ASSOCIAZIONE (dal lat. associo, da ad e socius "compagno")
Religione. - La religione storicamente si attua nella vita associata; e, senza accogliere la teoria del Durkheim che la religione sia nata dalla società, non si può negare che fin dalle sue prime e più elementari apparizioni storiche essa è connessa con la vita pubblica. Sotto questo aspetto due sono le forme principali assunte dalla religione: la forma nazionale, o di società intimamente legata con la vita della nazione e coestesa con essa; e la forma di chiesa, o di società autonoma, con scopi suoi proprî essenzialmente religiosi, e con tendenze supernazionali e universalistiche. Ma a lato di queste due forme pubbliche di società religiose troviamo anche associazioni private, le quali naturalmente sono in relazione con le prime, sia perché ne hanno subito e ne subiscono l'influenza, sia perchéi viceversa, ne hanno talora preparato e aiutato lo sviluppo, o l'hanno contrastato, contribuendo così alla loro dissoluzione o trasformazione. Nelle associazioni religiose private si distinguono tre fasi: la prima, anteriore alla formazione delle religioni nazionali; la seconda, contemporanea alle religioni nazionali e anteriore al sorgere di una chiesa universale; la terza, coesistente con una chiesa universale sia in accordo, sia in contrasto con essa.
Prima della formazione delle religioni nazionali. - La formazione di associazioni religiose private, in uno stadio anteriore a quello delle religioni nazionali, ci riporta ai popoli primitivi. Per tutta l'estensione delle terre abitate da popoli incolti, dall'Australia attraverso l'Africa fino all'America settentrionale, sono abbondantemente disseminate le forme più varie di società segrete. In Australia predominano quelle fondate sulle distinzioni naturali del sesso e dell'età, con esclusione delle donne e dei fanciulli, riti di passaggio dall'età impubere alla maturità e dall'età virile alla vecchiaia, e predominio assoluto della classe degli anziani. Nella Melanesia e nell'Africa occidentale le società segrete, mentre escludono anch'esse le donne e gl'impuberi dal loro seno, non v'includono indistintamente tutti gli adulti, ma solo quelli che, per alcune loro doti speciali e soprattutto per il pagamento d'una forte tassa, sono stati ammessi all'iniziazione, prima nella classe degli adulti, poi in quella degli anziani. In luogo dunque di società di tipo democratico, come in Australia, abbiamo qui società di tipo aristocratico, le quali, come, p. es., il tamate delle isole Bank, il purrah di Sierra Leone, il dukduk dell'Arcipelago di Bismarck, attraverso la direttiva data dagli anziani, esercitano su tutta la tribù, e talora anche al di fuori, un grande potere, e, sia pure per mezzo di superstiziose intimidazioni e di violenze brutali, valgono a mantenere l'ordine pubblico e il rispetto al diritto. Dove però il potere politico si è accentrato in un capo estraneo o superiore alle società tribali, queste hanno perduto la loro importanza e sono decadute fino a diventare circoli di puro trattenimento o magari di sfruttamento della credulità e curiosità dei profani. Quanto all'America settentrionale, le confraternite religiose, che vi sono in uso, hanno perduto ogni attinenza con la vita, ma, formate come sono anch'esse per l'iniziazione, si compongono sostanzialmente di sacerdoti e di sciamani (il termine non è americano) o stregoni, che esercitano la magia, eseguono danze o rappresentazioni sacre, indovinano il futuro, sono e mettono anche gli altri in comunicazione con gli spiriti dei trapassati (v. animismo).
Gli etnologi che hanno studiato questa multiforme quantità di associazioni segrete, non sono, a dir vero, unanimi nel definire il loro carattere. Lo Schurtz e il Webster inclinano a credere che da principio esse abbiano avuto prevalentemente un carattere pratico-politico, e che i loro riti e rappresentazioni sacre abbiano servito principalmente a rallegrare, spesso in maniera oscena, gli astanti, ovvero a intimorire i non iniziati a profitto degl'iniziati e specialmente degli anziani; che il loro sviluppo o decadimento successivo si debba attribuire all'assorbimento del clan, in mezzo al quale sono nate, in un complesso più ampio e più vario, come sarebbe avvenuto nella Melanesia e nell'Africa; e che solo quando, come nell'America settentrionale, alle società segrete è venuto a mancare lo scopo e quindi il potere politico, sia rimasto e abbia preso consistenza per sé medesimo lo scopo e il potere religioso. Al contrario il Hauer sostiene che le associazioni dei primitivi sono in generale fin dall'origine di natura religiosa, non prodotte, come vuole lo Schurtz, dall'istinto generico dell'uomo ad associarsi, ma da una comune esperienza religiosa, che naturalmente ha dato la spinta alla formazione delle società religiose, in mezzo alle quali si è poi svolta anche la vita sociale economica e politica, con la distinzione delle diverse classi secondo l'età e i mestieri.
A dir vero, non si può negare l'originario carattere religioso delle associazioni (siano pur le più basse) dei primitivi, anche se esso difficilmente apparisca - perché a bella posta tenuto nascosto agli occhi dei profani e in specie degli Europei -, o anche se sia spesso andato soggetto a corruzioni e sfruttamenti e quindi alla decadenza. A dimostrarlo basterebbero le iniziazioni; le quali generalmente, per quanto ci è dato di conoscere, culminano, dopo una lunga preparazione nel ritiro, nel digiuno e nella contemplazione, in una qualche straordinaria esperienza religiosa che l'iniziato fa, sia che essa sorga spontaneamente, sia che venga artificialmente suscitata e alimentata da formule e cerimonie, che divengono poi tradizionali in ciascuna tribù. Qui spesso avviene che entri in gioco il trucco e l'inganno; ma ciò non pregiudica in generale la sincerità del fenomeno religioso, che ha per scopo la trasformazione radicale dell'iniziando in un individuo diverso; l'iniziando, cioè, fatto morire alla vita ordinaria, è trasportato in un mondo mistico, dove incontra gli spiriti degli antenati della tribù, e quindi è richiamato di nuovo a vita reale, ma per essere ormai una cosa sola con lo spirito che gli è apparso in visione, e del quale perciò assume la maschera nell'eseguire le danze sacre. Questo il carattere essenziale delle iniziazioni - come ha dimostrato il Hauer - anche nelle fasi più arcaiche delle associazioni primitive. Tale carattere più chiaramente si manifesta presso gl'Indiani dell'America settentrionale, dove sono frequentissime le estasi, le danze maniache e altre esperienze del genere, specie da parte di profeti, visionarî o sciamani: individui che assumono il carattere di profeti in seguito a una rivelazione avuta nell'estasi, ricevendo le opportune istruzioni e la consacrazione dai capi della confraternita religiosa, della quale entrano a far parte. Il loro ufficio è di operare incanti e prodigi, dare responsi e fare divinazioni di ogni sorta; ma anche di custodire pura la religione, conservare le tradizioni e gli usi della tribù e difendere l'indipendenza della razza. Perciò sono essi quelli che han dato maggiormente da fare ai conquistatori europei, e tuttora pongono non di rado i governi in gravi difficoltà. Inoltre sotto la loro influenza si sono formate delle vaste associazioni, come quella dei Midewiwin, presso gli Ojibwa, e altre analoghe, che, oltre a curare con mezzi magici la salute del corpo degl'iniziati, forniscono loro anche il modo di arrivare dopo la morte alla beatitudine; una specie dunque di società religiose non molto dissimili dai misteri dell'antichità classica.
D'altra parte, non si può negare che fin dal principio le società dei primitivi abbiano anche scopo e carattere politico; per l'iniziazione, infatti, il giovane diventato pubere entra in comunicazione col mondo divino, ma anche nell'esercizio dei suoi diritti politici (in seno alla tribù), e comincia ad aver parte nella società degl'iniziati, intorno alla quale si accentra e si svolge tutta la vita della tribù. Come si vede, il carattere religioso e quello politico, anziché escludersi, nelle società di tipo primitivo s'integrano a vicenda. Tuttavia, gradatamente la religione si è andata distaccando dalla politica. Al che, se possono avere cooperato cause esteriori (come la fusione di più clan in un'unità superiore), certamente l'impulso principale è venuto dall'intima tendenza della vita religiosa a svilupparsi liberamente. Le fasi principali di questo processo si possono con tutta probabilità riconoscere nella varietà delle forme attuali, dalle società delle tribù dell'Australia, in cui i soli uomini maturi entrano per iniziazione a far parte della vita religiosa e civile della tribù, fino alle Confraternite dell'America settentrionale, alle quali sono ammesse anche le donne, e in ogni caso non si entra per ragione del sangue, ma per designazione divina, comunicata all'iniziato per mezzo di un sogno o visione. A questo punto s'innesta la tendenza verso la spiritualità, e l'indipendenza dalla politica, che prepara la formazione di "chiese" propriamente dette.
A lato delle religioni nazionali. - Su questa linea di sviluppo non si trovano però le religioni nazionali dei popoli civili, le quali debbono dirsi piuttosto il risultato d'un processo in direzione opposta, cioè verso l'assoggettamento della religione alla politica e alla cultura. In esse l'idea religiosa, pur cessando di essere confusa con l'idea politica, è stata però adibita allo stabilimento e allo sviluppo di questa: col conferire un valore assoluto e perpetuo alla legge civile, proclamata nel nome di un potere divino e sovrumano; col rendere inviolabili i patti, sia pubblici con altre nazioni, sia privati tra i cittadini, consacrati dalla santità del giuramento; col giustificare ed esaltare la guerra condotta per la gloria e con l'aiuto dei patrî numi; con l'assicurare il trono e l'obbedienza dei sudditi al sovrano, regnante per grazia e in luogo di un dio, e anzi spesso - come in Egitto e nella Babilonia, nell'Ellenismo e nell'Impero romano, e fino ai nostri giorni nella Cina e nel Giappone - dio egli stesso o figlio di un dio. Ma anche quando questo secondo processo si è svolto ed è venuto a maturazione, il primo non è scomparso del tutto, ma ha lasciato dietro sé, per così dire, dei residui, quali sono le società profetiche e le società mistiche: associazioni private le quali, fermentando nel seno delle religioni nazionali, hanno poi contribuito alla loro dissoluzione e alla formazione di una chiesa vera e propria.
Il tipo più illustre di società profetiche ci è dato dall'Oriente semitico nei biblici Nebi'īm, o "profeti" in senso largo (cfr. I Re [Samuele] e IV [II] Re). Questi formavano una società o scuola, che, posta sotto la direzione d'un padre o maestro comune, risiedeva ordinariamente nei pressi di qualche santuario. La loro caratteristica esteriore era quella di andare soggetti - o per una crisi subitanea, o per l'eccitazione di musiche, danze e movimenti cadenzati, o per l'influsso suggestivo esercitato da uno di loro sugli altri - agli assalti dello "spirito di Dio", cioè di una forza straordinaria e misteriosa, che li rapiva, facendoli cadere nell'estasi e nella mania. Tutto ciò non era che un segno esteriore dell'ardore che dentro li bruciava, e dell'idea che tutti li dominava: quella della maestà dell'antico Iddio delle tribù vaganti nel deserto, per cui si mettevano in contrasto - come mostrava il rozzo sacco che indossavano - contro la cultura, come pure contro l'appropriazione dei poteri divini per parte della monarchia, sul modello dei regni pagani circostanti (cfr. I Re [Sam.], XII). Vero è che, per testimonianza della Bibbia stessa, anche i Cananei avevano, sostenitori della religione nazionale, i loro Nebi'īm (III [I] Re, XVIII, 19 e 22); e anche nello stesso Israele essi furono spesso strumento dell'asservimento della religione alle vedute politiche dei re, ligi alla civiltà nuova (III [I] Re, XXII, 6 segg.; cfr. 18, 19). Il fatto è che, nella lotta religiosa, il nazionalismo cercò di rendere innocue le società profetiche, e persino di assoggettarle al proprio potere e alle proprie finalità: solo quelle che seppero resistere tenacemente produssero dal loro seno grandi personalità, i profeti propriamente detti, che elevarono la religione a una spiritualità e universalità sempre maggiori. L'innegabile somiglianza tra le società profetiche dell'antico Israele e quelle dei dervisci nel seno dell'Islām (nel quale costoro rappresentano una corrente di religiosità primitiva ascetico-mistica) rende probabile la supposizione che consimili associazioni, sebbene di tutt'altra importanza storica abbiano via via pullulato tra i semiti, anche se non sia possibile provare con documenti la loro esistenza fuori della Palestina.
