Abstract
Viene esaminata la struttura del delitto di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., oggi considerato come un irrinunciabile strumento idoeno a fronteggiare le più svariate forme di manifestazione della criminalità organizzata comune. La trattazione fornisce in particolare una panoramica delle posizioni assunte in dottrina e in giurisprudenza circa il concetto di contributo di "partecipazione" e i rapporti tra reato associativo e reato continuato.
1. Il bene giuridico tutelato
L’oggetto della tutela penale dell’associazione per delinquere c.d. «comune» viene tradizionalmente identificato nell’ordine pubblico. Benché nella Relazione al codice Rocco l’ordine pubblico sia stato definito quale «buon assetto e regolare andamento del vivere civile, cui corrisponde nella collettività l’opinione ed il senso della tranquillità e sicurezza» (così la Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, II, Roma, 1929, 202), ogni dissertazione relativa all’esatta individuazione del concetto di ordine pubblico ha evidenziato la difficoltà di circoscriverne e determinarne la portata, giacché dell’interesse giuridico in questione non esiste un concetto unitario, ma tante accezioni per quanti sono i giuristi che si sono espressi sull’argomento, al punto tale che alcuni autori ne hanno rimarcato la natura di bene giuridico proteiforme ed inafferrabile (per una più diffusa trattazione della nozione di ordine pubblico v. Francolini G., Generalità: la nozione di ordine pubblico e la sua tutela penale, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., Trattato di diritto penale, pt. spec., III, Torino, 2008, 985 ss.).
Ad ogni modo, la dottrina penalistica ha progressivamente accolto una concezione dell’ordine pubblico in senso materiale, inteso come pace esterna e sicurezza fisica delle persone. Naturalmente, una simile ricostruzione si riflette notevolmente sulla ricognizione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie di associazione per delinquere. Secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, l’ordine pubblico sarebbe minacciato dalla semplice esistenza di un’associazione stabile avente come programma la commissione di delitti e, dunque, tale da suscitare di per sé allarme nella popolazione e nuocere al buon assetto del vivere sociale (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, IV ed., Bologna, 2007, 472; Anetrini, M., Associazione per delinquere, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2006; Manzini, V., Trattato di Diritto Penale, VI, Torino, 1982, 193). È stato sostenuto che il delitto di associazione per delinquere tuteli un particolare aspetto dell’ordine pubblico materiale, e cioè l’«assenza del pericolo della commissione di ulteriori fatti criminosi» (così, De Vero, G., Ordine pubblico (delitti contro), in Dig. pen., IX, Torino, 1994, 88). Tuttavia, per giungere ad una simile conclusione sarebbe necessario valorizzare l’aspetto strutturale della societas sceleris, e cioè quello di «stabile apparato organizzativo, direttamente funzionale prima ancora che all’attuazione di qualsiasi programma criminoso, alla conservazione e al potenziamento dell’associazione come tale» (De Vero, G., Ordine pubblico, cit., 94). In effetti, la valorizzazione dell’elemento organizzativo consentirebbe di cogliere la portata offensiva della fattispecie proprio nell’organizzazione criminale, potenzialmente idonea ad aggredire un numero indeterminato di beni giuridici: l’art. 416 c.p., cioè, risulterebbe integrato solo da quelle realtà criminali che raggiungano un sufficiente grado di stabilità ed organizzazione (De Vero, G., Ordine pubblico, cit., 93; Id., I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 389). Sempre nella stessa scia si pone, infine, chi propende per una nozione contesto-integrata di ordine pubblico, e cioè quella che lo identifica nel buon assetto della vita dei consociati riferita ad un «assetto sociale concreto, inserito in un contesto specifico ed in individuate da coordinate spazio-tempo» (Iacoviello, F., Ordine pubblico e associazione per delinquere, in Giust. pen., 1990, 51). È evidente, sotto questo profilo, che una simile esegesi si pone nella prospettiva di agganciare più saldamente la fattispecie ex art. 416 c.p. ai principi di materialità e di offensività, giacché essa consente di rendere più tangibile il pericolo che corre la comunità dall’esistenza di un soggetto capace di produrre, in un determinato territorio e in un certo arco temporale, un incremento delle opportunità criminali che offendono vittime indiscriminate (Francolini, G., Trattato di diritto penale, cit., 1008).
