Istituzioni, associazioni e classi dirigenti dall'Unità alla Grande guerra
Un curioso paradosso segna l'inizio della storia 'italiana' di Venezia. Il suo rientro nel vivo delle dinamiche storiche della nazione coincide con il suo definitivo declino politico e con la perdita del ruolo di capitale politica della regione. Sembra dunque compiersi in questo tornante della storia il tragico destino della città preconizzato da Nievo nelle pagine delle Confessioni di un italiano e più ancora in quelle - di poco precedenti - del poco conosciuto intervento su Venezia e la libertà d'Italia.
Dopo l'ingloriosa "morte" del 1797, dopo quella del 1848-1849 consumatasi nel tentativo di "un recupero di un'identità civica"(1), la città "più italiana dopo Roma"(2) conosce con il 1866 un'altra morte: quella politica. All'appuntamento con il passaggio storico che doveva sanare le ferite del passato, consacrarla come simbolo dell'unità nazionale, esaltare il senso di appartenenza ad una comune patria, Venezia giunge senza una élite all'altezza di questo compito, con una classe politica incapace di elaborare un disegno strategico per il futuro della città, pronta da subito a ripiegarsi in una dimensione meramente municipalistica, non in grado di guardare oltre i confini di quella che un tempo era stata la laguna-mondo e che in quel momento assumeva i contorni di una regione, il Veneto, dove i circuiti della politica formatisi dopo l'unificazione definiscono nuove gerarchie del potere e dove le classi dirigenti moderate avviano velocemente la lunga, ma anche controversa, marcia di integrazione nello Stato nazionale.
È sorprendente verificare che di questo passaggio del '66, così carico di significati per la storia di Venezia, non si sia colto, al di là di certa retorica risorgimentale e di qualche sforzo compiuto dalla storiografia a ridosso del centenario dell'unificazione(3), l'aspetto più propriamente legato alla crisi della politica. Le ragioni di questa rimozione sono molteplici, in larga parte ascrivibili alla pervasività, oltreché alla fortuna, del topos letterario della "morte di Venezia" e alle successive evoluzioni che esso ha conosciuto. Tra i molti esiti infausti provocati dalla morte di Nievo, al ritorno dall'impresa dei Mille, Mario Isnenghi ha giustamente sottolineato anche quelli che riguardano la rappresentazione e le autorappresentazioni di Venezia e dei veneziani(4).
Rimasta incompiuta, la lettura nieviana della "crisi" di Venezia finì nel secondo Ottocento per uscire dalla prospettiva storico-politica delle pagine delle Confessioni e dello scritto su Venezia e la libertà d'Italia, ed entrare nella dimensione metastorica del lutto e del rimpianto per il glorioso passato. A questa particolare rielaborazione del lutto si dedicarono, con diverse sensibilità e capacità, sia le schiere dei viaggiatori impegnati, nel corso di tutto l'Ottocento fino agli albori del secolo successivo, nel Grand Tour della penisola, sia, come sappiamo(5), il fior fiore dei letterati e degli intellettuali attivi in quello stesso periodo sulla scena europea: da Byron a Ruskin, da Hofmannsthal a Simmel, da Proust a Thomas Mann, per citarli in ordine sparso.
L'invasione di questa legione straniera delle arti e delle lettere intenta a strutturare il mito della Venezia decadente e cosmopolita non venne contrastata dall'altrettanto folto schieramento degli scrittori autoctoni che si impegnarono, con pari dedizione, a coltivare Venezia come luogo della memoria, come città prigioniera del passato. Ci riferiamo ai vari Antonio Carlo Marin, Leopoldo Cicognara, Emmanuele Antonio Cicogna, Agostino Sagredo, Samuele Romanin, Eugenio Musatti, Antonio Battistella, Giuseppe Tassini, Rinaldo Fulin e tutta la pattuglia degli archivisti ed eruditi operanti attorno all'Archivio dei Frari e alla Biblioteca Marciana(6), ma anche all'intellettualità varia gravitante attorno all'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e all'Ateneo Veneto, fino ad arrivare a Pompeo Gherardo Molmenti, il personaggio che meglio d'ogni altro per oltre mezzo secolo ricoprì il ruolo di "difensore di Venezia"(7).
È certo che l'incontro tra le rappresentazioni fornite dagli scrittori stranieri e le riletture della storia patria avvenute esclusivamente nel segno delle più diverse 'commemorazioni' del passato ha prodotto una grave forma di 'dissociazione permanente' dalla realtà, che ha condizionato tutta la storia dell'Ottocento veneziano(8). Gli effetti di questa dissociazione si colgono bene anche nell'atteggiamento della classe politica che dopo il '66, incapace di cogliere la portata epocale - se rapportata alla lunga parabola della storia della Repubblica Serenissima - delle prospettive apertesi con l'unificazione, pensa al futuro guardando al passato. Una classe dirigente che, salvo alcune lodevoli eccezioni di cui si darà conto più avanti, vive le ultime fasi del passaggio dall'Austria all'Italia non solo come la liberazione dallo straniero occupante, ma anche come una parentesi che precede l'apertura di una lunga crisi, come un salto verso un futuro denso di incognite.
D'altro canto non è casuale che sia proprio questa stessa classe dirigente a ergersi ad officiante di una vasta gamma di riti di commemorazione di quel passato di cui è, almeno in parte, erede, ed è altrettanto scontato che in questa particolare difesa della memoria si celino "i germi di un conservatorismo destinato a dilatarsi ben oltre i confini della polemica museale [...] divampata subito dopo l'annessione in apparente difesa dei soli equilibri urbani e architettonico-artistici della città"(9). Un conservatorismo, possiamo aggiungere, che diede a taluni lo spunto per augurare in chiave antimazziniana la salvezza dell'Italia e di Venezia dalla corona e dall'esercito e per invocare un colpo di stato(10), e che ritroviamo perfettamente rispecchiato nelle scelte compiute dopo il '66 in tema di monumentazione: mentre infatti il monumento a Daniele Manin viene realizzato in tempi molto rapidi, quello a Vittorio Emanuele II seguirà itinerari molto complessi e tra infuocate polemiche finirà, dopo varie peregrinazioni, per essere collocato in una posizione marginale come quella di riva degli Schiavoni(11). Un conservatorismo, infine, che contribuisce ad accentuare la chiusura rispetto al nuovo, cioè a tutto ciò che è nato al di fuori dei confini dello spazio urbano e politico della città - un atteggiamento questo che ritroveremo anche in altri momenti della storia otto-novecentesca di Venezia - e in questo caso il nuovo è rappresentato dalle trasformazioni della politica avviatesi con il processo di unificazione.
Ora, per cogliere il significato profondo del '66 inteso come fase in cui giunge a compimento la crisi politica di Venezia, credo occorra compiere due diverse operazioni: la prima quella, sin troppo scontata, di prendere le distanze dal suo passato; passaggio, questo, suggerito da pochi osservatori della storia veneziana(12).