Invece, nella piena luce della storia appaiono in Grecia i ϑίασοι, o associazioni religiose formatesi intorno al culto di Dioniso (βακχεῖα: cfr. in latino i bacchanalia). Provenienti anch'essi da uno stadio più arcaico della religiosità, i thíasoi si distinguevano dalla religione ufficiale per l'ispirazione mantica e il furore orgiastico. E che queste corporazioni abbiano una volta lottato contro la religione degli dei olimpici, è reso probabile dalla tradizione che narra gli ostacoli che Dioniso dovette superare per essere riconosciuto pari agli olimpici: lotta che terminò per l'appunto con un compromesso: anche Dioniso, appena ammesso nell'Olimpo, ebbe un culto pubblico, mentre i thíasoi rimasero associazioni private dedite a un culto speciale, consistente in banchetti, processioni e rappresentazioni sacre, e caratterizzato da maggiore licenza, la quale provocò talora la repressione dell'autorità politica.
Società di tipo iniziatico sono quelle che si formarono intorno alle religioni misteriche. Finché il culto ctonico di Demetra a Eleusi fu patrimonio religioso d'una piccola comunità agraria dell'Attica l'iniziato era semplicemente colui che, entrando a partecipare alla vita della sua comunità, entrava per ciò stesso in comunione con la divinità locale. In processo di tempo la comunione divina si rese indipendente dalla vita del gruppo: e così l'iniziato acquistò immediatamente il diritto di vivere presso la dea, quasi con essa, nelle dimore beate dell'Ade. La caratteristica delle religioni misteriche è appunto l'idea dell'unione intima con la divinità e della salvezza dopo la morte. E poiché questi beni non possono essere limitati a una tribù o dipendenti dai vincoli del sangue o della nazionalità, l'ammissione all'iniziazione in Eleusi si estese sempre più; dapprima ad Atene, quindi alla Grecia intera e a tutto il mondo civile: associazione religiosa vastissima, legata però ad un unico punto centrale, Eleusi, al pari di altre consimili formatesi intorno a un centro misterico; come, p. es., quello dei Cabiri a Samotracia. Tale vincolo unitario vien meno invece nei misteri della Magna Mater, i cui iniziati formavano un'organizzazione che aveva il suo capo nell'archigallo e la sua sede centrale a Roma, precisamente nei due templi del Palatino e del Vaticano, ma di qui si diramava, per mezzo di filiali autonome, sino ai confini dell'Impero. La stessa libertà di organizzazione ebbe la religione isiaca insieme con una più profonda penetrazione; in quanto che dai suoi iniziati, ch'erano ammessi in seguito ad una visione (il che richiama il costume del Midewiwin e di altre organizzazioni consimili dell'America settentrionale), si richiedeva non una consacrazione momentanea, ma la dedizione di sè stessi per tutta la vita. Questa tendenza all'universalità, propria delle società misteriche si trova anche, e forse in grado più alto, nell'orfismo, ma, nonostante l'universalità delle sue dottrine, l'orfismo non diventò mai una chiesa vera e propria, perché mancò di una stretta organizzazione: difatti non sentiamo mai parlare di una gerarchia orfica, ma solo di orfeotelesti, sacerdoti vagabondi che, su domanda, compivano i riti caratteristici dell'orfismo. D'altro lato, tanto l'orfismo quanto le associazioni misteriche erano aliene da qualsiasi esclusivismo: anzi si conciliavano con altre associazioni consimili e sottostavano alle religioni nazionali, né pretendevano di essere l'unico, e perciò necessario, mezzo di salute.
Con queste associazioni religiose, che, provenienti da uno stadio anteriore e arcaico, vissero a lato delle religioni nazionali, in intimo contrasto con esse, non sono da confondere le molte altre associazioni, che, nell'epoca ellenistica e poi nella romana, pullularono dal seno stesso delle religioni nazionali e si diffusero un po' dappertutto. Occasione alla loro formazione fu, da una parte, il desiderio di coloro che erano costretti a vivere lontano dalla patria, di venerare anche sul suolo straniero i patrî numi; e dall'altra, il desiderio di devoti cittadini di aggiungere al culto degli dei comuni quello di qualche divinità straniera più in voga (come Arpocrate, Osiride, Serapide, Ammone, Dusares, Bendis, ecc.); ovvero la naturale inclinazione ad associarsi, che difficilmente avrebbe potuto trovar soddisfazione fuori di queste forme religiose, date le condizioni della vita pubblica. I membri di tali società prendevano le denominazioni profane di ὀργεῶνες, ϑιασῶται, ἐρανισταί, le quali per sé stesse dimostrano che lo scopo per cui essi si univano non era esclusivamente religioso.
Dentro e fuori le chiese universali. - Che le associazioni religiose private abbiano sopravvissuto o si siano nuovamente formate in seno alle chiese supernazionali, sia in collaborazione, sia in opposizione con esse, è cosa nota. La Chiesa cattolica sopra tutte abbonda di siffatte istituzioni ausiliarie, sia clericali, come gli ordini e le congregazioni religiose, sia laicali: di cui alcune si prefiggono uno scopo puramente religioso, altre, insieme con lo scopo religioso e in forma religiosa, perseguono anche fini morali e sociali, quali la carità verso i poveri e gl'infermi, l'istruzione del volgo, l'elevazione morale della gioventù, ecc. All'incontro, a mano a mano che una chiesa prende norme fisse e determinate, riguardo sia alla disciplina sia alla dottrina, sovente accade ch'essa lasci dietro e al di fuori di sé parecchi individui insoddisfatti e ribelli, i quali alla loro volta costituiscono nuove società religiose. Questo è avvenuto in proporzioni più limitate, nelle chiese orientali, nel buddhismo, nel giainismo e nel taoismo; e, in larga misura, nel cristianesimo. Ma raramente accade che queste nuove associazioni, sebbene possano considerarsi tali in linea di principio, raggiungano effettivamente quell'universalità che è propria delle vere chiese. Inoltre, dal punto di vista cattolico, l'universalità (cattolicità) non è la sola delle "note" caratteristiche tradizionali che contraddistinguono la vera Chiesa. Dal punto di vista storico, basti qui segnalare il fatto che fin dai tempi più antichi del cristianesimo si sono formate correnti particolari, in opposizione alla larga e organica espansione della Chiesa cattolica, le quali, anche quando sono state disperse, hanno seguitato a vivere nel sottosuolo, risalendo ogni tanto alla piena luce della storia, com'è il caso di eresie e di scismi antichi, ricomparsi poi in pieno Medioevo. Era la religiosità individuale, la quale, aspirando a muoversi liberamente entro vincoli sociali assai deboli, tentava di resistere alla rigidità e alla preponderanza della Chiesa universale.
Bibl.: H. Schurtz, Altersklassen und Männerbunde, Berlino 1902; F. Poland, Geschichte des griechischen Vereinswesens, Lipsia 1909; H. Wischer, Religion und soziales Leben bei den Naturvölkern, Bonn 1911; W. H. R. Rivers, The History of Melanesian Society, Cambridge 1914; H. Webster, Società segrete primitive (trad. it.), Bologna 1921; U. Fracassini, Il misticismo greco, Città di Castello 1922; J. W. Hauer, Die Religionen, I, Das religiöse Erlebnis auf den unteren Stufen, Stoccarda 1923; R. Pettazzoni, I misteri, Bologna 1924. V. inoltre: chiesa, eresia, scisma.
Diritto. - L'associazione è l'unione di più persone che cooperano in modo permanente per il raggiungimento d'uno scopo comune non di lucro. Essa deriva dal bisogno dell'uomo di unirsi in società per sfuggire all'isolamento e per realizzare vantaggi che da solo non potrebbe conseguire; essa costituisce, dunque, un mezzo efficace per allargare e potenziare la sfera di attività degl'individui. In rapporto alla varietà degli scopi che gli uomini associati si propongono di raggiungere si può avere un numero infinito e vario di associazioni (economiche, politiche, religiose, artistiche, scientifiche, morali, sportive, di beneficenza, ecc.).
Nel determinare i loro scopi particolari e nel perseguirli, le associazioni non possono mettersi in contrasto con gl'interessi generali della collettività, rappresentati dallo stato. Sorge così il problema dei limiti al diritto di associazione.
Il diritto di associazione. - Lo stato, come raffrena gli eccessi e gli abusi della libertà individuale, così deve raffrenare gli eccessi e gli abusi della libertà di associazione, per impedire che i singoli aggruppamenti organizzati possano imporre i loro scopi e interessi particolari a danno della collettivita e dell'autorità stessa dello stato.
Le associazioni possono esistere come enti morali, come persone giuridiche o come semplici associazioni di fatto. Lo stato di fronte a esse ha poteri, che si esplicano mediante misure di prevenzione e di repressione.
Cenni storici. - Lo spirito di associazione si affermò presso i Romani con le corporazioni di arti e mestieri, che, secondo la tradizione, ebbero legale esistenza dall'epoca dei re. Ogni collegium aveva il proprio statuto che regolava l'ammissione dei soci, come si dovessero tenere le assemblee, l'insegnamento delle regole dell'arte, la disciplina del lavoro, ecc. La validità degli statuti era rico1iosciuta, salvo che contenessero clausole contrarie alle leggi; per necessità di difesa dello stato questo sistema di libertà fu sostituito però da un sistema restrittivo.
I numerosi collegi che per scopi svariatissimi si costituirono via via durante la repubblica, furono, a causa specialmente delle esorbitanze verificatesi durante le guerre civili, aboliti da una lex Julia. Si stabilì da allora rigorosamente il principio che i collegia per esistere legalmente ed essere licita dovessero avere l'autorizzazione dello stato. Esenti dall'autorizzazione restavano le antiche corporazioni di arti e mestieri, che si dicevano istituite per legge regia, i collegi sacerdotali, i collegi funeratizî, e, in seguito all'editto di Costantino, le associazioni ecclesiastiche.
Il fenomeno associativo risorge e ha più larghi sviluppi all'epoca dei comuni. Sebbene non si possa affermare che le antiche corporazioni romane continuassero a vivere durante il periodo bizantino e barbarico, pure è certo che una coesione tra le persone esercenti la stessa arte o mestiere non andò mai del tutto spenta.
Nell'anarchia succeduta al mondo feudale è il senso della necessità di questa coesione che dà luogo alla rinascita delle corporazioni e alla ricostruzione dell'ordine nell'ambito della città. Gl'individui aventi gli stessi interessi si uniscono per difendersi e costituiscono organismi distinti a seconda dell'arte, del mestiere o della classe dei partecipanti. Si hanno: le corporazioni mercantili formate dai ricchi commercianti e industriali, da quelli che esercitano le cosiddette arti maggiori; le corporazioni artigiane, costituite dagli individui che esercitano lo stesso mestiere, le arti minori; e le consorterie in cui si raggruppano le famiglie nobili per la difesa dei loro interessi nella città e nelle campagne.
Le corporazioni costituiscono persone giuridiche ed esplicano, secondo le disposizioni dei rispettivi statuti, un'attività complessa nei riguardi degli associati tra loro e della condotta dell'industria o dell'arte nel campo economico e in quello politico. La produzione nel suo complesso (compresa la tecnica del lavoro, la determinazione del luogo dove l'industria o l'arte è esercitata, del quantitativo delle merci da produrre e delle modalità di lavorazione dei consorti e degli avventizî) e la vendita dei prodotti sono regolate dalle corporazioni. Non è consentito l'esercizio delle varie attività produttive se non nell'ambito e sotto la direzione delle rispettive corporazioni. Oltre che dell'attività strettamente lavorativa ed economica, le corporazioni s'interessano dell'attività dei consorti anche in altri campi, in quello della morale, della beneficenza, della religione. Organizzate a similitudine del comune, le corporazioni arrivano in alcune regioni a conquistare addirittura tutti i poteri pubblici, divenendo la base della stessa organizzazione politica del comune, in quel periodo detto del terzo governo comunale, in cui le autorità supreme furono elette dalle corporazioni.
Con l'affermarsi delle signorie e nelle grandi monarchie assolute le corporazioni continuarono ad esercitare la loro influenza nel campo economico, ma si avviarono fatalmente alla decadenza. Il sistema delle limitazioni forzate nell'esercizio dei mestieri e dei monopolî, seguito rigidamente dalle corporazioni, divenne esoso per gli stessi consorti, dannoso per i consumatori e nocivo agl'interessi della produzione in genere. Da ogni parte gli economisti reclamarono l'applicazione del principio della libertà del lavoro e la Rivoluzione francese consacrò l'avversione generale contro le corporazioni. La nuova legislazione, mentre proclama come fondamentale il principio della libertà personale, riguarda con sospetto, limita e presto abolisce addirittura il diritto di associazione in genere, che pur rappresenta una delle conseguenze di quel diritto fondamentale. Agli uomini dichiarati liberi non si riconosce, anzi si vieta la libertà di associarsi.
A determinare in questo senso gli spiriti di allora agiva, oltre il ricordo dell'esclusivismo particolarista delle abolite corporazioni d'arti e mestieri, l'insegnamento del Rousseau: Il importe, pour avoir bien l'énoncé de la volonté générale, qu'il n'y est pas de sociétés particulières dans l'État, et que chaque citoyen n'opine que par lui.,
L'esistenza di associazioni o di gruppi particolari che s interponessero tra i cittadini e lo stato fu considerata, tenendo presente la situazione delle corporazioni medievali, come limitativa della libertà dei cittadini e della sovranità dello stato.