Ad ogni modo, è evidente che la ratio dell’incriminazione vada ricercata in un’esigenza marcatamente preventiva, nel senso che punendo l’associazione in se stessa («per ciò solo») il legislatore ha inteso rimuovere il pericolo che vengano commessi i reati oggetti del programma criminoso della medesima, anticipando l’intervento diretto a prevenire la realizzazione dei singoli fatti criminosi (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 474).
2. I soggetti attivi e le distinte ipotesi criminose
Si tratta di reato comune: soggetto attivo dell’associazione per delinquere può essere chiunque. Per la sua configurabilità è però necessaria la partecipazione di almeno tre persone: ciò induce a ritenere che la fattispecie sia riconducibile alla categoria dei reati plurisoggettivi a concorso necessario (v. per tutti, Anetrini, M., Associazione, cit., 3). È peraltro possibile che il reato si configuri anche per effetto della successiva adesione di un terzo ad un vincolo associativo già costituito tra due sole persone, realizzandosi in tal modo il requisito del «numero minimo legale» di tre persone richiesto dall’art. 416 c.p. (Cass. pen., 7.3.1997, Necci, in Riv. pen., 1997, 576; Cass. pen., 4.5.1987, Lombardi, ivi, 1988, 499). La giurisprudenza ritiene anche che il numero minimo degli associati previsto dalla legge per la configurabilità del reato debba essere valutato in senso oggettivo, e cioè come componente umana effettiva ed esistente nel sodalizio e non con riferimento al numero degli imputati presenti nel processo; da ciò ne consegue che vale ad integrare il reato anche la partecipazione degli individui rimasti ignoti, giudicati a parte o deceduti, e che sia possibile dedurre l’esistenza della realtà associativa, anche sotto il profilo numerico, dalle attività svolte, dalle quali può risultare in concreto una distribuzione di compiti necessariamente estesa a più di due persone (Cass. pen., sez. II, 30.4.1999, Cataldo, in Foro it. Rep., 1999, voce Ordine pubblico (reati), n. 15; sul punto v. anche Tona, G., I reati associativi e di contiguità, in Trattato di diritto penale, in Cadoppi, A.-Canestrari., S.-Manna, A.-Papa M., Trattato di diritto penale, pt. spec., III, Torino, 2008, 1081).
È controverso se nel numero dei concorrenti necessari possano considerarsi anche i non imputabili. È discusso, cioè, se il disposto dell’art. 112, ult. co., c.p. rappresenti un principio di ordine generale estensibile anche alle ipotesi di concorso necessario. Un tradizionale orientamento dottrinale ne ha escluso l’applicabilità sostenendo che tale norma «… ha carattere eccezionale e riguarda esclusivamente le circostanze aggravanti della compartecipazione criminosa» e, dunque, «non fanno numero gli affetti da vizio totale di mente, i bambini al di sotto dei quattordici anni, ecc.» (Manzini, V., Trattato, cit., 192 ss.; Contieri, E., I delitti contro l’ordine pubblico, Milano, 1961, 70 ss.).
Si è obiettato, tuttavia, che l’esclusione dei non imputabili dal computo in questione sia del tutto priva di giustificazione in quanto l’analisi circa la sussistenza oggettiva del reato, che include quella delle persone necessarie per configurarlo, è del tutto autonoma rispetto a quella circa la sussistenza, in capo ai singoli compartecipi, dei requisiti di capacità necessari affinché costoro ne rispondano (in questo senso v. Anetrini, M., Associazione, cit., 3; De Francesco, G., Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. pen., I, Torino, 1987, 304). In questo senso, è stata posta in evidenza anche la contraddizione in cui cadono i sostenitori della tesi avversa che, al momento di determinare il numero di persone (di dieci o più) necessarie per integrare l’aggravante ex art. 416, co. 5, c.p., ritengono che gli incapaci penalmente debbano essere computati, applicando inspiegabilmente il principio stabilito dall’art. 112 c.p. (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., II, Milano, 2008, cit., 682). Anche la giurisprudenza privilegia una valutazione oggettiva del numero dei partecipi giungendo ad affermare – con riferimento ai reati associativi in materia di traffico e spaccio di stupefacenti – che, nel computo dei partecipi, vadano ricompresi anche i soggetti privi della capacità di intendere e di volere (Cass. pen., 26.5.1993, n. 5334, in CED Cass., 194202).
