili per lattanti, un’istituzione che all’atto dell’unificazione era declinata per problemi finanziari e organizzativi, ma di cui il medico Cesare Musatti era convinto sostenitore, in relazione allo sviluppo economico che avrebbe sempre più portato le madri delle classi subalterne nelle fabbriche, allontanandole da quella prole già troppo trascurata. La contessa Elisabetta Michiel Giustinian, grazie alla consueta rete filantropica, nel 1877 apriva l’Asilo per bambini lattanti e slattati «G.B. Giustinian», nella popolosa e misera parrocchia dell’Angelo Raffaele, due anni dopo eretto in ente morale; nel 1880 accoglieva 110 bambini sotto i tre anni e, tra critiche e consensi dovuti alle opposte ideologie clericali e laiche che allora imperversavano negli ambienti assistenziali veneziani, la sua utenza aumentava al punto che a vent’anni dalla fondazione necessitava di una sede più ampia. L’impegno sociale dell’asilo, però, non si limitava alla sola cura dei bambini, bensì mirava anche a responsabilizzare le madri, a istruirle sull’igiene e l’alimentazione, ad avere un ruolo attivo nell’educazione dei figli. Questa interessante esperienza rimaneva un caso isolato per molti anni, anche se emblematico dei nuovi bisogni emergenti(103). In sostanziale continuità con i presepi poteva essere considerata l’attività delle scuole infantili, entrate ormai definitivamente nel sistema assistenziale per l’infanzia indigente, che erano state oggetto di significative innovazioni a seguito dell’introduzione a Venezia, nel 1869, del primo «giardino d’infanzia» froebeliano, sostenuto da uno stuolo di intellettuali laiche. L’iniziativa era rivolta alla borghesia, ma anche i preesistenti asili per successiva parziale emulazione sperimentarono i benefici di una pedagogia meno costrittiva, in seguito estesa a quelli comunali aperti dopo tale data. Pur nulla togliendo all’importanza del nuovo metodo, non ci si può esimere dal ricordare che in alcuni asili grazie alla vendita dei lavori prodotti dagli scolari si ricavava annualmente una discreta cifra. Un caso a parte era rappresentato dal giardino froebeliano per i figli del popolo — o più correttamente interclassista —, fondato da Elena Raffalovich Comparetti nel 1874 nel sestiere di Cannaregio. In realtà, nella maggioranza degli asili veneziani era adottato un metodo impropriamente definito misto, in cui i principi pedagogici di Froebel e Aporti erano variamente seguiti secondo l’opportunità — economica —, nonostante le consuete divergenze tra laici e clericali che essi ispiravano. Nemmeno la prima età della vita educativa dei poveri era esente dall’imperativa etica del lavoro: questa era la costante diatriba tra i due metodi, quando gli allievi erano bambini del proletariato. Non mancavano, peraltro, istituzioni simili alle «sale di custodia», ed era ancora in uso il nome «Asili infantili di Carità». Infatti, il consiglio comunale nel 1899, in occasione della loro municipalizzazione, con inconsueta sensibilità per la dignità dei poveri, proponeva di eliminare «quel titolo di asili di carità»(104).
Anche per l’amministrazione italiana la spesa dell’assistenza di ricovero continuava ad essere «il più grave tra gli oneri del civico erario […] [che] minaccia[va] di farsi ogni giorno maggiore» e che lasciava intuire un sicuro futuro incremento; particolari esborsi erano previsti per la Casa d’industria, che doveva essere trasformata in ricovero di mendicità per tentare di estinguere il mai cessato fenomeno dei mendicanti di professione e dei disoccupati occasionali, nonché per l’Ospedale Civile(105). Nella difficile fase di transizione il Comune aveva continuato ad accogliere nella Casa d’industria un gran numero di poveri, a causa della chiusura di tutte le fabbriche erariali e di molte private; ma le casse comunali non riuscivano più a corrispondere alle crescenti necessità quotidiane.
Circa 900 operai ed artieri dell’Arsenale [sono] rimasti inoperosi […] operai della Zecca, che vennero licenziati […] [disoccupati gli] operai della Fabbrica Tabacchi […] giornaliera distribuzione di oltre 2000 razioni di cibo […] a favore di vecchi e impotenti, e di quelli che versano in miseria per mancanza di lavoro(106).
Era un affresco a fosche tinte che ricordava passate congiunture, il volto della miseria per i poveri e gli operai non era mutato. Le superstiti fraterne avevano avuto l’incarico di distribuire un sussidio a tutti gli operai delle industrie private, purché in grado di comprovare il loro stato di necessità per mancanza di lavoro(107).
Si profilavano profonde innovazioni nelle opere pie veneziane, specie in quelle i cui assistiti costituivano un ingente impegno economico per la Municipalità, quali ad esempio i malati cronici poveri della Casa di ricovero (da mantenere con un finanziamento dimezzato rispetto al passato), o i sifilitici — più genericamente coloro che erano affetti da malattie veneree —, che gravavano pure sulle casse comunali. Essi erano i significativi esempi di due tipologie di assistiti che rappresentavano il «bisogno incolpevole» e il «bisogno colpevole», cui erano rivolti provvedimenti diversi rispetto al cessato governo, non ancora privi di spirito moralizzatore ma sicuramente più pragmatici, perché interessavano le categorie assistenziali che richiedevano il maggiore impegno innovativo; in precedenza non esisteva il concetto di malattia cronica e le patologie veneree interessavano più la polizia che la medicina(108).
