Abstract
Si esaminano gli aspetti principali del contratto di associazione in partecipazione previsto dal nostro Codice civile, descrivendone le origini storiche, la natura, i principali diritti e obblighi delle parti.
L’associazione in partecipazione è un contratto tipico, bilaterale, a prestazioni corrispettive, aleatorio e di durata, disciplinato dagli artt. 2549-2553 c.c. Come da nozione (art. 2549), esso lega due soggetti, un associante e un associato: quest’ultimo versa al primo un apporto, in cambio (letteralmente «verso il corrispettivo») di una quota degli utili della sua impresa o di un (singolo) affare. La legge sottolinea più volte il fatto che l’impresa, e di conseguenza anche l’affare, sono dell’associante: l’art. 2549, co. 1, parla infatti della «sua impresa» e l’art. 2551 precisa – ad abundantiam – che «i terzi acquistano diritti e assumono obblighi soltanto verso l’associante»; l’art. 2552, co. 1, aggiunge a conferma che «la gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante» (sebbene, a rigore, giacché l’impresa è “sua”, neanche di questa indicazione vi sarebbe stato bisogno).
L’associato è dunque un soggetto che, a differenza di un socio, rimane esterno all’impresa o all’affare: egli è un finanziatore, cioè un creditore, anche se il suo credito è “a rischio” sotto un duplice profilo: sotto quello della remunerazione egli, a differenza del mutuante che ricava interessi, riceve una partecipazione agli utili, i quali, come è noto, possono esservi o non esservi a fine esercizio. Sotto il profilo della restituzione dell’apporto versato, di regola egli «partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili», seppur entro il limite dell’apporto versato (art. 2553 c.c.); in questo senso, se da un lato egli differisce dal mutuante, per il quale la restituzione del capitale è dovuta, dall’altro la sua partecipazione alle perdite è diversa da quella di un socio illimitatamente responsabile di società di persone e si avvicina invece a quella del socio accomandante di s.a.s. Perciò, se la gestione dell’impresa o dell’affare è in passivo, l’associato rischia, oltre che di non ricevere utili, di veder erodere il capitale rappresentato dal suo apporto fino al suo esaurimento (ma non oltre). Come precisato all’esordio dell’art. 2553, è ammesso un patto contrario che esoneri l’associato dalla partecipazione alle perdite, aspetto che andrà ad incidere sulla restituzione dell’apporto: in tal modo egli potrà non ricevere utili, ma il suo capitale andrà restituito in ogni caso alla chiusura del rapporto; non sarebbe invece ammissibile una clausola che gli assicurasse una remunerazione anche se l’impresa o l’affare non produca utili, poiché in tal modo si trasformerebbe il contratto in un mutuo (restando però possibile, come si ribadirà, la pattuizione di una remunerazione mista).
Pur non potendo partecipare alla gestione dell’impresa, l’associato gode certamente del diritto ad un rendiconto, che sarà finale o, in caso di durata pluriennale del rapporto, periodico (art. 2552, co. 3, c.c.) ed eventualmente di altri diritti di controllo specificati nel contratto (art. 2552, co. 2, c.c.).
La posizione di associante e associato può essere ricoperta tanto da persone fisiche quanto da enti collettivi.
Per giudizio condiviso, l’attuale associazione in partecipazione deriva dalla commenda medioevale, un contratto con cui i mercanti dell’epoca si finanziavano: uno stans, non mercante, affidava (in latino commendare = affidare) un capitale in denaro o merci ad un tractator, mercante di professione, affinché lo impiegasse in un affare del commercio marittimo (più tardi anche di terra) e al ritorno dal viaggio glielo restituisse assieme ad una cospicua quota (tradizionalmente i tre quarti) degli utili realizzati (Mignone, G., Un contratto per i mercanti del Mediterraneo. L’evoluzione del rapporto partecipativo, Napoli, 2005, 63 ss.). In buona approssimazione, la commenda corrisponde all’attuale associazione in partecipazione al singolo affare. È oggi riconosciuto che, a sua volta, la commenda deriva dal qirāḍ, usato dagli arabi da epoca ancor precedente.
Nel XVI sec. questo modello contrattuale si ritrova nelle sentenze della Rota di Genova col nome di partecipatio, che muta leggermente (“participatio”), pur restando ferma la sostanza, nelle pagine dei giureconsulti che nei secoli successivi scrivono di commercio: De Luca (XVII sec.) e Casaregis (XVIII sec.). Nel primo codice di commercio moderno, il Code de commerce napoleonico del 1807, troviamo ormai compiuta la parabola evolutiva dell’istituto, denominato association en participation, quasi certamente per tenerlo distinto dalle sociétés. L’association può essere stipulata per «una o più operazioni di commercio». Da questo Codice esso si trasfonde in quello per gli Stati del Re di Sardegna (1842) e di qui, con miglioramenti nei dettagli di disciplina, nei codici dell’Italia unificata, il c. comm. 1865 e quello del 1882, da dove poi prenderà spunto il legislatore del Codice civile unificato del 1942. Significativo il fatto che nel c. comm. 1865 si riconosca che al partecipante (solo dal 1942 “associato”) il commerciante (non ancora “associante”) può attribuire una partecipazione agli utili e alle perdite «di una o più operazioni, o anche del suo commercio», ratificandosi così la possibilità di un’associazione all’impresa e non più soltanto al singolo affare (per tutti questi aspetti, Mignone, G., Un contratto per i mercanti, cit., 103 ss.).