La legge del 14-17 giugno 1791 dispone in via generale: "I cittadini di una stessa condizione o professione, gl'imprenditori quelli che hanno botteghe, gli operai, i compagni di un'arte qualsiasi non potranno, quando si troveranno insiene, nominare né presidenti, né segretarî, né sindaci, tenere registri, prendere deliberazioni, formare regolamenti sui loro pretesi interessi comuni".
Altre leggi del 1790 e del 1792 soppressero esplicitamente le congregazioni e gli ordini religiosi e monastici.
Il codice penale napoleonico (art. 291) sancì una disposizione proibitiva per le associazioni di qualsiasi natura: "Nessuna associazione di più di venti persone il cui scopo sarà di riunirsi ogni giorno o in determinati giorni prestabiliti per occuparsi di oggetti religiosi, letterarî, politici o d'altra natura potrà formarsi, se non col consenso del governo e sotto le condizioni che piacerà all'autorità pubblica d'imporre alla società". Le associazioni non autorizzate sono perciò illecite. Una legge del 10 aprile 1834 aggrava le disposizioni del codice penale, colpendo le associazioni di più di venti persone anche quando siano frazionate in sezioni di meno di venti persone, estendendo quelle penalità, che il codice penale limitava ai presidenti e amministratori, anche ai membri delle associazioni illecite, e considerando come complici tutti coloro che fornissero un locale per le riunioni. La legge del 1834 stabilisce inoltre esplicitamente che l'autorità ha sempre il diritto di revocare l'autorizzazione, senza bisogno di motivarne il provvedimento.
Nonostante la diffidenza con cui, in Francia come negli altri paesi, furono riguardate le associazioni, queste tornarono a ricostituirsi per il bisogno insopprimibile che spinge gl'individui ad associarsi e per le nuove esigenze economiche e sociali; la tendenza associativa e sindacale si è palesata e si palesa sempre più come uno dei fenomeni più caratteristici e imponenti della storia della seconda metà del secolo passato e dell'epoca presente.
La libertà di associazione venne man mano riconosciuta in tutti gli stati. Nella stessa Francia, dove la diffidenza contro di essa perdurò più a lungo, la legislazione restrittiva cadde con le leggi del 1884, 1888 e 1898 sui sindacati professionali e di proprietarî, e sulle società di mutuo soccorso, e con la legge del 1 agosto 1901 sul contratto di associazione. Questa legge, fondata sul principio della libertà di associazione, prevede tre tipi di associazione:1. quelle di puro fatto, che "possono formarsi liberamente senza autorizzazione preventiva", e che godono d'una capacità giuridica limitata; 2. le associazioni che si rendono pubbliche depositando presso l'autorita prefettizia l'elenco dei membri, lo statuto, i nomi degli amministratori, e che acquistano per mezzo di tali formalità la capacità giuridica piena; 3. le associazioni che possono essere riconosciute come istituti d'utilità pubblica per mezzo di un decreto emanato con le forme dei regolamenti di amministrazione pubblica. Mentre proclama in generale la libertà di associazione la legge del 1 agosto 1901 la limita però relativamente alle congregazioni religiose, per cui dispone che possano costituirsi solo in seguito a un'autorizzazione data con legge.
Diritto italiano. - Nella costituzione italiana manca un testo che riconosca espressamente il principio della libertà di associazione. La disposizione dell'articolo 32 dello statuto, che si occupa del diritto di riunione, non può invocarsi in favore del diritto di associazione per la differenza che intercede tra i due istituti, l'uno (quello della riunione) di carattere precario, e l'altro (quello dell'associazione) di carattere permanente. È vero che i due terminí - riunione e associazione - erano allora usati spesso confusamente, ma è altrettanto vero che la costituzione belga aveva tassativamente fatta la distinzione, dedicando due articoli specifici ai due istituti. Ora, avendo il nostro costituente tenuta presente la costituzione belga e avendo da questa imitato solo l'articolo sulle riunioni, sembrò evidente l'intenzione di non occuparsi delle associazioni. Ma se non fu proclamato dallo statuto, il diritto di associazione trovò riconoscimento alcuni mesi dopo la promulgazione di esso. Il codice penale sardo del 1839 (articoli 483-486) disponeva, sull'esempio del codice penale napoleonico, che le associazioni di qualsiasi natura non potessero esistere senza l'autorizzazione preventiva del governo, comminando pene adeguate in caso d'infrazione di questo principio. Promulgato lo statuto, tale sistema sembrò in contrasto con i nuovi principî generali di diritto pubblico; si provvide perciò alla sua abolizione.
Col decreto legislativo del 26 settembre 1848, n. 796, "ad oggetto", come è detto nel preambolo, "di far scomparire talune disposizioni non più in armonia con l'attuale ordine politico", si abrogavano gli articoli suddetti (dal 483 al 486) del codice penale del 1839. Cadeva così il sistema della necessità dell'autorizzazione preventiva del governo e della conseguente illiceità delle associazioni non riconosciute. I cittadini ebbero da allora facoltà di costituire liberamente delle associazioni. Queste potevano esistere, o come enti morali (nel caso che se ne fosse chiesta e ottenuta dal governo la relativa autorizzazione) o come semplici associazioni di fatto. La possibilità di vivere soltanto come associazioni di fatto fu lasciata anche alle congregazioni religiose e agli ordini monastici soppressi. Una legge per gli stati sardi del 25 agosto 1848, caduta però in desuetudine, vietava l'esistenza della Compagnia di Gesù anche come semplice associazione di fatto.
Per quanto riguarda i limiti del diritto di associazione si discusse sin dai primi tempi della nostra vita costituzionale sui poteri spettanti al governo sulle associazioni di fatto, e specie se ad esso competesse il diritto di scioglierle per semplice misura di prevenzione. Tale diritto fu esercitato da tutti i governi e concretamente riconosciuto dal parlamento nelle occasioni che diedero luogo ai più gravi dibattiti politici.
Nel regime fascista la materia delle associazioni è stata ripresa in esame. Una legge del 3 aprile 1926 sui contratti collettivi di lavoro disciplina i sindacati, cioè le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, non solo riconoscendole come persone giuridiche, ma anche elevandole ad organi di diritto pubblico.
Restando in vigore le norme generali che disciplinano l'esistenza delle cosiddette associazioni di fatto, il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r. decreto 6 novembre 1926, n. 1848, contiene alcune disposizioni relative ai poteri delle autorita sulle associazioni. Le associazioni, enti e istituti consimili sono obbligati a comunicare all'autorità di pubblica sicurezza, l'atto costitutivo, lo statuto, i regolamenti interni, l'elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci e ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione e attività, tutte le volte che ne vengano richiesti dall'autorità predetta per ragione d'ordine pubblico o di sicurezza pubblica. La detta comunicazione dev'essere fatta entro due giorni dalla richiesta. Sono stabilite penalità per i contravventori. In tutti i casi di omessa, falsa o incompleta dichiarazione, le associazioni possono essere sciolte con decreto dal prefetto (art. 214). Il prefetto ha inoltre facoltà di ordinare lo scioglimento delle associazioni, enti o istituti, che svolgano comunque attività contraria all'ordine nazionale dello stato e può anche ordinare la confisca dei beni sociali. Contro il decreto del prefetto si può ricorrere al ministro dell'interno, il cui provvedimento è definitivo e non impugnabile (art. 215). Il divieto delle associazioni segrete implicitamente sancito nell'articolo 414 è ribadito nell'art. 216, nel quale si dettano speciali misure per i funzionarî, impiegati e agenti civili e militari di ogni ordine e grado dello stato, delle provincie, dei comuni e degl'istituti sottoposti alla loro rispettiva tutela, che appartengano ad associazioni o enti operanti in modo clandestino e occulto, o i cui soci siano comunque vincolati dal segreto. In tal caso i detti funzionarî, impiegati e agenti sono destituiti o rimossi dal grado e dall'impiego, o comunque licenziati. L'art. 217 punisce chiunque porta indebitamente e pubblicamente la divisa o il distintivo di un'associazione. L'art. 218 infine chiarisce che "sotto il nome di associazione s'intendono i partiti, i gruppi e le organizzazioni politiche in genere, anche temporanee".
Le costituzioni del dopo guerra riconoscono espressamente il diritto di associazione, così la costituzione della Germania, dell'11 agosto 1919 (art. 124), della Cecoslovacchia, del 29 febbraio 1920 (§§ 113-114), della Polonia, del 17 marzo 1921 (art. 108), della Lituania, del 1° agosto 1922 (art. 17).
Bibl.: C. Ferrini, Manuale di Pandette, 3ª ed., Milano 1908; A. Pertile, Storia del diritto italiano, II, i, Torino 1897; A. Solmi, Storia del diritto italiano, Milano 1918; F. Racioppi e I. Brunelli, Commento allo statuto del regno, II, Torino 1909; V. E. Orlando, Principî di diritto costituzionale, 5ª ed., Firenze 1920; G. Mosca, Appunti di dir. costituz., Milano 1921; G. Arangio Ruiz, Ist. di dir. costituz., Torino 1913; V. Miceli, Principî di dir. costituz., 2ª ed., Milano 1913; S. Romano, Corso di dir. costituz., Padova 1926; A. Ferracciù, Intorno alla libertà di riunione ed associazione, Sassari 1897; G. Ambrosini, Sindacati, consigli tecnici e parlamento politico, Roma 1925; G. Trouillot e F. Chapsal, Du contrat d'association, Parigi 1902; F. Giese, Die Reichsverfassung von 11 august 1919, Berlino 1920; O. Meissner, Das Straatsrecht des Reichs und seiner Länder, Berlino 1921.
L'associazione nel diritto privato. - Nel diritto privato si considera l'attività giuridica di quelle innumeri associazioni dette associazioni civili, associazioni di fatto, costituite per fine non lucrativo, diretto, sia all'utilita generale, sia a beneficio di terzi destinatarî, sia a procurare determinati vantaggi agli associati. Simili collettività di persone o di beni esercitano largo influsso nella vita sociale, tanto nella forma più perfetta di associazioni rette in base a regolari statuti, quanto nelle forme più inorganiche e spesso occasionali di semplici comitati gestori di fondi raccolti per pubblica sottoscrizione o per spontanea oblazione.
Le associazioni qui considerate si presuppongono lecite e libere rispetto ai limiti del diritto di coalizione, ferma l'osservanza delle disposizioni di diritto pubblico circa la denuncia ohbligatoria dell'esistenza, dello statuto dell'associazione, e dell'elenco degli associati, e circa il controllo delle pubbliche autorità in ordine alla correttezza della gestione (Leggi di Pubblica Sicurezza, 6 novembre 1926, n. 1848, art. 214 seg.).
Non rientrano nel tema quelle forme di associazione cui lo stato, riconoscendone il fine d'utilità generale, ha concesso autonomia giuridica, sia nella forma piena, per cui nella personalità autonoma dell'ente collettivo risulti completamente assorbito l'interesse particolare dei singoli componenti sul patrimonio conferito o raccolto (persone giuridiche in senso stretto) - sia nella forma attenuata in cui l'autonomia giuridica dell'ente di fronte ai terzi lascia pur sempre sussistere un interesse particolare negli associati, in forma di diritto di quota sull'eventuale patrimonio residuo dell'ente nel caso in cui questo venga a cessare (es. associazioni di mutuo soccorso riconosciute a sensi della legge 15 aprile 1896, n. 1818; associazioni di mutua assicuraziorie costituite a sensi degli articoli 239-245 del codice di commercio).
E ancora sono fuori dell'argomento delle associazioni le società civili e commerciali, regolari o irregolarmente costituite, nelle quali per espressa volontà di legge è essenziale il fine di lucro ripartibile fra i soci, assumendosi il concetto di lucro in senso tecnico e restrittivo - comprensivo bensì dell'utilità economica cui tendono i sindacati industriali, i cartelli e i trusts, ma non invece di quei meri vantaggi (pur con riflessi economici) per gli associati che sotto forma di godimenti o di riduzione di rischi, di spese e di costi frequentemente costituiscono lo scopo delle associazioni (es. associazioni di mutua assicurazione o di mutuo soccorso, che non abbiano i requisiti per l'acquisto dell'autonomia giuridica; sindacati di tutela professionale; associazioni sportive; gabinetti di lettura; circoli di divertimento e simili associazioni).
L'associazione che non è persona giuridica (pur tendendo nelle sue forme più perfette a diventarlo) e che non è società per difetto di scopo di lucro ripartibile fra i soci (pur avendo col contratto di società analogie profonde) opera di fatto nel mondo giuridico ed economico e contrae coi terzi in veste e sotto forma di ente collettivo, spesso esplicando un'attività a scopo di lucro (anche d'indole commerciale) per procurarsi più larghi mezzi per il conseguimento del fine in sé stesso non lucrativo (es. organizzazione e gestione di spettacoli, pubbliche gare sportive, fiere di beneficenza, ecc.).
