Abstract
Viene approfondita la natura e la funzione del contratto di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 e ss. c.c. quando l’apporto consista in una prestazione di lavoro, istituto che ha subito significative modifiche ad opera della l. n. 92/2012. Partendo da una breve e sintetica analisi della struttura stessa della figura contrattuale dell’associazione in partecipazione, si esamina l’approccio interpretativo seguito da dottrina e giurisprudenza nel caso in cui l’apporto consista in una prestazione di lavoro e si cerca di ripercorrere le linee dell’intervento del legislatore in relazione all’istituto in oggetto, con particolare attenzione alle modifiche introdotte dalla riforma Fornero.
La regolamentazione del contratto di associazione in partecipazione disciplinato dagli artt. 2549 e ss. del codice civile è stata oggetto di revisione proprio nella parte concernente l’apporto di attività lavorativa da parte del legislatore con l. 28.6.2012 n. 92, il cui precipuo intento appare finalizzato ad introdurre meccanismi sostanzialmente antielusivi in relazione ad un utilizzo scorretto del contratto di associazione per aggirare la normativa inderogabile in materia di lavoro subordinato. Tale intervento, in parte rivisitato con il d.l. 28.6.2013, n. 76, conv. con modificazioni in l. 9.8.2013, n. 99, si è concretizzato, da un lato, attraverso una diretta modifica della disciplina codicistica, con l’inserimento di un secondo comma all’art. 2549 c.c. che riconduce la possibilità di utilizzare l’apporto di prestazioni lavorative nell’ambito dell’associazione in partecipazione entro limiti rigorosi, un numero massimo di tre associati impegnati in una «medesima attività» salvo i familiari dell’associante entro il terzo grado, e, dall’altro, attraverso l’introduzione di specifici elementi presuntivi, dando veste normativa ad orientamenti da tempo emersi in giurisprudenza, che possano coadiuvare il giudice nell’opera qualificatoria.
Nel contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Tale definizione contenuta nel co. 1 dell’art. 2549 c.c. configura un istituto contrattuale che, trovando la propria origine in regolamentazioni commerciali a carattere partecipativo risalenti all’antica Mesopotamia e che nella commenda medioevale ha assunto una configurazione più simile a quella attuale (sull’origine storica dell’istituto cfr. De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, Padova, 1999), ha dimostrato di possedere una sua vitalità anche nell’assetto del codice civile vigente, pur con qualche ambiguità interpretativa mai pienamente risolta.
Se vi è sostanziale condivisione nell’inquadrare la fattispecie in esame tra i contratti aleatori (Santoni, F., L’associazione in partecipazione, in Impresa e lavoro, Tratt. Rescigno, IV, Torino, 2012, 523) con riferimento agli elementi di incertezza correlati agli utili, meramente eventuali, ricevuti dall’associato quale corrispettivo dell’apporto, e salvo ovviamente il valore dell’apporto quale limite alle perdite dell’associato, una delle prime questioni emerse in dottrina, già nella vigenza del codice del commercio del 1882, concerne la stessa natura, associativa o sinallagmatica, dell’istituto.
Parte della dottrina ritiene di poter enfatizzare gli elementi di cooperazione finalizzati ad uno scopo comune alle parti contraenti per inquadrare il contratto di associazione in partecipazione tra i contratti associativi (Ferri, G., L’associazione in partecipazione, in Dig. civ., IV ed., Torino, 1987, 508), come peraltro emerge in altri ordinamenti europei (il caso più emblematico è quello dell’ordinamento francese dove l’istituto dell’association en partecipation si è tramutato da tempo in una tipologia di società, societé en partecipation, senza personalità giuridica). Qualche ulteriore elemento in favore della tesi associativa potrebbe invero emergere dal nuovo co. 2 dell’art. 2549 c.c. che, limitando a tre il numero di associati con apporto di lavoro «indipendentemente dal numero degli associanti», sembrerebbe dar adito al dubbio che il legislatore abbia voluto implicitamente evidenziare una qualche forma di legame sussistente tra associanti ed associati, quasi riferendosi ad un unico soggetto organizzato formato da parti che rivestono differenti ruoli ma che puntano alla realizzazione di uno scopo comune (sulla falsariga della società in accomandita), o, quantomeno, a ricostruire la fattispecie come figura contrattuale unitaria a composizione plurilaterale, secondo una ricostruzione teorica che valorizzava il riferimento contenuto nell’art. 2550 c.c. sul necessario consenso del precedente associato, salvo patto contrario, in caso di nuovi associati (De Acutis, M., cit., 65). La funzione del co. 2 dell’art. 2549 c.c., specificamente orientato alla risoluzione della peculiare problematica dell’apporto di lavoro più che alla modifica della struttura stessa dell’istituto, induce però a privilegiare una lettura più neutra della novella del 2012, che non pare aver quindi comportato modifiche di rilievo rispetto alla lettura tradizionale del contratto di associazione in partecipazione nel suo complesso.
