Associazione di tipo mafioso e 'ndrangheta al nord
Il delitto di associazione mafiosa previsto dall’art. 416 bis c.p. ha offerto il fianco a interpretazioni divergenti in occasione dei numerosi e recenti processi che hanno riguardato forme di espansione e radicamento della ‘ndrangheta al Nord. Convivono nella prassi, infatti, due opposti orientamenti: uno incline a rispettare il modello di reato associativo “a struttura mista”, che la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie propugnano per fedeltà al testo letterale della norma e per esigenze di maggiore conformità al canone costituzionale dell’offensività; l’altro, meno garantistico e più estensivo, invece attestato sul modello di reato associativo “puro”, ossia sganciato dall’accertamento di una qualsiasi attività “esterna” oltre la mera organizzazione interna. In sede nomofilattica, la Cassazione non è riuscita a comporre in un unico indirizzo i diversi approcci emersi, con l’effetto – per vero inaccettabile – di lasciare alla discrezionalità degli interpreti giudiziali la scelta tra l’uno e l’altro modello.
Recenti indagini e processi hanno portato allo scoperto allarmanti forme di espansione e insediamento delle mafie tradizionali al di fuori dei luoghi di origine, in particolare della ‘ndrangheta in regioni a lungo ritenute estranee a tali fenomeni, come la Lombardia, il Piemonte, la Liguria e l’Emilia Romagna.
Dal punto di vista della giustizia penale, ha svolto un ruolo protagonistico il delitto di associazione mafiosa: centinaia di imputazioni formulate ai sensi dell’art. 416 bis c.p. sono state riconosciute fondate nel merito e ormai molte con sentenze definitive. Ma in queste vicende non sempre l’accertamento dei requisiti sostanziali del reato associativo di tipo mafioso è rimasto indenne da contrasti giurisprudenziali. Si può dire, anzi, che la fattispecie incriminatrice è stata sottoposta a intense rivisitazioni con esiti in taluni casi non del tutto coincidenti con la giurisprudenza consolidata in materia. La questione più controversa poggia sul sottile crinale tra diritto e prova e si può sintetizzare con il seguente interrogativo: il “metodo mafioso” tipizzato dal 3° comma dell’art. 416 bis c.p., ossia l’avvalersi «della forza d’intimidazione del vincolo associativo e dell’assoggettamento e omertà che ne deriva», richiede l’accertamento in capo al sodalizio di una capacità di intimidazione effettiva o solo potenziale? Tale interrogativo, invero, affonda le radici in questioni interpretative dibattute già all’indomani dell’introduzione nel nostro ordinamento della fattispecie incriminatrice ad opera della celebre legge Rognoni-La Torre nel 1982. Fin dai primi cimenti giurisprudenziali e dottrinali, infatti, emerse la questione se la complessa formulazione letterale del tipo criminoso, in special modo l’impiego del termine “si avvale”, tracciasse la fisionomia di un reato associativo “a struttura mista”, occorrendo così riscontrare una «attività» esterna del sodalizio per integrare gli estremi del “metodo mafioso”, ovvero un più tradizionale reato associativo “puro”, con la conseguenza di relegare alla dimensione solo soggettivo-finalistica lo sfruttamento della forza di intimidazione. Prevalse e si consolidò nel corso del tempo – anche se non sempre in modo lineare – la prima soluzione interpretativa, probatoriamente più impegnativa ma più fedele alla lettera della legge. I recenti percorsi giurisprudenziali riguardanti il radicamento in aree non tradizionali delle mafie “storiche” hanno, appunto, in qualche modo rimesso in discussione tali approdi, con l’effetto di restituire un quadro ermeneutico molto più variopinto del precedente e – non di rado – di resuscitare versioni interpretative del delitto di associazione mafiosa assai meno stringenti sul piano del rispetto dei principi costituzionali di legalità, materialità e offensività.
In un’epoca precedente alle più recenti indagini sulle mafie al nord (ma pur sempre con riferimento a una casistica analoga), erano già affiorati due indirizzi giurisprudenziali contrapposti: l’uno, più restrittivo, teso a non riconoscere la legittimità di alcuna deviazione interpretativa dagli orientamenti consolidati in relazione al territorio preso in considerazione; l’altro, più flessibile, pronto al contrario a valorizzare proprio la dimensione geografica quale ragione giustificativa per eventuali ritocchi ermeneutici al delitto di associazione mafiosa suscettibili di renderlo applicabile anche in casi diversi dalle “classiche” formazioni mafiose operanti nelle regioni meridionali. Tale contrapposizione comincia ad emergere in una vicenda giurisprudenziale piuttosto tormentata che ha visto più volte la Cassazione censurare sentenze di merito milanesi che avevano ritenuto applicabile l’art. 416 bis c.p. a organizzazioni criminali etichettate dagli stessi giudici quali espressione di una cd. “mafia silente”. Prenderemo le mosse da questo scampolo giurisprudenziale per ripercorrere i contrasti più recenti e ancora non sopiti nel 20151.