Gli oneri dell’assistenza di ricovero e di educazione non accennavano a diminuire nonostante i fermi proponimenti di contenimento espressi da una Municipalità ormai priva di risorse, permaneva l’incremento negli orfanotrofi, nell’Ospedale Civile e nella Casa d’industria, tanto da progettare la trasformazione della Casa in ricovero di mendicità per «ovviare nell’unico modo compatibile colla legislazione attuale, alla piaga dei mendicanti di mestiere», una soluzione divenuta indilazionabile secondo gli amministratori(109). Paradossalmente, però, nel 1871 la Casa d’industria era stata uno dei rari casi, se non l’unico, in cui un istituto di assistenza aveva redatto un preventivo superiore al consuntivo, segno evidente di quanto la evitassero i poveri veneziani, che preferivano la libertà della strada al lavoro coatto.
Tab. 5. Casa d’industria, 1871 Presenze Preventivo
Mercedi Consuntivo
Vitto Totale spese Presenze Mercedi Vitto Totale spese 399.234 101.794 30.369 132.154 292.516 76.220 22.400 98.621 Fonte: Venezia, Archivio Storico Comunale, Rendiconto morale della giunta municipale di Venezia da ottobre 1870 a tutto il 1871, Venezia 1872, allegato A.
La Casa d’industria di S. Lorenzo poteva essere considerata il ricettacolo delle più svariate patologie sociali e fisiche, non stupisce quindi l’attenzione che da sempre le dedicavano gli amministratori; il consiglio comunale, nella seduta del 26 febbraio 1874, dati i pessimi risultati ottenuti a fronte degli ingenti investimenti — e non poteva essere altrimenti considerata la sua funzione di «contenitore assistenziale» —, ne deliberava la graduale soppressione, avvenuta nel novembre del 1876(110). Già nel 1872, però, era stato approntato il progetto per la fondazione di un ricovero di mendicità che doveva sostituire la soppressa istituzione(111).
La moltitudine di ricoverati poveri o impotenti induceva un accordo tra il Comune di Venezia e l’amministrazione dei Pii istituti riuniti — protocollo 30 dicembre 1877 —, in cui questi assumevano l’obbligo di sovvenire tutti gli assistiti nelle Case di ricovero (l’Ospedaleto) e d’industria (S. Lorenzo), senza distinzione tra assistiti volontari o coatti, e il Comune di Venezia s’impegnava a corrispondere ai pii istituti le spese eccedenti i redditi della Casa di ricovero. Un eccezionale provvedimento di ordine sociale, da interpretare come unica soluzione affinché centinaia di mendicanti non si riversassero nuovamente sulla pubblica via, anziché come un intervento caritativo(112), perché i pii istituti avevano il compito «di soccorrere alla miseria, dopo ch’essa divenne un fatto compiuto, [ma] devono gradatamente cedere il luogo a quelle istituzioni di previdenza che hanno la missione d’impedire e parallizzare [sic] le cause della miseria», secondo l’adottato principio dell’«assistenza attiva»(113).
Una diversa attenzione per l’assistenza caritativa sanitaria si concretizzava con la fondazione di istituzioni ispirate dal progresso igienico e medico, rivolte soprattutto all’infanzia e alle patologie sociali, in particolare alla tubercolosi(114). L’attenzione prestata a questi settori assecondava le tendenze dell’epoca, ma doveva anche sopperire alle deficienze del precedente governo, una situazione che risaltava dalla comparazione con le nuove iniziative(115).
Talune malattie erano indici di pauperismo, tanto più espressive quando riguardavano l’infanzia. Investire per la salute infantile significava istituire luoghi di cura e prevenzione che avrebbero sicuramente contenuto le spese del futuro assistenziale; la casuale coincidenza temporale dell’introduzione della pediatria in Italia con la riorganizzazione dell’assistenza postunitaria aveva incentivato questa ipotesi. La prima iniziativa in tal senso mirava alla cura del rachitismo, che mieteva molte vittime tra l’infanzia del proletariato, con la fondazione di un servizio di bagni gratuito al Lido, cui seguiva nel 1870 l’Ospizio marino dove si curava anche la tubercolosi; negli stessi anni era istituito il reparto pediatrico dell’Ospedale Civile, che nel 1895 contava 200 posti letto con circa 140 degenti, un’utenza che induceva a progettare un «ospedale infantile». Come per tutte le opere rivolte alla salute dell’infanzia povera anche per questa i finanziamenti provenivano dalla beneficenza privata e i fondi pubblici avevano funzione integrativa, eventualmente(116). Nel 1901 si inaugurava il primo padiglione dell’ospedale pediatrico Umberto I, con annesso ambulatorio per gli esterni(117). A supporto dell’assistenza sanitaria ai figli degli indigenti nel 1888 era stato fondato un educatorio per rachitici, elevato a ente morale undici anni dopo quale riconoscimento della benemerita attività svolta. Le patologie che maggiormente colpivano i bambini del proletariato veneziano all’inizio del Novecento erano tutte inserite in specifici contesti di cura, affidati a istituzioni ospedaliere oppure a colonie climatiche(118).
In quello che è stato definito «il secolo degli igienisti», politici e amministratori locali cercavano di riscattare le negligenze del passato tentando di contenere i costi sociali di coloro che si ammalavano per miseria, per carenze igieniche; era un’attenzione che varcava i confini dei luoghi ufficialmente preposti alla medicina per espandersi in altre istituzioni, nelle abitazioni, nei luoghi di lavoro, aprendo nuovi ambiti di intervento assistenziale, sostenuti da un apparato di statistiche sulla popolazione sconosciuto in precedenza. Il miglioramento igienico-sanitario mirava a «diminuire i mali creati o favoriti dalla miseria e dalle tristi condizioni sociali»(119). Contestualmente, era avviato il rinnovamento di molte antiche piccole opere assistenziali, i cui fini erano stati in buona parte stravolti dagli innumerevoli interventi dei governi precedenti a quello italiano, sino ad alterare specificità istituzionali che rappresentavano l’aspetto più caratteristico della carità veneziana(120).