Per sancire la distinzione fra l’associazione in partecipazione e le forme societarie, il legislatore del Codice civile unificato del 1942 colloca la prima in un autonomo Titolo VII del Libro V.
Significativo invece come in Francia (e, in base ad analoga impostazione, anche in Germania) l’istituto si evolve legislativamente in società: a partire dal 1966 l’association en participation diventa société en participation, seguendo un’interpretazione che confonde il contratto partecipativo con quello associativo, togliendogli la sua peculiarità squisitamente finanziaria e riducendolo ad un semplice “tipo” di società.
La prima grande distinzione che si può operare fra le forme in cui il contratto può manifestarsi è quella fra associazione all’impresa (intesa come attività complessiva) e quella al singolo affare o a più singoli affari, distinzione chiaramente delineata dall’art. 2549, co. 1, c.c. È ammissibile anche un’associazione al singolo ramo d’impresa o ad una singola, particolare attività dell’impresa stessa (De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, Padova, 1999, 157; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2008, 21 s.). Tale distinzione rimanda a un altro aspetto di rilievo: esistendo l’associazione all’affare (o a più affari), la posizione di associante non è riservata agli imprenditori (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1973, 15; Ferri, G., Associazione in partecipazione, in Scritti giuridici, III, 2, Napoli, 1990, 1419; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, in Tratt. Rescigno, 16, IV, II ed., Torino, 2012, 199), come non lo è quella di associato, con l’unica eccezione rappresentata dall’ipotesi in cui l’apporto consista in una prestazione d’opera, su cui v. il relativo paragrafo. Per fare un esempio tratto dalla realtà, due artisti, su consiglio di un avvocato milanese, avevano costituito un’associazione in partecipazione per finanziare la realizzazione di un’opera la cui materia prima era particolarmente costosa: si trattava di una “scultura” interamente formata da banconote da 50 euro, piegate in modo da incastrarsi l’una nell’altra (http://www.mambo-bologna.org/files/disponibilitadellacosa.pdf).
Merita di essere sottolineata, poi, la bilateralità del contratto, sulla quale la dottrina concorda (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, Milano, 1959, 51; de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 53; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, cit., 201): le parti sono due, associante ed associato, anche se ovviamente ciascuna delle posizioni può essere condivisa da più soggetti. In tale chiave è da leggere l’art. 2550 c.c., (“pluralità di associazioni”), secondo cui, per poter «attribuire altre partecipazioni» per la stessa impresa o affare, l’associante necessita del «consenso» dell’associato: queste eventuali nuove partecipazioni rappresenteranno altrettanti distinti rapporti contrattuali fra l’associante e i nuovi associati. Il consenso del precedente associato non è perciò previsto dalla legge in una chiave “associativa”, come quella per cui i vecchi soci di una s.n.c. devono acconsentire all’ingresso di nuovi; esso risponde a una logica di pura corrispettività, della quale si dirà alla fine del § 8.
Connessa alla precedente è l’affermazione per cui abbiamo a che fare con un contratto “di scambio”, o a prestazioni corrispettive, come è chiaramente desumibile dalle parole della definizione legale (art. 2549, co. 1) «verso il corrispettivo di …» (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 41 ss.; de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 13; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, cit., 200 ss.; De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 61-63). Il legislatore del 1942 ha inserito le indicate parole appunto per rimarcare l’abbandono della concezione, in precedenza presente (e ancor oggi dominante all’estero, come si vedrà), per cui il contratto sarebbe “di collaborazione”, o, secondo un’altra terminologia, “associativo”: l’accennata riserva di gestione a favore dell’associante (su cui v. ancora oltre) e l’inserimento, nella definizione del contratto di società (art. 2247 c.c.), dell’elemento dell’esercizio in comune (v. infra § 7) mostrano chiaramente che l’associazione in partecipazione non è destinata a realizzare una collaborazione fra soggetti, ma un semplice scambio fra chi dispone di mezzi da investire e chi ne abbisogna, come risulterà anche dal paragrafo che segue.
Dal punto di vista della sua causa giuridica, intesa in senso oggettivo come funzione economico-sociale del contratto (in questo caso, contratto tipico), l’associazione in partecipazione è inquadrabile fra i contratti di finanziamento (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 37; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, cit., 204; Spolidoro, M. S., Capitale sociale, in Enc. dir., Aggiornam. IV, Milano, 2000, 199, 203): essa, come l’antica commenda, serve a finanziare un’attività d’impresa, o comunque lucrativa (l’“affare” singolo è pur sempre un fatto speculativo), dando all’associante la possibilità di fruire di mezzi superiori ai propri, all’associato quella di effettuare un investimento a rischio (il contratto è aleatorio perché l’utile è incerto nel suo an e nel suo quantum), che può in ipotesi fruttargli più di un altro genere di investimento.