L’opinione fin qui maggioritaria, sia in dottrina (De Ferra, G., Associazione in partecipazione, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1973, 52; Santoni, F., cit., 201; Ghidini, M., Associazione in partecipazione, in Enc. Dir., III, Milano, 1958, 161; De Acutis, M., cit., 161; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, in Comm. c.c Schlesinger, Milano, 2008, 49) che in giurisprudenza (Cass., 24.6.2011 n. 13968; Cass., 28.5.2010 n. 13179; Cass., 17.5.2001 n. 6757; C. cost. 15.7.1992 n. 332), è tuttavia incline ad escludere la natura associativa, tenuto conto che nell’associazione in partecipazione non sussiste un patrimonio comune o la contitolarità delle parti sui beni destinati all’impresa e l’associato non influisce sulla gestione dell’impresa, compito riservato all’associante (Ghidini, M., cit., 850), e propensa ad inquadrare l’istituto de quo tra i contratti di scambio a prestazioni corrispettive – l’associato riceve in cambio dell’apporto una promessa di una parte, seppur determinata, di utili – e tra i contratti bilaterali, nel senso che ogni rapporto di associazione in partecipazione si fonda sul vincolo tra associante ed associato, ed un numero di associati più ampio comporta una serie di contratti autonomi l’uno dall’altro, un fascio di contratti bilaterali corrispondenti all’immagine della raggiera al cui centro si trovi l’associante (Mignone, G., cit., 49). Si tratta altresì di un contratto a forma libera, salvo che un particolare vincolo di forma sia richiesto dalla peculiare natura dell’apporto, come il conferimento di un immobile in proprietà, e di durata, che può essere a tempo indeterminato o determinato.
Elementi essenziali ed indefettibili del contratto, che secondo la dottrina più risalente trova la propria ragione causale nel finanziamento di attività economiche produttive in senso lato (così Mignone, G., cit., 37, che ricostruisce il ricco dibattito sulla causa), sono da considerarsi quelli desumibili dall’art. 2549 c.c. che delinea i confini del sinallagma contrattuale: da parte dell’associante l’attribuzione di una partecipazione agli eventuali utili dell’impresa o di uno o più affari, e, da parte dell’associato, l’apporto, in mancanza del quale si finirebbe per confluire in un contratto di cointeressenza secondo quanto previsto dall’art. 2554 c.c. (Mignone, G., cit., 408).
L’associante rimane l’unico titolare dell’impresa o dell’affare (inteso come mera parte dell’attività dell’impresa, cfr. Mignone, G., cit., 68, ovvero come attività economica priva del requisito della professionalità, cfr. De Acutis, M., cit., 147) oggetto del contratto. Ed allo stesso associante compete in via esclusiva la gestione dell’impresa o dell’affare (art. 2552) e la responsabilità nei confronti dei terzi (art. 2551). Si discute quali possano essere i limiti di una partecipazione nella gestione da parte dell’associato, fermo restando che secondo quanto previsto dall’art. 2552, co. 2, restano comunque nella libera disponibilità delle parti le modalità con cui l’associato, che ha sempre diritto al rendiconto (art. 2552, co. 3), esercita il controllo sulla gestione dell’impresa. Se è opinione condivisa che il limite codicistico che individua nell’associante l’unico gestore dell’impresa o dell’affare non possa essere pattiziamente superabile (De Acutis, M., cit., 214), la maggioranza della dottrina (De Ferra, G., cit., 69; Santoni, F., cit., 541; Ghidini, M., cit., 138; Ferri, G., cit., 513) e della giurisprudenza (Cass., 7.2.1997 n. 1191) ritiene tuttavia possibile delegare all’associato il pieno potere di gestione da parte dell’associante, unico titolato a svolgerlo, anche se non mancano posizioni che, proprio sulla base del ruolo preminente dell’associante, considerano ammissibile soltanto la delega di compiti di carattere meramente esecutivo o complementare (De Acutis, M., cit., 223).
L’apporto dell’associato è considerato elemento qualificante del contratto (De Ferra, G., cit., 28) e, secondo costante interpretazione (già Ghidini, M., cit., 852), può consistere in un qualunque contributo di carattere patrimoniale suscettibile di trasferimento, e quindi denaro o cose fungibili, beni mobili ed immobili (che se apportati in proprietà entrano ad ogni effetto nel patrimonio dell’associante, non sussistendo alcun patrimonio comune tra le parti contrattuali), titoli di credito, brevetti, crediti verso terzi, prestazioni di garanzia, o anche una promessa del fatto del terzo (Cass., 18.6.1987 n. 5353), oppure la fornitura di materie prime necessarie al funzionamento dell’impresa (Cass., 13.6.2000 n. 8027), ovvero, come accaduto negli ultimi anni, strumenti contrattuali correlati ad operazioni di finanziamento sui mercati finanziari (Santoni, F., cit., 220).