Ciò significa sottolineare in maniera netta il significato simbolico del 1866 come data che segna una cesura per la storia politica del Veneto e per la storia del suo rapporto con lo Stato nazionale. È quello che Gioacchino Brognoligo evidenziò per la storia della cultura scrivendo che "non il '48 ma il '66 divide due epoche, ché la dominazione straniera fu come una cappa di piombo, la quale, se non soffocò le attività intellettuali, ne impedì la libera espansione e le costrinse in determinate direzioni"(13).
La seconda è quella di invertire il punto di osservazione sulle vicende a cavallo dell'unificazione, guardando Venezia da lontano; dalla Firenze capitale del neonato Stato unitario, in primo luogo, e secondariamente dalla terraferma veneta.
Il percorso che intendiamo seguire sarà dunque il seguente: cercheremo di definire modalità e tipologia delle relazioni che intercorrono tra centro e periferia nei mesi a ridosso dell'unificazione, mettendo in evidenza come queste dinamiche siano decisive nel condizionare su scala locale il processo di formazione del 'nuovo' sistema politico e le articolazioni territoriali del potere. I nessi tra centro e periferia si presentano, infatti, come configurazioni complesse "di cui sono protagonisti - senza gerarchie interne - soggetti, gruppi, ordinamenti e risorse"(14). Ricostruire questi nessi significa confrontarsi con il funzionamento dei meccanismi istituzionali (il sistema delle leggi e l'insieme delle magistrature) e muoversi entro due campi ben distinti, quello delimitato dai processi sociali (con le modificazioni della struttura sociale e dell'economia) e quello contrassegnato dai conflitti politici, che interessa la natura, l'azione e la collocazione dei gruppi nel sistema politico e le loro strategie.
Sulla scorta di queste considerazioni punteremo quindi a delineare il profilo della classe politica veneziana, le sue diverse articolazioni interne e i suoi legami con i gruppi di potere locali e nazionali, e le trasformazioni che essa conosce lungo un percorso cronologicamente coincidente con il periodo compreso tra il 1866 e il 1915, dentro il quale la storia politica di Venezia può essere divisa in quattro distinte fasi: quella che va dal 1866 al 1889, in cui si consuma la crisi politica della città; quella che dal 1890 arriva fino al 1895, caratterizzata da una rottura degli equilibri politici postunitari; quella che dal 1895 arriva al 1909, segnata dal dominio del 'doge' Grimani, in cui invece si assiste ad una 'rinascita' della politica cittadina e Venezia non solo recupera un ruolo nel contesto regionale, ma si trasforma in un laboratorio politico di importanza nazionale che anticipa formule e soluzioni politiche che verranno sperimentate altrove con parecchi anni di ritardo; infine la fase che va dal 1909 al 1915, in cui assistiamo ai primi segnali di declino della classe dirigente liberale, all'emergere di nuove figure, alla continua crescita dei socialisti e alla precoce affermazione del nazionalismo.
Il futuro politico di Venezia 'italiana' si gioca in pochi mesi tra l'estate e l'autunno del 1866 su due fronti: esterno e interno. Mentre, infatti, l'attenzione dell'opinione pubblica era totalmente rivolta all'evoluzione delle vicende militari, proseguivano a pieno ritmo i contatti tra il governo Ricasoli e gli esponenti dell'emigrazione veneta per definire i futuri assetti amministrativi della regione. Di questi argomenti parla la lettera che Andrea Meneghini scrisse il 30 maggio 1866 ad Alberto Cavalletto, il leader riconosciuto dell'emigrazione:
Fusinato mi diceva come da persona, che credeva incaricata dalla casa del Re, fosse stato interrogato se la nomina di Pepoli a commissario regio a Venezia riuscirebbe gradita al paese; come non si fosse riservato di interrogare gli amici [...].
Meno ingenuo di lui sospettai subito che la pratica, anziché dalla Casa del Re, muovesse dallo stesso Pepoli, del quale conosciamo le aspirazioni ambiziose, e mi confermai in questo giudizio analizzando alcuni indizii avuti dallo stesso Fusinato, che terminò col dividere il mio avviso [...]. Certo il Pepoli sarebbe di gran lunga preferibile al Boggio, del quale si parla molto, ed anche al Rattazzi. Ma appunto il peccato del Pepoli si è quello di essere troppo legato collo stesso Rattazzi e con quella vera consorteria detta terzo partito(15).
Le trattative continuarono nelle settimane e nei mesi successivi e si fecero sempre più serrate man mano che si avvicinava il momento delle scelte decisive. Sulla nomina dei commissari regi, che restava la questione più delicata da risolvere, Meneghini e Cavalletto tornarono spesso nel loro lungo scambio epistolare. In una missiva del 12 giugno 1866, Cavalletto riprese l'argomento con una serie di precisazioni che avevano tutta l'aria di rappresentare una sorta di diktat per il governo centrale. Scrisse infatti l'esule padovano:
Io desidero che in Istria e nel Veneto vadano commissari regii uomini non legati da rapporti di nascita o di lunga dimora con quei paesi; i commissari regi devono essere uomini politici che, e in fatto e in apparenza, siano tenuti imparziali e superiori a influenze e interessi di luoghi e di persone; e s'abbiano a consultare uomini degni dei paesi nei quali saranno mandati(16).
Meneghini rispose di essere sostanzialmente d'accordo sulla richiesta imparzialità dei commissari, ma sottolineò anche l'esigenza che le nomine di questi funzionari dello Stato non dovevano alterare gli equilibri tra i diversi schieramenti ed affermò di voler puntare su persone "superiori ad influenze e interessi di consorterie e regionismo"(17) per evitare che si ripetesse anche nelle Venezie quanto si era verificato in Lombardia nel 1859(18).
Il dialogo con gli esponenti del governo centrale proseguì ulteriormente, assumendo sempre più chiaramente il carattere di un'aperta contrattazione che riguardava tutto il personale da inserire nelle nuove strutture amministrative. Il caso di Venezia rimaneva, poi, uno dei nodi di primaria importanza da cui dipendeva la soluzione di tutte le altre situazioni più importanti dello scacchiere regionale. Ciò risulta evidente dalla seguente missiva che sempre Meneghini inviò a Cavalletto il 17 giugno 1866:
Ieri Arnaldo [Fusinato] venne a riferirmi di aver parlato con Celestino Bianchi, che sarà il segretario generale di Ricasoli, e di aver rilevato che non si avrebbe intenzione di mandare nella Venezia un commissario regio generale per tutte le provincie, ma bensì uno per ciascuna, che vi fungesse come le funzioni di prefetto con quelle maggiori attribuzioni che sarà del caso. Presso il Ministero dell'Interno sarebbe poi costituita una Giunta dei Veneti che sarebbe consultata per tutte le disposizioni da prendersi in quelle provincie. L'idea è forse buona [...]. Ma quello che non andrebbe a' versi sarebbero i nomi di quelli da' quali s'intenderebbe costituire quella giunta e che sarebbero tolti dalla emigrazione. Io penso che gli uomini capaci di quell'ufficio s'abbiano a cercare tra sfrattati dal Veneto, ne' quali si contano p.e. un Lampertico, un Gregoretti ed altri tali(19).