Sotto questo aspetto, la posizione giuridica che l'associazione assume nei rapporti interni e di fronte ai terzi coincide con quella delle società civili, le quali non costituiscono ente collettivo distinto dalle persone dei soci, come invece si verifica per le società commerciali regolarmente costituite, e anche, secondo autorevoli giuristi, per le società commerciali irregolari.
Nell'associazione pertanto, non meno che nella società civile, l'interesse che esteriormente appare collettivo, è in effetto dei singoli componenti e per questi opera chiunque, in qualità di presidente, direttore o simile, contratti coi terzi in nome e nell'interesse dell'associazione in virtù degli ordinarî rapporti di rappresentanza, di mandato, di locazione d'opera, di gestione di negozio. In questo senso preciso e a questi effetti s'intende che l'associazione possa in proprio nome acquistare e alienare beni e diritti, obbligarsi e obbligare, stare in giudizio attivamente e passivamente: l'associazione opera a questi effetti non diversamente dalla società civile.
Ma fra società e associazione esistono, come si è detto, sostanziali differenze per la natura del fine, mancando necessariamente nella seconda lo scopo di lucro (in senso tecnico) ripartibile tra i soci: perciò nell'associazione l'interesse particolare dell'associato rispetto al lato patrimoniale del rapporto è assai meno operante che non quello del socio nella società civile.
L'ipotesi di un finale riparto di beni in caso di cessazione della associazione è eventuale, remoto, fuori della normale previsione: molte volte anzi tale diritto è nettamente escluso nello statuto dell'associazione da espresso patto di riversibilità del residuo patrimonio a scopi analoghi. Peraltro nel silenzio dello statuto in proposito, l'intervento della pubblica autorità, affinché il patrimonio dell'associazione disciolta non sia distolto dal fine stabilito, è pensabile. In effetto, l'attività dell'associato sul fondo sociale si concreta più che altro nel controllo della destinazione e sotto questo aspetto il comportamento dell'associato in seno all'associazione si avvicina, anziché a quello di un socio, a quello proprio di un membro di persona giuridica.
La mancanza d'un ente giuridico distinto dai componenti fa si che l'interesse dell'associato rispetto al patrimonio dell'associazione permanga; ma esso si allenta talmente da far luogo all'applicazione di regole sostanzialmente contrastanti con l'istituto delle società (civile o commerciale) e desumibili, in difetto di precisa convenzione, per analogia dal tipo di associazione di mutua assicurazione disciplinato dal codice di commercio (art. 239 seg.).
Così l'associazione non viene sciolta né per l'interdizione né per la morte dell'associato; il mandato degli amministratori è temporaneo e revocabile; è possibile l'esclusione del socio per fallimento o per altri motivi d'indegnità o di contrasto coi fini dell'associazione. Dalle quali norme deriva l'altra per cui il socio uscente dall'associazione perde ogni diritto sul fondo sociale.
La grandissima attenuazione dell'interesse patrimoniale nell'associato rispetto al suo diritto eventuale di quota sul fondo comune toglie di mezzo per le associazioni l'ostacolo che nelle società di persone si oppone al principio maggioritario nella gestione: per principio generale (e salvo patti speciali) le deliberazioni della maggioranza assoluta degli associati, in materie che non tocchino diritti essenziali e individuali per ciascuno di essi, vincolano le minoranze non altrimenti di quanto avviene nelle società di capitali.
La stessa circostanza e la normale tenuità economica dei beni conferiti nell'associazione in rapporto al patrimonio del datore tolgono pratica rilevanza nel campo delle associazioni alla questione (vitale invece per le società civili) se al terzo creditore dell'ente collettivo spetti diritto preferenziale sul patrimonio dell'ente in confronto al diritto del creditore particolare del singolo partecipante. Necessità della vita sociale hanno fatto estendere un tale diritto di preferenza (effetto tipico dell'autonomia giuridica dell'ente) anche al caso delle società commerciali irregolari, nelle quali appunto si ravvisa - nei soli rapporti coi terzi - l'esistenza di un ente giuridico autonomo, distinto dalla personalità dei soci.
Lo stesso effetto fu ricercato persino nel campo delle società civili, per queste però facendo richiamo alle caratteristiche particolari del contratto di società: un tale principio deve certo valere a ben maggior ragione nel campo dell'associazione, la cui essenza di fatto, ben nota a tutti i terzi e al pubblico, esclude che la quota conferita possa considerarsi come continuatamente presente ed efficiente nel patrimonio dell'associato quale uno degli elementi costitutivi della garanzia generale spettante al creditore sui beni del debitore (art. 1949 cod. civ.).
Questo dato di fatto, noto al pubblico, riguardante la vita e la funzione dell'associazione non lucrativa consente anzi di tener fermo per le associazioni il diritto preferenziale del terzo sul fondo comune, rispetto al diritto del creditore particolare dell'associato anche se per le società civili dovesse tale diritto, come la teoria tradizionale vorrebbe, essere negato: la necessaria notorietà nel pubblico delle caratteristiche proprie dell'associazione tiene luogo per i terzi di quell'elemento di pubblicità che, variamente ordinato nella legge positiva, è un altro degli elementi su cui si fonda nella legge l'attribuzione dell'autonomia all'ente collettivo.
Con analogo ragionamento, fondato sull'intima struttura e sulle funzioni del rapporto di associazione e sulla necessaria notorietà che di esse hanno i terzi, può giungersi, nel campo delle associazioni a contenere nei limiti dei conferimenti fatti (o promessi) la responsabilità dell'associato non amministratore per i debiti dell'associazione: principio invece assolutamente inammissibile per i soci nella società civile, e per i soci che in società commerciali irregolarmente costituite hanno inteso limitare la loro responsabilità.
Nell'associazione il principio di limitata responsabilità per gli associati, espressamente posto per l'associazione di mutua assicurazione regolarmente costituita (art. 243 cod. comm.), più che costituire una specifica conseguenza dell'autonomia guiridica dell'ente collettivo, rispecchia gli elementi fondamentali del rapporto quali contrattualmente si svolgono tra le parti, e come necessariaimente appaiono agli occhi dei terzi e del pubblico.
Per contro la responsabilità illimitata degli amministratori dell'associazione che contrattano coi terzi, in confronto a quella degli amministratori dell'associazione di mutua assicurazione regolarmente costituita (ristretta qui nei confini del patrimonio dell'associazione), rimane sempre a documentare nei rapporti dei terzi il diverso effetto dell'essere o no l'associazione riconosciuta come ente distinto dai soci, come stabilisce l'art. 239 del codice di commercio.
Le clausole, frequenti negli statuti delle associazioni, per cui si deferisce a giudici privati (probiviri) la decisione di contrasti tra associati, o fra questi e l'associazione (anche a fini meramente disciplinari) hanno efficacia di arbitrato libero (o improprio), secondo gli effetti che in diritto sostanziale, e sotto il controllo dell'autorità giudiziaria ordinaria, sono a tale istituto riconosciuti dalle prevalenti dottrina e giurisprudenza.
Presupposta la liceità del fine dell'associazione e dell'attività concreta di essa; esaminato a grandi linee l'obiettivo funzionamento del rapporto; delineate le relazioni con la persona giuridica e con la società, conviene precisare se all'associazione, nata nella pratica della vita giuridica e sociale con le forme più varie, spetti una precisa e nominata collocazione nella sistematica del diritto.
Tanto si afferma, considerando che il codice di commercio, con l'accomunare in un sol capo "delle associazioni" due istituti diversissimi: l'associazione in partecipazione e l'associazione di mutua assicurazione (di cui la prima, dato il fine di lucro ripartibile, è invece da ricondursi nell'ambito delle società), ha in realtà creato la categoria detta del "contratto di associazione". L'associazione di mutua assicurazione, se non consegue l'autonomia giuridica ai sensi dell'art. 239 del codice di commercio, non cessa perciò di vivere e funzionare come contratto di associazione, coincidendo anzi, per la sua interna organizzazione e per il suo funzionamento, coi tipi più perfetti di associazione a scopo non lucrativo: la legge positiva ha dunque dato vita, sia pure in forma parziale e indiretta e a fianco del contratto di società, al contratto di associazione.
Per questo istituto si pone l'esigenza precisa di un adeguato regolamento giuridico più completo e particolareggiato, sia verso il riconoscimento della personalità giuridica, sia verso l'autonomia giuridica vigente in tema di società. Ma a questo fine la materia delle associazioni presenta le più grandi difficoltà: dai tipi di associazione più completi e perfetti, infatti, - nei quali gli elementi giuridici concernenti il trasferimento dei beni, i rapporti di rappresentanza, di mandato, di gestione di negozio e, in genere, i rapporti coi terzi sono chiaramente disciplinati dalla volontà delle parti, o esattamente accertabili per virtù d'interpretazione analogica - si scende gradualmente, attraverso infinite specie, sino a forme di conferimenti o di gestione in cui si può dubitare persino se concorra l'elemento primordiale per la nascita del diritto: la serietà e rilevanza del rapporto di fatto. Si notano infatti in tali forme: mancanza di statuti e di espresse norme circa i diritti e i doveri di associati e di amministratori; impossibilità di costituire gli uni e gli altri in organismi deliberanti; mancanza di destinatarî certi dei fondi raccolti; contributi anonimi e non identificabili, minimi talvolta e singolarmente quasi irrilevanti, pur potendo giungere nel loro complesso a somme ingenti; scopi talvolta semplicemente occasionali e momentanei (es.: semplici collette in favore di un infortunato).
Tale è la materia più propriamente detta dei comitati, delle pubbliche sottoscrizioni, delle oblazioni, che in sé abbraccia una serie infinita di ipotesi di fatto che possono anche aver vita solo per un istante e rimanere sul limitare del diritto.
La classificazione di questi rapporti nelle categorie degl'istituti giuridici tradizionali mette questi a durissima prova.
Di qui la tendenza di qualche giurista a considerare i promotor; o i gestori dei fondi raccolti come investiti di una proprietà fiduciaria sugli stessi che li autorizza a disporne uti domini, riconoscendosi nei datori la persistenza di un diritto di controllo circa l'uso e la destinazione dei beni.
Tale costruzione, per sé di assai difficile accoglimento nel diritto vigente circa la nozione e i modi di trasferimento del diritto di proprietà, non può aver riguardo a tutti quei casi nei quali, per il grado di organizzazione cui l'associazione è pervenuta, le persone partecipanti al negozio (associati, datori di beni, destinatarî) permangono nel rapporto come soggetti di diritto certi o almeno identificabili e il fine è esso pure certo o dete minabile. Soccorrono in questi casi gli ordinarî istituti del diritto privato.
Bibl.: Monografie: F. Bolchini, Per una legge sulle associazioni, Varese 1901; id., Le pubbliche sottoscrizioni nel diritto privato, Torino 1905; Fr. Ferrara, Teoria delle persone giuridiche, Napoli 1915; A. Giovene, Le associazioni di fatto nel diritto privato, Milano 1914. - Vedi, inoltre, nella Rivista di diritto commerciale gli studî di Bonelli, I, i (1903), p. 285; IV, i (1906), p. 113; XI, i (1913), p. 733; Brugi, IV, ii (1906), p. 87; Pacchioni, V, ii (1907), p. 249. - Trattati generali: N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, Milano 1924, pp. 198, 208, 223; G. Chiovenda, Principî di diritto processuale civile, Napoli 1923, p. 583; N. Manara, Della società ed associazioni commerciali, II, Torino 1902, pp. 337, 380; L. Mortara, Commentario al codice ed alle leggi di procedura civile, Milano s. a., 3ª ed., II, p. 717; C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, II, Milano 1928, n. 330.
Associazione in partecipazione. - L'associazione in partecipazione ha comuni le origini con la società in accomandita, e nacque come questa dall'antica commenda, cioè dal contratto con il quale un commendator affidava al tractator merci o danaro, perché li commerciasse in un viaggio marittimo nell'interesse comune.
Tale comunanza di origini e l'evidente analogia con la funzione economica delle società commerciali fecero sì che il legislatore e la dottrina non disgiungessero mai del tutto l'associazione in partecipazione da queste ultime, cosicché noi la troviamo regolata nel codice vigente nello stesso titolo - il IX - che contiene la disciplina di quelle. Le differenze sono tuttavia profonde. Le società commerciali infatti costituiscono, rispetto ai terzi, enti collettivi distinti dalle persone dei soci (art. 77 cod. comm.): cioè sono persone giuridiche a cui il contratto di società dà vita autonoma, e che perseguono i loro scopi e continuano la loro esistenza, anche quando ne sono usciti o sono scomparsi i soci che concorsero a costituirla. L'associazione in partecipazione invece non costituisce - com'è detto esplicitamente nell'art. 235 cod. comm. - un ente collettivo distinto dalle persone degl'interessati, e non ha quindi una personalità propria. Essa può così definirsi: un contratto in forza del quale una persona (associante) mette un'altra persona (associato) a parte dei guadagni e delle perdite delle sue operazioni commerciali. Il contratto può tuttavia essere concluso anche fra una società e una persona fisica o fra due o più società, e può avere per oggetto la partecipazione agli utili e alle perdite di una o più operazioni o anche dell'intero commercio dell'associante. Ciò è stabilito esplicitamente dall'art. 233 del codice di commercio. Non è poi necessario che i contraenti siano commercianti e perciò si può avere una associazione in partecipazione per una o più operazioni commerciali anche fra persone che, prima della stipulazione del contratto di associazione, non abbiano iniziato affari o comunque esercitato un comrnercio.