Da questo assunto si può prendere spunto per rilevare come l’associazione in partecipazione corrisponda non soltanto ad un modello storico, o fattuale, ma anche ad un modello logico, nel senso che fra i tipi di investimento astrattamente ipotizzabili occupa un preciso posto fra il mutuo, che prevede una remunerazione ed una restituzione “certe” (salva ovviamente l’insolvenza del debitore), e la società con responsabilità illimitata dei soci, nella quale l’investitore rischia sia l’assenza di una remunerazione (utile) che il recupero del suo apporto (che è “conferimento”), avendo tuttavia la possibilità di partecipare alla conduzione dell’attività, in quanto “socio”. Nel mutuo non vi è alcun coinvolgimento nelle sorti dell’impresa (o affare), né sotto il profilo del potere, né sotto quello economico; nella società di persone il coinvolgimento è completo, poiché il partecipante entra in toto nella vita dell’impresa, come socio. L’associazione in partecipazione realizza una situazione intermedia (un giudizio in questo senso già in Ghidini M., L’associazione in partecipazione, cit., 38): il coinvolgimento è economicamente molto forte, come in una società, ma nullo dal punto di vista dei poteri e limitato da quello della responsabilità. In particolare, l’associato non fallisce in caso di dissesto della società. Dal punto di vista contabile, le sue pretese verso l’associante rappresentano pur sempre un credito poiché, se un utile è presente, la quota dovuta di esso gli va versata a titolo di costo per l’impresa e, se non è diversamente pattuito (e dunque di regola), la restituzione finale dell’apporto rappresenta un vero e proprio obbligo (Colombo, G.E., Associazione in partecipazione, prestiti subordinati ed iscrizione in bilancio, in Portale, G., a cura di, Ricapitalizzazione delle banche e nuovi strumenti di ricorso al mercato, Atti del Convegno di studio, Siracusa, 23-25 settembre 1982, Milano, 1983, 429 ss.).
La situazione può essere meglio chiarita facendo riferimento ai valori mobiliari (titoli) che rappresentano le diverse posizioni: il mutuo può essere incorporato nell’obbligazione, il rapporto sociale (in questo caso con responsabilità limitata) nell’azione, l’associazione in partecipazione in uno strumento finanziario partecipativo (art. 2346, co. 6, c.c.); quest’ultimo corrisponderà ad una scelta di investimento intermedia fra gli altri due: sarà pur sempre un titolo di debito, come l’obbligazione e a differenza dell’azione, che è imputata a capitale (Galgano, F., Il nuovo diritto societario, in Tratt. Galgano, XXIX, 2003, 135; Mignone, G., Commento all’art. 2346, co. 6, in Cottino, G. - Bonfante, G. - Cagnasso, O. – Montalenti, P., diretto da, Il nuovo diritto societario, Bologna, 2004, I, 238; Libonati, B., Gli strumenti finanziari partecipativi, in Balzarini, P. - Carcano, G. – Ventoruzzo, M., a cura di, La società per azioni oggi. Tradizione, attualità e prospettive II, Milano, 2007, 587), ma comporterà rischi maggiori rispetto alla prima, simili a quelli a carico della seconda e tuttavia leggermente inferiori, dato il diritto dei portatori ad essere pagati, in quanto debitori, prima degli azionisti. Ciò non significa, tuttavia, che tutti gli strumenti finanziari partecipativi siano strumenti di associazione in partecipazione, essendo la categoria molto ampia.
Guardata in una prospettiva storica, nonché di “logica” degli istituti giuridici (in base alla loro funzione economico-sociale), l’associazione in partecipazione è semplicemente la versione italiana e contemporanea di quello che possiamo chiamare il rapporto o modello partecipativo, che comporta una partecipazione alle attività economiche di tipo meramente lucrativo, più stretta di quella realizzabile col mutuo, ma senza giungere a quella connessa alla (ben distinta e differente) partecipazione sociale.
La posizione dell’associato è molto simile a quella del socio accomandante, ma non è un caso: la società in accomandita semplice nacque come ibrido fra la commenda e la compagnia medioevale (e qui l’abusato aggettivo “ibrido” sembra poter essere usato in modo appropriato) ed ha poi progressivamente eroso lo spazio giuridico spettante al rapporto partecipativo, probabilmente perché il fatto di essere comunque “socio”, benché con pochissimi poteri, rappresentava e rappresenta una rassicurazione per l’investitore. Così oggi abbiamo società in accomandita anche in casi nei quali gli interessi delle parti avrebbero potuto assai più efficacemente realizzarsi con un’associazione in partecipazione.
Essendo previsto nella stessa nozione-definizione del contratto, l’apporto dell’associato è considerato suo elemento essenziale (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 68; de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 28; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 407; Trib. Bologna, 3 maggio 1972, in Giur. it., 1972, I, 2, 886). Se mancasse, si avrebbe una partecipazione agli utili e alle perdite, o ai soli utili, senza un corrispettivo immediato ed evidente, ricadendosi così nella diversa figura della cointeressenza, prevista dall’art. 2554 c.c.