Qualche dubbio concerne la partecipazione dell’associato alle perdite, se debba configurarsi quale elemento essenziale della fattispecie o meno, con importanti conseguenze sulla validità degli accordi che prevedano l’esclusione dell’associato, la cui perdita non può comunque superare il valore dell’apporto, da una qualsiasi partecipazione alle perdite. Parte della dottrina (De Acutis, M., cit., 111) è infatti orientata a ritenere non essenziale la partecipazione alle perdite, facendo sostanzialmente leva sul dato letterale dell’art. 2553 c.c. che fa salvo il patto contrario, e valutando la piena legittimità dei patti che escludono la partecipazione alle perdite da parte dell’associato. Altra parte della dottrina ritiene invece si tratti di un elemento essenziale del contratto e che non potrebbe prevedersi una totale esenzione dalle perdite per l’associato (Ferri, G., cit., 507). In giurisprudenza un orientamento consolidatosi nel tempo propendeva per non ritenere la partecipazione alle perdite un elemento essenziale, anche se posizioni più recenti tendono a rimarcare la necessità della partecipazione alle perdite quale concreto elemento del rischio d’impresa (v. infra).
Se nel vigore dell’abrogato codice del commercio del 1882 si dubitava sulla possibile configurabilità di una prestazione lavorativa quale oggetto dell’apporto, visto che l’art. 236 c. comm. si riferiva specificamente a «cose», con la disciplina del codice del 1942, in cui si parla genericamente di un «determinato apporto», per dottrina e giurisprudenza prevalenti tale dubbio venne meno.
Ad un orientamento minoritario che negava la possibile configurabilità di una prestazione lavorativa quale oggetto dell’apporto (De Semo, G., Contratto di lavoro e associazione in partecipazione, in Lav. dir., 1958, II, 284; più di recente Allamprese, A., Sulla distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione d lavoro e contratto di lavoro subordinato, in Riv. giur. lav. 2000, I, 705, con finalità prettamente antielusiva), la dottrina ampiamente maggioritaria e la giurisprudenza sostanzialmente unanime hanno in realtà sempre avuto modo di ritenere perfettamente compatibile con la disciplina dell’istituto che l’apporto dell’associato possa consistere anche in una prestazione di lavoro.
La modifica dell’art. 2549 c.c. ad opera della l. n. 92/2012 rende esplicita tale possibilità fin dall’incipit del nuovo co. 2 «qualora l’apporto dell’associato consista anche in una prestazione di lavoro …». La congiunzione «anche» appare semplicemente da ritenersi come applicabilità estensiva delle restrizioni contenute nel co. 2 (v. infra) nel caso in cui l’apporto di lavoro si accompagni ad un'altra tipologia di conferimento.
Piuttosto, il discorso si è prevalentemente concentrato in dottrina più sui caratteri della prestazione d’opera oggetto dell’apporto ed in giurisprudenza maggiormente sulle modalità con cui è possibile distinguere l’attività lavorativa nel contratto di associazione in partecipazione e in altre fattispecie contrattuali, in primo luogo il lavoro subordinato retribuito con partecipazione agli utili dell’impresa secondo quanto previsto dall’art. 2099 c.c.
Secondo un primo orientamento, che trova in una risalente ed autorevole posizione dottrinale il punto di riferimento principale (Spagnuolo Vigorita, L., Lavoro subordinato e associazione in partecipazione, in Riv. dir. civ. 1965, I, 364), oggetto dell’apporto può essere anche una prestazione di lavoro subordinato, in relazione alla presunta neutralità della prestazione lavorativa in sé e per sé considerata (Ichino, P., Il contratto di lavoro, in Tratt. Cicu-Messineo, XXVII, 1, Milano, 2000, 306). Un secondo orientamento è invece più incline a ritenere che oggetto dell’apporto possa consistere soltanto in un’attività di lavoro autonomo, sulla base della garanzia retributiva di cui all’art. 36 Cost., che risulterebbe incompatibile con l’alea del contratto di associazione (Ghidini, M., cit., 852; Mignone, G., cit., 430; Passalacqua, P., La nuova disciplina del lavoro autonomo e associato, Torino, 2012, 204). Le differenti posizioni della dottrina appaiono in realtà strettamente correlate all’approccio definitorio prescelto, e mai pienamente consolidatosi, in materia di subordinazione, basti pensare che lo stesso Spagnuolo Vigorita dopo aver affermato la piena configurabilità della prestazione di lavoro subordinato quale oggetto dell’apporto individua invece nella disparità economico-sociale tra le parti l’elemento discretivo fondamentale tra contratto di lavoro ed associazione con apporto di lavoro (Spagnuolo Vigorita, L., cit., 419). Altra parte dei commentatori, con un approccio più neutro sul piano dogmatico e più attento ai risvolti giurisprudenziali, pone l’accento sulla sottile distinzione relativa all’attenuato potere dell’associante rispetto al tipico potere datoriale (Mazzotta O., Diritto del lavoro, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, 105), ritenendo che l’apporto possa sostanzialmente «avere le medesime caratteristiche della prestazione deducibile in un rapporto di lavoro subordinato» (De Acutis, M., cit., 130; De Ferra, G., cit., 38; Santoni, F., cit., 211).