Il vincolo che lega l'associante e l'associato non appare giuridicamente ai terzi, i quali perciò contrattano con il solo associante e solo verso di questo assumono diritti e obblighi. Se dunque può in certo modo riscontrarsi una fondamentale analogia fra la società e l'associazione in partecipazione, il carattere distintivo principale fra questa e le società commerciali vere e proprie consiste precisamente nel fatto che essa non appare ai terzi, il che giustifica la definizione di socio segreto che si diede da qualche scrittore all'associato, per contrapporlo al socio palese, cioè all'associante. Le conseguenze pratiche di questa sostanziale diversità tra società e associazione sono varie e importantissime. L'associazione in partecipazione non ha una denominazione sociale, né un fondo o un domicilio proprio. Il nome che si spende per la trattazione dell'affare o degli affari comuni all'associante o all'associato è unicamente quello dell'associante. L'associazione non è come tale rappresentata da alcuno, perché chi tratta e agisce è unicamente l'associante, il quale figura come se trattasse e agisse per suo conto e nel proprio interesse. L'associante e l'associato non contraggono obbligazioni solidali verso i terzi, e questi non hanno azione verso l'associato, tranne, s'intende, nel caso di frode. I creditori dell'associazione possono per contro esercitare le loro azioni non solo sui beni che l'associante ha destinato alle operazioni che formano oggetto del contratto di associazione, ma su tutto il patrimonio dell'associante. Altra importantissima conseguenza del fatto che l'associazione in partecipazione non costituisce un ente collettivo, ma soltanto un contratto, che non estende la propria efficacia oltre i rapporti dei contraenti, è la seguente. Per il conseguimento dello scopo per cui l'associazione in partecipazione viene stipulata, l'associato porterà il contributo cui si è obbligato, e che, se può consistere anche nella sua opera o nella sua industria, molto spesso consiste in beni di sua proprietà. Ora, le cose apportate dall'associato all'associante per conseguire i profitti sperati passano in proprietà di quest'ultimo, tranne che l'associato non se ne riservi con un patto speciale la proprietà (art. 236 cod. comm.).
La disposizione è una giusta tutela per i terzi che contratteranno con l'associante, perché il patrimonio di questo, dopo l'apporto dei beni dell'associato, apparirà ad essi accresciuto, e quindi i medesimi potranno essere da ciò indotti a concedergli un maggior credito. La buona fede dei terzi sarebbe priva di ogni protezione, se, nel momento in cui facessero ricorso, per essere soddisfatti del loro avere, ai beni che ritenevano di proprietà dell'associante, con il quale hanno contrattato, se li vedessero sfumare.
La facoltà riconosciuta all'associato dall'art. 236 del codice di commercio, di riservarsi la proprietà dei beni apportati, non può dunque pregiudicare i diritti dei terzi, e quindi il patto relativo avrà valore solo nei rapporti interni fra associante e associato. Se tuttavia i beni conferiti dall'associato fossero immobili ed egli ne avesse conferito soltanto l'uso, i terzi non potrebbero considerarli proprietà dell'associante, perché i libri della proprietà immobiliare, dai quali risulta il vero proprietario dei beni stessi, gioverebbero anche in questo caso a far respingere l'ingiustificata pretesa di chi volesse espropriarli per soddisfare un suo credito contro persona diversa da quella iscritta come proprietario in tali libri, cioè contro l'associante. Altrettanto deve dirsi se il conferimento all'associante consiste in un brevetto o in altri beni la cui proprietà non può essere trasferita senza l'osservanza di determinate formalità.
Quando viceversa i beni apportati dall'associato sono mobili, che non richiedano per la loro alienazione particolari formalità, l'eventuale diritto che egli si sia riservato di riprenderli alla fine del contratto di associazione in partecipazione, pur non valendo di fronte ai terzi per le anzidette ragioni di tutela della buona fede di costoro, che, in questo caso, non hanno la possibilità di conoscere il patto relativo, varrà invece nei rapporti interni fra associato e associante; ma non già nel senso che questo non possa disporre anche di quei mobili, servendosene ai fini della speculazione comune, ma nel senso che egli, facendolo, violerà un obbligo assunto contrattualmente e dovrà quindi risarcire il danno che ne deriverà all'associato. Si tratta, in altri termini, non di una riserva di proprietà, ma di un semplice patto di non alienare e di non vincolare, tanto è vero che si ritiene comunemente che l'associante, il quale volgesse a proprio profitto le cose somministrategli dall'associato, sarebbe tenuto al risarcimento del danno relativo, ma non dovrebbe rispondere anche del reato di appropriazione indebita.
Poiché, come si disse, il dominus negotii nelle operazioni che formano oggetto dell'associazione in partecipazione, è l'associante, nella grande generalità dei casi, ne sarà egli l'amministratore. L'associato non ha diritto di partecipare all'amministrazione, ma il suo interesse a che questa sia condotta con la dovuta diligenza e correttezza gli consentono delle facoltà di carattere ispettivo, come quella di avere il conto delle cose conferite nell'associazione e il conto dei profitti e delle perdite (art. 236 cod. commercio). Tutto ciò non esclude che all'associato sia concesso dall'associante il diritto di amministrare, o gli siano conferiti particolari incarichi per la trattazione di determinati affari. In questa ipotesi deve ritenersi che l'associato agisca come un mandatario e non come un partecipante all'affare, e perciò la sua azione e le conseguenze di essa saranno regolate dalle norme che governano il contratto di mandato. In forza di queste, dunque, le obbligazioni che egli assuma o i diritti che acquisti trattando un affare, saranno assunte o acquistati dall'associante. Se però l'associato nei suoi rapporti coi terzi dimostrerà di trattare per sé, oppure per sé e per l'associante congiuntamente, allora egli incontrerà una responsabilità personale, né potrà evidentemente, quando fosse chiamato a soddisfare le obbligazioni così assunte, opporre l'esistenza dell'associazione in partecipazione e la sua qualità di associato, per liberarsene.
L'associante dal canto suo dovrà gerire l'affare comune con la diligenza e la correttezza del buon commerciante. Egli è legato da un obbligo contrattuale all'associato, e questi potrà sempre chiedere la risoluzione del vincolo, quando l'associante venga meno agli impegni assuntisi, come, ad esempio, se non unisca al contributo dell'associato quanto ha promesso d'impiegare nell'operazione comune, se trascuri gli affari dell'associazione, se eserciti lo stesso commercio per conto suo con danno di quella. Se non vi è una pattuizione in contrario, deve ritenersi che l'associante non abbia diritto a compenso per la sua opera di amministratore: la dottrina però non è tutta concorde in questa affermazione, che pure appare la più conforme all'essenza del contratto di associazione in partecipazione, secondo il quale il naturale compenso dell'attività svolta dall'associante deve consistere negli utili che egli ricaverà dall'affare.
L'art. 237 del codice di commercio dispone che "le convenzioni delle parti determinano la forma, le proporzioni e le condizioni dell'associazione". Tale maggior libertà consentita a coloro che stipulano un contratto di associazione in partecipazione, in confronto a quella riconosciuta a coloro che costituiscono una società, si spiega facilmente, pensando alla differenza dei rapporti che nell'uno e nell'altro caso vengono a stabilirsi riguardo ai terzi. Ma anche tale libertà, oltre ai limiti che le sono posti dalle disposizioni in tema di associazione in partecipazione, uno ne trova e importantissimo, relativo alla prova del contratto, nell'art. 238 del codice di commercio, il quale dispone che, pur essendo il contratto stesso esente dalle formalità stabilite per le società, esso deve tuttavia essere provato per iscritto.
La deroga alla norma generale in materia di prova delle obbligazioni commerciali (art. 44 cod. comm.), così stabilita dall'art. 238, è la conclusione di un'antica questione agitatasi in seno alle commissioni che compilarono tanto il codice di commercio del 1865, quanto quello vigente. Prima del codice del 1865, infatti, la giurisprudenza ammetteva la prova testimoniale per dimostrare l'esistenza dell'associazione in partecipazione, ma tale sistema, benché corrispondesse alla tendenza allora assai vivace di liberare sempre più i rapporti commerciali dal peso delle formalità, non fu accolto nemmeno in tale codice, né trionfò di poi, quando esso fu sostituito dal codice attualmente in vigore. La principale ragione, per cui si credette d'imporre per l'associazione in partecipazione la prova scritta, fu il pericolo che la prova testimoniale avrebbe rappresentato quando fosse stata invocata per stabilire l'effettiva stipulazione di un contratto che per la sua indole richiede quasi sempre un lungo periodo di trattative, il che rende difficile, anche a chi vi abbia assistito, di affermare se veramente esse abbiano approdato al consenso definitivo delle parti. Né fu estranea, all'imposizione della più rigorosa prova derivante dalla scrittura, la considerazione che l'importanza e il valore degli affari, per cui generalmente l'associazione in partecipazione si stipula, e il genere delle persone che ricorrono a simile contratto, rendevano strano che si potesse ammettere al riguardo quella prova testimoniale che la legge civile non consentiva per le convenzioni sopra un oggetto il cui valore eccedesse le lire cinquecento.
Dall'obbligo della prova scritta, imposto dall'art. 238, deriva quindi che la prova testimoniale per stabilire l'esistenza dell'associazione in partecipazione potrà ammettersi soltanto - a norma dell'art. 53 del codice di commercio - quando il valore dell'affare che ne costituisce l'oggetto non superi le lire duemila (art. 1341 cod. civ. modificato dal r. decr. legge 20 sett. 1922, n. 1216), oppure quando esista un principio di prova scritta (articolo 1347 cod. civile). Non potrà invece mai invocarsi la prova testimoniale contro o in aggiunta all'atto scritto con il quale l'associazione venne stipulata (art. 1341 cod. civile).
Siccome l'art. 237 del codice di commercio lascia libere le parti di fissare le condizioni dell'associazione, così il legislatore non ha creduto di determinare quali siano le cause di scioglimento di essa. Se dunque il contratto non provvede in proposito, bisognerà ricorrere per analogia alle norme che governano lo scioglimento delle società al fine di risolvere le questioni che potessero sorgere in tale caso. Alla stregua di tali norme si può affermare che l'associazione in partecipazione si scioglie per il decorso del tempo stabilito alla sua durata, per la mancanza o per la cessazione dell'oggetto di essa, o per l'impossibilità di conseguirlo, per deliberazione degli associati [art. 189 cod. comm.), per la morte, l'interdizione, l'inabilitazione o il fallimento dell'associante (art. 191 cod. commercio).
Si deve del pari ritenere che, se il contratto non determina la durata dell'associazione, e quindi questa è senza limite, troverà applicazione l'art. 1733 del codice civile, e perciò qualsiasi dei contraenti potrà rinunciarvi, purché tale rinuncia sia fatta in buona fede e non fuori tempo (art. 1734 cod. civ.); come pure qualsiasi dei contraenti potrà, anche se l'associazione è stata contratta per un periodo di tempo determinato, domandarne giudizialmente lo scioglimento per quei giusti motivi che sono indicati dall'art. 1735 del codice civile.
Lo scioglimento dell'associazione fa sorgere per l'associante l'obbligo della resa dei conti e della liquidazione degli affari in corso. I rapporti patrimoniali fra associante e associato si regoleranno secondo i patti tra di essi stabiliti. Se nulla fu stabilito al riguardo l'associato parteciperà agli utili e alle perdite in proporzione della quota conferita, e cosi potrà darsi che egli debba subire una perdita anche superiore a tale quota. Nulla vieta tuttavia che egli con un patto espresso limiti la sua partecipazione alle perdite all'ammontare massimo della quota conferita (com'è stabilito tassativamente dal codice germanico), o anche a una cifra minore.
Si deve però osservare su questo punto che, generalmente, quando si tratta di associazione in partecipazione per affari di lunga durata o per un intero esercizio commerciale, gli utili vengono ripartiti durante il corso degli affari o dell'esercizio, e che in tali casi lo scioglimento porterà unicamente alla divisione dei beni cadenti nell'associazione. In tal caso l'associato avrà diritto di riprendersi le cose conferite nell'associazione, qualora se ne sia riservata la proprietà a norma dell'art. 236, oppure di avere il conto di esse, senza che gli spetti né il diritto, né l'obbligo di riaverle in natura.