Come è pure ricavabile dall’art. 2549, co. 1, l’apporto deve essere “determinato”, sia nell’oggetto che nella misura. Per quanto riguarda il primo, si ammette come apporto qualsiasi entità suscettibile di valutazione economica (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 29 s.), con l’ulteriore limite, secondo la giurisprudenza e parte della dottrina, della sua utilizzabilità nell’impresa o affare (Cass., 18.6.1987, n. 5353; De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 125). Per quanto riguarda la seconda, essa è importante perché segna il limite entro cui l’associato risponde delle perdite: una misura dell’apporto non determinata (es. «finanziare l’impresa secondo le necessità») porterebbe fuori dallo schema dell’associazione in partecipazione, per il quale è necessaria una responsabilità limitata dell’associato. Ciò non significa che l’apporto non possa essere individuato in modo indiretto o per relationem, sufficiente essendo soltanto che la sua presenza non sia condizionata e che i criteri di individuazione siano comunque chiari.
È anche ammissibile un apporto versato periodicamente, o rateizzato (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 96; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 410).
Il bene oggetto dell’apporto può essere dato a titolo di proprietà o in godimento. Nel primo caso (il più frequente) l’apporto – al pari della somma data a mutuo – entra a tutti gli effetti nel patrimonio dell’associante, confondendosi con gli altri suoi beni e restando perciò esposto all’aggressione dei suoi creditori: l’associato non beneficia di alcuna forma di separazione patrimoniale. È stato tuttavia individuato, anche se la legge non si esprime in merito, un limite a ciò che l’associante può fare dell’apporto: egli deve usarlo nell’impresa o affare per i quali è stato versato e non per altre sue attività (Cass., 26.9.1977, n. 4083, in Foro it., 1978, I, 2289; in dottrina: Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 168 ss.; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 401 s.; non ritengono invece che sussista un obbligo specifico dell’associante di utilizzare l’apporto nell’impresa o affare oggetto del contratto de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 29; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, cit., 206 ss.).
Un problema a sé è divenuto l’apporto consistente in una prestazione d’opera (sul tema v. più ampiamente Giasanti, L., Associazione in partecipazione con apporto di lavoro, in Diritto on-line Treccani, 2013). Ritenuto non ammissibile sotto la vigenza del Codice di commercio, esso è stato poi consentito implicitamente dal Codice civile che, come visto, parla semplicemente di “apporto” e non più di “apporto di cose”. Il problema che esso genera, e che si è accentuato col passare degli anni e l’accresciuta “malizia” degli operatori, consiste nel fatto che rapporti di lavoro dipendente vengono camuffati da associazioni in partecipazione con apporto d’opera, spesso con tanto di contratto firmato dalle parti interessate. Infatti, se l’apporto è d’opera, di fatto l’associato lavora nell’impresa dell’associante ed è remunerato non con lo stipendio previsto dai contratti collettivi per quel ramo di attività, ma con una partecipazione agli utili e dunque in modo aleatorio; inoltre l’associante-datore di lavoro sfugge in tal modo anche agli oneri previdenziali ed assicurativi. Per rimediare a questi ultimi vizi, il legislatore aveva approntato un primo rimedio, disponendo l’obbligo di versare per gli associati d’opera i contributi previdenziali (d.lgs. 10.9.2003, n. 276; l. 24.11.2003, n. 326; l. 30.12.2004, n. 311).
La dottrina aveva reagito con la proposta più radicale di vietare del tutto l’apportabilità di opere (Allamprese, A., Associazione in partecipazione, in Ghezzi, G., a cura di, Il lavoro tra progresso e mercificazione. Commento critico al decreto legislativo n. 276/2003, Roma, 2004, 395 s.), o con quella, già adombrata in un periodo non ancora così problematico (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 84), di ammettere che sia apportabile soltanto lavoro autonomo (proposta ripresa in Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 432 ss.). Nel 2012 il legislatore inizia a cimentarsi con la riforma diretta della disciplina codicistica e, dopo un paio di tentativi non felici (il secondo nel 2013), introduce, col d.lgs. 15.6.2015, n. 81, un co. 2 nell’art. 2549, in cui si vieta radicalmente di effettuare un apporto d’opera alle persone fisiche (sulla vicenda e sui residui limiti di questa soluzione, v. Mignone, G., La terza riforma dell’apporto d’opera nell’associazione in partecipazione, in Contratto e impresa, 2016, 723 ss.; Allamprese, A., Associazione in partecipazione con associato d’opera dopo il d.lgs. n. 81/2015: la vita agra di un tipo contrattuale “sospetto”, in Lav. dir., 2/2017).
Sarebbe inesatto parlare di “gestione dell’associazione in partecipazione” proprio perché quest’ultima, come è ribadito dall’art. 2551 c.c., citato al principio, non determina la formazione di alcun ente o aggregazione autonoma rispetto alle figure dei suoi contraenti (Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 27 ss.); si deve se mai cercare di spiegare perché il legislatore, al co. 1 dell’art. 2552 c.c., si premuri di chiarire che «la gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante». Si tratta in effetti di una precauzione – da ritenersi tutto sommato opportuna –, derivante dal fatto che (come accennato) è stata diffusa in passato l’idea che l’associato fosse “una specie di socio” e potesse di conseguenza godere di poteri amministrativi, attribuiti magari per via pattizia. A supportare inoltre il possibile equivoco sta la circostanza che altri ordinamenti europei continentali configurano i contratti omologhi come tipi di società.