L’approccio della giurisprudenza è in realtà sempre stato più pragmaticamente rivolto a ricercare gli elementi che consentano di distinguere tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato, cercando sostanzialmente di coniugare un utilizzo corretto dell’istituto dell’associazione in partecipazione con la tutela dei diritti dei lavoratori stabiliti dalla normativa inderogabile in materia di lavoro subordinato.
Già la giurisprudenza degli anni ’60 riconosceva come l’associato in partecipazione, a cui spetta in ogni caso il rendiconto, non sia assoggettato al vincolo di dipendenza ed alle garanzie di un guadagno tipici del lavoro subordinato (Cass., 21.7.1960 n. 2039), e nel corso del tempo è emersa la consapevolezza che anche in tale contesto risulti cruciale l’effettiva modalità di svolgimento del rapporto. Nelle decisioni più recenti è possibile ritrovare un più ampio riferimento al rendiconto ed alla necessità del controllo gestionale ad opera dell’associato, nonché un più approfondito controllo relativo alle modalità concrete con cui l’associato partecipa agli utili.
La giurisprudenza di legittimità è ormai orientata, secondo un’impostazione diffusasi a partire dalla fine degli anni ’80, ad affermare che per ricondurre la concreta prestazione lavorativa allo schema dell’associazione in partecipazione o del lavoro subordinato occorre un'indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto che, mentre il lavoro in associazione implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio di impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare della persona o dell'organo che assume le scelte di fondo dell'organizzazione dell'azienda (Cass., 24.2.2001 n. 2693; Cass., 3.2.2000 n. 1188; Cass., 12.1.2000 n. 290; Cass., 6.11.1998 n. 11222; Cass., 9.11.1992 n. 12052; Cass., 17.9.1991 n. 9671; Cass., 16.2.1989 n. 927). Le conclusioni del giudice del merito adeguatamente motivate non sono peraltro censurabili in sede di legittimità (Cass., 27.1.2011 n. 1954; Cass., 18.2.2009 n. 3894; Cass., 8.10.2008 n. 24871).
Se quindi appare condivisa la metodologia di approccio da utilizzare, la concreta rilevanza dei singoli elementi correlati alla modalità di svolgimento del rapporto non è però mai emersa in maniera univoca.
Parte della più recente giurisprudenza sottolinea ancor di più la necessità di verificare l’esistenza del rischio d’impresa, configurato alla stregua di vero e proprio «elemento essenziale, connotante la causa» del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro (Cass., 28.1.2013 n. 1817; Cass., 21.2.2012 n. 2496) e la cui mancanza, quando al contempo sussista uno stabile inserimento nel contesto dell’organizzazione aziendale ed una mancata ingerenza nella gestione d’impresa, configura un rapporto di lavoro subordinato «in ragione di un generale favore accordato dall’art. 35 Cost. che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (Cass., 12.4.2013 n. 8928; Cass., n. 2496/2012; Cass., 8.11.2011 n. 23167; Cass., 30.3.2009 n. 7586; Cass., 7.10.2004 n. 20002; Cass., 19.12.2003 n. 19475).
Altra parte della giurisprudenza è invece più incline a valutare meno rigorosamente alcuni aspetti correlati all’apporto di una prestazione di lavoro nell’ambito dell’associazione, non riconoscendo un rapporto di lavoro subordinato «nel caso in cui gli elementi caratterizzanti siano di incerta applicazione» (Cass., 24.2.2012 n. 2884), ovvero dando maggior rilevanza all’elemento del nomen iuris conferito dalle parti (Cass., 18.4.2007 n. 9264).
Ed anche la valutazione dei diversi elementi tipici del negozio associativo ha sempre oscillato tra un orientamento più rigorista ed uno più permissivo. Così secondo un orientamento giurisprudenziale è da considerarsi compatibile con l’associazione in partecipazione anche la previsione di un guadagno minimo garantito a favore dell’associato (Cass., 18.2.2009 n. 3894; Cass., 10.8.1999 n. 8578; Cass., 21.6.1988 n. 4235; Cass., 14.1.1982 n. 197); mentre secondo un opposto orientamento ciò non sarebbe possibile, proprio per il rischio d’impresa che deve gravare sull’associato (Cass., n. 1817/2013; Cass., 24.2.2011 n. 4524). Nello stesso modo non è stata in linea di principio esclusa l’associazione anche in presenza di acconti fissi mensili (Cass., 24.11.2000 n. 15175), al contrario di altra parte della giurisprudenza che, invece, ne individua un tipico elemento della subordinazione (Cass., 26.1.2010 n. 1584; Cass., 30.3.2009 n. 7586). Ed anche la previsione di un orario di lavoro vincolante non è stato di per sé ritenuto sufficiente per negare l’esistenza di un rapporto di associazione (Cass., n. 8578/1999).