Il codice di commercio si occupa infine dell'associazione in partecipazione nel libro III, dedicato al fallimento, per stabilire (art. 850) i diritti dell'associato in caso di fallimento dell'associante limitandoli all'ammissione al passivo per quella parte dei fondi da esso conferiti che possa provare non assorbita dalla perdita eventualmente a suo carico. In altri termini, l'associato, in caso di fallimento dell'associante, potrà essere ammesso al passivo per la somma che avrebbe potuto esigere dall'associante, se questo non fosse fallito. Correlativamente, se fallisce l'associato, l'associante avrà diritto di essere ammesso al passivo per le quote di cui il fallito fosse ancora in debito verso di esso. Nell'uno e nell'altro caso il pagamento avverrà, s'intende, in moneta di fallimento.
È da ultimo anche superfluo rilevare che non è invece da considerarsi l'ipotesi del fallimento dell'associazione, perché, non costituendo questa un ente separato dalle persone, che vi partecipano, non può come tale essere dichiarata fallita.
Bibl.: Oltre ai commenti generali al codice di commercio, possono consultarsi in argomento: U. Navarrini, Studî sull'associazione in partecipazione, in Riv. soc. comm., 1919, p. 418; A. Angelini Rota, La pretesa personalità giuridica dell'ssociaz. in partec., in Riv. dir. comm., 1914, p. 44; C. Pagani, Questioni sull'associazione in partecipazione, in Riv. dir. comm., 1903, p. 296; G. Chironi, La personalità giuridica delle associazioni, in Legge, 1901, p. 176; Felici, Associazione in partecipazione, in Diz. dir. priv.; M. Giriodi, Associazione in partecipazione, in Digesto ital.; G. Poulle, Traité théorique et pratique des associations commerciales en participation, Parigi 1887; A. Renaud, Das Recht der stillen Gesellschaften, Heidelberg 1885.
L'Associazione di mutuo soccorso. - Le associazioni di mutuo soccorso appartengono alla stessa specie di quelle di mutua assicurazione, mutue e prevalentemente assicuratrici anch'esse; da esse storicamente le seconde ebbero vita. Sono cooperative, e appartengono agli istituti privati di previdenza sociale, costituendo, in complesso, una categoria i cui confini non sono scientificamente definibili. Hanno per scopo principale di dare ai soci sussidî in caso di malattia, o di altre eventualità che interessino la loro famiglia o l'esercizio della loro attività economica; ricavando i mezzi principalmente dai contributi dei soci (Gobbi), e in secondo luogo dalla beneficenza, che delle associazioni di mutuo soccorso si serve quando si prefigge fini di previdenza benefica. In quanto si propone di provvedere, mediante il prodotto ottenuto, a un bisogno della collettività che la costituisce, che nella fattispecie è il porsi al riparo delle conseguenze di determinati sinistri, l'impresa costituita da una società di mutuo soccorso è cooperativa. Comunemente l'appartenenza di soci, che non godono dei vantaggi dell'associazione ma si fanno tali a scopo di beneficenza, rende la forma di cooperazione delle mutue non pura. Per le stesse ragioni non è pura la forma mutualistica di queste associazioni. Che il mutuo soccorso sia un caso speciale della cooperazione è oggi fuori dubbio. Il motivo per cui questa relazione rimase inavvertita è che i caratteri della cooperazione si manifestarono soprattutto dove questa sorse per reazione contro l'impresa di speculazione, mentre le società di mutuo soccorso non ebbero tali origini (Gobbi). Esse sono la manifestazione cooperativistica dell'assicurazione. Non occorre far rilevare come le società di mutuo soccorso esercitino una vera e propria accumulazione di risparmî; giacché l'assicurazione come perfezionamento del risparmio ne conserva i caratteri essenziali.
Benché qualificate come società da qualche scrittore, e come tali designate dall'art. 1 della legge 15 aprile 1886, che conferisce loro la personalità giuridica, esse pure non sono tali, mancando loro il requisito caratteristico e indispensabile a ogni società, che è lo scopo di lucro (Manara). Chi sostiene l'opposta tesi parte da concetti economici, e afferma che lo scopo di guadagno c'è perché coloro che vogliono procurarsi una data prestazione, accorgendosi che può essere ottenuta col minimo costo soltanto per una collettività, si associano per ottenerla.
Le associazioni di mutuo soccorso sono, in parte, regolate da una legge speciale, in parte rientrano nel vasto campo delle associazioni per cui manca una legge propria, da tanto tempo invocata, in parte, con l'adozione di una particolare forma, trovano il regolamento giuridico in quello che a questa forma si connette.
Esse possono essere costituite legalmente in base alla legge 15 aprile 1885, n. 3818, per la quale nessuna ingerenza è consentita al governo nella vita delle società di mutuo soccorso; la legge determina la loro azione, lo stato, nei limiti di questa, fissa le norme della loro esistenza, l'autorità giudiziaria ne accerta le condizioni estrinseche e le richiama all'osservanza della legge allorché deviano dai loro fini. Questa legge riguarda le sole società operaie (art. 1°) di mutuo soccorso, ma la giurisprudenza tende all'interpretazione estensiva su questo punto. Gli articoli 1 e 2 determinano chiaramente i fini cui le associazioni possono mirare: assicurare ai soci un sussidio nel caso di malattia, d' impotenza al lavoro, di vecchiaia, venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti, cooperare all'educazione dei soci e delle loro famiglie, dare aiuto ai soci per l'acquisto degli attrezzi del loro mestiere ed esercitare altri uffici proprî della previdenza economica. In questi casi deve però specificatasi la spesa e il modo di farvi fronte nell'annuo bilancio.
Altre norme contenute nella legge stabiliscono che la costituzione della società e l'approvazione dello statuto devono risultare da atto notarile, la domanda per la registrazione della società deve essere presentata al tribunale che ne verifica le varie condizioni adempiute, gli amministratori devono essere inscritti fra i soci effettivi, ecc
L'art. 9 elenca i benefici fiscali di cui godono le società registrate secondo la legge:
1) l'esenzione dalle tasse di bollo e registro conferita alle società cooperative dall'art. 288 del codice di commercio
2) l'esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall'imposta di ricchezza mobile come all'art. 8 del testo unico delle leggi di imposta sui redditi di ricchezza mobile, 24 agosto 1877, n. 4021;
3) la parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per l'esenzione dalle tasse di bollo e registro e per le misure dell'imposta di successione, o di trasmissione per atti tra vivi;
4) l'esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidî dovuti dalle società ai soci.
L'art. 4 della legge dice in modo esplicito che le società di mutuo soccorso acquistano, adempiute le formalità prescritte, personalità giuridica e costituiscono perciò un ente distinto dalla persona dei soci; le associazioni di mutuo soccorso possono anche essere riconosciute per decreto reale in base all'art. 2 delle preleggi, che ammette l'esistenza di corpi morali legalmente riconosciuti. In questo caso debbono riportare l'approvazione, e non già la semplice constatazione del rispetto delle condizioni di legge, dello statuto. La personalità giuridica così acquistata in nulla differisce da quella che conferisce la legge del 1886.
La possibilità teorica che un'associazione di mutuo soccorso assuma la forma di associazione di mutua assicurazione ai sensi dell'art. 239 cod. comm. non toglie che nel caso più frequente in cui fra i soci della mutua vi siano dei soci benefattori, per i quali la qualità di socio non coincide con quella di assicurato come esige la natura giuridica dell'associazione di mutua assicurazione, ciò non sia praticamente possibile. Le associazioni di cui ci occupiamo possono assumere anche le forme legali di società anonime cooperative. Infatti la legge non prescrive scopi determinati alle anonime cooperative, e alle associazioni di mutuo soccorso, cui, per la loro natura stessa, è inerente il carattere di cooperative; mentre nulla rileva che esse non siano società, poiché questa qualità è per le anonime cooperative posta dalla legge in relazione al modo della loro costituzione, al regolamento dei rapporti fra i soci.
Poiché spesso il carattere della beneficenza accompagna le associazioni di mutuo soccorso, esse possono trovare la loro veste legale anche come istituzioni di beneficenza. È però necessario che il carattere di beneficenza sia prevalente.
Ampia è la classe delle associazioni di mutuo soccorso non costituite legalmente.
Chi, come il Gobbi, considera società le associazioni di mutuo soccorso giunge per esse alle seguenti conclusioni:
a) Se non hanno per oggetto assicurazioni o altri atti di commercio, sono società civili.
b) Se hanno per oggetto assicurazioni e hanno i requisiti per ottenere la registrazione secondo la legge del 1886, sono soggette solo alle norme del codice civile sul contratto di società.
c) Se hanno per oggetto assicurazioni o altri atti di commercio e non hanno i requisiti per ottenere la registrazione secondo la legge del 1886, sono associazioni di mutua assicurazione o società commerciali irregolari.
Diversamente si pone il problema della personalità giuridica, e dell'ente distinto dalle persone dei soci, per chi consideri le associazioni in questione associazioni e non società. Che, se, da un lato, riconosciuto con la dottrina ormai dominante essere la persona giuridica realtà e non finzione, e quindi l'esplicita dichiarazione da parte della legge valer come riconoscimento, non come creazione di essa, si sarebbe indotti a riconoscere alle associazioni di mutuo soccorso, che possano sicuramente qualificarsi per tali, la qualità di enti distinti dalle persone dei soci, d'altra parte, considerando lo stato della legislazione sulle associazioni in genere, non può trovarsi fondata ragione per dare alle associazioni di mutuo soccorso non riconosciute un carattere diverso da quello che si attribuisce alle altre associazioni. Si deve quindi ritenere che esse non siano enti giuridici distinti dalle persone dei soci. Ne consegue che dal contratto innominato che loro dà vita non sorge una unità patrimoniale separata dalla proprietà di ogni singolo associato, e che i rapporti giuridici non sono del tutto, ma di ogni associato per parti virili. La responsabilità naturalmente è illimitata. Tutto ciò non importa difficoltà delle associazioni a ricevere, se non che la recezione si risolve in acquisto pro rata dei singoli. Nemmeno costituisce una difficoltà la rappresentanza in giudizio che avviene per via di mandatario, che è mandatario dei singoli, siano pure considerati come complesso, non già rappresentante dell'ente associazione. Esse si trovano nelle stesse condizioni delle società civili.
Nel silenzio della legge valgono per lo scioglimento delle associazioni di mutuo soccorso le norme vigenti per le società a garanzie limitate, in quanto non ripugnino alla natura loro. Alla liquidazione accenna la legge statuendo che alle donazioni aventi fine determinato e carattere di perpetuità si applichino le norme vigenti per le opere pie. Le norme per le liquidazioni possono essere contenute nello statuto; altrimenti si ricorre all'analogia come per lo scioglimento. Ciò vale anche per le associazioni non riconosciute finché non abbiano uno scopo contrario all'ordine pubblico. Lo stesso ricorso all'analogia è necessario per la fusione, mancando anche qui disposizioni proprie.
Per ciò che riguarda il diritto comparato, la situazione può riassumersi nel modo seguente. Ai tre gruppi, latino, germanico, e anglo-americano, corrispondono tre diversi sistemi di previdenza sociale: società liberamente costituite, ma aiutate, incoraggiate, sovvenute, da parte dello stato, nei paesi latini (leggi francesi vigenti: 1° aprile 1898 e 2 maggio 1899); servizî pubblici esercitati in via legale, e obbligatorietà della previdenza, nei paesi germanici (legge austriaca 16 luglio 1892 e germanica 1° gennaio 1913); associazioni libere di cui lo stato non si occupa, se non molto indirettamente, nei paesi anglo-americani.
Dopo la fine della guerra europea, lo stato ha intrapreso e prosegue una vasta opera di previdenza sociale, che presto si estenderà anche all'assicurazione contro le malattie, trasformando e creando organi adatti, quale, ad esempio, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3184), antica cassa di previdenza. E questo il sistema tedesco che era già attuato nelle provincie redente, ove però ora è stata estesa la legislazione italiana (regio decreto 29 novembre 1925, n. 1469; 31 gennaio 1926, n. 100, e 16 maggio 1926, n. 908).
Come naturale conseguenza dell'obbligatorietà delle varie forme di previdenza sociale, si verifica così quell'intervento dello stato, che i redattori della legge del 1886 avevano voluto evitare. Certo è che il carattere pubblicistico, accentuandosi in questo campo, importa la sparizione o la trasfomazione, come è avvenuto per la cassa di maternita, dell'associazione di mutuo soccorso a carattere schiettamente privato. Comunque le associazioni di mutuo soccorso sono state le cellule embrionali da cui si sono sviluppati, e sempre più si svilupperanno, tutti gl'istituti di previdenza sociale.
Bibl.: U. Gobbi, Le società di mutuo soccorso, Milano 1909; E. Greco, Le società di mutuo soccorso, Torino 1922.