Ciò premesso, l’art. 416 c.p. distingue diversi tipi di condotta: al primo comma sono previste le figure dei promotori, costitutori, organizzatori, alle quali è parificata quoad poenam, la figura del capo menzionata al terzo comma; il secondo comma, invece, punisce il ruolo del semplice partecipe.
Promotore non è semplicemente colui il quale stabilisce il programma dell’associazione, ma chi alimenti costantemente il programma del sodalizio criminale. Costitutore è un associato fondatore; colui che concorre a far nascere l’associazione (Tona, G., I reati associativi, cit., 1095). Organizzatore è colui che assume compiti di coordinamento e che cura «di perfezionare ed aggiornare la struttura organizzativa originaria per adattare meglio regole, uomini e mezzi al programma associativo» (così Spagnolo, G., Reati associativi, in Enc. Giur.Treccani, Roma, 1996). La locuzione «per ciò solo» contenuta nell’art. 416 c.p., subito dopo l’elenco delle condotte qualificate, indica che la loro punibilità prescinde dalla realizzazione dei fini associativi.
La condotta di partecipazione è quella più controversa. In estrema sintesi, si contrappongono tre concezioni relative alla nozione penalmente rilevante di partecipazione associativa.
La prima è basata sul modello “causale”, nell’ambito della quale si ritiene integrata la partecipazione tutte le volte in cui il soggetto rechi un apprezzabile contributo finalizzato all’esistenza o al consolidamento dell’associazione: tale linea ermeneutica valorizza l’influenza implicitamente esercitata dal principio di causalità, quale criterio generale di rilevanza penale della criminalità plurisoggettiva, secondo il modello di disciplina del concorso criminoso di cui agli art. 110 ss., c.p. (così, Fiandaca, G.,-Visconti, C., Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle sezioni unite, in Foro it., 2005, II, 86 ss.).
Negli ultimi anni, tuttavia, ha preso piede il modello organizzatorio, sulla scorta del quale la nozione di partecipazione trae significato dall’oggettivo inserimento del soggetto nella struttura dell’organizzazione, ovvero nell’assunzione di un ruolo all’interno dell’associazione criminale: non si richiedono investiture formali dell’ingresso nell’associazione, potendo risultare la qualità di membro anche per facta concludentia (Visconti, C., Il tormentato cammino del concorso «esterno» nel reato associativo, in Foro it., 1994, II, 565 ss.).
La giurisprudenza, invece, ha adottato un modello c.d. sincretistico di partecipazione punibile, in cui al profilo organizzatorio è affiancato il riferimento al contributo di tipo causale del partecipe (emblematico, al riguardo, l’approccio seguito da Cass., S.U., 30.10.2002, in Foro it., 2003, II, 453). Sulla base di tale impostazione, sembra ancora più appropriata l’adozione di un modello organizzatorio in cui però venga posto l’accento sull’assunzione di un ruolo «dinamico e funzionale» dell’associato, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo «rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi» (così, Cass., S.U., 12.7.2005, in Foro it., 2006, II, 80). In effetti, tale nozione di partecipazione sembra cogliere nel segno giacché essa non si limita a “fotografare” il ruolo statico del partecipe nell’ambito della struttura associativa, ma ha il merito di porre in risalto anche «la proiezione dinamica di tale ruolo in comportamenti concreti espressivi della condizione di partecipe attivo» (così, Fiandaca, G.-Visconti, C., Il patto di scambio, cit., 80 ss.).