2.1 La “mafia silente” a Milano
La definizione «mafia silente» diventa oggetto di un intenso confronto dialettico sviluppatosi tra la Cassazione e i giudici di merito milanesi un decennio addietro con riguardo all’applicabilità del delitto di associazione mafiosa (affermata da questi ultimi e negata in sede di legittimità) a gruppi criminali di origine calabrese attivi in Lombardia.
Il punto di maggiore frizione si raggiunge nella sentenza della sezione V del 13.2.20062, che investe una decisione della Corte d’Appello di Milano la quale, a sua volta, seguiva a un precedente annullamento con rinvio della Suprema Corte avente per oggetto proprio la configurabilità dell’associazione di tipo mafioso.
Ebbene, secondo la Corte i giudici di rinvio si erano limitati, per un verso, a evocare «sic et simpliciter conclamate acquisizioni giudiziarie od elementi di notorietà in ordine all’esistenza in Africo, e zone viciniori, di un clan mafioso a struttura familistica facente capo ai Morabito-Bruzzaniti, per giungere alla sbrigativa conclusione che l’articolazione di quella consorteria in area milanese, godendo della fama criminale della ‘ndrangheta, aveva automaticamente perpetuato in diverso contesto spaziale le stesse metodiche comportamentali»; e, per altro verso, di aver «acriticamente ritenuto che l’indubbio spessore mafioso dei ricorrenti – o di taluni di essi – fosse di per sé solo sufficiente a dispiegare, anche in contesti spaziali diversi (storicamente estranei a certe forme di subcultura e devianza delinquenziale proprie di altre aree geografiche), la capacità intimidatrice che, notoriamente, promana dal vincolo associativo e ha il suo pendant nella paura di denunciare e, quindi, nella conseguente condizione di omertà e soggezione». Insomma, secondo la Cassazione, la forza di intimidazione da requisito “oggettivo, effettivo ed attuale”, viene degradato dai giudici di merito a requisito “soggettivo e potenziale”, da caratteristica strutturale empiricamente riscontrabile del macroaggregato associativo nel suo complesso, viene derubricato a riflesso speculare di qualità personali dei singoli aderenti, da dato esteriore fenomenicamente percepibile viene riconvertito in un mero precipitato (un predicato) della loro pericolosità soggettiva.
Certo, soggiungono i giudici di legittimità, può pure accadere che un sodalizio criminale intenda «riproporre in altre aree del Paese le stesse condizioni di assoggettamento e di omertà che, com’è noto, costituiscono l’humus in cui alligna e prolifera la devianza mafiosa, concepita come stile di vita e strumento di sopraffazione, mai fine a se stessa ma sempre orientata e finalizzata al procacciamento di illeciti profitti e di facili arricchimenti», e tuttavia in tal caso devono risultare «in concreto specifici indici di mafiosità». E proprio sulla rilevazione di tali indici di mafiosità, la Cassazione trova del tutto illogico lo stesso approccio linguistico dei giudici di merito, laddove impiegano l’espressione «mafia silente» in quanto manifestazione di una non corretta visione dei contenuti della fattispecie incriminatrice. Un’espressione che di per sé tradisce la mancata presa d’atto da parte dei giudicanti che «il metodo mafioso, nel disegno normativo è sempre segno di esteriorizzazione, proprio per il fatto stesso di dover essere strumentale, sia pure nei limiti del mero profittamento della forza intimidatrice [si avvalgono] ai fini della sua canalizzazione o finalizzazione per il perseguimento di uno degli obbiettivi indicati nella citata disposizione normativa».
2.2 Il conflitto in Cassazione: l’orientamento restrittivo
Tale indirizzo, ispirato a un rigoroso approccio ermeneutico al terzo comma dell’art. 416 bis c.p., ha ricevuto significative conferme anche nell’ambito dei processi celebratisi recentemente a seguito delle nuove indagini sulle forme di espansione al nord delle mafie tradizionali. Vengono in rilievo, soprattutto, due sentenze che hanno riguardato, l’una, un processo tra i più importanti scaturiti dalla ormai celebre indagine «Crimine» avente per oggetto le vicende connesse all’operatività di locali ‘ndranghetiste in area lombarda; e l’altra concernente alcune posizioni stralciate dai processi celebrati a carico dei presunti membri delle locali ‘ndranghetiste insediatesi in Piemonte e in particolare nella provincia di Torino.
Cominciando dalla prima, va subito detto che la decisione della Corte3 era molto attesa soprattutto perché si trattava di mettere il sigillo, anzitutto, a una visione d’insieme che aveva ispirato le scelte dell’autorità giudiziaria: e cioè l’idea che la ‘ndrangheta fosse riconducibile a un fenomeno unitario, benché si riscontrassero autonome entità localmente insediate al di fuori dei luoghi di tradizionale radicamento.