L’ultimo quarto dell’Ottocento è stato un periodo denso di eventi per i poveri. Il riformismo assistenziale di cui erano involontari protagonisti incideva concretamente sulla qualità della vita di larghi strati delle classi inferiori, non sempre migliorandola peraltro, e non sempre erano comprensibili le strategie che ispiravano politici e amministratori più o meno illuminati. Lo stesso progetto di risanamento e regolamentazione urbanistica di Venezia del 1891, ad esempio, aveva creato contemporaneamente opportunità di lavoro e nuove sacche di pauperismo(121). Il miglioramento economico non portava automaticamente all’elevamento sociale, specie allora, e questo si verificava solo se esso era integrato da interventi mirati a un cambiamento di status.
Il pauperismo di fine Ottocento era più contenuto rispetto al recente passato asburgico, ma erano comunque numerose le persone in stato di necessità; onde avere un significativo quadro di sintesi di questa situazione è sufficiente considerare mendicanti e malati adulti, due categorie passive su cui il Comune investiva sempre in perdita.
Nel 1895 il deposito di mendicità aveva accolto 72 persone, di cui 66 erano poi confluite nel Ricovero per il bando della questua — riattivato il 26 giugno 1875 —, i cui assistiti erano oscillati dai 755 del 1° gennaio ai 647 del 31 dicembre, per un totale di 229.093 giornate di presenza(122). Nell’insieme le due istituzioni avevano registrato 1.344 assistiti, su una popolazione stabile di 146.741 abitanti(123).
Certamente i depositi di mendicità presentano molti inconvenienti; ma per quanto sieno gravi […] sono incontrastabilmente le sole istituzioni che per l’esperienza fatta presentino i migliori vantaggi e i più utili risultati(124).
Le spese per l’ospedalizzazione dei malati poveri erano in progressivo aumento, le giornate di degenza erano passate dalle 243.906 del 1882 alle 316.056 del 1895 e le rette assorbivano oltre il 50% della spesa assistenziale(125). Una più oculata gestione di questo settore aveva lentamente ridotto il ricovero dei malati cronici, passati dai 128 del 1900 ai 23 del 1902(126), perché «alla voce della pietà, si è trovato il bisogno di sostituire all’impulso di questo quello del dovere, o dell’interesse, senza di che l’opera della assistenza potrebbe rimaner frustrata dalla pigrizia o dalla malafede»(127), un’affermazione quanto mai impopolare presso larghi strati dell’opinione pubblica, ma che nel tempo aveva dato riscontri positivi per le finanze comunali. Anche il rinnovato impulso dato ai presidi medici-chirurgici-ostetrici per i poveri, organizzati in 18 circondari, era volto a contenere il costo dei ricoveri ospedalieri; nel 1895 vi aveva fatto ricorso circa l’8% della popolazione e su 18.094 assistiti solo 4.983 erano stati ospedalizzati. Nel 1899, a complemento dell’assistenza medica sul territorio e sempre motivata dal bisogno di contenere le spese ospedaliere, era stata istituita una guardia medica permanente, ma i costi di degenza dei poveri continuavano a salire, sia per le molte patologie da cui erano realmente affetti, sia perché il progresso della medicina aveva reso l’ospedale un luogo di cura e non solo di morte(128).
Nel 1895 si notava con disapprovazione che la popolazione di Venezia aveva un saldo sociale positivo pari a 1.048 unità, dovuto «per la massima parte da cambiamenti di residenza provocati dallo scopo di poter usufruire della beneficenza pubblica […] un aumento di popolazione che va ad aumentare il contingente della miseria». E, in un commento a margine della statistica sulla nuzialità, si rilevava che nel 1894-1895, come già dimostrato in precedenza, la classe povera era quella che aveva la più alta nuzialità; da questa nota si intuisce nel compilatore la riprovazione per i matrimoni degli indigenti, considerati una deleteria forma di riproduzione sociale che faceva aumentare le richieste di aiuto(129).
Diminuire la spesa assistenziale era assai difficile. Nei primi anni del nuovo secolo, per esempio, nonostante le restrizioni messe in atto non si era ottenuta un’apprezzabile diminuzione delle spese di ricovero, dovute all’incapacità di gestione di un’utenza che si riversava in un istituto piuttosto che in un altro sulla base della discrezionalità dei funzionari: l’aspettativa assistenziale era una variabile ininfluente. Emblematico il caso del Ricovero per il bando della questua, che sino al 1903 aveva avuto una presenza media annua di oltre 600 persone, tra le quali non era sempre possibile distinguere la reale tipologia del povero, proprio perché avendo la più semplice modalità di istituzionalizzazione, pur essendo la meno ambita, vi potevano entrare coloro che non avevano trovato disponibilità altrove(130).
Inoltre, con la legge crispina 17 luglio 1890, nr. 6972, l’acquisizione del «domicilio di soccorso» si otteneva dopo cinque anni di residenza anziché dieci e ciò aveva fatto notevolmente aumentare coloro che avevano diritto all’assistenza comunale gratuita(131).
I poveri involontari del nuovo secolo erano per lo più operai disoccupati; già nel 1898 era stata istituita la Società di previdenza per operai disoccupati, sostenuta dal Comune, e negli anni 1900-1901 si proponeva un’indennità di viaggio per coloro che trovavano lavoro fuori Venezia: implicita conferma della negativa situazione occupazionale cittadina.