3. Struttura oggettiva del reato
L’associazione per delinquere si caratterizza, in primo luogo, per essere frutto di un accordo a carattere generale e continuativo volto ad eseguire un programma criminoso: la stabilità del vincolo e l’indeterminatezza del programma criminoso costituiscono infatti i tratti differenziali del reato associativo rispetto all’istituto del concorso di persone ex art. 110 ss. c.p., contrassegnato invece dalla occasionalità del vincolo e dalla specificità del reato che costituisce oggetto di accordo (ex multis, Cass. pen., 30.1.2007, S.V., in Giust. pen., III, 628; Cass. pen., 4.10.2004, Collodo, in Foro it. Rep., 2006, voce Ordine pubblico, n. 14).
Proprio nella prospettiva di conferire significato al contrassegno della stabilità merita accoglimento l’interpretazione secondo la quale l’“associazione” deve necessariamente presupporre il requisito dell’organizzazione, ossia la sussistenza di un ente strutturato con distribuzione di ruoli e di competenze tra gli associati, stabile, permanente e autonomo rispetto all’attività preparatoria ed esecutiva dei delitti-fine, nonché capace di realizzare gli obiettivi illeciti perseguiti (in argomento si consenta di rinviare a Leineri, G., Associazioni di tipo mafioso anche straniere, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2010, 3 ss.). Non sembra condivisibile, dunque, quell’orientamento giurisprudenziale che spesso si accontenta anche dell’esistenza di una forma organizzativa esile e rudimentale (Cass. pen., 3.9.2004, in Dir. giust., 2004, fasc. 44, 39) purché idonea a realizzare il programma criminoso, anche perché solo la sussistenza dei requisiti come l’organizzazione e la stabilità del vincolo permettono di ritenere l’associazione per delinquere come veramente adeguata a ledere il bene tutelato «nella prospettiva di un’interpretazione orientata ad esigenze di materialità e offensività» (così, Cavaliere, A., Associazione di tipo mafioso, in Trattato di diritto penale, a cura di S. Moccia, Napoli, 2007, 402).
L’associazione per delinquere, poi, deve avere come scopo la commissione di “più” delitti, cioè l’attuazione di un programma criminoso: dunque, l’art. 416 c.p. non è applicabile se gli associati programmano un solo reato, ovvero perseguono scopi antisociali o immorali (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 475), così come – per ragioni strutturali – non integrano la fattispecie associativa i delitti colposi o preterintenzionali (Polvani, M., Associazione per delinquere ed abolitio criminis del delitto-scopo, in Cass. pen., 1992, 2510; per una concezione restrittiva del requisito della pluralità di delitti v. Boscarelli, M., Associazione per delinquere, in Enc. dir., III, 1958, 869).
4. L’elemento soggettivo
L’elemento psicologico della fattispecie in analisi consiste nella volontà di far parte in modo permanente dell’associazione con la consapevolezza degli scopi cui l’associazione medesima è finalizzata: si tratta, dunque, di dolo specifico, cioè di una cosciente volontà di attuare il programma criminoso e prestare un contributo utile alla vita del sodalizio e realizzarne gli scopi (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 475). Peraltro, l’art. 416 c.p. prevede che il reato sia integrato solo quando l’associazione si prefigga la realizzazione di più “delitti”: restano, dunque, esclusi dall’ambito della punibilità le consorterie criminali che perseguono la realizzazione reiterata di fattispecie contravvenzionali o illeciti di altra natura (Anetrini, M., Associazione per delinquere, cit., 6).
Ciò premesso, il dolo del “promotore” si configura come volontà di dar vita ad un’associazione finalizzata a commettere una serie indefinita di delitti; per il “dirigente” e per l’“organizzatore”, l’elemento soggettivo si caratterizza come consapevolezza e volontà di dirigere ed organizzare altri al fine di perseguirne gli scopi illeciti del sodalizio criminoso.