Da questo punto di vista, la Cassazione dà atto che dal processo si trae piena conferma «dell’esistenza di una sorta di fenomeno di colonizzazione, dovuto al trasferimento di sodali calabresi in altri territori dello Stato precedentemente immuni da analoghe forme di manifestazione delinquenziale, soprattutto in regioni del Nord Italia … : sodali che, spostatisi in tali regioni settentrionali, avevano costituito nuove articolazioni di quelle medesime organizzazioni criminali, denominate “locali”, ciascuna delle quali aveva mutuato regole di funzionamento e forme delle iniziative criminali analoghe a quelle delle “locali” o dei “mandamenti” dell’organizzazione “casa madre” calabrese», così riproponendo rituali, regole di funzionamento, ripartizioni di ruoli e assetti strutturali simili a quelle adottate dagli analoghi gruppi delinquenziali operanti nella regione meridionale.
Risulta inoltre provato, aggiungono i giudici di legittimità, che, da un lato, le «numerose locali istituite presso diversi comuni delle provincie lombarde, avente ciascuna una propria tendenziale autonomia funzionale, si fossero, per così dire, consorziate ovvero confederate tra loro all’interno di una più ampia struttura, detta “Lombardia”, cui erano state assegnate funzioni di coordinamento tra le singoli locali e di unitaria rappresentanza delle stesse verso l’esterno»; e, dall’altro, che le attività di raggruppamenti lombardi «fossero state qualificate da una costante tensione con gli affiliati all’organizzazione casamadre calabrese, vivendo situazioni di acceso contrasto con coloro che, dalla regione del Sud, avevano sperato di poter dirigere le iniziative delinquenziali degli appartenenti ai gruppi nordici, laddove questi ultimi, pur nel rispetto dovuto a chi di quelle regole associative era stato il fondatore, avevano alla fine acquisito una propria autonomia decisionale e operativa».
Passando ai risvolti giuridici, una simile ricostruzione in fatto, riconoscono i giudici di legittimità, appare «rispettosa dell’indirizzo ermeneutico privilegiato da questa Corte di Cassazione, che ha già avuto modo di puntualizzare come sia ben possibile la configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis c.p. laddove, come nella fattispecie è accaduto, l’associazione per delinquere si sia radicata «in loco» con peculiari connotazioni e risulti aver conseguito, in concreto, nell’ambiente nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione, mutuando il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche». I giudici di legittimità, pertanto, si congedano criticamente da espressioni come «mafia silente» o «intimidazione potenziale», dando atto che nella sentenza impugnata invece risulta:
a) «congruamente spiegato come le indagini svolte nel processo avessero dimostrato che non di “mafia silente” si fosse trattato, cioè di una struttura organizzativa che, in una zona “colonizzata” da ‘ndranghetisti, si era limitata a mutuare i ruoli, i rituali di affiliazione ed il livello organizzativo della “cellula-madre” calabrese, senza però esteriorizzare una propria forza intimidatrice rivolta verso i propri sodali e verso terzi vittime di reatifine»;
b) e che la Corte d’Appello di Milano si era tenuta ben lontana dal richiamare una “dimensione potenziale” delle forza intimidatrice, avendo piuttosto «puntualizzato che l’associazione per delinquere in esame aveva concretamente assunto i caratteri della mafiosità nel suo quotidiano operare, sia per la sicura connessione con le caratteristiche delle analoghe associazioni criminali attive in Calabria, sia per la effettiva realizzazione in Lombardia di reatifine attuativi del comune programma delittuoso, delitti nella cui commissione era stato possibile riconoscere l’utilizzo di quel metodo dell’intimidazione che si traduce in omertà e assoggettamento».
Volgendo lo sguardo all’altra sentenza4, va subito precisato che anche nel contesto torinese, i giudici del merito avevano ritenuto provato un radicamento nel relativo territorio della ‘ndrangheta secondo moduli organizzativi simili a quelli accertati in Lombardia, e cioè: singole unità organizzate in “locali” coincidenti con un’area comunale o di quartiere nel caso di grandi città, a loro volta confederate in una struttura sovraordinata avente competenza regionale per lo svolgimento di azioni di interesse comune e per l’intermediazione strategica con le cosche tradizionali operanti in Calabria. Stavolta, però, la Cassazione annulla la decisione di merito alla quale rimprovera di aver ritenuto sufficiente «la presa d’atto di una mafiosità meramente potenziale» senza aver accertato invece una vera e propria «esteriorizzazione del metodo mafioso», accontentandosi così di richiamare «concezioni dei fenomeni criminali (come quella della mafia silente, evocata in atti), di taglio politico-sociologico, non sempre mutuabili in ambito giuridico».