Il primo profilo della questione sta nella domanda se all’associato possano spettare di regola poteri gestori nell’impresa o nell’affare cui partecipa; tale possibilità è da tempo esclusa, di fronte al chiaro dettato della norma da ultimo citata. Il vero nodo sta invece in un altro aspetto problematico, e cioè se quei poteri possano essergli attribuiti in via convenzionale, o nel contratto, o attraverso deleghe rilasciate dall’associante, ad esempio sul modello di quanto può fare il socio accomandatario rispetto all’accomandante, ex art. 2320, co. 1, ult. inciso, c.c.
Su questo secondo aspetto, una parte della dottrina e la giurisprudenza si sono pronunciate in senso alquanto permissivo: la seconda ha ammesso che all’associato possa essere affidata addirittura «la gestione dell’impresa», purché egli «ripeta i propri poteri dall’associante e svolga la propria attività, anche rappresentativa, nei limiti dei poteri ricevuti» (Cass., 20.5.1999, n. 4911; Cass., 7.2.1997, n. 1191), formula in verità “vuota” – giacché non da altri che dall’associante l’associato potrebbe validamente “ripetere” tali poteri – e che come tale si presta ad ogni utilizzo. In realtà, la formula della “ripetizione” (nel senso di “ricevimento”) dei poteri dall’associante è ripresa pari pari dalla tesi a suo tempo avanzata in dottrina da Giuseppe Ferri, il quale, dopo aver prestato formale ossequio alla norma dell’art. 2552, co. 1, che assegna la gestione all’associante, ammetteva qualsiasi deroga convenzionale, fino all’affidamento dell’intera gestione “esterna” all’associato (Ferri, G., Associazione in partecipazione, cit., 1428). Per quanto riguarda la gestione “interna”, l’Autore è più cauto ed ammette la possibilità che all’associato possano essere attribuiti poteri autorizzativi, ma non fino al punto da renderlo padrone della gestione o anche solo di rendere quest’ultima comune alle due parti (ivi, 1429). Più drastico il Ghidini, secondo cui all’associato possono essere riconosciuti «vasti, anche esclusivi poteri di gestione esterna e interna» (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 142; sulla stessa linea si poneva Messineo, nel suo Manuale). Ma già pochi anni dopo l’esposizione di queste tesi, Auletta, Colombo e il primo Galgano iniziano ad avanzare dubbi sull’attribuzione pattizia all’associato di significativi poteri di gestione, e de Ferra, nella sua monografia, ritorna ad una posizione simile a quella del Ferri (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 68 ss.).
Lo spunto per risolvere il problema dei poteri gestori è venuto dallo studio della società in accomandita, che rappresenta per così dire il versante proibito dell’associazione in partecipazione, l’“oltre” nel quale essa non può spingersi senza perdere i suoi caratteri e diventare società. Si è così osservato, in prospettiva sistematica, che gli artt. 2320 e 2552 c.c. vanno letti in parallelo, come se ciascuno disegnasse i limiti entro cui i soggetti interessati, rispettivamente l’accomandante e l’associato, possono muoversi. E dunque, se l’accomandante non può intromettersi nella gestione se non entro i limiti tracciati dall’art. 2320, co. 2, l’associato, per rimanere tale e non diventare accomandante, deve osservare limiti ancora più ristretti. In altri termini, è l’argomento tipologico a rendere necessario che l’associato non si intrometta nella gestione neppure attraverso procure “speciali”: affinché le due posizioni contrattuali restino distinte (e distinguibili – aggiungiamo – in sede di qualificazione della fattispecie concreta), l’associato non può fare, in materia di gestione, neppure quel poco che è consentito all’accomandante; e questa prescrizione va intesa in senso sostanziale, non potendo venir scavalcata attraverso espedienti formali come l’attribuzione di deleghe, procure gestorie o simili (Montalenti, P., Il socio accomandante, Milano, 1985, 293 ss. e spec. 297).
La dottrina successiva che tratta specificamente di associazione in partecipazione si adegua a questa prospettiva (De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 204 ss., con varietà di distinzioni e motivazioni, che tuttavia riconducono alla medesima soluzione restrittiva; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 370 ss.). Più nello specifico, quest’ultimo autore rileva che il divieto di gestione per l’associato è parte del più generale divieto di esercizio in comune che grava su di lui, essendo tale esercizio il tratto che differenzia l’associazione in partecipazione dalle società lucrative, e in particolare dalle società di persone. Se dunque l’accomandante può ricevere (ordinariamente) procure speciali per singoli affari (art. 2320, co. 2, c.c.), l’associato potrà essere autorizzato a svolgere attività in senso lato gestorie in casi del tutto sporadici ed eccezionali e a svolgere nell’impresa attività esecutive di non grande rilievo, sempre eccezionalmente e sotto la direzione dell’associante. Al di là di questi rigorosi limiti, un associato che si intrometta nella gestione porterà a riqualificare il contratto come società in nome collettivo di fatto; in astratto, l’eventuale tenore limitato delle immistioni potrebbe condurre alla riqualificazione in società in accomandita semplice di fatto, ma i margini strettissimi che l’art. 2317, co. 2, c.c. riconosce a quest’ultima figura rendono l’ipotesi di assai improbabile realizzazione.