Associazione per delinquere. - La nozione di questo delitto contro l'ordine pubblico è data dalla relazione ministeriale al cod. pen. vigente (II, p. 162): "Il concorso di più persone in un reato non costituisce una specie delittuosa a sé, e neppure una circostanza aggravante. Ma se un numero considerevole d'individui si associa, non già per commettere questo o quel reato, ma in genere una serie di delinquenze, per fare quasi, a così dire, il mestiere, sorge lo speciale delitto di cui si tratta, che ha per suoi estremi il concorso di cinque o più associati e lo scopo generico di commettere reati, sia pure di specie non ancora determinata". Il codice penale vigente ha preferito il nome di "associazione per delinquere" all'altro di "associazione di malfattori" usato dal codice sardo, perché questo ingenerava dubbî e perplessità. Soggetto attivo del delitto può essere chiunque, anche quando non abbia precedenti penali, si sia associato per commettere più delitti. Nei campi dell'attività lecita e permessa o anche tutelata dalle leggi, vi sono scopi che non possono essere raggiunti dallo sforzo isolato di singole attività, ma che richiedono, per il loro sviluppo e per il loro esercizio, il fondersi di sforzi convergenti e coordinati, la costituzione di imprese industriali, di società commerciali, di consorzî, di sindacati o di corporazioni e l'organizzarsi di persone giuridiche. Questa fioritura costituisce una facilitazione nel conseguimento di scopi economici e sociali, garantiti dalle leggi civili e commerciali. Ma, se gli scopi perseguiti dalle associazioni siano criminosi, si hanno forme delinquenziali ben più gravi di quelle individuali. È già stato rilevato dal Lombroso, nei suoi studî sull'uomo delinquente, che la più temibile delle delinquenze è quella delle associazioni, perché dalla riunione delle anime perverse si genera un vero fermento malefico che, facendo ripullulare le vecchie tendenze, rafforzandole con una specie di disciplina per la vanità del delitto, spinge ad atrocità, cui gran parte degl'individui ripugnerebbe. Si ha piuttosto un prodotto che una somma di volontà malefiche, in cui le qualità buone in luogo di sommarsi si elidono, in cui prevalgono gl'istinti e le tendenze peggiori, in cui la suggestione reciproca, l'imitazione i moventi antisociali trovano terreno fertile al loro sviluppo. Nel problema della delinquenza non vanno trascurati gli elementi etnografici e topografici, che influiscono nella genesi del delitto, altrettanto quanto gli elementi psicologici e biologici. L'associazione per delinquere, nella sua fenomenologia e nel suo aspetto sociale, è stata studiata da quanti si sono occupati della mano nera in Spagna, associazione ispirata al socialismo intransigente, che si proponeva la rivendicazione della terra come proprietà di tutti; della camorra napoletana, protetta dai Borboni, ma talora pure repressa, perseguitata dal 1863 anche mediante il domicilio coatto; della mafia siciliana, che si serviva dell'omertà per tacere poi della compagnia della teppa sorta a Milano; e della malavita, scoperta a Barletta nel 1889.
Per dare un'esatta nozione dell'associazione per delinquere giova, meglio di qualsiasi definizione, individuare questa speciale forma di delitto, rilevandone le differenze e le interferenze con le più note regole generali del diritto penale, comunemente applicate per tutte le specie di particolari delitti. In relazione al tentativo e ai varî gradi del reato, ha pienamente prevalso il principio propugnato dal Carrara, per il quale l'associazione non è un tentativo, né si punisce come conato, ma come un reato per sé stante, consumato e perfetto. Si tratta sostanzialmente d'un atto preparatorio, non di per sé incriminabile, se non fosse punibile per speciali disposizioni di legge; anteriormente a ogni principio di esecuzione, non essendo neppure necessaria la pregiudiziale determinazione dei mezzi del delitto (a differenza della cospirazione). È tanto pericoloso per l'ordine pubblico l'incontro delle volontà per concertare un determinato programma di delitti, che l'elemento psicologico interno penalmente non apprezzabile, diventa materia di delinquenza e di pena, estrinsecandosi col minaccioso fatto esterno dell'associazione.
È intuitivo che in questa forma di delitto non vi può essere ipotesi di tentativo.
In relazione alle norme generali sulla partecipazione criminosa si deve rilevare che si tratta di un delitto collettivo, in cui il numero delle persone associate è estremo essenziale alla sussistenza del delitto stesso. Le norme generiche della correità non sono applicabili rispetto ai concorrenti necessarî. Si tratta di un concursus necessarius ad idem delictum o, come altri lo classificano, di un delitto convergente.
Anche le norme generali del favoreggiamento, previste dall'art. 225 del codice vigente, pur avendo valore fuori delle tassative previsioni dell'art. 249, sono da questo articolo modificate, in quanto si dia rifugio o assistenza, o somministrazione di vettovaglie, agli associati o ad alcuno di essi. Va esente da pena chi somministra vitto (non vettovaglie) o dà rifugio a un prossimo congiunto. Naturalmente queste forme di connivenza e di favoreggiamento richiedono sempre l'estremo del dolo, non essendovi reato, quando vi sia stata una violenza fisica o morale coartatrice. In relazione alle norme generali per il concorso di reati e di pene, va rilevato che la responsabilità nasce in ciascun associato, dal fatto dell'associazione; tanto che, se nel tempo o per occasione dell'associazione, abbia commesso qualche altro delitto, la pena del delitto speciale concorre con l'altra dell'associazione delittuosa, secondo l'art. 77, oltre all'aggravamento di pena, da un sesto a un terzo, sulla pena risultante dal cumulo giuridico. Oltre che un delitto collettivo, l'associazione per delinquere è un reato permanente (in continua flagranza, agli effetti processuali).
Dal punto di vista storico, per quanto questa tipica forma di delitto sia stata, il più delle volte, contrassegnata con il nome di Societas delinquendi, essa, nel diritto romano, non ebbe un titolo speciale. È vero per altro, che, nel diritto romano, l'associarsi per uno scopo pericoloso fu represso sin dall'epoca repubblicana; ma più specialmente sotto l'Impero. E altrettanto è a dire per il nostro diritto intermedio. L'associazione per delinquere non ha una storia remota, e può dirsi un portato delle legislazioni moderne. Se ne è voluta ricercare la fonte in quei conventicula che acquistarono triste celebrità dopo la fierissima bolla di Sisto V, essendosi le riunioni ecclesiastiche trasformate in riunioni di uomini armati, alleati e fusi insieme, per commettere turbolenze, vendette, depredazioni e saccheggi. Si tratta di cose troppo diverse. Si trova invece questo delitto nel codice penale francese del 1810 (art. 263) sotto il nome di bande; e sotto la forma di una guerra aperta, sostenuta con armi e organizzazioni militari, nelle due sottospecie delle guerriglie (per moventi politici) e del brigantaggio (diretto a delitti comuni). Dal codice francese questa figura di reato passa nel codice parmense del 1820 (art. 264); nel codice albertino; infine nel codice sardo del 1859 (art. 426).
È opportuno ricordare il sistema del codice toscano (art. 421) in confronto del codice sardo-italiano (articoli 426-430). In ordine a questo delitto sui generis la severità di un codice è tanto maggiore, quanto minore il numero delle persone necessarie al verificarsi dell'associazione, ovvero esteso il novero dei reati, costituenti gli obietti criminosi verso i quali tendono gli associati. Il codice sardo e il vigente codice Zanardelli, sono ispirati a maggiore mitezza, in quanto i concorrenti necessarî al reato devono essere non meno di cinque. Mentre però nel codice sardo l'associazione doveva essere costituita per commettere reati contro le persone o la proprietà, nel codice Zanardelli, a queste due categorie, si aggiungono dall'art. 248 i delitti contro l'amministrazione della giustizia, o la fede pubblica, o l'incolumità pubblica, o il buon costume e l'ordine delle famiglie. Il progetto Rocco, ispirato a maggiore severità, riduce il numero dei consociati a tre, così com'era nel codice toscano e nel codice del Reame di Napoli 1 settembre 1819; così com'è tuttavia richiesto dall'art. 289 del codice eritreo. Il progetto Rocco è più severo del codice vigente, anche perché, fuori di ogni casistica, non fa più distinzione di categorie di delitti, alla cui perpetrazione l'associazione è diretta. Se il numero dei partecipi non è di tre, ma di cinque o più, la pena è aumentata. È raddoppiata, se gli associati costituiscano una banda armata o scorrano le campagne o le pubbliche vie. La condanna per questo titolo di reato porta con sé implicitamente una misura di sicurezza. L'art. 414 del progetto mentre aggrava le pene per chi dà rifugio, fornisce vettovaglie, o presta assistenza ai consociati, non riproduce l'esenzione da pena, nel caso di aiuto fornito a prossimi congiunti. L'associazione per delinquere, che si prefigge una pluralità di delitti, un'attività criminosa abituale, in cui l'inclinazione delittuosa degli associati, come disse il Hälschner, resta rafforzata e accresciuta "per vizio fortificato", è da tenere ben separata dalla società criminosa speciale, di più persone che si accordano per un singolo delitto, nel qual caso valgono le norme generali della correità.
Nel diritto comparato è da rilevare che contro le norme eccezionali dell'associazione per delinquere, si lanciarono gli strali del Geyer, che ebbe a considerarla come un arbitrio poliziesco. Pur tuttavia molti codici europei espressamente la contemplano: il codice penale francese modificato dalla legge 19 dicembre 1893 (art. 265); il codice belga 8 giugno 1867 (art. 322); il codice norvegese (§ 159); il codice del Canton Ticino (art. 192); il codice russo 1903 (§ 52); il codice ungherese (art. 163), e via dicendo.
Bibl.: G. Alongi, La camorra, Torino 1890; F. Carrara, Associazione per delinquere, in Enciclopedia giuridica ital., III, p. 1114; id., Opuscoli diritto criminale, I, Lucca 1870, § 273, p. 542; C. Civoli, Trattato di diritto penale, II, Milano 1912, p. 396; F. Giordani, Intorno al reato di associazione a delinquere, in Rivista di diritto e procedura penale, VIII, p. 392; G. B. Impallomeni, Il codice penale italiano, I, Firenze 1890, p. 292; II, ibid., 1891, p. 319; C. Lombroso, L'uomo delinquente, I, 4ª ed., Torino 1889, capp. XII, XIV; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, V, Torino 1915, p. 656; F. Scarlata, Le associazioni per delinquere, Girgenti 1904; id., Le associazioni per delinquere e la mafia, in Rivista penale, LI, p. 91; Zerboglio, L'essenza dell'associazione nel reato di associazione a del., in Rivista di dir. e proc. pen., 1913, p. 672.
Psicologia. - In psicologia con la parola associazione (fr. association; sp. asociación; ted. Assoziation; ingl. association) s'intende la proprietà che i fenomeni psichici hanno di richiamarsi a vicenda nel campo della coscienza, sia al medesimo momento, sia successivamente, in virtù di certi rapporti (contiguità, somiglianza, contrasto), senza intervento della volontà cosciente o anche nonostante la resistenza di essa.
La parola viene usata in due sensi: A, per indicare un atto o fatto psichico; e B, per indicare il risultato o effetto di esso.
L'associazione A si può definire, in generale, come un'attività che costituisce complessi d'elementi psichici, dotati di una certa stabilità, poiché fra essi l'associazione B stabilisce rapporti tali, da far si che, di solito, si presentino insieme e in un certo ordine alla coscienza. Questi complessi associativi, o associazioni B, sono distinti, di solito, in due grandi classi secondo la natura dei rapporti fra i loro elementi: associazioni simultanee ed associazioni successive.
Si chiamano comunemente leggi dell'associazione delle idee i modi nei quali si stabiliscono quei rapporti. Ma la parola "legge" va intesa in questo caso in senso metaforico, ché con essa si vuol designare solo una certa uniformità formale che possiamo riconoscere fra varie associazioni B, senza che abbiano nulla di costante e di perentorio e senza che indichino il reale modo di prodursi di esse.
L'associazionismo, o "teoria dell'associazione", dando all'associazione valore gnoseologico, tende a spiegare tutti i fatti psichici, anche superiori, come fatti associativi, attribuendo all'associazione A l'origine delle idee. Esso è stato seguito di preferenza dai psicofisici e dai fisiologi, perché, potendosi spiegare il meccanicismo associativo con fenomeni fisiologici del sistema nervoso centrale, questi possono spiegare così tutta la vita psichica.