La condotta di partecipazione deve essere caratterizzata dal quel che viene definita la affectio societatis, cioè la consapevolezza e la volontà di apportare un contributo – non marginale, ma apprezzabile (Cass. pen., 17.1.1997, in Foro it. Rep., 1997, voce Ordine pubblico, n. 23) – al rafforzamento del sodalizio criminoso e di far parte di un’associazione di cui si condividono le sorti ed il programma.
Sotto il profilo probatorio, in giurisprudenza è stato stabilito che non è necessaria una esplicita manifestazione di prendere parte dell’associazione criminale, giacché la consapevolezza dell’associato può essere provata per facta concludentia che si concretino in una attiva e stabile partecipazione (Cass. pen., 24.9.1998, Burgio, in Cass. pen., 2000, 1946). Peraltro, è ininfluente la circostanza che ciò avvenga per mandato di terza persona, essendo irrilevanti le ragioni per cui si partecipa alla vita della societas sceleris (Tona, G., I reati associativi, cit., 1102).
Eccezion fatta per il dolo del promotore che abbraccia anche la fase prodromica della genesi del sodalizio (Anetrini, M., Associazione, cit., 6), esiste un minimo comun denominatore che accomuna tutti i soggetti attivi dell’associazione per delinquere, cioè la consapevolezza dell’esistenza dell’associazione. Tuttavia, non è richiesto che il partecipe abbia conoscenza di tutti gli altri associati: è sufficiente che egli di fatto si inserisca nel gruppo per realizzarne gli scopi (De Francesco, G., Associazione per delinquere, cit., 303).
Sotto il profilo dell’errore, se per un certo orientamento l’errore sul carattere delittuoso delle condotte programmate configura un error juris inidoneo ad escludere l’elemento soggettivo (Anetrini, M., Associazione per delinquere, cit., 5; Contieri, E., I delitti, cit., 92), secondo altra dottrina il dolo di partecipazione verrà escluso nel caso di errore o ignoranza del carattere delittuoso dei fatti rientranti nello scopo comune (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 475). Invero, per risolvere il problema interpretativo circa la rilevanza dell’errore non si può non tener conto del fatto che l’espressione «al fine di commettere delitti» introduce un elemento normativo della fattispecie; la scelta del termine «delitto» lascia supporre che il legislatore abbia voluto subordinare la punibilità degli associati proprio al fatto che essi siano consapevoli dell’illiceità del loro ruolo e, in definitiva, del programma criminoso: dunque, l’errore sul carattere delittuoso delle condotte dovrebbe essere assoggettato alla disciplina dell’art. 47, co. 3, c.p. (in questo senso v. anche De Francesco, G., Associazione per delinquere, cit., 308).
5. Consumazione e tentativo
Il delitto si consuma con la costituzione dell’associazione, giacché solo in questo modo viene generata l’insorgenza del pericolo per l’ordine pubblico, indipendentemente dalla perpetrazione dei reati che formano oggetto del programma criminoso della stessa: la dottrina, generalmente, esclude che il semplice accordo possa essere considerato sufficiente al fine di integrare la fattispecie associativa, ma richiede la sussistenza di una struttura idonea a permanere nel tempo e che dimostri stabilità (Tona, G., I reati associativi, cit., 1114; nella manualistica v. per tutti Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 477). L’art. 416 c.p. configura un reato permanente non tanto perché è tale la sua azione esterna, ma perché è permanente l’organizzazione ad essa sottostante in grado di assicurare all’associazione un continuo impulso criminogeno che riattiva ulteriori potenzialità delinquenziali (Iacoviello, F.M., L’organizzazione criminogena prevista dall’art. 416 c.p., in Cass. pen., 1994, 580). La consumazione si protrae nel tempo fino allo scioglimento della societas sceleris, oppure al momento della commissione dell’ultimo reato da parte degli stessi con susseguente venir meno del sodalizio e del vincolo associativo. La consumazione del reato cessa inoltre per il partecipe quando recede o viene estromesso dall’associazione; il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazione si instaura, infatti, nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria.