Altro terreno di confronto giurisprudenziale attiene alla possibile configurabilità dei ricavi in luogo degli utili quale riferimento al guadagno dell’associato. Se parte della giurisprudenza è incline a ritenere ammissibile il riferimento pattizio ai ricavi (Cass., n. 3894/2009; Cass., 6.5.1997 n. 3936; Cass., 21.11.1985 n. 5759), qualche giudice ha invece dubitato del fatto che la partecipazione al fatturato d’impresa, e quindi ai ricavi anziché agli utili, possa snaturare la natura stessa del contratto di associazione, visto che i ricavi non rappresentano in se stessi un dato significativo circa il risultato economico effettivo dell'attività dell’impresa e verrebbe esclusa la stessa partecipazione al rischio d’impresa (App. Bologna, 22.10.2007, in Dir. rel. ind., 2008, 4, 1157; Cass., 4.2.2002 n. 1420).
Più consolidato appare invece l’orientamento che attribuisce rilevanza all’assenza di qualsiasi indicazione in tema di rendiconto periodico, spesso con riferimento anche ad altri elementi (Cass., n. 1584/2010; Cass., n. 7586/2009); ma anche in merito a tale componente sussiste chi dubita della sua essenzialità, sulla base del fatto che la presentazione del rendiconto rappresenterebbe unicamente l'espressione numerica di parametri convenzionalmente stabiliti per quantificare la misura degli utili (Cass., 3.2.1996 n. 926).
La sfuggente natura dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro e il più marcato utilizzo abusivo di tale istituto avvenuto negli ultimi anni hanno comportato un’attenzione crescente da parte del legislatore, che ha avuto modo di intervenire con il duplice intento di prevedere maggiori diritti per l’associato e di scoraggiare un utilizzo abnorme di tale figura contrattuale. Nel corso del tempo, infatti, tra i casi pratici affrontati in giurisprudenza, sono emerse attività meramente esecutive normalmente più coerenti con lo schema del lavoro subordinato, come ad esempio addetto alla vendita in un bar (Cass., 21.6.1988 n. 4235), cassiere di supermercato (Cass., 10.9.1999 n. 8578), addetto alla vendita in un negozio (Cass., 23.1.1999 n. 655), addetto al servizio di pulizia (Cass., 3.2.2000 n. 1188), cameriera in una gelateria (Cass., 12.4.2013 n. 8928), fino ai più recenti casi di noti marchi di aziende tessili che hanno stipulato anche centinaia di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro per i propri punti vendita, fenomeno certo non del tutto estraneo all’intervento del legislatore del 2012.
Primo rilevante intervento che ha comportato maggiori tutele in favore dell’associato può essere considerata la sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto la necessità di applicare la disciplina infortunistica anche agli associati in partecipazione con apporto di lavoro, sulla base del principio secondo cui a parità di esposizione al rischio deve corrispondere parità di tutela assicurativa, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto in base al quale il lavoro è prestato (C. cost., 15.7.1992 n. 332).
Il legislatore ha successivamente introdotto alcune specifiche garanzie sul piano previdenziale ed una regolamentazione più precisa su quello tributario. In questo senso il d.l. 30.9.2003 n. 269, conv. in l. 24.11.2003 n. 326, come modificato dalla l. 30.12.2004 n. 311 (legge finanziaria 2005), ha previsto l’obbligo per i prestatori di lavoro nell’ambito dell’associazione in partecipazione di iscriversi alla gestione separata di cui all’art. 2, co. 26, l. 8.8.1995 n. 335, istituita per i collaboratori parasubordinati. Ed anche sul piano fiscale sono considerati redditi di lavoro autonomo gli utili derivanti da associazioni in partecipazione quando l'apporto è costituito esclusivamente dalla prestazione di lavoro (T.U. delle imposte sui redditi art. 53, co. 2, lett. c).
Più di qualche problema interpretativo aveva suscitato l’art. 86 d.lgs. 10.9.2003 n. 276, introdotto con una esplicita finalità antielusiva, secondo cui nei casi di rapporti di associazione in partecipazione resi «senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora» il lavoratore aveva diritto ai trattamenti economici e normativi previsti per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, salva la possibilità di prova contraria.
La norma è stata oggetto di diverse critiche in dottrina, con particolare riferimento al parametro delle «adeguate erogazioni» che sarebbe difficilmente compatibile con lo schema di un contratto aleatorio. L’approccio interpretativo maggioritario, condiviso anche tra la scarsa giurisprudenza che a tale norma ha fatto riferimento (Cass., 24.2.2012 n. 2884), ha finito per ritenere che la norma non operi sulla qualificazione del rapporto quanto piuttosto sulla disciplina applicabile (Passalacqua, P., cit., 208). La scarsa portata applicativa è stata probabilmente uno degli elementi che ha portato il legislatore del 2012 a modificare l’approccio utilizzato fino a quel momento per evitare un uso distorto dell’istituto.