Nel 1904 era stato varato un regolamento per la compilazione di un elenco dei poveri basato su criteri coerenti con la qualità di vita del popolo di allora, perché si era diffusa l’idea che talune attestazioni di povertà non corrispondessero alla realtà. Un efficace quadro della povertà veneziana ufficialmente riconosciuta era dato dal salario giornaliero necessario alla sussistenza del nucleo famigliare, calcolato su 300 giornate lavorative:
Tab. 6. Il salario dei poveri, 1904 Composizione familiare Guadagno non oltre a) b) 1 persona L. 2 2 o 3 persone L. 3 4 persone L. 3,75 5 persone L. 4,50 Fonte: Casimira Grandi, Bonifica sociale e bonifica urbana nell’operato della Giunta Grimani tra 1895 e 1914, in La Chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1995, p. 70 (pp. 63-83).
In quell’occasione i funzionari addetti avevano rilevato che il popolo comperava per lo più costoso «pane bianco» anziché «pane comune», il cui prezzo era soggetto a calmiere proprio per garantirne l’acquisto ai meno abbienti; questo, peraltro, inficiava parzialmente i calcoli fatti per la determinazione del salario giornaliero. Neppure il rinnovato elenco dei poveri era servito a contenere il numero degli assistiti: al 31 dicembre 1913 si annoveravano 9.820 nuclei famigliari indigenti, pari a 35.105 persone, su una popolazione presente — al 1914 — di 164.710 abitanti(132). Essere bisognosi significava ancora, inequivocabilmente, non essere in grado di provvedere alle necessità quotidiane, al di sopra di qualsiasi adeguamento delle tipologie dei poveri nel tempo.
«Eppure il popolo, stracciato di panni e di biancheria, e campando di misero vitto, si mantiene gioviale, spensierato, voglioso di feste». Forse, a posteriori, anche il negativo giudizio di Cesare Cantù sui veneziani avrebbe potuto cambiare(133). La povertà del primo decennio del XX secolo non era lontana da quella degli anni bui della Restaurazione, quasi un secolo era passato senza che ci fosse stato un apprezzabile cambiamento per coloro che stavano negli infimi gradini della scala sociale.
Qualcuno aveva cominciato a parlare di «diritti», una parola prima sconosciuta, che tendeva a soppiantare un termine millenario: «carità». La stessa assistenza diventava un diritto da esigere fermamente, un’umanità schiacciata da secoli di fame e umiliazioni cercava ora la sua dignità con una consapevolezza che lentamente si diffondeva, minando le basi di un sistema cui non era estranea la sincera solidarietà, ma neppure il clientelismo di certa beneficenza.
Molte istituzioni caritative sono giunte sino a noi da un lontano passato e alcune sono ancora presenti con la loro splendida architettura nel sistema assistenziale veneziano, testimonianze di un patrimonio di civiltà il cui capitale rappresenta il ‘mezzo’ che esprime la tradizione caritativa di un popolo che con la carità privata e il volontariato aveva costruito una capillare rete di aiuti, anche se la storia ha dimostrato come, molte volte, i risultati non abbiano corrisposto alle buone intenzioni(134).
1. Jean-Pierre Gutton, La società e i poveri, Milano 1977.
2. Thomas S. Ashton, The Standard of Life of the Workers in England, 1790-1830, «The Journal of Economic History», 9, 1949, p. 33 (pp. 19-38); Amartya Sen, Poverty: an Ordinal Approach to Measurement, «Econometrica», 44, 1976, nr. 2, p. 219 (pp. 219-231).
3. Catharina Lis-Hugo Soly, Povertà e capitalismo nell’Europa preindustriale, Bologna 1986, p. 237.
4. La beneficenza veneziana. Note e memorie, Venezia 1900.
5. Stuart J. Woolf, Porca miseria. Poveri e assistenza nell’età moderna, Roma-Bari 1988, p. 7.
6. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 504 (= 7611), Lettera al Serenissimo Principe di Marco Zen Savio di Terraferma uscito, Venezia 4 settembre 1762, c. 118v; Giovanni Scarabello, L’albergo universale dei poveri: una riforma mancata nella Venezia settecentesca, in Chiesa Società e Stato a Venezia, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1994, pp. 175-196.
7. Pompeo Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Il decadimento, Trieste 1973, pp. 407-415.
8. S.J. Woolf, Porca miseria, p. 8.
9. Secondo la teoria dei «cerchi concentrici», applicata da Brian Pullan allo studio del pauperismo urbano, gli indigenti identificabili negli artigiani, nei piccoli commercianti e nei bassi ranghi degli impieghi statali, potevano ampliare la loro fascia in particolari momenti di crisi sino a coinvolgere la maggioranza delle famiglie cittadine (50-70%). Brian Pullan, Poveri, mendicanti e vagabondi (secoli XIV-XVII), in Storia d’Italia, Annali, 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978, pp. 988-997; Id., La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, I-II, Roma 1982.
10. Casimira Grandi, Per una storia dell’infanzia abbandonata a Venezia: i ‘libri scafetta’ dell’Istituto S. Maria della Pietà (secc. XVII-XVIII), in Fonti archivistiche e ricerca demografica. Atti del convegno, I-II, Roma 1996: I, p. 592 (pp. 584-596).
11. A.S.V., Fondo Ospedali e luoghi pii diversi, b. 924, fasc. 11, «Piano di generale regolazione del Pio Ospitale della Pietà esteso dalla Deputazione Estraordinaria prescelta alla regolazione del Pio Ospitale medesimo in esecuzione al Sovrano Decreto dell’Eccellentissimo Senato 1789. 30. Maggio ed accompagnato alla Pubblica approvazione nella scrittura primo Settembre. 1790».
12. «L’abbandono dei bambini costituisce un evento quasi normale nel mondo dei poveri, perlomeno in certi anni» (J.-P. Gutton, La società, p. 71).