I giudici di legittimità, invece, ribadiscono di «trovare del tutto ragionevole – e, soprattutto, rispondente al dettato normativo – che le condizioni di assoggettamento e di omertà, in chiave sia esterna che interna al sodalizio, risultino in rapporto di stretta dipendenza dal radicamento dell’associazione mafiosa nel tessuto sociale di riferimento; ciò a prescindere dal rilievo, puramente empirico e da riservare al terreno del concreto accertamento probatorio, che quel tessuto sia più o meno esteso, o che i tempi del radicamento possano essere stati più o meno immediati». Con la conseguenza, conclude la Corte, che «obbligata appare la soluzione di escludere la ravvisabilità di un metodo mafioso quando questo non sia stato percepito o quanto meno non risulti obiettivamente percepibile da una pluralità di soggetti posti paritariamente in condizione di avvertirne il peso».
2.3 L’orientamento estensivo
A fronte delle ripetute prese di posizione della Cassazione fin qui analizzate, rimaste fedeli nel corso del tempo alla necessità di mantenere integro il plafond dei requisiti sostanziali occorrenti per ritenere integrata la fattispecie di associazione mafiosa, si riscontrano un blocco di sentenze, emesse tra il 2012 e il 2013 da diverse sezioni della Corte, che, pronunziandosi tutte nella fase cautelare dei procedimenti avviati con le indagini sulle ramificazioni ‘ndranghetiste in Piemonte e in Liguria, arrivano a conclusioni ben diverse, nel senso di considerare più malleabili a livello di concretizzazione ermeneutica i predetti requisiti in vista di un migliore adattamento interpretativo dell’art. 416 bis alle risultanze investigative.
Molte di queste sentenze impiegano argomenti simili, e soltanto alcune avanzano ragionamenti originali rispetto alle altre5: pervengono, comunque, al medesimo risultato, e cioè di legittimare un’interpretazione del terzo comma dell’art. 416 bis c.p. che si accontenta di un accertamento della forza di intimidazione a livello solo “potenziale”, con inevitabili riflessi sul piano della dimostrazione processuale in termini di alleggerimento dell’onere probatorio gravante sull’accusa.
Qui di seguito proveremo a passare in rassegna tali argomenti in modo trasversale alle sentenze stesse, cercando di cogliere – se c’è – la visione condivisa che le accomuna.
Anzitutto, quasi tutte le decisioni prendono a bersaglio l’orientamento che ritengono di dover correggere, identificandolo con la sentenza del 2006 (v. antea, 2.1) che aveva censurato i giudici milanesi di merito per la loro insistenza sulla rilevanza ai sensi dell’art. 416 bis c.p. della cd. “mafia silente”. Curiosamente, però, attribuiscono un contenuto a tale pronunciamento che a ben vedere non corrisponde al principio di diritto che vi è affermato. Più volte, infatti, il ragionamento dei giudici di legittimità prende le mosse dall’interrogativo «se sia possibile configurare un sodalizio criminale di stampo mafioso in mancanza di compimento di reati satellite, tenuto conto che «un orientamento non isolato di questa Corte esclude tale evenienza». Ebbene, secondo queste sentenze “innovative”, è ben «configurabile il reato associativo in presenza di una mafia silente purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino concretamente presagire … la prossima realizzazione di reati fine dell’associazione … concretando la presenza del “marchio” (‘ndrangheta), in una sorta di franchising tra “province” e “locali”». Vedremo nel prosieguo gli argomenti addotti a sostegno di tale conclusione, per il momento vale la pena però mettere subito in luce che la sentenza del 2006 criticata non esclude affatto la configurabilità del delitto di associazione mafiosa qualora manchi la prova della realizzazione di reatifine: viceversa, ha semplicemente ribadito che in tale evenienza è ancor più necessario l’accertamento puntuale di una «esteriorizzazione» del metodo mafioso nei termini di un quid che ne costituisca il riflesso sul piano ambientale in termini di assoggettamento e omertà.
Passando, per dir così, alla pars costruens dell’apparato motivazionale di tali sentenze, cominciamo con l’argomento a cavallo tra diritto e prova, consistente nell’individuazione di alcuni indicatori di “mafiosità” suscettibili di fungere da equivalente funzionale dell’accertamento della forza intimidatrice del sodalizio: «a) rituali attraverso cui avviene l’affiliazione e la promozione dei diversi ruoli all’interno dell’associazione mafiosa; b) la vita sociale interna dell’associazione, caratterizzata da rigide regole, alla cui violazione è ricollegata l’irrogazione di sanzioni …; c) dall’essere l’associazione armata». Ora, una volta che «convergano le caratteristiche sopra evidenziate deve ritenersi … sufficiente la mera struttura illecita dell’organizzazione finalizzata alla programmazione/realizzazione di reati quale finalità della consorteria mafiosa che, tuttavia, non deve essere ancora allo stato embrionale, ma estrinsecarsi in un’organizzazione già effettiva sul territorio che consenta di attualizzare, attraverso una struttura organizzata … il pericolo per l’ordine pubblico, individuabile anche in mancanza di commissione di reati fine e, quindi, anche di percezione di tale pericolo da parte della collettività … senza che siano necessarie condotte eclatanti, ravvisandosi in tali evenienze, nella condotta positiva dei sodali, chiari sintomi di mafiosità». Come avremo modo di rilevare più compiutamente in sede di rilievi conclusivi, ci si trova al cospetto di una vera e propria riconversione ermeneutica del delitto di associazione mafiosa da reato originariamente concepito “a struttura mista” in reato associativo “a struttura semplice”, se è vero che la nota caratterizzante di tale tipologia delittuosa è per lo più individuata nella presenza di un supporto organizzativo interno, di un apparato strumentale idoneo a renderla veramente pericolosa per gli interessi protetti.