La risposta di Cavalletto non si fece attendere. Due giorni più tardi l'ingegnere padovano rispondeva all'amico con un dettagliato elenco di nomi, divisi provincia per provincia, che proponeva per la costituenda giunta consultiva comprendente, tra gli altri, anche quelli dei veneziani Angelo Papadopoli e Giovanni Battista Giustinian(20). Egli in sostanza, come confermano altre lettere risalenti a quei giorni, stava predisponendo un vero e proprio piano di occupazione dello 'spazio amministrativo' che era il vero obiettivo dei moderati veneti; un obiettivo che non poteva non creare forti divisioni al loro interno.
Il gioco delle mediazioni e delle contrattazioni durò tutta la fase della guerra con l'Austria, e si prolungò fino alla nomina dei commissari regi, tra un crescendo di polemiche che portarono ad una profonda frattura tra gli stessi protagonisti di questa 'trattativa' con il governo centrale: da una parte Cavalletto che per la selezione degli amministratori e del personale da inserire nei ranghi della nuova burocrazia proponeva criteri rigidi - ispirati alla conoscenza delle problematiche amministrative e, soprattutto, al "patriottismo" dimostrato nei lunghi anni di "preparazione" -, dall'altra Meneghini più malleabile e disponibile ai compromessi con le consorterie locali.
Il banco di prova decisivo sul quale le diverse correnti moderate si misurarono fu quello della nomina dei commissari regi. Figure del tutto simili a quella del prefetto, con la sola eccezione, come vedremo di seguito, proprio di Venezia, i commissari regi (il nome riprende quello usato nel 1860 per i funzionari inviati nelle Marche e nell'Umbria) esercitarono un ruolo chiave nei rapporti tra centro e periferia durante tutta la fase di transizione ai nuovi ordinamenti. Tuttavia, mentre nel 1860 i commissari svolsero compiti tipici da 'governo provvisorio', nel '66 non solo si volle evitare di attribuire loro poteri di questa natura(21), ma "si ebbe cura di non far nascere alcuna parvenza di organismo regionale"(22). Conseguentemente a questo indirizzo, il governo decise di non nominare un commissario generale per tutto il Veneto, ma singoli commissari per ciascuna provincia. Questi furono nominati con regio decreto del 18 luglio, ad eccezione delle province di Verona e Venezia per le quali, causa la definizione delle clausole territoriali della pace con l'Austria, il decreto fu emanato addirittura il 13 ottobre.
Per Venezia la scelta cadde proprio su quel Giuseppe Pasolini(23) nei confronti del quale i giudizi degli uomini dell'emigrazione non erano stati particolarmente lusinghieri. L'esito finale della vicenda confermerebbe, dunque, la complessità e contraddittorietà delle relazioni che Stato e società si scambiano nelle fasi decisive che precedono l'unificazione. Da un lato infatti il governo 'tratta' con i rappresentanti dei comitati dell'emigrazione, cerca di trovare un'intesa per concordare i passaggi più delicati necessari ad avviare l'attività delle nuove istituzioni amministrative, dall'altra decide d'imperio la scelta del commissario in base a logiche centralistiche e secondo una prassi tipica dell'autoritarismo liberale che tende a subordinare ogni articolazione della società alla propria sovranità giuridica(24).
Questo tipo di atteggiamento nasconde anche una percezione della situazione veneziana completamente lontana dalla realtà. Quando nel settembre 1866 Ricasoli - in barba agli accordi che in quel momento si stavano definendo con gli esponenti dell'emigrazione - rinnovò la proposta a Pasolini di assumere l'incarico di commissario nella città lagunare(25), descrisse una Venezia che ormai non esisteva più:
Non voglio tacerti la sorpresa fattami dalla tua lettera del 16. Io ho inteso che tu avessi accettato di essere il Commissario del Re a Venezia, e ne ho esultato meco stesso parendomi che non vi fosse persona più idonea di te, e lieto eziandio che tu potessi avere questa occasione ancora di servire la patria in un così prezioso acquisto, quale si è la bella Venezia. La tua esitanza non mi pare sia in nulla giustificabile. L'ufficio di Commissario del Re non può essere che di pochi mesi; quindi tu sarai libero [...]. Che la Venezia non abbia nessuna straordinaria difficoltà di Governo lo prova il fatto che già sei Commissari operano regolarmente da due mesi. Venezia (città) è sotto ogni aspetto la più governabile delle altre, come sotto ogni aspetto è molto interessante dimora(26).
Nominato il 13 ottobre, Pasolini prese possesso della città solo il 20 dello stesso mese, un giorno dopo l'ingresso delle truppe italiane che aveva posto fine alle difficili trattative con i rappresentanti del governo francese per il definitivo passaggio dei poteri(27).
L'attività di questo funzionario di lungo corso si prolungò ben oltre le iniziali previsioni e fu caratterizzata da una serie di responsabilità e incombenze di carattere 'centrale' - diverse quindi da quelle attribuite a tutti gli altri commissari - che in larga parte rispecchiavano le funzioni ricoperte da Venezia nel sistema amministrativo asburgico(28). Inoltre la situazione che egli trovò al suo arrivo fu ben diversa da quella descritta nella lettera di Ricasoli. Nelle settimane che avevano preceduto la venuta del commissario regio, non erano mancate le intemperanze da parte dei soldati austriaci nei confronti della guardia nazionale e della popolazione civile. Un osservatore privilegiato come l'assessore comunale della giunta 'italiana' Angelo Papadopoli aveva scritto a Ricasoli:
Ella ben sa che siamo in una posizione malaugurata: le autorità politiche austriache più non governano, ma credo sarebbero felici di suscitare o fomentare disordini che dovrebbero poi venir repressi anche colle armi dagli stessi cittadini. Il generale Alemann, per esempio, esortava l'altr'ieri le guardie nazionali a spargergli un po' di sangue per isgombrare delle meschine riunioni che si formavano in piazza San Marco e non avevano alcun carattere allarmante [...](29).
Preoccupanti erano anche le condizioni igieniche per il diffondersi del colera, al punto che un luminare del settore come il dottor Giacinto Namias - appositamente interpellato dal governo - aveva consigliato di procrastinare la visita del re Vittorio Emanuele II, programmata per la prima settimana di novembre(30).
Ma la situazione sicuramente più intricata, e quindi più difficile da gestire sul piano politico e diplomatico, era quella delle due giunte amministrative. La complicata e, per molti versi, tragicomica vicenda era iniziata nel marzo del 1866 allorché il conte Pierluigi Bembo Salomon, ultimo podestà austriaco(31), rassegnò le dimissioni dall'incarico in seguito ad un violento litigio con il luogotenente imperiale e rappresentante del governo austriaco Georg von Toggenburg. Con Bembo, preoccupato di rifarsi una reputazione di fronte agli ambienti impegnati nella lotta per l'indipendenza(32), diedero le dimissioni anche gli altri assessori in carica (Marcantonio Gaspari, il conte Giovanni Pietro Grimani, Luigi Visinoni, il conte Antonio Giustiniani Recanati e Giacomo Ricco).