Si sarà osservato come il discorso sulla gestione conduce naturalmente a quello sul rapporto fra il contratto di associazione in partecipazione e quello di società, da intendersi quest’ultimo, lo si è accennato, come contratto di società di persone. I due modelli, benché nettamente distinti, sono contigui e ciò ha portato a confusioni che permangono tuttora negli ordinamenti continentali diversi dal nostro. Una società (contrattuale e di persone) prevede tre elementi (art. 2247 c.c.): il conferimento, l’esercizio in comune, la divisione degli utili; l’associazione in partecipazione prevede due di questi elementi (art. 2549, co. 1): l’apporto dell’associato e il pagamento a costui di una quota degli utili. Ciò che differenzia dunque le due fattispecie è l’esercizio in comune dell’attività (Angelici, C., Profili dell’impresa nel diritto delle società, in Riv. soc., 2015, 237; Stagno d’Alcontres, A., – De Luca, N., Le società, I. Le società in generale. Le società di persone, Torino, 2015, 51). Per tale deve intendersi non soltanto la partecipazione alla gestione, prevista per il socio e vietata all’associato, ma anche la partecipazione ad altri atti di esercizio in comune che non riguardano la gestione stessa, ma più in generale la “vita” della società, come ad esempio il prendere parte alle decisioni comuni di modifica del contratto, di approvazione del bilancio, di nomina di alcuni soci soltanto come amministratori, di esclusione di un altro socio.
Certamente la distinzione fra associazione in partecipazione e società, netta sul piano teorico, su quello pratico può risultare ardua, ma non impossibile se si seguono i corretti criteri (per un caso specifico, v. l’applicazione delle regole indicate in Mignone, G., Cointeressenza, associazione in partecipazione o società?, nota a Cass., 17.4.2014, n. 8955, in Giur. comm., 2015, II, 494 ss.). Talvolta l’identificazione è resa più difficile dal fatto che le parti volutamente celano un rapporto di società dietro un’associazione in partecipazione, allo scopo di sfuggire alla responsabilità solidale ed illimitata.
Agevole è l’indicazione dei diritti di spettanza dell’associante, riducendosi essi al ricevimento dell’apporto promesso nel contratto, versamento che è condizione del correlato obbligo di pagare la quota di utili all’associato, sì che, in caso di inadempimento del primo obbligo, l’associante può legittimamente rifiutarsi di adempiere al secondo, ai sensi dell’art. 1460 c.c.
Nella maggior parte dei casi l’apporto viene versato inizialmente, avendo così l’associato adempiuto ai suoi obblighi e spostandosi perciò l’attenzione sui più complessi doveri gravanti sull’associante, ovvero sui diritti dell’associato.
Il primo fra questi è il diritto a ricevere la quota pattuita di utili, elemento che, essendo previsto nella nozione stessa del contratto, è da considerarsi essenziale, al pari – come si è detto – del versamento dell’apporto (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 98; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 448; Santoni F., L’associazione in partecipazione, cit., 225). Perciò un contratto che non prevedesse tale partecipazione dovrebbe considerarsi nullo (non potendosi applicare la presunzione di parità nella ripartizione degli utili prevista per le società di persone dall’art. 2263, 1° c., c.c. giacché non si tratta, nel nostro caso, di rapporto sociale).
Parlando di “partecipazione agli utili”, il primo comma dell’art. 2549 c.c. esclude che la remunerazione spettante all’associato possa essere fissa (De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., ); deve tuttavia ammettersi, come accennato in precedenza, una remunerazione in parte fissa e in parte (purché non irrilevante) ad utili, che condurrà ad un contratto con causa mista (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 10 s.; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 84 s., 450).
Se non è diversamente previsto nel contratto, il diritto agli utili matura in corrispondenza della prestazione dei rendiconti (sui quali v. fra poco) da parte dell’associante (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 133; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 451). Di conseguenza, se il rapporto è pluriennale, gli utili maturano annualmente.
Dal punto di vista contabile, l’utile cui l’associato partecipa è il cd. “utile d’esercizio” emergente dal conto economico, e più in dettaglio l’“utile di gestione”, che del precedente rappresenta una parte (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 111 ss.; . de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 45 s.).
A volte, anziché “agli utili”, si parla nei contratti di partecipazione “ai ricavi”, o “agli incassi”, o “al fatturato”: pare eccessivo dedurne una fuoriuscita del contratto dagli schemi dell’associazione in partecipazione (in tal senso, Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 102; De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 175); è vero che i concetti di “utili” e di “ricavi” sono diversi, ma sembra che anche il riferimento ai secondi manifesti lo stesso intento causale di ancorare la remunerazione ad un parametro aleatorio, benché differente, e che quindi si tratti di una semplice scelta tecnica (Cass., sez. lav., 18.2.2009, n. 3894, in Lav. giur., 2009, 625; Cass., sez. lav., 18.4.2007, n. 9264, in Giust. civ., 2007, I, 1070; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 462).