Seppur non brilli per chiarezza espositiva, l’approccio è abbastanza netto sul piano giuridico: non occorre accertare un effettivo avvalersi della forza di intimidazione e delle conseguenti condizioni “ambientali” di assoggettamento e omertà, ma è sufficiente riscontrare in concreto l’esistenza di un sodalizio organizzato in forma non embrionale e secondo modalità interne tipicamente mafiose. In tal caso sussiste quel “pericolo” per l’ordine pubblico che legittima l’incriminazione a titolo di 416 bis c.p., anche se questo pericolo non è neanche percepito dalla collettività.
Non mancano in queste sentenze, per la verità, tentativi di poggiare la tesi della sufficienza di una mera capacità intimidatrice “potenziale” sulle specifiche e peculiari caratteristiche che ha assunto il fenomeno espansionistico della ‘ndrangheta al di fuori di confini calabresi, come quando si osserva che il «collegamento della forza di intimidazione con il passato presuppone quindi non solo pregresse attività criminose di violenza e minaccia, ma anche che esse abbiano manifestato uno spessore qualitativo, territoriale, mediatico, tale da conferire una capacità promozionale all’espansione del timore, dell’assoggettamento e dell’omertà nella collettività originaria e in tutte le altre in cui l’associazione abbia deciso di radicarsi e agire, in vista della realizzazione di programmi intermedi e del programma finale di sostanziale esercizio del potere in uno o più territori». E, nello stesso senso, i giudici rilevano analogamente che quando un sodalizio «ripete le caratteristiche della vera e propria ‘ndrangheta, la cui fama ha trasceso i confini regionali se non nazionali», anche se insediata in un territorio diverso da quello di origine, sarà comunque dotato di quella «capacità di intimidazione al fine di perseguire le proprie finalità, a prescindere dalla concreta realizzazione delle stesse che pertanto potranno ben restare alla fine oggetto di mera rappresentazione volitiva».
Sempre in chiave critica rispetto alla richiesta di accertare forme di esteriorizzazione empiricamente verificabili del metodo mafioso soprattutto in zone tradizionalmente estranee al radicamento delle mafie, i giudici di legittimità provano anche ad attirare l’attenzione su quei «problemi interpretativi dall’esito incerto» che scaturirebbero in sede giudiziaria ove si aderisse all’orientamento restrittivo. Secondo la Cassazione, infatti, i giudici sarebbero chiamati a fare i conti con la «ricostruzione e il rilievo da attribuire alle condizioni socioeconomiche dei territori e delle popolazioni autoctone»; nonché con l’elaborazione in via pretoria di affidabili «criteri di misurazione della resistenza locale al metodo mafioso» e «la possibilità che, all’esito della misurazione della permeabilità del territorio alla cattiva fama dell’associazione di cui gli emigranti appaiono esponenti, tali condizioni siano idonee a supplire a un deficit di sintomi di mafiosità empiricamente percepibili»; e infine, con «la variabilità della rilevanza penale di medesimi comportamenti nei diversi territori dell’Italia costituzionalmente unita, ma economicamente e culturalmente frazionata».
Insomma, la Cassazione critica l’orientamento restrittivo non più dall’ottica delle esigenze repressive, ma dal diverso punto di vista – per dir così tendenzialmente “garantistico ed egualitario” – della sua stessa praticabilità in modo razionalmente controllabile, visto che finisce per sospingere il giudice a compiere accertamenti fuori dalla portata dell’ordinaria cognizione processuale, accertamenti per i quali non è professionalmente attrezzato, come appunto la misurazione delle condizioni socioeconomiche di un dato territorio da cui dipenderebbe il riscontro di una qualche forma di “esteriorizzazione” del metodo mafioso.
2.4 La cristallizzazione del conflitto
Nel primo semestre del 2015 la divaricazione interpretativa in seno alla Cassazione fin qui tratteggiata addirittura si approfondisce.
E ciò anche ad onta di un tentativo di nomofilachia felpata compiuto dal Primo presidente della Cassazione che – nel rigettare un’istanza di rimessione alle Sezioni Unite – aveva sposato l’orientamento più restrittivo osservando che «il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato sembra convergere nell’affermazione di principio secondo cui l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obbiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti».