Le autorità austriache, accettate le dimissioni, acconsentirono alla nomina di una nuova giunta che il consiglio effettuò il 29 maggio 1866. Sfidando apertamente i governanti stranieri il consiglio indicò Antonio Fornoni, i conti Angelo Papadopoli, Francesco Donà dalle Rose, Luigi Michiel e Giacomo Ricco(33), l'unico presente nella precedente giunta. Trattandosi di personalità sgradite al governo le nomine non furono approvate e da quel momento per cinquanta giorni a Ca' Farsetti furono contemporaneamente presenti ed operative due giunte: una, filoaustriaca, con gli assessori dimissionari guidati da Marcantonio Gaspari, l'altra, filoitaliana, che rivendicava il diritto di rappresentare la città nella fase di transizione, che dopo la firma dell'armistizio di Cormons era diventata una possibilità meno remota. Di fatto i due organismi lavorarono sotto lo stesso tetto, utilizzando gli stessi funzionari e gli stessi apparati, seguendo le stesse procedure amministrative.
Limitiamoci per il momento ad alcune osservazioni sull'atteggiamento del governo centrale rispetto a questa specifica vicenda. Mentre infatti da parte della giunta italiana erano pervenute a Ricasoli ampie rassicurazioni circa la disponibilità a trovare un modus vivendi tale da consentire una convivenza tra i due organismi(34), controversa fu la posizione del governo che evidentemente, tramite i propri emissari, puntava a trovare un punto di mediazione tra le due giunte. Qualcosa traspare da un'altra missiva dello stesso conte Angelo Papadopoli sempre a Ricasoli, un testo doppiamente interessante sia per la descrizione della situazione della città, sia per quanto concerne la specifica questione amministrativa. Scriveva Papadopoli:
Ricevetti pochi giorni or sono la sua riverita lettera, essendomi nel frattempo recato a Venezia per seguire il consiglio suo, e perché si diceva essere in pericolo la tranquillità pubblica. Con molto piacere ho potuto convincermi cogli occhi miei della esagerazione de' racconti fatti dai giornali e dai veneziani, che incontrai per caso in Padova. Venezia fu sempre una città dignitosamente seria, e tenuto conto della naturale esacerbazione prodotta da una condizione anormale così prolungata, della progrediente miseria, della continua minaccia di un'epidemia attribuita, ed a ragione, all'incuria malvolente del governatore militare, della petulanza usata testé dagli agenti austriaci di polizia, oggi pure possiamo chiamarci contenti dello spirito pubblico. Se dal di fuori non ci capitano elementi di disordine, colla Guardia nazionale, che è già organizzata, e col buon volere de' migliori credo che non correremo il menomo pericolo.
La ringrazio anche per incarico de' colleghi miei, del plauso, ch'ella sig. Barone, fece alla concordia stabilitasi fra noi e il vigente Municipio. Anzi lo serviremo con tutto lo zelo, sino a unione fatta, cercando di ovviare, e nutro fiducia che arriveremo, tutti gli inconvenienti possibili.
Ma non credo opportuno minimamente, considerato lo spirito pubblico di Venezia, una fusione col vecchio Municipio, la quale non potrebbe, che esautorarci del tutto, e paralizzare ogni nostra azione. Comprendo, che il cav. Gaspari e più gli amici suoi, sieno desiderosi di cercare in noi gli elementi di vitalità che loro mancano, ma non ci è permesso aver di mira che il pubblico bene.
Martedì sarò a Firenze con il principe Giovanelli incaricato di presentare un indirizzo de' veneziani al Re per l'immediato ingresso delle truppe italiane a Venezia [...](35).
Anche se i tentativi compiuti per giungere ad una 'fusione' tra le due giunte non trovano alcun riscontro documentario, è lecito pensare che si tratti di un'ipotesi più che plausibile. Quello che invece appare certo è il riconoscimento che in più occasioni il governo italiano diede alla giunta filoaustriaca attraverso il conte Vimercati. Egli lodò, ad esempio, l'attivismo della giunta guidata da Gaspari nel bloccare la vendita che gli austriaci avevano avviato di importanti oggetti di "decoro cittadino e di utilità commerciale", la sottrazione di materiali archivistici dall'Archivio dei Frari e dalla Biblioteca Marciana e di dipinti di "celebri autori". Il rappresentante del governo segnalò anche che la giunta, dietro iniziativa delle autorità centrali, aveva provveduto all'acquisto dalle autorità austriache di alcuni macchinari per lo scavo della laguna e dei porti, di tutti gli oggetti della Zecca, degli utensili e delle macchine dell'Arsenale.
Il governo centrale tentò inutilmente di districare una matassa che si era fatta sempre più aggrovigliata, oscillando tra il richiamo alla legalità, la ricerca di un accordo tra i due organismi e la preoccupazione di non alterare i rapporti con le potenze straniere coinvolte nelle trattative finali per la cessione del Veneto senza, tuttavia, riuscire a giungere ad alcuna soluzione.
La "disgustosa vertenza" dei due "reggimenti" comunali - come venne battezzata dalla "Gazzetta di Venezia" - riassume emblematicamente tutta la complessità e la eccezionalità di una situazione che rese il passaggio dei poteri particolarmente lento; una lentezza esasperante che indubbiamente finì per favorire l'attendismo della gran parte della classe dirigente, che aveva seguito con distacco la fine della dominazione austriaca e si preparava a scegliere le nuove alleanze su cui puntare per garantire una transizione al nuovo ordinamento senza scosse e consolidare all'interno del ceto politico il blocco moderato, emarginando le posizioni dei "patrioti" che si erano battuti per la causa nazionale.
La partita che si gioca in queste delicate fasi si sviluppa su due piani apparentemente distinti ma in realtà fortemente intrecciati: quello istituzionale e quello politico. Dietro i passaggi formali e i riti ufficiali imposti dall'urgenza della situazione e dalla necessità di sanzionare sul piano simbolico i valori fondanti della nazione italiana, si combatte una battaglia politica che ha come posta in gioco il futuro assetto del potere cittadino.
Collocandosi nel mezzo di queste dinamiche, l'azione del commissario regio rappresentò un punto di osservazione particolarmente importante per ricostruire questi passaggi. Vediamo dunque più da vicino come si svolsero quelle convulse giornate dell'autunno 1866.
Il senatore Giuseppe Pasolini arrivò in città la sera del 20 ottobre. Partito in mattinata con un treno speciale da Imola, era giunto, accolto da una piccola folla, fino alla stazione di Pontelagoscuro dove ad attenderlo vi era una carrozza. Di lì, attraversato il Po, era partito alla volta di Venezia. L'ingresso nella città avvenne quasi in incognito.
La gondola che lo portava alla sua residenza "percorse silenziosa il Canal Grande"(36) e si fermò davanti a palazzo Corner che fino a poche ore prima era stato l'elegante residenza dei governatori austriaci. Dell'antico splendore il rappresentante dello Stato italiano trovò ben poco. Gli austriaci avevano infatti spogliato il palazzo di ogni arredo, lasciandolo disadorno e inospitale.