Il pagamento all’associato della sua quota non è frutto di una vera “divisione” degli utili, come quella che avviene in una società: tale pagamento rappresenta invece un debito per l’associante, e dunque l’utile matura in capo a lui soltanto, nascendo poi, in conseguenza del contratto di associazione in partecipazione, l’obbligo di riconoscerne una quota all’associato (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 48). La “partecipazione” di quest’ultimo, dunque, non è tale nel senso proprio del termine, che indica il concorso ab origine di più parti su un quid comune, ma è piuttosto, al pari di quella dei prestatori di lavoro (art. 2349, co 1., c.c.), una partecipazione in senso improprio, la quale esprime semplicemente un criterio di calcolo di un corrispettivo dovuto (De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 171). Da ciò discendono alcuni corollari, come quello per cui, se l’associante è una società di capitali, il pagamento della quota all’associato non è influenzata dalla decisione assembleare di distribuzione dell’utile, né da quella relativa alla costituzione di riserve, compresa quella legale (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 83 s.; Colombo, G. E., Associazione in partecipazione, prestiti subordinati ed iscrizione in bilancio, 433 s.; contra, ma solo per quanto riguarda le riserve: Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 265 s.).
Un altro importante diritto dell’associato è quello al rendiconto, sancito dal terzo comma dell’art. 2552: esso è considerato addirittura indisponibile e dunque non sarebbe valida un’eventuale rinuncia (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 81; De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 227); ciò è desumibile dalle parole «in ogni caso», con cui si apre il comma da ultimo citato, oltre che dal fatto oggettivo che il rendiconto è condizione per la realizzazione del fondamentale diritto alla percezione degli utili. Per quanto riguarda, invece, la mera restituzione dell'apporto, si è ritenuto che questa sia condizionata solo alla verifica della conclusione non in perdita dell'affare e non all'approvazione del rendiconto (Cass. 21.6.2016, n. 12816; Trib. Nola, 4.5.2017, in Pluris – Wolters Kluwer).
Il rendiconto è dovuto al compimento dell’affare nell’associazione ad affare singolo, ma al termine di ogni anno se la «gestione» (così si esprime il co. 3, cit.) dura più di uno; ciò è da intendersi nel senso che il rendiconto va reso al termine di ogni esercizio sia nell’associazione ad un affare di durata pluriennale, sia nell’associazione all’impresa (Cass., 27.3.1996, n. 2715).
Dopo varie discussioni in dottrina, si deve approdare alla conclusione per cui il “rendiconto”, nel nostro caso, non va inteso in senso letterale, come mera esposizione delle partite di dare e avere, ovvero come semplice prospetto delle entrate e delle uscite; è invece da ritenersi che l’associante debba fornire, al termine di ogni esercizio, il suo bilancio più il rendiconto dell’associazione in partecipazione (v., anche per il dibattito dottrinale, Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 490). Un semplice rendiconto potrà ritenersi sufficiente solo ove si tratti di associazione ad affare di durata inferiore all’anno ed in cui l’associante non sia imprenditore (ivi, 492).
Il secondo comma dell’art. 2552 prevede che l’associato possa essere dotato di diritti di controllo indicati nel contratto. Sembra corretta l’opinione dottrinale secondo cui questi controlli sembrano destinati a collegarsi e coordinarsi con quello già visto, ed immancabile, rappresentato dal rendiconto, essendo quindi da vedersi come controlli continuativi, laddove il rendiconto è controllo successivo (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 79). In concreto, tali “controlli” potranno concretarsi in diritti informativi e ispettivi, come il diritto di ottenere notizie sull’andamento dell’impresa o dell’affare e il diritto di ispezionare le scritture, i locali o le altre componenti dell’azienda (Ferri, G., Associazione in partecipazione, cit., 1430; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 383 ss.). La loro presenza è, come si desume chiaramente dal dettato normativo («il contratto può determinare …»), meramente eventuale e perciò, in caso di silenzio su di essi, l’associato avrà diritto soltanto al controllo rappresentato dal rendiconto (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 185 s.).
Nel “controllo” di cui stiamo trattando non possono farsi rientrare poteri consultivi (obbligatori) od autorizzativi. Un vero e proprio potere di quest’ultimo genere è invece previsto a favore dell’associato dall’art. 2550 c.c., cui si è in precedenza accennato (par. 3) e secondo il quale egli deve prestare il suo consenso all’attribuzione di nuove partecipazioni all’impresa o affare da parte dell’associante. La ratio di tale norma, ad un livello più immediato, può intravedersi nell’esigenza di garantire all’associato che l’associante non attribuisca un numero eccessivo di partecipazioni sull’unico utile disponibile, facendo così diminuire la propria quota residua, fino al punto da eliminare l’incentivo ad impegnarsi nell’attività. Ad un livello più raffinato, si è ritenuto che la ratio consista nel diritto dell’associato a non veder mutate senza il proprio consenso, attraverso la concessione di partecipazioni ulteriori, le condizioni di rischio alle quali aveva accettato di concludere il contratto (Colombo, G.E., Associazione in partecipazione, prestiti subordinati ed iscrizione in bilancio, cit., 332).