Ma in realtà, già subito dopo, nel processo «Alba Chiara» riguardante ‘ndranghetisti insediati in Piemonte, i giudici di legittimità mostrano di voler discostarsi dall’approccio ritenuto consolidato dallo stesso Primo Presidente, laddove rilevano che «può senz’altro ritenersi che, una volta raggiunta la prova dei connotati distintivi della ‘ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa sia, già in sé, pericolosa per l’ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza intimidatrice nel contesto ambientale in cui è radicata».Tanto che, chiosa la Corte con riferimento al caso di specie, gli imputati «erano, di certo, ben consapevoli di non aderire ad un circolo ricreativo o ad un’associazione noprofit, e quindi sono stati giustamente chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 416 bis c.p.». Sulla stessa linea d’onda la coeva sentenza che ha chiuso il processo “Infinito” celebrato a Milano, ove la Corte anzitutto individua sul piano fenomenico due tipologie casistiche. Un conto, infatti, è secondo i giudici di legittimità applicare la fattispecie incriminatrice a «neoformazioni delinquenziali» prive di pedigree; altro contro è applicarla a organizzazioni che pur operando al di fuori dei contesti d’origine, costituiscono diramazioni di ben radicate associazioni mafiose. Mentre nel primo caso occorrerà accertare in concreto l’effettivo avvalersi della forza di intimidazione e il conseguente assoggettamento e omertà nei termini di un requisito oggettivo da riscontrare su scala ambientale, nel secondo si può cambiare registro. Secondo la Corte, più in particolare, «nel caso in cui un’associazione di tipo mafioso (nella specie, la ‘ndrangheta) costituisca in Italia od all’estero una propria diramazione», la capacità di intimidazione sufficiente a integrare il tipo criminoso «potrà, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale», senza che pertanto occorra provare una vera e propria esteriorizzazione in loco del metodo mafioso.
Sul versante opposto, si collocano invece altre due sentenze depositate nel medesimo lasso di tempo. La prima6, pur confermando le decisioni di condanna inflitte nel merito nel processo “Minotauro” celebratosi a Torino, non condivide del tutto il costrutto giuridico proposto dai giudici inferiori proprio sulla questione controversa fin qui discussa, in particolare ritenendo non corretto congedarsi da un modello ricostruttivo dei requisiti sostanziali del delitto di associazione mafiosa che faccia perno sulla necessità di riscontrare una obbiettiva “esteriorizzazione” della forza di intimidazione. In tale cornice, i giudici di legittimità si spingono ad osservare che allora «meglio sarebbe ridefinire la nozione di cd. mafia silente non già come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma pur sempre avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancora più temibile – che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere». La seconda sentenza7 stavolta annulla con rinvio (dopo un primo annullamento) una decisione di condanna per associazione mafiosa pronunziata dai giudici milanesi nel processo “Cerberus”, proprio facendo leva su un doppio registro, sostanziale e probatorio. Da un canto, infatti, la Corte ribadisce che l’elemento a carattere oggettivo che differenzia in termini “specializzanti” il delitto di associazione mafiosa dall’associazione per delinquere semplice risiede nel «metodo utilizzato, consistente nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. L’associazione si assicura così la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo per l’ordine pubblico economico La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forza intimidatrice dell’associazione. Se essa è invece indotta da altri fattori, si avrà l’associazione per delinquere semplice». D’altro canto, i giudici di legittimità tornano a rimproverare i giudici a quibus per non aver fornito «congrua risposta» ai quesiti posti dalla prima pronunzia di annullamento: in estrema sintesi, si trattava di dimostrare il nesso causale tra la diffusa condizione di assoggettamento e omertà, pur registrata in un determinato ambito territoriale o settore economico, e una vera e propria “esteriorizzazione” del metodo mafioso direttamente riconducibile agli imputati.
Dagli orientamenti fin qui passati in rassegna, emerge la tendenza di una parte consistente della giurisprudenza di legittimità a rimettere in discussione il modo consolidato di intendere i requisiti costitutivi del modello normativo di riferimento.
Più in particolare, alcuni settori della Cassazione hanno infatti patrocinato, talora senza inibizioni, l’enucleazione, in sede di normazione pretoria, di un vero e proprio sottotipo criminoso che intende prendere definitivo congedo in tale specifico campo dalla camicia di forza dell’illecito associativo a struttura mista. Tale trasformazione ermeneutica dell’associazione mafiosa in illecito meramente associativo è individuabile nel tentativo di attribuire esplicitamente alla ravvisata presenza di una struttura organizzativa interna, in combinazione con una fama criminale ‘per attrazione’ dai contorni indefiniti, effetti surrogatori o di rimpiazzo nei confronti di un’analitica e puntuale verifica degli estremi di una sufficiente esternalizzazione del metodo mafioso8. Detto per inciso, si tratta dell’ennesima riconferma del ricorrente fenomeno della cd. “processualizzazione delle categorie sostanziali”, frequentemente osservabile anche sul terreno della risposta giudiziaria alla criminalità mafiosa: il fenomeno per cui il materiale probatorio disponibile condiziona la costruzione dei concetti sostanziali (nel nostro caso, il metodo mafioso). Per comprendere più a fondo la portata di tale riconversione ermeneutica della fattispecie da reato a struttura mista in reato associativo puro, è opportuno ripercorrere i tratti salienti dell’indirizzo teorico che, collocandosi in posizione intermedia tra l’orientamento di chi ritiene necessari all’integrazione del tipo atti concreti di sfruttamento della forza di intimidazione9 e l’orientamento opposto di chi ritiene sufficiente il fine di intimidire10, sembra avere influenzato negli ultimi anni non poco gli atteggiamenti applicativi della giurisprudenza sul modo di intendere gli specifici contenuti del metodo mafioso.