Ci volle qualche giorno prima che il commissario regio potesse disporre di un comodo appartamento ed allestire il suo quartier generale. Ma non vi era tempo da perdere, le scadenze incombevano: il 21 ottobre cominciarono le prime consultazioni con il ricevimento dei rappresentanti dei pochi organismi ancora nel pieno delle loro funzioni lasciati dagli austriaci. Si trattava di pochi uffici(37), di una struttura amministrativa che, come confermano fonti insospettabili per il loro collaborazionismo, presentava carenze gravissime, con impiegati non retribuiti da tempo(38).
Nello stesso giorno Pasolini si presentò ai veneziani con un proclama affisso ai muri della città nel quale esaltava il significato della missione della dinastia sabauda ("m'invia quel Re la cui vita fu consacrata alla indipendenza nazionale, e il cui valore sui campi di battaglia non ha pari che nella sua lealtà") e tributava un omaggio all'unicità veneziana ("vengo in una Città a niun'altra seconda nel mondo per memorandi fasti di armi, di politica, di scienza, di commercii, di arti").
Il 22 ottobre con la convocazione del plebiscito si realizzava il primo importante passaggio di un ciclo comprendente il rinnovo delle rappresentanze comunali e provinciali e le elezioni politiche, con il quale il governo centrale dava un impulso decisivo alla formazione del sistema politico e alla selezione del ceto politico. A favore del 'sì' si espressero tutti i protagonisti della vita politica cittadina compreso il discusso patriarca Trevisanato, quotidianamente attaccato per le posizioni filoaustriache che aveva fino all'ultimo mantenuto. Le operazioni di voto si svolsero in un clima di grande animazione - cortei percorrevano le strade cittadine esibendo coccarde tricolori - ma senza alcun incidente. Come in tutte le altre province venete(39), e come avevano previsto tutti gli osservatori stranieri presenti in quei giorni(40), anche a Venezia il risultato fu scontato: i veneziani che si recarono a votare furono 34.126 (sui 34.601 aventi diritto), si espressero a favore in 34.004 (con soli 7 voti contrari e 115 nulli)(41). La proclamazione dei risultati generali dei plebisciti delle province venete avvenne il 27 ottobre con il discorso, pronunciato dal grande verone di Palazzo Ducale, del giurista vicentino Sebastiano Tecchio, già presidente del Comitato veneto centrale dell'emigrazione.
La grande partecipazione di popolo che anche a Venezia accompagnò questo evento(42) dimostra che, seppur privi di qualsiasi "funzione di costituente"(43), i plebisciti rappresentarono un passaggio di notevole rilevanza per un duplice ordine di motivi: l'imponenza dei mezzi di propaganda usati e l'impegno dei commissari regi - a cui, nel caso del Veneto, fa da contraltare il disinteresse del governo centrale - conferirono a questo momento una precisa valenza pedagogica e quindi una forte rilevanza politica(44); in secondo luogo i plebisciti assunsero un valore altamente simbolico di celebrazione del primo rito pubblico di massa dopo la conclusione della rivoluzione borghese del 1848-1849(45).
Chiusa la fase delle celebrazioni, il commissario cominciò a dedicarsi al riassetto delle istituzioni locali. Procedendo con analoga rapidità ma soprattutto guidato da una grande prudenza, il 29 ottobre Pasolini nominò il conte Giovanni Battista Giustinian alla guida della giunta 'ombra' già operante da marzo.
Il profilo di questo patrizio cinquantenne corrispondeva alla perfezione alle esigenze politiche del momento. "Liberale temperato di non grande levatura", gradito ai "patrioti", Giustinian poteva vantare tra le sue benemerenze l'amicizia con Manin, la partecipazione all'Assemblea rivoluzionaria del 1848-1849, e l'impegno nelle file dell'emigrazione, prima a Torino e poi dal 1859 a Firenze. La sua nomina, da tempo decisa dallo stesso Ricasoli(46), corrispondeva, come vedremo più avanti, ad una 'investitura' per le prime elezioni amministrative che si sarebbero tenute nel mese di dicembre.
Il 30 novembre il commissario regio provvedeva alla nomina della nuova congregazione provinciale(47) con un intervento che in questo caso fu più radicale. Tutti i membri della congregazione, ampiamente compromessi con il vecchio regime, furono infatti sostituiti. Al posto dei vari Marc'Antonio Grimani (deputato dei nobili), Girolamo Venanzio, Venceslao Martinengo, Giovanni Conti, Pietro Zen (deputati dei non nobili), Alvise IV Pietro Mocenigo (deputato della città di Venezia), furono nominati Alessandro Blumenthal, Ferdinando Callegari, Domenico Dall'Acqua, Girolamo Costantini, Francesco Fabris, il principe Giuseppe Giovanelli, Isacco Pesaro Maurogonato e il conte Luigi Revedin(48).
Anche in questo caso è possibile notare come la selezione del ceto politico operata dal commissario porti alla ribalta nomi destinati ad occupare per lungo tempo le cronache della vita politica cittadina ai più diversi livelli. Dopo questi primi interventi che ridefinirono il profilo delle élites cittadine impegnate nelle due istituzioni rappresentative più importanti (Comune e congregazione, ovvero l'organismo che di lì a qualche mese si sarebbe trasformato nella Provincia), appare inoltre chiara la filosofia di fondo che aveva ispirato l'azione del commissario regio: l'obiettivo prioritario - che come sappiamo corrispondeva ad un preciso input impartito dai vertici governativi(49) - era quello di garantire un passaggio ai nuovi ordinamenti il più possibile indolore e nel segno della continuità. Ciò comportò, nonostante gli ampi poteri conferiti ai commissari regi(50), l'adozione di una linea 'morbida' rispetto al problema delle epurazioni che alla fine colpì solo i consiglieri di luogotenenza, i consiglieri e i commissari superiori di polizia, di cui fu decretata la cessazione da ogni ufficio.
In pratica degli impiegati inseriti negli organismi soppressi, tenuto conto che quelli di grado più elevato seguirono le truppe austriache, solo un terzo fu espulso dal servizio; i rimanenti entrarono a far parte del personale dei nuovi uffici che il commissario stava riorganizzando e cioè l'ufficio di stralcio, gli uffici della congregazione e ragioneria provinciale, il commissariato regio. L'unico ufficio a non utilizzare questo personale fu quello di questura che fu costituito quasi interamente da funzionari, provenienti da altre regioni, messi a disposizione direttamente dal Ministero dell'Interno(51).
L'adozione di questa linea ispirata alla massima cautela e moderazione trovò in Pasolini uno zelante interprete, non insensibile - con tutta probabilità - alle pressioni delle élites locali che tentarono di difendere le posizioni di potere acquisite e, in parte, rafforzate nella fase di transizione. Spesso la mancata epurazione dei funzionari e dei notabili filoaustriaci si accompagnò con la discriminazione politica e l'emarginazione degli elementi politicamente più avanzati e degli uomini del partito democratico(52). In definitiva, al di là delle rassicuranti e autocelebrative affermazioni che Pasolini rilasciò a distanza di anni commentando l'esperienza veneziana(53), questi passaggi provocarono una profonda frattura tra le forze liberali ed in particolare all'interno del campo moderato.