La riforma del mercato del lavoro di cui alla l. n. 92/2012, art. 1, co. 28-31, ha così provveduto ad abrogare l’art. 86, co. 2, d.lgs., 276/2003, facendo salvi i contratti di associazione sottoposti a certificazione entro l’entrata in vigore della norma, ed introducendo al contempo garanzie per l’associato in partecipazione con apporto di lavoro attraverso la modifica della norma codicistica di riferimento, l’articolo 2549 c.c., e l’introduzione di elementi presuntivi che attingono anche dagli approcci giurisprudenziali più diffusi.
Il nuovo co. 2 dell’art. 2549 c.c. introdotto dall’art. 1, co. 28, della legge n. 92/2012 ha previsto, nel caso in cui l’apporto dell’associato consista anche in una prestazione di lavoro, che il numero degli associati impegnati in una medesima attività non possa essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto il rapporto con tutti gli associati si considera subordinato a tempo indeterminato.
Se il limite dei tre associati non sembra correlato a chiare motivazioni oggettive (Vallebona, A., La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 37; Treu, T., Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, – 155/2012, 45), l’eccezione al contesto familiare richiama apparentemente la nozione di impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., tenendo tuttavia presente che se l’istituto introdotto con la riforma del diritto di famiglia del 1975, peraltro di carattere residuale (Cass., 16.12.2005 n. 27839), è chiaramente rivolto a tutelare il lavoro familiare da una presunzione di gratuità della collaborazione, la norma in commento sembra avere una funzione differente, richiamando l’ambito familiare quale consesso parzialmente al riparo dai rischi elusivi che la norma intende prevenire (in termini simili Passalacqua, P., cit., 214).
Di difficile individuazione appare il riferimento alla «medesima attività» contenuto nella norma. Si pongono diverse opzioni interpretative, che potrebbero modificare sensibilmente lo stesso ambito applicativo del divieto (Treu, T., cit., 45). Da una possibile lettura connessa all’attività lavorativa ed ai compiti degli associati (Leone, G., L’associazione in partecipazione, in Comm. Mazzotta-De Luca Tamajo, Padova, 2013, 657), ad un opposto riferimento, più diffuso in dottrina, correlato all’attività dell’associante, con una duplice lettura che fa riferimento all’attività di impresa nella sua interezza ovvero a singole parti di essa dotate di sostanziale autonomia (Tosi, P., Associazione in partecipazione con la riforma Fornero, in Lav. giur. 2012, 10, 965). L’irrilevanza del numero degli associanti nell’applicazione del divieto in parola potrebbe invero far propendere per l’impresa nella sua interezza.
Ma la questione più controversa appare la rigorosa sanzione che prevede che, in caso di violazione del divieto, il rapporto con tutti gli associati si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
In dottrina è diffusa l’opinione che la norma in oggetto configuri un caso di presunzione assoluta di subordinazione, non essendo ammissibile la prova contraria (Bubola, G., Pasquini, F., Venturi, D., Associazione in partecipazione con apporto lavorativo, in Comm. Magnani-Tiraboschi, Milano, 2012, 185). Qualche commentatore ha ritenuto che la novella possa essere affetta da vizio di incostituzionalità per violazione del principio di indisponibilità del tipo (Vallebona, A., cit., 36; Tosi, P., cit., 965). Il tema, particolarmente discusso già in relazione all’art. 69, co. 1, d.lgs. n. 276/2003 sul lavoro a progetto, si presterebbe ad approfondimenti di rilievo, a partire dal dubbio se un principio in base al quale i diritti a tutela del lavoro subordinato sono sottratti alla disponibilità delle parti e del legislatore, enucleato dalla Corte costituzionale a partire dalle specifiche garanzie costituzionali per il lavoro subordinato (cfr. D’Antona, M., Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Argomenti dir.lav. 1995, 1, 63), possa trovare applicazione nel caso inverso di un rapporto di tipo autonomo (cfr. Luciani, V., Lavoro a progetto, indisponibilità del tipo contrattuale e rimodulazione delle tutele, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 287).
Piuttosto, e senza entrare nel merito della scelta discrezionale della soglia di tre associati, la questione interpretativa correlata alla sanzione di cui all’ultimo periodo del co. 2 dell’art. 2549 c.c. andrebbe affrontata in base al principio costituzionale di ragionevolezza. Non può in effetti dimenticarsi che la Corte costituzionale ha già ritenuto contrario al principio di ragionevolezza il co. 1 dell’art. 86 d.lgs 276/2003, proprio nella parte in cui la norma prevedeva, dopo un anno dall’entrata in vigore della disciplina del contratto a progetto, la perdita di efficacia di rapporti di collaborazione privi di progetto che le parti avevano però liberamente stipulato nel pieno rispetto della legge vigente (C. cost., 5.12.2008 n. 399).
In dottrina si è già avuto modo di dubitare del fatto che la sanzione del co. 2 dell’art. 2549 c.c. possa colpire i familiari, sulla base dell’esclusione dai limiti prevista nei loro confronti (Bubola, G., Pasquini, F., Venturi, D., cit., 187). A parere di chi scrive analogo approccio interpretativo, per superare i profili più irragionevoli della norma, dovrebbe estendersi agli associati i cui contratti siano stati stipulati senza infrangere alcun divieto.