Tale orientamento teorico intermedio11 si mostra propenso ad attribuire pur sempre all’associazione di tipo mafioso natura di reato associativo a struttura mista, ma lo fa in base ad un meno pretenzioso e più debolmente caratterizzato connotato identificativo costituito dalla presenza effettiva ed attuale di una «carica intimidatoria autonoma», vista come elemento «statico» o «inerziale» già incorporato nel corredo genetico dell’associazione. Tale «elemento oggettivo di fattispecie deve però essere invariabilmente accompagnato, questo è il punto, dal suo necessario «riflesso esterno», costituito dalla presenza, anch’essa «obiettivamente riscontrabile», di «una corrispondente diffusa propensione al timore nei confronti del sodalizio», e cioè da un «assoggettamento primordiale» (o «generico») che costituisce la proiezione speculare esterna, dal lato dei possibili soggetti passivi, dell’«alone permanente di intimidazione diffusa» che sprigiona dal sodalizio in quanto tale. Si tratterebbe in altri termini di un “concetto a due facce”, di due aspetti complementari di una medesima vicenda che stanno e cadono insieme: carica intimidatrice autonoma e diffusa propensione al timore sono, cioè, condizioni “disgiuntamente necessarie” e “congiuntamente sufficienti” a integrare la tipicità del metodo mafioso. Con le parole dell’autore che più ha rielaborato il tema: «quello che chiamiamo assoggettamento primordiale altro non è se non il risvolto passivo immediato e automatico della carica intimidatoria autonoma, riscontrabile all’esterno del sodalizio in termini di alone di intimidazione diffusa, e in mancanza del quale la suddetta carica intimidatoria non potrebbe considerarsi perfezionata»12.
Orbene, si ha la netta sensazione che, nell’applicare questo schema teorico al caso tipologico delle “mafie al Nord”, l’orientamento giurisprudenziale che abbiamo denominato “estensivo”, per sopperire a comprensibili esigenze di efficienza repressiva e di semplificazione probatoria in contesti considerati “refrattari”, abbia finito con l’assecondare una tendenza “divisionista” che spezza il nesso di immedesimazione reciproca necessariamente intercorrente tra capacità intimidatrice e diffusa propensione al timore. Più precisamente, nell’interpretare il requisito della capacità intimidatrice autonoma come dato ontologico in re ipsa (necessariamente incorporato in una struttura interna che si presenta come specifica emanazione di un’associazione mafiosa classica altrove insediata riproducendone i tratti organizzativi tipici), tale orientamento si è di fatto mostrato disponibile a rompere, senza ogni ulteriore indugio, i richiesti ponti di collegamento con l’ambiente sociale esterno. La forza di intimidazione, una volta sganciata dal suo necessario correlato fenomenico esterno, finisce perciò con l’assomigliare molto da vicino a un dato autoassertivo ed immanente che si certifica da sé. Né, ad integrare il requisito della “diffusa propensione al timore” nel particolare milieu sociale in cui la singola articolazione territoriale dell’organizzazione si trova ad operare, può bastare il sommario e impersonale riferimento alla fama criminale generalmente acquisita dall’associazione complessivamente considerata come tipo mediatico-sociologico, fintantoché questa generica fama criminale non abbia realmente prodotto un “alone permanente di intimidazione diffusa” come dato effettuale empiricamente comprovabile nello specifico contesto ambientale di riferimento. È proprio in base a tali astrazioni generalizzatrici, e cioè nel prospettare questa versione dimidiata del metodo mafioso che concede all’elemento organizzativo interno e al generico patrimonio reputazionale di cui gode l’associazione nel suo complesso un ruolo “vicariante” o di supplenza nei confronti del quid pluris “capacità intimidatrice autonoma”, che si attua il passaggio, la metamorfosi, dal tipo associativo misto al sottotipo associativo puro.
Una simile prospettazione sembrerebbe allora riaccreditare, con specifico riferimento al caso paradigmatico delle “mafie in trasferta”, quella vecchia tesi, affacciatasi già all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 416 bis c.p., e poi per lo più non coltivata dal formante dottrinale e giurisprudenziale, in ragione del suo inconciliabile contrasto con il tenore letterale della fattispecie: si allude alla tesi che interpretava il metodo mafioso come elemento finalistico e non come requisito oggettivo di fattispecie.