Il problema covava già da alcuni mesi. Una parte del fronte moderato, con in testa il padovano Alberto Cavalletto, premeva sul governo per una epurazione profonda dei funzionari compromessi. Lo stesso Cavalletto nei mesi precedenti la liberazione aveva raccolto, tramite la rete dei suoi corrispondenti, un dettagliato dossier sul personale statale delle province venete, che aveva trasmesso al governo. Da Firenze, invece, non arrivarono segnali di particolare attenzione verso questo problema; prevalse un atteggiamento attendista che fece dire al leader del Comitato centrale dell'emigrazione: "Mi fa meraviglia che a Firenze non abbiano consegnato ai Commissarii regii i prospetti informativi sugli impiegati delle Provincie nostre, ch'io consegnai a Meneghini e ch'egli presentò alla Commissione consultiva pel Veneto"(54).
Insomma, già quando si profilava all'orizzonte la visita del re che doveva costituire il momento di più alta coesione delle forze politiche attorno al rappresentante della dinastia che aveva guidato il processo di unificazione, e di fatto chiudere il ciclo "delle memorabili giornate dell'autunno 1866"(55), il campo politico moderato presentava al suo interno profonde fratture, destinate ad allargarsi nel corso del tempo.
Vittorio Emanuele II arrivò alla stazione di S. Lucia la mattina del 7 novembre 1866, salutato dai colpi dell'artiglieria del forte di Marghera e accolto dalle autorità cittadine con in testa Sebastiano Tecchio e il commissario regio Pasolini. Come viene segnalato da diverse fonti, la visita reale fu accompagnata da una grande partecipazione popolare. Sin dalle prime ore del mattino il Canal Grande era stato preso d'assalto da una moltitudine di imbarcazioni di ogni genere; le fonti di polizia segnalano, poi, che lungo tutto il percorso le fondamenta, le finestre e persino i tetti delle case si erano riempiti di persone in attesa di acclamare il passaggio del re(56).
La città si era preparata con grande cura all'evento. Le autorità comunali avevano cercato di non far venire meno alla città "la fama di regale ospitalità di cui sempre godette", ma avevano anche dovuto fare i conti con le gravi difficoltà economiche in cui si trovava l'amministrazione. Alla fine, come successivamente ebbe a scrivere l'assessore Antonio Berti, prevalse l'idea "di tenerci al giusto mezzo, così che né si avessero a profondere sperticate somme in ispettacoli grandiosi, straordinarii, né avessero poi a comparire dinanzi all'Europa avvolti nei soli cenci della miseria"(57).
Con l'aiuto delle autorità provinciali e con l'impegno profuso dai cittadini nell'addobbare gli spazi pubblici e le barche coinvolte nelle varie manifestazioni, le autorità comunali riuscirono ad allestire le scenografie adatte a far da sfondo alla grande parata che per sette giorni si svolse nella città lagunare. Si trattò in effetti della celebrazione della prima grande liturgia civile nel Veneto liberato e della esibizione della forza, simbolica e reale, del neonato Regno.
Cosa questo comportasse in termini organizzativi, fu subito chiaro agli amministratori comunali i quali dovettero far fronte ad un notevole afflusso di veneti di terraferma e di forestieri richiamati a Venezia dal programma delle feste nazionali e soprattutto dovettero, con grande fatica, prendersi cura di tutto il codazzo di persone al seguito della famiglia reale e della corte, del corpo diplomatico, dei senatori e dei deputati, dei rappresentanti delle città italiane e di un numero elevato di ospiti illustri. Mentre per l'accoglienza di visitatori comuni furono allertate tutte le strutture ricettive (dagli alberghi, alle locande, alle semplici affittacamere) e furono addirittura investite 7.000 lire per aprire una nuova trattoria - affidata alla gestione di un privato cittadino - in grado di sfornare 900 pasti, per le autorità e gli ospiti più importanti furono messi a disposizione appartamenti nel Palazzo Ducale, nel palazzo Foscari e in altre prestigiose dimore(58).
Accompagnato dai ministri e dai figli Umberto e Amedeo, il sovrano percorse il Canal Grande "tra il deliro della folla commossa e frenetica"(59) a bordo di una imbarcazione progettata per l'occasione dall'architetto Giambattista Meduna che aveva destato qualche perplessità, non tanto per la forma quanto per la scelta di ornarla con un leone senza libro, particolare questo che aveva fatto scatenare le proteste dei clericali. A parte queste scaramucce, l'impatto scenico, ben raffigurato in un famoso dipinto(60), fu sicuramente d'effetto. La splendida lancia, luccicante d'oro, "che pareva un tempio galleggiante", condotta da 18 rematori vestiti "del pittoresco costume del secolo XV"(61), scortata da un corteo di gondole, solcò le acque del Canal Grande fino a Palazzo Ducale dove il notaio Bisacco consegnò a Vittorio Emanuele II il rogito originale con cui nel 1848 Venezia si era consegnata per la prima volta ai Savoia. Concluse le cerimonie ufficiali, l'attenzione del sovrano e dei veneziani che gremivano piazza S. Marco fu catturata dai prodigi dell'illuminazione artificiale.
Da quel momento per i sei giorni successivi la città fu attraversata da continui festeggiamenti, con serenate, balli mascherati, spettacoli di gala alla Fenice e l'eccezionale ripristino del carnevale. A parte qualche falso allarme per il pericolo di un attentato, il soggiorno del sovrano proseguì senza alcun incidente fino alla partenza avvenuta il 14 novembre. Tra gli ultimi atti solenni compiuti da Vittorio Emanuele II vi fu la consegna, alla presenza dei superstiti delle battaglie del 1848-1849 e del 1859, della medaglia d'oro al valor militare alla bandiera del Comune.
La sbornia provocata da questa full immersion patriottica di taglio nazional-popolare, nella quale si celebrò il valore della monarchia quale perno centrale del nuovo Stato e simbolo dell'unificazione nazionale, passò velocemente. Ben presto tutta l'attenzione dell'opinione pubblica e dei principali attori politici ritornò a concentrarsi sui problemi economici e sociali della città.
Al commissario regio cominciarono ad arrivare rapporti molto allarmanti sulla situazione di alcuni settori. Naturalmente le preoccupazioni più forti erano legate ad un possibile peggioramento dell'ordine pubblico. Tre giorni dopo la partenza del re da Venezia, Pasolini ricevette la seguente segnalazione:
La deficienza di lavoro per alcune classi di operai potrebbe essere causa di funeste conseguenze in linea di ordine pubblico.
Sono infinite le istanze che vengono giornalmente fatte a questo ufficio ora dall'una, ora dall'altra classe di operai e giornalieri, e questa mane si sono presentati quasi in massa cinquanta individui che sono rimasti senza pane per essere stati sospesi i lavori di spurgo del molo di questa città(62).
Nei giorni successivi giunsero alla questura, dai vari ispettori di polizia, molti altri rapporti dello stesso tenore. Dal sestiere di S. Croce si segnalava la situazione di tensione esistente tra le lavoratrici della Manifattura Tabacchi(63), da quello di S. Marco venivano segnalati assembramenti di disoccupati davanti alla sede municipale.