Se il richiamo a «tutti gli associati» è stato finora inteso in dottrina come riferito a qualunque rapporto di associazione con apporto di lavoro nell’impresa nel suo insieme, sul piano letterale non appare del tutto priva di consistenza una diversa lettura che dia enfasi al primo inciso del periodo correlato alla «violazione del divieto» con la conseguenza che il profilo sanzionatorio possa intendersi rivolto a tutti i rapporti di associazione che siano stati stipulati in violazione del suddetto divieto, e cioè a quei contratti di associazione, esclusi quelli relativi ai familiari, che eccedono il limite di tre previsto dalla norma. Tale interpretazione permetterebbe di non applicare la sanzione ai primi tre rapporti di associazione stipulati nel pieno rispetto delle previsioni di legge, salvo ovviamente l’eventuale applicazione delle presunzioni relative (su cui v. infra) correlate alla necessità che deve in ogni caso trattarsi di rapporti di associazione genuini. Il problema potrebbe al limite concernere soltanto una questione probatoria correlata a quali siano da considerarsi i primi tre rapporti nel caso di contratti molteplici.
Meno problemi interpretativi offrono gli ulteriori interventi della l. n. 92/2012, il cui art. 1, co. 30, ha introdotto una serie di presunzioni di subordinazione, che nell’interpretazione unanime della dottrina sono da considerarsi quali presunzioni relative, essendo specificamente prevista la possibilità di prova contraria, e che al contempo rafforzano a contrario l’interpretazione dell’inciso di cui al co. 2 dell’art. 2549 c.c. quale presunzione assoluta.
È infatti previsto che i rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro instaurati o attuati senza che vi sia stata un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, ovvero senza consegna del rendiconto previsto dall'articolo 2552 c.c., si presumono, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Il legislatore ha quindi deciso di riprendere, inserendoli quali riferimenti presuntivi, alcuni degli orientamenti che la giurisprudenza ha nel corso degli anni avuto modo di utilizzare per discernere tra associazione in partecipazione con apporto di lavoro e lavoro subordinato. Pur limitandosi a richiamare elementi desumibili dalla stessa descrizione codicistica, l’inserimento quali presunzioni appare espressamente mirato per servire da concreto ausilio ai giudici in sede qualificatoria.
Così in merito al riferimento agli utili sembrerebbe ora esclusa la possibilità di riferirsi soltanto ai ricavi. Si tratta, come si è visto, di un orientamento non pienamente consolidato in giurisprudenza, che sembrerebbe aver trovato la piena adesione ad opera del legislatore, anche se restano attuali le problematiche relative alla modalità di calcolo degli utili, non tanto in relazione ad uno specifico e determinato affare, quanto con riferimento alla gestione annuale dell’impresa.
La consegna del rendiconto sembra meno significativo come riferimento interpretativo, essendo già previsto in termini analoghi dall’art. 2552, co. 3. Probabilmente in tal modo potrebbero ritenersi esclusi quegli orientamenti giurisprudenziali tendenti a ritenere il rendiconto meramente indicativo di un assetto di potere contrattuale, rimanendo però aperte le problematiche correlate alla corretta modalità di redazione ed effettiva dazione del rendiconto stesso (cfr. Cass., 13.6.2000 n. 8027).
La medesima presunzione di lavoro subordinato opera anche nel caso in cui l’apporto di lavoro non presenti i requisiti richiesti dal co. 2, lett. a), del novello art. 69 bis d.lgs n. 276/03, introdotto dalla stessa l. n. 92/2012 in relazione al contratto a progetto. La norma richiamata fa riferimento a prestazioni lavorative correlate a competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi ovvero a capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività. In sostanza la presunzione relativa di lavoro subordinato, che consente in ogni caso la prova contraria, è altresì estesa ai casi in cui l’apporto di lavoro sia connotato da competenze di basso contenuto professionale e senza alcuna esperienza concreta.
Anche il legislatore del 2013, pur senza sostanziali mutamenti dell’impianto regolativo della riforma Fornero, ha ritenuto di dover introdurre ulteriori modifiche alla normativa del rapporto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, da un lato con la previsione di alcune norme protettive in favore degli associati e, dall’altro, attraverso l’introduzione di una deroga al limite massimo dei tre associati in alcune particolari situazioni.