Benché il tentativo sia teoricamente considerato ammissibile per le condotte che si compiono prima della costituzione dell’associazione (sul punto si veda Zannotti, R., Brevi note in tema di associazione per delinquere e tentativo, in Cass. pen., 1989, 1992 ss.), esso sembra avere margini operativi alquanto ristretti – oltre ad essere difficilmente ravvisabile nella pratica – perché la progressiva valorizzazione dell’elemento “organizzazione” ha indotto a valutare con rigore il requisito dell’idoneità della struttura rispetto agli scopi da conseguire, «erodendo sempre più, già nella sfera di accertamento in fatto, gli spazi entro i quali ravvisare condotte tentate» (così, Tona, G., I reati associativi, cit., 1126).
6. Rapporti tra associazione per delinquere e reato continuato
Ci si è posti il problema della configurabilità della continuazione ex art. 81 cpv., c.p. tra reato associativo e i reati-fine (per un inquadramento generale v. Esposito, F., Continuazione tra reato associativo e reato fine, in Riv. pen., 1999, 291).
L’orientamento prevalente in giurisprudenza esclude che possa configurarsi la continuazione tra reato associativo e reati fine sostanzialmente sulla base dell’incompatibilità logica tra la formulazione di un generico programma criminoso da parte di un gruppo e il «medesimo disegno criminoso» necessario affinché ricorrano le condizioni di cui all’art. 81, cpv., c.p.: se, infatti, le caratteristiche del vincolo della continuazione si identificano nella rappresentazione, fin dall’inizio, di più reati specifici e nella successiva realizzazione in vista di uno scopo unico, se ne deve dedurre che l’adesione ad un’associazione per delinquere e la consequenziale condivisione di un generico programma criminoso non possa comprendere anche la specifica preordinazione dei singoli reati-fine richiesta dall’art. 81, cpv., (in dottrina, in tal senso, Rampioni, R., Nuovi profili del reato continuato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 650).
Tuttavia, il predetto orientamento giurisprudenziale non esclude che «… sin dall’inizio nel programma criminoso dell’associazione, si concepiscano uno o più reati fine individuati nelle loro linee essenziali, di guisa che tra questi reati e quello associativo possa ravvisarsi un’identità di disegno criminoso»: sarà il giudice di merito a verificare tale identità (così, Cass. pen., 18.10.2005, Traina, in Foro it. Rep., 2006, voce Reato continuato, n. 5). Si tratterebbe, in definitiva di una mera quaestio facti (Del Corso, S., I nebulosi confini tra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, in Cass. pen., 1985, 625).
A questa tesi si contrappone quella di chi ha sostenuto che «i casi di effettiva rispondenza tra un piano ab initio concepito e le realizzazioni esteriori sono rarissimi e di difficile accertamento. Sicché nella pratica del diritto il piano criminoso originario viene senz’altro presunto sulla base di una connessione obiettiva delle condotte» (così, Insolera, G., L’associazione per delinquere, Padova, 1983, 114 ss.).
Secondo un ulteriore orientamento, invece, per risolvere la questione dell’applicabilità o meno del vincolo della continuazione si dovrebbe considerare che nel reato continuato il disegno criminoso racchiude una “serie chiusa” di reati specifici, ancorché taluni di questi realizzati in via eventuale, mentre nei reati associativi il programma criminoso riguarda una “serie aperta” di fatti di reato iscritta in una serie chiusa di tipologie delittuose (Iacoviello, F.M., L’organizzazione criminogena, cit., 575 e 581).
7. Le circostanze aggravanti
Sono previste tre circostanze aggravanti speciali. La prima – di carattere oggettivo e costituita dalla cosiddetta «scorreria in armi» nelle campagne o nelle pubbliche vie – rievoca la tradizionale figura del brigantaggio. Per la sua applicazione non è necessaria l’abitualità dei fatti di scorreria, anche se si richiede che la ripetizione del passaggio degli associati in più luoghi determini pubblico allarme. È necessario che la scorreria sia finalizzata all’attuazione del programma criminoso, ma non occorre che tutti i partecipanti siano armati (sul punto, Forti, G., sub art. 416 c.p., cit., 980).