13. A.S.V., Fondo Ospedali e luoghi pii diversi, b. 924, fasc. 11, «Creature esistenti nel Pio Ospitale della Pietà», c. 1.
14. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1894 (= 9086), Repubblica Veneta. Ospitali in genere. Quattro Ospitali maggiori, Memoria sui Quattro Ospedali Maggiori della Città a tutto Settembre 1779; Alberto S. De Kiriaki, La beneficenza di ricovero a Venezia nel passato e nei nostri tempi, Venezia 1900; Bernard Aikema-Dulcia Meijers, Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna (1474-1797), Venezia 1989.
15. Franca Semi, Gli ‘Ospizi’ di Venezia, Venezia 1983.
16. Antoine-Eugène Buret, a proposito dei «poveri lavoratori» parigini nel 1836, cit. in Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIXe siècle, Paris 1969, p. 445.
17. Adam Smith, Ricerca sopra la ricchezza delle nazioni, Torino 1950, p. 135.
18. Ad esempio quelle genericamente citate da Andrea Zannini per il «pauperismo veneziano ottocentesco», che riducono a poco più di un terzo della popolazione — di circa 100.000 abitanti — i 40.000 iscritti alle fraterne parrocchiali (Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell’Ottocento asburgico, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 175-176 [pp. 169-194]), oppure quelle più precisamente prodotte nel Rapporto e supplica: fatto dal Patriarca di Venezia Ladislao Pyrker a S.M.I.R.A. Francesco in agosto 1825, che si attestano sostanzialmente sugli stessi valori, ma che vengono già considerate «contenute» (Venezia, Museo Correr, mss. Cicogna 2039/XX; 3382/23; 3535/III).
19. Antonio De Petris, La medicina del pauperismo, Venezia 1865, p. 51.
20. Cf. Amartya Sen, Risorse, valori e sviluppo, Torino 1992, pp. 150-151.
21. Interessante una comparazione con il commento critico di Chiara Saraceno in Povertà e cultura della povertà: il dibattito in corso in Inghilterra e negli Stati Uniti, «Quaderni di Sociologia», 1976, nr. 1, pp. 85-101. Fra gli studiosi ottocenteschi citati cf. Marc’Antonio Parenti, Determinata la vera nozione del Pauperismo e della Mendicità ed assegnatene le cause, indicare per quali stabili ordini procurarne si possa l’esclusione o la diminuzione, migliorando specialmente la condizione de’ giornalieri nelle campagne, Modena 1853, p. 14.
22. Massimo Livi Bacci, Popolazione e alimentazione. Saggio sulla storia demografica europea, Bologna 1987, pp. 44-52. Cf. Ernesto Brunetta, Poveri a Treviso, Venezia 1997, p. 42; Codice sanitario per il regno Lombardo-Veneto, Venezia 1858.
23. Raffaele Romanelli, La nuova Italia e la misurazione dei fatti sociali, «Quaderni Storici», 1980, nr. 45, pp. 767-778.
24. Carlo M. Cipolla, Le tre rivoluzioni, Bologna 1989, p. 381.
25. Karl J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, Firenze 1994, p. 398; cf. Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956.
26. Silvio Tramontin, Il patriarca Pyrker e la sua visita pastorale, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, p. L (pp. XLIII-CXXVII). Le cifre sulla popolazione riportate per il periodo in esame sono spesso discordanti a causa delle diverse modalità di rilevazione, di cui non sempre conosciamo i criteri ispiratori.
27. Cesare Cantù, Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, II, Milano 1858, p. 235.
28. Ennio Concina, L’Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 228-231.
29. La popolazione di Venezia era ripartita in: possidenti, impiegati pubblici, esercenti arti liberali, commercianti, artieri, impiegati privati, clero regolare e secolare. Jacopo Zennari, Memoria sulla beneficenza pubblica, Venezia 1845, pp. 35-36.
30. Ibid., p. 36.
31. K.J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, pp. 398-399.
32. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1894 (= 9086), Repubblica Veneta, Ospitali in genere. Quattro Ospitali Maggiori, Memoria sui Quattro Ospedali Maggiori della Città a tutto Settembre 1779; Statistica della Provincia di Venezia, Venezia 1870, pp. 193-194; Pierluigi Bembo, Delle istituzioni di beneficenza, Venezia 1859, pp. 5-16.
33. Giovanni Scarabello, Le strutture assistenziali, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, p. 864 (pp. 863-872).
34. A.S. De Kiriaki, La beneficenza di ricovero, pp. 166-167.
35. Emilio Morpurgo, Saggi statistici ed economici sul Veneto, Padova 1868, p. 9.
36. Per un approfondimento sul caso veneziano di queste problematiche cf. Casimira Grandi, Éducation pour jeunes demoiselles et écoles de charité pour jeunes filles pauvres (XIXe-XXe), negli Atti del convegno Lorsque l’enfant grandit: entre dépendance et autonomie, Parigi, settembre 2000, a cura del Centre Roland Mousnier, in corso di stampa.
37. Giovanni Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, Bologna 1879, pp. 806-808.
38. Maura Palazzi, Donne sole, Milano 1997, pp. 113-117.
39. F. Semi, Gli ‘Ospizi’, pp. 70 e 180; Silvio Tramontin, Luigi Caburlotto, Milano 1990, pp. 95-100.
40. B. Pullan, La politica sociale, p. 408.
41. Cf. Arnaldo Cherubini, Storia della previdenza sociale in Italia, Roma 1977, pp. 19-35.
42. Comune di Venezia, Documenti per la storia della beneficenza, Venezia 1879, p. XV.
43. Statistica della Provincia, p. 194.
44. Comune di Venezia, Documenti per la storia, p. 3; «Bollettino delle Leggi del Regno d’Italia», 1807, pt. I, p. 308. Cf. inoltre Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/1).
45. Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico e cronologico delle deliberazioni emesse dal Consiglio Municipale di Venezia dal 1808 a tutto il 1866, 14 agosto 1811, p. 3 e cf. le delibere degli anni citati.
46. Alberto S. De Kiriaki, I quattro Ospitali, in La beneficenza veneziana. Note e memorie, Venezia 1900, p. 167.
47. Nel 1528 Gerolamo Emiliani, fondatore dei Somaschi, era stato il primo a occuparsi dei bambini veneziani abbandonati a seguito di un’epidemia di peste. L’Emiliani aveva raccolto senza alcuna distinzione bambini abbandonati e orfani in un luogo dietro la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, dove in seguito venne costruito l’ospedale dei Derelitti che diede assistenza anche agli orfani. La sua attività fu poi continuata dall’ordine dei Gesuati nel convento alle Zattere (L’archivio IRE, a cura di Giuseppe Ellero, Venezia 1987, p. 45).
48. Gaspare Gozzi, Beneficenza educativa, in La beneficenza veneziana. Note e memorie, Venezia 1900, p. 53.
49. Cifra ottenuta dai «valori interpolati tra i due censimenti più prossimi», Lorenzo Del Panta, Dalla metà del Settecento ai nostri giorni, in La popolazione italiana dal Medioevo ad oggi, a cura di Id.-Massimo Livi Bacci-Giuliano Pinto-Eugenio Sonnino, Roma-Bari 1996, p. 204 (pp. 131-212). Beloch, con qualche perplessità, riporta 134.398 abitanti nel 1802 e 100.556 nel 1823 (K.J. Beloch, Storia della popolazione, p. 398).
50. Angelo Gambasin, Poveri e beneficenza nel Veneto tra la fine del ’700 e il primo ’800, in Stato e Chiesa di fronte al problema dell’assistenza, a cura del Centro Italiano Storia Ospitaliera, Roma 1982, pp. 205-208 (pp. 203-282); cf. le delibere a favore di soggetti assistenziali in Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico.
51. L. Del Panta, Dalla metà del Settecento, p. 204; S.J. Woolf, Porca miseria, p. 156.
52. Cf. Filiberto Agostini, Dall’antico sistema al ‘nuovo ordine’: la riforma della parrocchia nel Veneto napoleonico, in Studi in onore di Angelo Gambasin, a cura di Liliana Billanovich, Vicenza 1992, pp. 149-151 (pp. 149-217).
53. Comune di Venezia, Documenti per la storia, pp. 2-3.
54. C. Cantù, Grande illustrazione, p. 229.
55. Ibid., p. 212.
56. Bruno Bertoli, Assistenza pubblica e riformismo austriaco a Venezia durante la restaurazione: i ‘luoghi pii’, «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», 1977, nr. 12, pp. 25-69.
57. A. Gambasin, Poveri e beneficenza, p. 203; Giacomo C. Bascapè, L’assistenza e la beneficenza fino al termine delle dominazioni straniere, in Storia di Milano, XIV, Sotto l’Austria (1815-1859), Milano 1960, pp. 802-805 (pp. 799-831).
58. S. Tramontin, Il patriarca Pyrker, p. L.
59. Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3382/23, Rapporto e supplica: fatta dal Patriarca di Venezia, c. 1v. Ladislao Pyrker era arrivato a Venezia nell’aprile del 1821; uomo colto oltre che pio, aveva stretti rapporti con l’imperatore.
60. Ibid.
61. Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, p. 281.
62. Elaborazioni tratte da Antonio Fanolla, I dati sulla popolazione nelle ‘Tafeln zur Statistik der Österreichischen Monarchie’ (1828-1846). Qualità e contenuti per le province del Veneto e del Tirolo-Vorarlberg, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1992-1993, tavv. 5.3 e 5.12; Casimira Grandi, Igiene e salute in una città lagunare attraverso le vicende di un piano di risanamento nella Venezia di fine Ottocento, in Salute e malattia fra ’800 e ’900 in Sardegna e nei paesi dell’Europa Mediterranea, a cura di Lucia Pozzi-Eugenia Tognotti, Sassari 2000, p. 332.
63. Anche «La mente del legislatore non sapeva dipartirsi dai tradizionali ‘metodi’ della Repubblica» (Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, Firenze 1981, p. 681).
64. Notificazione 22 gennaio 1817, nr. 20441-2279, entrata in vigore nel marzo 1817, creata nel 1816 e operante dal 1° luglio 1817.
65. Comune di Venezia, Documenti per la storia, p. 5.
66. Manuale per le province soggette all’I.R. Governo di Venezia per l’anno 1846, Venezia s.a. [ma 1845], p. 432.
67. Cf. Regolamento delle fraterne parrocchiali di Venezia approvato dall’eccelso imperial regio governo, Venezia 1836.
68. Giovanni Ladislao Pyrker, Mein Leben, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, p. 209 (pp. 192-216). Più in generale per l’operato della Chiesa nell’Ottocento v. Angelo Gambasin, Religione e società dalle riforme napoleoniche all’età liberale, Padova 1974.
69. J. Zennari, Memoria, p. 34.
70. In conformità al protocollo governativo 28 agosto 1816, inerente la risoluzione sovrana 6 luglio 1816, nr. 32966.
71. Venezia, Archivio Storico Comunale, Relazioni Municipali dal 1857 a tutto il 1871 (misc. con datazione errata nel titolo), pp. 14-17.