Ma se è così che si intende impostare la questione, a questo punto è il caso di chiedersi se non costituisca alla fine una strada obbligata un più ortodosso inquadramento penalistico di tale specifica costellazione casistica all’interno del reato di associazione a delinquere semplice (o, ammesso che se ne ritengano configurabili i già problematici estremi, del mero tentativo di associazione mafiosa), pur pagando il prezzo di un notevole abbattimento della risposta sanzionatoria. In questa prospettiva, un dato preme mettere in luce in conclusione: che la sottotipologia casistica in questione è la cartina di tornasole che mette allo scoperto insufficienze, limiti di rendimento e difficoltà di gestione processuale della soluzione intermedia che punta sul deposito inerte di forza coattiva come indice di riconoscimento di un illecito associativo a struttura mista.
Se si vuole davvero rimanere fedeli – al di là di comode scorciatoie probatorie di tipo presuntivo – ai vincoli imposti dal ricorso al modello del reato associativo a struttura mista, sembrerebbe allora non residuare altra possibilità se non quella di recuperare, con limitato riferimento ai contesti ambientali tradizionalmente immuni dal controllo mafioso del territorio, l’impostazione ricostruttiva di chi, con più generale riferimento ai contesti territoriali di tradizionale radicamento, aveva ritenuto necessario il compimento di specifici atti di sfruttamento della forza di intimidazione. Nel preciso senso che, nei “contesti immuni”, il metodo mafioso assume una marcata caratterizzazione evolutiva o in fieri, come il condensato o la risultante finale di una pregressa serie di reiterati atti di intimidazione e violenza. Fermo restando che la verifica probatoria dell’intervenuto ‘distacco’ di una capacità intimidatrice autonoma, di difficilissima e incerta individuazione se proiettata su scala macrosociale, risulta comparativamente più agevole (e plausibile) se tarata su microcontesti socioeconomici (per esempio, il settore della movimentazione terra, quello della grande distribuzione, e cosi via).
E del resto, il pesante carico sanzionatorio connesso ad un’imputazione per 416 bis trova la sua giustificazione sostanziale, in linea con le pretese avanzate dal principio di materialità-offensività, solo nell’ottica di un effettivo riscontro degli estremi tipici dell’agire mafioso, senza cedimenti dettati da pur comprensibili obbiettivi politico-criminali.
1 Per un più esteso esame della giurisprudenza in materia sia consentito rinviare a Visconti, C., Mafie straniere e ‘ndrhangheta al Nord: una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis c.p.?, in Dir. pen. cont., 2015, fasc. 1, 357; Id, I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in www.penalecontemporaneo.it, 5.10.2015.
2 In Cass. pen., 2007, 2778 con il commento di G. Borrelli, Il metodo mafioso tra parametri normativi e tendenze evolutive.
3 Cass. pen., sez. VI, 5.6.2014, Albanese e altri.
4 Cass. pen., sez. V, 20.12.2013, D’Onofrio.
5 Cass. pen., sez. II, 11.1.2012, Pronestì; 11.1.2012, Persico; sez. I, 10.10.2012, Garcea; sez. V, 7.5.2013, Maiolo; sez. V, 5.6.2013, Cavallaro; sez. V, 19.3.2013, Benedetto Massimo.
6 Cass. pen., 23.2.2015, Agresta e altri
7 Cass. pen., 22.1.2015, Barbaro e altri
8 Forniscono copertura teorica all’indirizzo giurisprudenziale suddetto Balsamo, A-Recchionie, S., Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in www.penalecontemporaneo.it, 18.10.2013, 19 e ss., ad avviso dei quali tale interpretazione «consente di assegnare alla norma un’efficacia repressiva idonea a intervenire ‘prima’ che il pericolo associativo precipiti in atti violenti e percepiti», mentre «l’interpretazione che richiede l’effettività e concretezza della intimidazione depotenzia la funzione preventiva della fattispecie, comunque orientata alla anticipazione della tutela attraverso la penalizzazione del fatto ‘fatto’ organizzativo, nella sua configurazione speciale ovvero mafiosa».
9 Limitandoci solo ad alcune citazioni essenziali: Spagnolo, G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997, 59 e ss.; De Vero, G., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 115.
10 Fiandaca, G., Commento all’art. 1 l. 3 settembre 1982 n. 646, in Leg. pen., 1983, 259 (il quale, successivamente, ha però riconsiderato la questione aderendo alla tesi intermedia: Criminalità organizzata e controllo penale, in Studi in onore di Giuliano Vassalli, vol. II, Milano, 1991, 57); Bertoni, R., Prime considerazioni sulla legge antimafia, in Cass. pen., 1983, 1014.
11 Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, 134 e ss; Ingroia, A., L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, 71 e ss.; per certi versi anche De Francesco, G., Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, voce del Dig. pen., vol. I, 1987, 310, il quale però non accoglie la ricostruzione in termini “misti” del reato.
12 Turone, G., Il delitto, cit., 136.