Le stesse fonti di polizia, oltre a segnalare la problematica situazione degli addetti ai mulini a vapore, fornivano, di seguito, anche qualche ragguaglio sul clima politico determinatosi con le prime elezioni politiche:
Mi si dice che quel partito che patrocinava l'elezione del conte Bembo a deputato, od almeno la parte più nera di quel partito, volesse organizzare una dimostrazione onde protestare per la non riuscita di quella candidatura. Si dice che sempre quella frazione di partito si sforzi a creare imbarazzi al municipio onde rendere necessaria la presenza del Bembo in quell'amministrazione(64).
Lo stesso commissario, dopo aver per giorni puntualmente informato il presidente del Consiglio Ricasoli sull'andamento delle manifestazioni popolari in occasione della visita reale(65), fu costretto ad abbandonare i toni trionfalistici sino a quel momento usati e cominciare a descrivere un''altra' Venezia. All'indomani delle elezioni politiche Pasolini nei suoi periodici rapporti iniziò a parlare del progressivo aumento della disoccupazione che in particolar modo interessava i reduci dell'emigrazione e i volontari congedati. Nonostante l'apertura da parte del Municipio di alcuni cantieri, forte rimaneva nelle parole del commissario regio la preoccupazione per il peggioramento dell'ordine pubblico.
Secondo Pasolini sarebbero occorsi altri lavori pubblici "come i lavori delle escavazioni lagunari, della casa dell'industria, della fabbrica dei tabacchi"; provvidenziale sarebbe risultata, inoltre, la progettata continuazione della strada ferrata all'interno della città.
L'analisi del più importante funzionario governativo presente in quel momento a Venezia non andava oltre i pericoli provenienti da un tessuto sociale sottoposto alle pressioni di una così grave crisi economica:
Ciò che ora più preoccupa è l'elemento facinoroso che, come di solito avviene, si è mescolato ai reclamanti non aventi lavoro. Tale elemento è composto a quanto pare [...] da molti garibaldini e reduci dell'emigrazione e inoltre da molti individui pregiudicati che furono, per ordine dell'autorità giudiziaria, non da molto dimessi dalle carceri [...]. Certo è che contemporaneamente agli assembramenti degli operai vennero fuori indizi di qualche agitazione d'altra natura. Una dimostrazione, che venne prevenuta, volevasi fare contro il conte Bembo in seguito alla non riuscita della sua candidatura a deputato. E d'altra parte si assicurava che i fautori stessi del Bembo provocassero o almeno approvassero le dimostrazioni degli operai che in certo qual modo varrebbero a screditare l'attuale municipio ed a mostrare migliore la cessata amministrazione municipale, di cui fu capo il Bembo(66).
Il rapporto focalizzava i punti di maggiore sofferenza di una struttura economica che con l'unificazione era entrata in profonda crisi. L'antico splendore era ormai offuscato dai segni della decadenza economica e commerciale(67). Un pezzo dopo l'altro tutti i capisaldi del sistema produttivo veneziano erano entrati in crisi: l'Arsenale, messo in ginocchio dalla politica di smobilitazione attuata dagli austriaci, la Zecca, la Manifattura Tabacchi. La frattura commerciale consumatasi negli anni della dominazione austriaca con la terraferma(68) contribuiva inoltre ad accentuare la gravità di questa situazione.
Il punto di vista delle autorità governative coglieva, in realtà, solo un aspetto delle complesse problematiche che interessavano il futuro di Venezia. Era questo, in effetti, il tema al centro del dibattito apertosi tra le classi dirigenti veneziane nei mesi a cavallo dell'unificazione. Timori, aspettative e speranze sul ruolo della città nel contesto regionale ed extraregionale, sul suo risanamento e rilancio economico, sull'ammodernamento del porto e dei principali servizi cittadini(69) occuparono uno spazio consistente nella vasta pubblicistica che uscì in quei mesi. Le tribune più importanti sulle quali si sviluppò questo dibattito(70), che impegnò giornalisti, politici ed imprenditori, furono i giornali e le riviste(71); il nocciolo di gran parte dei ragionamenti sul futuro di Venezia era costituito dalla necessità del rilancio commerciale e quindi in primo luogo dal problema di ridare competitività al porto nei confronti di quello triestino. Ciò significava ricollocare Venezia all'interno di un nuovo sistema di collegamenti logistici e ferroviari. Chi infatti in quel momento guardava al futuro della città non poteva non pensare alle conseguenze che si presupponeva si sarebbero verificate sui mercati del Mediterraneo e del Nord Europa, rispettivamente, con l'apertura del canale di Suez(72) e delle nuove strade ferrate come quelle del Brennero e della Pontebbana(73).
Nel dicembre 1866 fu la giunta "provvisoria" a prendere posizione rispetto a queste problematiche inviando un ampio documento al governo. In esso si chiedeva ai ministri competenti di predisporre tutte le misure "atte a favorire lo sviluppo del commercio di Venezia, e della sua operosità marittima" al fine di ripristinare quelle comunicazioni per via di mare che "furono sistematicamente impedite dal Governo austriaco"(74). Secondo la giunta comunale, la strategia di un rilancio commerciale della città passava per "la prolungazione da Brindisi fino a Venezia della linea postale fra l'Italia e l'Egitto", che veniva ritenuta "il più grande servigio che possa essere reso al Commercio veneziano". Nella prospettiva di un'apertura del canale di Suez e del potenziamento degli sbocchi a nord, Venezia doveva riconquistare una sua centralità nei traffici che transitavano lungo l'asse che collegava la Germania all'Estremo Oriente, rompendo il monopolio esercitato dal porto di Trieste.
Questi interventi dovevano essere completati dal potenziamento della rete ferroviaria che "dovrebbe collegare i principali centri agricoli ed industriali del Veneto"(75). Anche se non sviluppato compiutamente nella relazione - ma stabilmente presente nell'agenda dei grandi temi del dibattito postunitario(76) - questo riferimento evidenziava l'altro grande obiettivo che le classi dirigenti veneziane percepivano come essenziale per un rilancio dell'economia cittadina, e cioè il recupero di un ruolo di raccordo con le principali direttrici dello sviluppo regionale - gravitanti attorno ad una gerarchia urbana e territoriale in profonda mutazione(77) - capace di sanare la frattura da tempo in atto con la terraferma(78).
Su questi temi il dibattito proseguì per parecchi mesi. Anzi, meglio sarebbe dire che dal quel momento tornò ciclicamente ad impegnare le classi dirigenti veneziane all'aprirsi di ogni fase particolarmente importante per lo sviluppo economico della città(79) e si intrecciò profondamente con le grandi scelte compiute nel campo urbanistico: si pensi a cosa significò da questo punto di vista la realizzazione della "stazione marittima"(80) che iniziata nell'anno di apertura del canale di Suez fu ultimata nel 1880, divenendo il "nuovo porto" di Venezia e provocando di conseguenza una rotazione dell'asse economico e sociale della città(81).