72. Pierluigi Bembo, Il Comune di Venezia nel triennio 1863, 1864, 1865, Venezia 1866.
73. Decreto governativo 18 agosto 1820, nr. 28194-1873.
74. Comune di Venezia, Documenti per la storia, p. 7.
75. Bruno Bortoli-Casimira Grandi, Un secolo di legislazione assistenziale nel Trentino (1814-1918), Trento 1983, pp. 9-11; Valentino Guazzo, Il funzionario pubblico ossia manuale pratico disciplinare degli impiegati regii, degli addetti ai corpi tutelati e poi disciplinati dello stato, Venezia 1846, pp. 355-361.
76. Comune di Venezia, Documenti per la storia, pp. 278-280.
77. Le visite pastorali di Jacopo Monico nella diocesi di Venezia (1829-1845), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Vicenza 1976, pp. 264-267.
78. Silvia Lunardon, Le Zitelle alla Giudecca, in Le Zitelle. Architettura, arte e storia di un’istituzione veneziana, a cura di Lionello Puppi, Venezia 1992, pp. 40-42 (pp. 9-48).
79. Opere pie amministrate dalla Congregazione di carità di Venezia. Istituto Manin, Venezia 1883, pp. 35-36.
80. Il lascito per l’assistenza ai pazzi era stato usato in epoca napoleonica per il manicomio di S. Servolo (A.S. De Kiriaki, La beneficenza di ricovero, pp. 92-93).
81. Alessandro Vardanega, L’istituto Ludovico Manin. Cenni storici, Venezia 1947.
82. J. Zennari, Memoria, p. 32.
83. Venezia, Archivio Storico Comunale, Relazione del Podestà n.h. Marcello al Consiglio Comunale di Venezia nella tornata del 14 Dicembre 1858 sulle condizioni dell’anno amministrativo, pp. 14-17.
84. Ivi, Relazione letta al Consiglio Comunale di Venezia nella straordinaria tornata 26 giugno 1861 dal Podestà conte Pierluigi Bembo, s.n.t., pp. 11-12; Gaetano Barbieri, L’utilità economica delle case di ricovero e d’industria, Padova 1834.
85. Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico, v. delibere alla voce «casa d’industria».
86. Giovanni Battista Galvagni, Il povero, il lavoro, la questua, Rovigo 1846.
87. A.S. De Kiriaki, La beneficenza di ricovero, pp. 93-99.
88. M.A. Parenti, Determinata, p. 23.
89. Comune di Venezia, Documenti per la storia, pp. 33-39.
90. Antonino Canalis-Piero Sepulcri, L’organizzazione sanitaria in Venezia e provincia durante la dominazione austriaca, «Annali della Sanità Pubblica», 4, 1958, pp. 719-725.
91. Cf. Claudia Salmini, in questi volumi.
92. Angelo De Grandis, Sugli asili infantili di Venezia. Discorso letto nel giorno 27 giugno 1841, Venezia 1841; Fabio Mutinelli, Annali delle provincie venete dall’anno 1801 al 1840, Venezia 1843, p. 472; Le visite pastorali di Jacopo Monico, p. XLV; Nadia M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’. L’educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentanzione. Venezia 1750-1930, a cura di Ead.-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 92-94 (pp. 91-112).
93. Louis-René de Caraduc de La Chalotais, Saggio d’istruzione nazionale o piano di studi per la gioventù, cit. in J.-P. Gutton, La società, p. 133.
94. J. Zennari, Memoria, p. 38.
95. Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Curia III, Pubblica beneficenza, b. 5, fasc. 22/1 (1852), lettera della fraterna di S. Giacomo dell’Orio al patriarca, 8 luglio 1852; Le visite pastorali di Jacopo Monico, p. XXXIX.
96. Pietro Sailer, Sulla utilità dei ricoveri pei bambini lattanti. Discorso letto per l’inaugurazione del primo ricovero in Venezia, Venezia 1854.
97. A. Gambasin, Poveri e beneficenza, p. 215; sullo stesso argomento ma nel contesto della monarchia asburgica cf. Tommaso De Marchi, Il problema del pauperismo, Padova 1856, p. 8.
98. Henry Hazlitt, The Conquest of Poverty, New York 1973, p. 13.
99. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869 per religione, condizioni, professioni, arti e mestieri, Venezia 1871, p. XXVI; A. Fanolla, I dati, tav. 5.3; Comune di Venezia, Resoconto dell’Ufficio di igiene per il triennio 1900-1901-1902, Venezia 1903, p. 23.
100. Venezia, Archivio Storico Comunale, Rendiconto morale della civica amministrazione 1867 della giunta municipale di Venezia, Venezia 1868, pp. 33-34; Statuto organico della Congregazione di Carità di Venezia, Venezia 1880.
101. Cf. Statuto organico per l’istituto Manin, Venezia 1883; Statuto organico per l’orfanotrofio maschile volgarmente dei Gesuati, Venezia 1883; Statuto organico per l’orfanotrofio femminile volgarmente delle Terese, Venezia 1883; Statuto organico pel conservatorio delle Zitelle in Venezia, Venezia 1883. S. Tramontin, Luigi Caburlotto, pp. 104, 164 e 188.
102. S. Tramontin, Luigi Caburlotto, p. 166; Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1949, pp. 471-482.
103. Cesare Musatti, I presepi in Italia. Proposta di nuovamente fondarne almeno uno in Venezia, Venezia 1877; Asilo per i bambini lattanti e slattati Gio. Battista Giustinian. Memoria presentata alla esposizione internazionale di Igiene Sociale in Roma, Venezia 1911.
104. Laura Goretti Veruda, I bambini negli asili d’infanzia. Conferenza, Venezia 1878; N.M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’, pp. 96-101; Casimira Grandi, Bonifica sociale e bonifica urbana nell’operato della Giunta Grimani tra 1895 e 1914, in La Chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1995, p. 71 (pp. 63-83).