Il d.l. n. 76/2013, conv. con modificazioni in l. n. 99/2013 (G.U. 22.8.2013 n. 196), ha esteso anche all’associazione in partecipazione con apporto di lavoro, così come alle collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, le disposizioni di cui ai co. 16-23 dell’art. 4 della l. n. 92/2012. Si tratta delle disposizioni correlate alle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore ed alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro subordinato, ora sottoposte ad una procedura che prevede alternativamente la convalida in sede protetta ovvero la sottoscrizione di apposita dichiarazione del lavoratore in calce alla comunicazione di cessazione del rapporto al centro per l’impiego. In ogni caso il rapporto di lavoro si intende risolto qualora il lavoratore non aderisca all’invito da parte del datore di lavoro di adempiere ad una delle due precedenti ipotesi. All’associazione in partecipazione sono altresì ora applicabili anche le più onerose procedure correlate a dimissioni e risoluzione consensuale in caso di gravidanza e puerperio e la tutela per le dimissioni in bianco.
Inoltre, sono state inserite apposite misure per contemperare in alcuni specifici casi gli effetti del novello co. 2 dell’art. 2549 c.c. (v. supra), le cui disposizioni non si applicano ora agli associati in partecipazione che abbiano un rapporto contrattuale certificato con una società cooperativa e, facendo seguito ad una esplicita richiesta della federazione industria musicale italiana, ai casi di contratti di associazione in partecipazione nell’ambito di un rapporto di lavoro artistico. Secondo il novello co. 2-bis introdotto all’art. 2549 c.c. dall’art. 7, co. 5, d.l. n. 76/2013, infatti, le disposizioni del co. 2 dell’art. 2549 c.c. «non si applicano, limitatamente alle imprese a scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dall’organo assembleare di cui all’articolo 2540, il cui contratto sia certificato dagli organismi di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, e successive modificazioni, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento». Come chiarito dalla circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 29.8.2013, n. 35 la certificazione nel caso delle cooperative corrisponde ad un adempimento che andrà «quantomeno avviato prima di qualsiasi accertamento ispettivo».
Infine, è stata prevista una speciale procedura di stabilizzazione dei rapporti di associazione in partecipazione in essere. L’art. 7 bis d.l. n. 76/2013, inserito con la legge di conversione, ha previsto la possibilità che le aziende possano stipulare fino al 30 settembre 2013, con le associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, appositi contratti collettivi, anche aziendali, che contemplino, entro tre mesi dalla stipulazione dell’accordo, l’assunzione con contratto a tempo indeterminato, eventualmente anche in apprendistato, «di soggetti già parti, in veste di associati, di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro», previo versamento presso la gestione separata dell’INPS di un contributo pari al cinque per cento della quota di contribuzione a carico degli associati. La procedura, che comporta comunque la sospensione degli effetti dei provvedimenti amministrativi o giurisdizionali in essere, prevede la sottoscrizione di appositi atti conciliativi secondo la procedura di cui all’art. 410 c.p.c. con i lavoratori interessati. Il tutto deve essere depositato entro il 31 gennaio 2014 presso l’INPS, che ha il compito di verificare il corretto adempimento degli oneri previsti dalla legge, il cui buon esito comporta una sostanziale sanatoria con effetti estintivi di qualunque eventuale illecito pregresso. Non è previsto un termine per la verifica da parte dell’Inps, nei cui confronti, però, il Ministero raccomanda la massima tempestività (circ. n. 35/2013).
Artt. 2549-2554 c.c.; l. 28.6.2012, n. 92, art. 1, co. 28-31; d.l. 28.6.2013, n. 76, conv. in l. 9.8.2013, n. 99, artt. 7-7 bis.
Allamprese A., Sulla distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione d lavoro e contratto di lavoro subordinato, in Riv. giur. lav., 2000, I, 705; Bubola G.-Pasquini, F.-Venturi, D., Associazione in partecipazione con apporto lavorativo, in Comm. Magnani-Tiraboschi, Milano, 2012, 185; D’Antona, M., Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Argomenti dir. lav. 1995, 1, 63; De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, Padova, 1999; De Ferra, G., Associazione in partecipazione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1973; De Semo, G., Contratto di lavoro e associazione in partecipazione, in Lav. dir., 1958, II, 284; Ferri, G., L’associazione in partecipazione, in Dig. civ., IV ed., Torino, 1987, 508; Ghidini, M., Associazione in partecipazione, in Enc. Dir., III, Milano, 1958, 161; Ichino P., Il contratto di lavoro, in Tratt. Cicu-Messineo, XXVII, 1, Milano, 2000, 306; Leone, G., L’associazione in partecipazione, in Comm. Mazzotta-De Luca Tamajo, Padova, 2013, 657; Luciani, V., Lavoro a progetto, indisponibilità del tipo contrattuale e rimodulazione delle tutele, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 287; Mignone G., L’associazione in partecipazione, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2008; Passalacqua, P., La nuova disciplina del lavoro autonomo e associato, Torino, 2012, 204; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, in Impresa e lavoro, Tratt. Rescigno, IV, Torino, 2012, 523; Spagnuolo Vigorita, L., Lavoro subordinato e associazione in partecipazione, in Riv. dir. civ., 1965, I, 364; Tosi, P., Associazione in partecipazione con la riforma Fornero, in Lav. giur. 2012, 10, 965; Treu, T., Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 155/2012, 45; Vallebona A., La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 36.