La seconda circostanza aggravante – anch’essa di natura oggettiva – si applica nell’ipotesi in cui il numero degli associati sia di «dieci o più»: la ratio di tale aggravante si identifica nel fatto che tanto maggiore è il numero degli associati, tanto più intensa è l’offesa alla pace sociale (Tona, G., I reati associativi, cit., 1144). Per le ragioni esposte (supra, § 2) a proposito del computo del numero minimo dei componenti dell’associazione, anche ai fini della predetta aggravante vanno computati gli incapaci o le persone la cui identità non è stata accertata.
L’art. 4 della l. 11.8.2003, n. 228, recante Misure contro la tratta di persone, ha aggiunto un sesto comma all’art. 416 c.p. per effetto del quale è stata introdotta la figura dell’associazione per delinquere finalizzata al compimento di reati in materia di tratta di esseri umani e di riduzione in schiavitù. La scelta di aggiungere un ulteriore comma all’art. 416 c.p., e non introdurre una specifica figura associativa del tipo di quella prevista per gli stupefacenti, induce a ritenere che si tratti di un’aggravante speciale ad effetto speciale: ciò implica che tale previsione possa essere sottoposta a giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., con la conseguente possibilità di ritenere prevalente o equivalente altra circostanza attenuante eventualmente contestata (in questo senso, Gargani, A., Misure contro la tratta di persone. L. 11 agosto 2003 n. 228, in Legisl. pen., 2005, 682; contra, Peccioli, A., “Giro di vite” contro i trafficanti di esseri umani: le novità della legge sulla tratta di persone, in Dir. pen. e processo, 2004, 45 ss.; Rosi, E., Tratta di persone e riduzione in schiavitù. Le modifiche processuali e sostanziali e le norme transitorie, in Dir. giust., 2004, fasc. 3, 60, secondo cui la previsione in questione avrebbe natura di titolo autonomo di reato). Peraltro, a sostegno dell’opzione interpretativa favorevole ad attribuire alla previsione in questione natura circostanziale, gioca un ruolo tutt’altro che secondario il seguente argomento: la l. n. 228/2003 ha modificato l’art. 600 sexies c.p., sottraendo dal bilanciamento le circostanze aggravanti ivi previste per i fatti commessi in danno di minori, senza menzionare l’art. 416, co. 6, c.p.; dunque, se ne deduce che l’inserimento di tale norma nell’art. 416 c.p. – e la mancata sottrazione di questa circostanza al giudizio di bilanciamento – sia il risultato di un’espressa volontà legislativa.
L’art. 416, co. 6, c.p. è stato modificato dalla recente l. 15.7.2009, n. 94, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica. Per effetto di tale provvedimento legislativo è stato introdotto un aggravamento di pena sia per i promotori, costitutori, organizzatori dell’associazione, sia per i partecipi della stessa, non solo nel caso in cui il sodalizio sia diretto a commettere delitti di c.d. tratta, di cui agli artt. 600, 601, 602 c.p., ma anche quando lo scopo comune sia quello di realizzare fatti di sfruttamento dell’immigrazione clandestina, aggravati ai sensi dell’art. 12, co. 3 bis, d.lgs. n. 286/1998: anche in questo caso si deve ritenere che la norma non configuri una fattispecie associativa autonoma, bensì una circostanza aggravante, giacché essa non descrive una nuova condotta tipica ma si limita a rinviare alla fattispecie generale di cui ai primi due commi; l’unica differenza è rappresentata dall’oggetto del dolo specifico, nell’ambito del quale è ricompresa una determinata tipologia di reati (in argomento Corvi, A., Nuove risposte al crimine organizzato tra diritto penale e sanzioni amministrative, in Il “pacchetto sicurezza” 2009, a cura di O. Mazza e F. Viganò, Torino, 2009, 339 ss.).
Fonti normative
Art. 18 Cost.; artt. 416, 416 bis c.p.; art. 4 l. 11 agosto 2003, n. 228, Misure contro la tratta di persone; art. 1, l. 15 luglio 2009, n. 94, Disposizioni in materia di pubblica sicurezza.
Bibliografia essenziale
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