105. Venezia, Archivio Storico Comunale, Relazione fatta al Consiglio Comunale di Venezia dal regio delegato straordinario nella seduta 10 Dicembre 1868, Venezia 1868, pp. 43-44.
106. Ivi, nr. 17462/5705, Documenti vari, in folio, circa l’emergenza assistenziale seguita ai primi mesi dell’unificazione, IX.
107. Ivi, Il Comune di Venezia negli ultimi otto mesi della dominazione austriaca, Venezia 1867, pp. IX e 71; cf. Relazione della Giunta Municipale provvisoria di Venezia. Sul reggimento sostenuto negli ultimi quattro mesi dell’anno 1866, Venezia 1867.
108. Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico, v. delibere alla voce «casa d’industria e sifilitici»; Francesco Saverio Nitti, L’assistenza pubblica in Italia. L’azione della Chiesa e l’azione dello Stato, Trani 1892; cf. Charles L. Mowat, The Charity Organisation Society 1869-1913, London 1961, pp. 36 ss.
109. Venezia, Archivio Storico Comunale, Relazione fatta al Consiglio Comunale di Venezia dal regio delegato straordinario nella seduta 10 Dicembre 1868, pp. 43-44.
110. Comune di Venezia, Documenti per la storia, p. 5.
111. Progetto del Ricovero di Mendicità di Venezia, Venezia 1872; Venezia, Archivio Storico Comunale, Relazione fatta al Consiglio Comunale di Venezia dal regio delegato straordinario nella seduta 10 Dicembre 1868, pp. 43-44.
112. Statistica della Provincia, p. 198; Venezia, Archivio Storico Comunale, Sunto storico alfabetico, p. 49.
113. Venezia, Archivio Storico Comunale, Rendiconto morale della civica amministrazione 1867, p. 34.
114. Carlo Calza, La vita e la salute in Venezia e la legge di popolazione. Studi statistici, Venezia 1877; Raffaele Vivante, La tubercolosi polmonare a Venezia, sua diffusione e sua profilassi, Venezia 1904.
115. C. Grandi, Bonifica, p. 70. Cf. Codice politico-amministrativo del Regno d’Italia ovvero collezione metodica delle leggi e dei decreti di interesse generale e permanente dal 1861 in poi, Roma 1879.
116. Giuseppe Barellai, Cenni storici sulla istituzione degli Ospizi marini. Memoria letta al Congresso medico internazionale di Firenze nella seduta del 29 settembre 1869, Padova 1869; Nelli Elena Vanzan Marchini, L’ospedal dei veneziani, Venezia 1986; Alberto M. Del Majno, Medicina per l’infanzia, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentanzione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 74.
117. Enrico Caracciolo di Sarno, L’Ospedale dei bambini Umberto I in Venezia, Venezia 1911, pp. 9-87.
118. C. Grandi, Bonifica, p. 71; Donatella Bartolini, I luoghi dell’infanzia malata, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentanzione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 77-87.
119. Romano Viviani, L’igiene in un secolo di trasformazioni urbane, in Storia della sanità in Italia. Metodo e indicazioni di ricerca, a cura del Centro Italiano Storia Ospitaliera, Roma 1978, p. 80 (pp. 80-85).
120. Cf. L’archivio IRE, pp. 33-38.
121. Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 323-380; Comune di Venezia, Atti e documenti riguardanti il progetto di risanamento ed il piano regolatore della città di Venezia, Venezia 1892; C. Grandi, Igiene, pp. 321-352.
122. Comune di Venezia, Venezia, Ufficio Municipale di Statistica. Anno 1895, Venezia 1896, pp. 6-7. Il 1895 è un anno significativo per la Municipalità veneziana, perché era stato eletto sindaco Filippo Grimani, figura carismatica che resse le sorti della città sino al dicembre 1919, dando impulso a molteplici attività in ambito sociale ed economico (Venezia, Archivio Storico Comunale, Atti del Consiglio Comunale di Venezia 1895, pp. 226-227). V. Maurizio Reberschak, Filippo Grimani e la «nuova Venezia», in questi volumi. Resoconto morale della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia, 1902, Venezia 1904, p. 124.
123. Comune di Venezia, Venezia, Ufficio Municipale di Statistica. Anno 1896, Venezia 1897, p. 15.
124. G. Bolis, La polizia, p. 553.
125. Resoconto morale della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia [1896], Venezia 1897, p. 6.
126. Venezia, Archivio Storico Comunale, Atti del Consiglio Comunale di Venezia 1904, pp. 472-475.
127. Relazione della Commissione d’Inchiesta sull’Ospedale Civile di Venezia, Venezia 1901, p. 13.
128. Comune di Venezia, Venezia, Ufficio Municipale di Statistica. Anno 1895, pp. 1-6; Venezia, Archivio Storico Comunale, Atti del Consiglio Comunale di Venezia 1899, p. 244.
129. Comune di Venezia, Venezia, Ufficio Municipale di Statistica. Anno 1895, p. 3.
130. C. Grandi, Bonifica, p. 68.
131. Resoconto morale della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia, 1898, Venezia 1899, p. 30.
132. Resoconto morale della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia, 1902, p. 129; Venezia, Archivio Storico Comunale, Atti del Consiglio Comunale di Venezia 1904, p. 643; Camera di Commercio e di Industria di Venezia, Caratteristiche economiche della provincia di Venezia, Venezia 1924, p. 8.
133. C. Cantù, Grande illustrazione, p. 233.
134. Cf. Ernesto Rossi, Abolire la miseria, Milano 1946.