Un necessario chiarimento consiste nel rilievo che l’associato risponde delle perdite attraverso il suo apporto: dovendo quest’ultimo essere restituito alla chiusura del rapporto contrattuale, se vi sono state perdite – e nella misura in cui l’associato vi partecipa – esse porteranno ad una riduzione, fino all’azzeramento, dell’importo da restituire (e anche in questo, oltre che in punto di utili, si manifesta, almeno di regola, l’aleatorietà del contratto).
L’art. 2553 c.c. contiene due prescrizioni in merito: quella, preceduta dall’inciso «salvo patto contrario», secondo cui l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili e quella per cui tali perdite non possono superare il valore del suo apporto.
La prima disposizione ha dato origine ad un dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza, basato sull’inciso iniziale “salvo patto contrario”: non dubitandosi che esso riguardi la complessiva frase successiva («salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili»), ci si è chiesti se possa riguardare anche le sole parole che immediatamente lo seguono («salvo patto contrario l’associato partecipa alle perdite»). Essendo dunque pacifico che le parti possono stabilire una misura della partecipazione alle perdite diversa da quella che riguarda gli utili (col limite che si vedrà poco oltre), il quesito che ci si è posti è se esse possano anche pattuire un esonero totale dell’associato dalle prime.
Gli argomenti portati in questa polemica sono vari, sia di carattere letterale (la virgola subito dopo l’inciso sembrerebbe impedire la seconda lettura proposta), sia di carattere sistematico (li si veda elencati in Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 464 ss., ove si adotta una soluzione in seguito abbandonata: v. Mignone, G., Sulla partecipazione alle perdite dell’associato, nota a Cass., sez. lav., 21.2.2012, n. 2496, in Giur. comm., 2013, II, 14 ss.). È innegabile il fatto che escludere totalmente le perdite a carico dell’associato equivale a stabilire la restituzione obbligatoria dell’apporto: ciò diminuirebbe sensibilmente il carattere aleatorio del contratto, giacché l’alea si limiterebbe alla percezione eventuale dell’utile, ma soprattutto farebbe diventare il contratto identico ad un mutuo parziario, quel prestito cioè che, ferma restando la restituzione del tantundem, è remunerato in misura variabile anziché fissa. In altri termini, l’esclusione delle perdite porterebbe l’associazione in partecipazione (almeno, nel caso più frequente in cui l’apporto è in denaro o altri beni fungibili) entro gli schemi di tale diverso contratto, non legislativamente determinato, ma ben noto e considerato nella tradizione giuridica.
Sta di fatto, tuttavia, che proprio la mancata considerazione legale del mutuo parziario, unita alle affermazioni della Relazione ministeriale (n. 1033), devono portare al riconoscimento che il legislatore del 1942 ha inteso includere nell’associazione in partecipazione il mutuo parziario, scelta che può essere discutibile, ma va rispettata dall’interprete. Deve perciò ammettersi che, se di regola l’associato risponde delle perdite, le parti possono escludere tale ipotesi per convenzione espressa e l’associato può vedersi riconoscere il diritto alla restituzione dell’apporto intatto (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 33, 105; Santoni, F., L’associazione in partecipazione, cit., 228 s.; De Acutis, M., L’associazione in partecipazione, cit., 89, 127, 134).
La seconda prescrizione dell’art. 2553 c.c. dà origine ad assai minori problemi: salvo isolate eccezioni (Ghidini, M., L’associazione in partecipazione, cit., 130 ss.), dottrina e giurisprudenza sono concordi sul fatto che l’apporto segna quantitativamente il limite invalicabile entro cui l’associato può rispondere delle perdite (de Ferra, G., Della associazione in partecipazione, cit., 110; Mignone, G., L’associazione in partecipazione, cit., 480 ed altri Autori ivi citt.; Santoni, L’associazione in partecipazione, cit., 230; Cass., 23.1.1996, n. 503, in Giust. civ., 1996, I, 2318). La seconda frase dell’articolo suddetto («le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto») va dunque considerata come precetto imperativo e inderogabile.
In caso di fallimento dell’associante, il contratto si scioglie, ma o l'associato ha diritto di far valere nel passivo del fallimento il credito per quella parte dell’apporto che non è assorbita dalle perdite a suo carico (art. 77 l. fall.).
Per la disciplina fiscale del nostro contratto, v. Pierro, M. Associazione in partecipazione nel diritto tributario, in Dig. comm. IV, agg. IV, Torino, 2007, 75 ss.
Fonti normative
Artt. 1460, 2247, 2263, 2317, 2320, 2346, 2349, 2549-2553 c.c.; art. 77, l.fall.; d.lgs.10.9.2003, n. 276; l. 24.11.2003, n. 326; l. 30.12.2004, n. 311; d.lgs. 15.6.2015, n. 81.
Bibliografia essenziale
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