Per esporre compiutamente la storia dell'associazione, dobbiamo anzitutto notare che essa s'identifica per lungo tempo con la storia della memoria, perché in realtà ai rapporti associativi sottendono sempre legami mnemonici. Infatti la distinzione fra associazioni successive e simultanee mostra che in realtà, con le prime, si è voluto designare un certo che di fisso, di stabile, che permette l'evocazione in una serie temporale costante di elementi i quali esisterebbero contemporaneamente nella nostra coscienza come ricordi, in un certo insieme di tracce spazialmente contigue. L'associazione compare (si vedano Aristotele, Malebranche e Hobbes) unitamente all'ipotesi che vi sia una continuità fra gli elementi nervosi, per cui le impressioni ricevute contemporaneamente lasciano tracce spazialmente contigue nel sistema nervoso, e questa contiguità appunto spiegherebbe la successione dei ricordi che ci appaiono quasi sempre in serie fissa. Ora, come ben rileva il James, in questo modo nulla viene spiegato casualmente: solo, il sistema nervoso fornisce un modello comodo per rappresentarsi il processo psicologico della memoria.
Passando ora alle associazioni simultanee, che sembrano implicare a prima vista un rapporto non temporale ma spaziale, notiamo che in realtà ciò che le connette nella psiche non è già la loro contiguità spaziale, ma un elemento temporale: la contemporaneità di esse. Se varî elementi appaiono come contemporanei, lo si deve al fatto che le impressioni ricevute dall'esterno persistono per un certo tempo: in modo che l'impressione immediatamente successiva si accosta alla precedente e perdura accanto a essa. Così, ad es., vediamo tutta una montagna, benché i raggi che vengono dalla base ci arrivino prima di quelli della vetta. E così vediamo e udiamo parlare una persona, cioè associamo il suono alla visione dei movimenti che essa fa parlando, solo perché le due sensazioni si collocano in tempi immediatamente vicini. In breve, possiamo considerare ogni associazione come una unificazione temporale: e allora le leggi (per chiamarle così) che reggono la memoria, reggeranno anche i rapporti associativi: ossia ogni associazione B non sarà, in fondo, null'altro che un complesso mnemonico; e, in psicologia, un modo comodo di rappresentarsi come avvenga la conservazione e l'evocazione ordinata dei ricordi. Già Cicerone osservava che gli era molto comodo, per ricordare lo sviluppo di un'orazione, connettere il ricordo dei successivi punti da svolgere, con oggetti ordinati nel loro solito modo nella sua casa.
Ma si deve sempre ricordare che questi rapporti associativi non sono cosa fissa né stabile: sul sistema delle associazioni hanno influenza moltissime forme psichiche e fra l'altro, come ha dimostrato in modo critico il Freud, elementi affettivi, ben capaci di deviare e di annullare un legame anche perentorio fra gli elementi di un complesso associativo. Il metodo d'indagine psicopatologica, da lui chiamato "associazione libera", dimostra, fra l'altro, come non si possano sempre ricostruire logicamente le ragioni del richiamo associativo.
Passando alla storia, troviamo che già Platone ha descritto chiaramente (Fedone, 73 c-74) la funzione dei rapporti associativi di somiglianza e dissomiglianza per la memoria. Aristotele, perfezionando il concetto di memoria e limitandola alle immagini sensoriali, afferma che non si ha memoria (e quindi nemmeno associazione) intellettiva che per accidente. In tal caso, prepara esplicitamente la spiegazione psicofisica dell'associazione (De memor., 2, 451 b 18-20) e ne designa le leggi principali, dicendo che la memoria agisce per il simile, per il contrario e per il contiguo, spaziale e temporale. Tralasciando i varî accenni, da S. Agostino a I.L. Vives, l'associazione come individuo psichico autonomo non compare che nel pensiero inglese del sec. XVII. Nemmeno Descartes usa la parola, benché, come poi Malebranche, veda nei rapporti fissi fra le tracce lasciate da sensazioni passate nel cervello, la causa del legame fra le sensazioni. Malebranche in particolare spiega con la contiguità spaziale delle tracce d' impressioni contemporanee la loro tendenza a risorgere insieme (Recherche de la Vérité, 1674, II, p. 1ª) e analizza la connessione per somiglianza come principale causa d'errore. Spinoza tenta di rompere questo meccanicismo psicofisico, distinguendo le connessioni dovute all'intelligenza da quelle dovute all'abitudine, mentre a queste Leibniz attribuisce la parvenza d'intelletto degli animali. Noteremo, per provare che un modello meccanicistico è alla base del concetto di associazione, che il vero associazionismo sorge con il materialismo del Hobbes. Questi distingue le connessioni psicofisiche, in cui trova l'ultima causa di ogni processo psichico, in rapporti di somiglianza, di spazio, di causalità, di conseguenza, di mezzo rispetto al fine, di segno rispetto alla cosa. Ma Locke per primo usa la parola "associazione", e precisamente, dato il suo concetto empiristico delle idee, parla di "associazione delle idee", frase che resta poi tecnica. Ma egli non pretende di derivare soltanto da essa tutte le forme psichiche; trova la sua maggior efficacia nei modi misti. Per lui l'associazione può essere dovuta al pensiero (e si hanno così le connessioni logiche) ovvero soltanto al caso e all'abitudine. In Berkeley la dottrina dell'associazione assume spiccato valore gnoseologico, specie nell'esame del giudizio visivo e nella critica dell'astrazione. Hume infine spiega tutta la vita psichica con l'associazione e ne ricerca le cause (o meglio i tipi) nella somiglianza, nella contiguità spaziale e temporale, nella causalità. Ma, come è ben noto, nella scepsi finale il rapporto causale vien ridotto a quelli di similarità e successione. Per questa via appunto tutta la vita psichica è ridotta a un giuoco d'associazioni più o meno meccaniche fra le impressioni. I successivi sviluppi dell'associazionismo attraverso James Mill, Stuart Mill, Bain, Spencer, riguardano la filosofia piuttosto ghe la psicologia e non sono accompagnati, in questi autori, da un parallelo perfezionamento della psicologia dell'associazione. Questa si ritrova piuttosto in Germania, dal Wolf (che enuncia il principio della integrazione associativa) al Wundt: mentre, d'altro lato, fino dal Leibniz il pensiero germanico si mostra contrario all'associazionismo filosofico.
La fortuna, in verità, dell'associazionismo filosofico è dovuta a cause contingenti: tra l'altre, al bisogno d'una critica a fondo della vecchia teoria delle facoltà; alla tendenza dei fisiologi di far della psicologia una branca della loro scienza e, infine, a quella semplicità apparente dell'associazionismo che può essere inteso da tutti come modello prettamente meccanico. Si noti che anche alla psicologia si deve la sconfitta di esso: fu la psicologia, infatti, a sottolineare il dato che non esistono nella coscienza fatti semplici. Fra gli altri, il Wundt rilevò che l'associazione avviene fra contenuti che alla loro volta non sono semplici, ma risultano da vere fusioni di elementi che non appaiono isolati alla coscienza. Con questa graduazione delle associazioni, si viene in realtà a demolire la pretesa semplicità dell'associazionismo.
Quanto alla spiegazione psicofisica, è evidente che, se il parallelismo psicofisico viene assunto come ipotesi comoda, se non indispensabile, alla psicologia (v. ad es. Münsterberg), ovvero, se la psiche deve avere una spiegazione fisiologica per essere comprensibile, l'associazione sarà il punto in cui il fisico e lo psichico troveranno un'ipotesi di lavoro che si giustifica. L'abbiamo già visto nel pensiero antico e nelle idee fondamentali di Malebranche e Hobbes: la teoria delle tracce contigue o di una via più battuta nel cervello, che spiegherebbe il risorgere simultaneo o successivo delle tracce lasciate da impressioni ricevute simultaneamente, o per tramiti nervosi analoghi per analogia di natura, si perfeziona dal punto di vista fisiologico con le memorande scoperte del Golgi sulla fine struttura del sistema nervoso; scoperte che gli studî successivi, dalla teoria del neurone alle più recenti indagini, non hanno fatto che completare; e con le ipotesi sui centri associativi cerebrali a cui parvero dare vita feconda le osservazioni, dimostratesi poi almeno in parte illusorie, del Flechsig.
Le innumerevoli ricerche sperimentali fatte sul problema dell'associazione o sulle diverse modalità di questa, ricerche sintetizzate nell'opera sistematica più notevole che esista (É. Claparède, L'association des idées, Parigi 1906), non hanno portato sull'argomento del fondamento fisico e fisiologico delle associazioni una luce maggiore.
La patologia mentale stessa è stata chiamata in aiuto e si è creduto di trovare in un'alterazione dei legami associativi abituali la causa precipua di alcuni particolari disturbi psichici (schizofrenia).
Ripetiamo che tutto questo può fornire una specie di modello comodo per rappresentarsi una base per l'associazione, ma non ha valore alcuno di esplicazione causale. In fondo, con ciò si finisce col dimostrare che ogni associazione può essere considerata come una specie di contiguità, variamente intesa, poiché la teoria psicofisica riduce istintivamente le più svariate associazioni alla contiguità delle tracce nel sistema nervoso. Pur superando questo, possiamo infatti ridurre tutte le forme di associazione alla contiguità.
Tale la conclusione della classica indagine del Claparède sulle cause dell'associazione, che egli afferma doversi trovare in un elemento al tempo stesso soggettivo e obiettivo quale il tempo, sicché la legge fondamentale dell'associazione sarebbe quella per la quale due o più fatti di coscienza non possono associarsi fra loro se non hanno coesistito, e inversamente, i fatti di coscienza simultanei tendono ad associarsi. Abbiamo già rilevato che contro questa asserzione non può addursi il fatto che percepiamo come simultanee sensazioni in realtà successive, poiché appunto la legge di persistenza delle immagini spiega come gli elementi successivi appaiano in realtà simultanei, cioè (proiettati all'esterno) contigui, anche nello spazio. Alla contiguità si riduce l'associazione per somiglianza, perché se un certo insieme di elementi ABCD richiama un insieme XYCZ che non può essere stato osservato insieme (ad es. due paesaggi visti in luoghi e tempi diversi), lo si deve al fatto che l'elemento C, evocato perché appartenente alla serie attuale ABCD, associa per contiguità XYZ. Spiegare poi perché si richiami la serie XYCZ e non ad es. MNCP o FRCS, dove pure esiste C, è cosa ancora impossibile: si tratta di una scelta che dipende (si pensi all'associazione libera di Freud) da elementi affettivi e forse dalla disposizione o forma nella quale primieramente ci vengono presentati gli elementi stessi, come pensa il Külpe, ecc. L'associazione per contrasto, negata da alcuni psicologi, è in realtà un ostacolo serio, se non si pensi che gli elementi psichici si ordinano di solito a coppie di opposti (alto e basso, nero e bianco, ecc.), perché non possiamo, ad esempio, pensare un basso senza riferirlo a un alto, ecc. Sicché gli elementi contrastanti, per necessità della percezione stessa, devono essere evocati uno accanto all'altro per essere percepiti. Il Bain e il Lipps hanno visto nel contrasto soltanto una forma particolare di similarità, poiché il contrasto si verifica in una certa specie (ad. es., il colore per bianco-nero) per cui gli elementi contrastanti vengono in realtà evocati insieme per la loro similarità. Inoltre il contrasto può trovare le sue ragioni profonde nella vita affettiva, nella quale regna un ritmo continuo, una vibrazione incessante (simile a quella con cui l'organismo reagisce alla fatica) per la quale ci si riposa da un'idea o immagine e dai sentimenti connessi, rifugiandoci nei loro opposti, come, nella vecchia teoria, la stanchezza del rosso fa vedere verde e così via.
Però, se l'analisi psicologica trova nel campo dell'associazione un eccellente terreno, gli studî più recenti dimostrano come fosse troppo semplicistica la concezione secondo la quale il giuoco della nostra mente sarebbe legato al fatto dell'esistenza di catene mnemonico-associative lineari più o meno numerose, ma sempre fisse. Ogni evocazione associativa è, invece, la risultante di un numero assai complesso di fattori, di sentimenti, di tendenze, di percezioni, come d'influenze dell'ambiente fisico, biologico, sociale. Non solo, ma le stesse risposte che sarebbero naturali in un determinato caso, non affiorano o almeno non vengono espresse per l'influenza inibitrice non tanto della censura freudiana, quanto d'immagini e d'idee antagonistiche che la condotta a volta a volta c'impone.
Le associazioni formano quindi il fondamentale tronco del funzionamento della nostra mente. Esse si basano sull'esistenza di legami mnemonici e sull'esperienza acquistata. Ma il nostro pensiero comporta anche un'elaborazione originale dell'esperienza, di forme di attività e di condotta particolari, grandemente favorite nella nostra civiltà, grazie al sussidio incomparabile del linguaggio.
Bibl.: La bibliografia completa relativa alla voce Associazione è straordinariamente estesa. Se ne troverà un elenco sistematico, sebbene naturalmente non completo, in É. Claparède, L'association des idées, Parigi 1906; da consultare inoltre: W. James, Principî di psicologia, trad. G. C. Ferrari, 4ª ed., Milano 1906; A. Baldwin, Dictionary of philosophy and psycology, I, Londra 1901, pp. 77-80.