Le discussioni e i confronti tra i vari attori politici, i funzionari statali(82) e i rappresentanti di interessi settoriali delinearono tendenze e consolidarono linee interpretative sullo sviluppo economico della città, che conobbero una così vasta fortuna da trasformarsi in potenti incubatori di miti pronti per essere usati nelle successive stagioni della politica veneziana. Alludiamo al tema della vocazione di Venezia al rapporto con l'Oriente, che fu rilanciato dai 'giovani' de "Il Veneto" come scelta strategica decisiva per lo sviluppo della città(83) e che conobbe successive reinterpretazioni e adattamenti nei primi anni del Novecento ai fini della 'rivendicazione' in chiave nazionalista del "lago italiano"(84).
Le preoccupazioni per il futuro economico si intrecciarono - spesso sovrapponendosi ad esse - con quelle riguardanti il futuro politico e l'ingresso nei nuovi ordinamenti amministrativi. Sia prima dell'arrivo del commissario regio sia durante i mesi del suo lavoro, gli stessi protagonisti che abbiamo visto impegnati nel tentativo di individuare le soluzioni capaci di bloccare il declino economico si tuffarono anche nella discussione politica.
Colpisce, in primo luogo, il netto cambio di registro che caratterizzò molti degli interventi ancora una volta ospitati su giornali e riviste. Mentre lo spettro della decadenza economica spinse le élites cittadine ad uno sforzo innovativo per immaginare nuovi scenari di sviluppo e creare le condizioni per il risanamento lungo la triplice direttrice commerciale, industriale e turistico-culturale, per quanto attiene la sfera della politica prevalse nettamente lo sforzo di consolidare una lettura moderata dell'unificazione, garantendo una transizione indolore al nuovo assetto istituzionale.
Interprete di questa linea fu soprattutto la rinnovata "Gazzetta di Venezia". Con perfetta scelta di tempo, il 9 ottobre 1866, pochi giorni dopo la ratifica della pace fra Austria e Italia firmata a Vienna, uscì il primo di una serie di articoli con i quali i moderati veneziani presero posizione rispetto alla nuova fase politica che si stava per aprire.
Nell'editoriale apparso in quel giorno si legge:
Il principio liberale è per sé arra di salute, ma esso è ben poco quando non vi sia una buona amministrazione [...]. La buona amministrazione del paese, e specialmente la gestione delle finanze, devono essere il punto di mira di tutti coloro che s'interessano alla cosa pubblica [...].
Il Veneto si congiunge dunque alla patria, in un momento felice. I partiti dovranno designarsi altrimenti; la politica del fate subito e dell'aspettate l'occasione, che divise sinora in due campi l'Italia, non può essere più la politica del giorno; non può più continuare la lotta tra gli ardori degli uni, e le timidezze degli altri; dateci un sistema che possa essere discusso, confutato, e dietro quello la nazione potrà dividersi in modo più logico e, nello stesso tempo, più proficuo alla libertà(85).
Con il passare dei giorni, il 'discorso' moderato sui futuri assetti politici ed amministrativi della regione - è esplicita in questa fase l'intenzione della "Gazzetta" di porsi come portavoce di tutti i moderati veneti - e della città si fece sempre più articolato e preciso. Vi era la percezione che si stesse aprendo un'epoca nuova e vi era anche la consapevolezza del ruolo che i veneti dovevano giocare in questo processo. Basta leggere l'articolo del 10 ottobre 1866 per capire il senso di queste prime prese di posizione. Dopo aver ringraziato il presidente del Consiglio Ricasoli per il telegramma inviato alla città di Venezia nel quale ne esaltava il glorioso passato e l'impegno profuso per la causa dell'unificazione, l'articolo così proseguiva:
Noi siamo però d'avviso, che queste nobili e tanto significative parole non si limitassero alla ristretta cerchia di questa città, prima fra le altre città sorelle del Veneto, per la passata grandezza, per le sue sventure e per l'eroica resistenza contro l'oppressione straniera, ma tutta volessero comprendere la Venezia intiera dal Mincio all'Adriatico, e dal Po all'Isonzo, ora chiamata a far le sue prove nel campo costituzionale italiano ed a concorrere col senno e coll'operosità politica a ricomporre, più solido e più poderoso il sublime edificio dell'unità italiana.
Noi lo crediamo perché queste parole agli occhi nostri altro non sono se non la fedele espressione di quel generale sentimento, o vogliasi dire istinto, ond'è compresa l'Italia tutta, che l'ingresso nel Parlamento italiano dell'elemento veneto, scevro dalle prevenzioni dei partiti, amante più dei fatti che di altisonanti parole, e freddo ragionatore, possa efficacemente giovare a sanar quel male ond'è travagliata l'Italia.
Interessante risulta la parte in cui l'articolo si sofferma sul possibile ruolo dei veneti sulla nuova scena politica nazionale.
Toccherà ora ai Veneti di corrispondere ad una tale aspettazione, ed il più prezioso ricambio ch'essi potran dare alla generosità della loro madre, l'Italia, [...] sarà appunto il provare che quell'aspettazione non era illusoria, e che i Veneti possono effettivamente portar nel Parlamento copiosi frutti di pratico senno, come largamente versarono il loro sangue sui campi delle battaglie dell'indipendenza italiana.
Perché ciò si verificasse, perché in sostanza "i copiosi frutti di pratico senno" potessero effettivamente essere portati al Parlamento nazionale, secondo l'anonimo articolista - ma molto probabilmente si trattava di Paride Zajotti - era necessario che si realizzassero alcune condizioni. Sentiamo come proseguiva l'articolo:
Ma perché [...] le nobili parole del bar. Ricasoli possano divenir una verità, è assolutamente necessario che non s'incorra in alcuna precipitazione, che si lasci tempo al Veneto di studiare sé stesso ed i suoi uomini e che, senza violare i termini costituzionali, lo si faccia però entrare, il più tardi possibile, nell'arduo campo delle elezioni politiche. I Veneti chiamati all'urna elettorale, finché le fibre d'ognuno sono ancora tremanti per la gioia d'essere liberati dal dominio straniero, e prima che i cittadini si siano riavuti da quella specie di stupefazione, onde furono posti in questo nuovo mondo che si era presentato innanzi ai loro sguardi, o potrebbero lasciarsi nel difficile compito guidare dal cuore piuttosto che dalla mente, o potrebbero contrarre precipitosamente leghe men buone, intese a sfruttare per fini parziali ed egoistici, quelle forze e quegli elementi, dei quali si dice voler fare tanto tesoro.
L'articolo si dilungava su questo punto, riferendosi esplicitamente al pericolo che le elezioni sanzionassero l'esclusione dalla candidatura di coloro che "non si sentirono in animo di fare atto pubblico di opposizione al Governo Austriaco e perciò incorsero nella taccia di tiepidi, se non anche di peggio"(86).
L'obiettivo primario era insomma quello di una 'transizione dolce' che non alterasse gli antichi equilibri su cui, attraverso complesse combinazioni, sul piano economico si erano consolidati il rapporto tra i ceti aristocratici e quelli della borghesia emergente per il controllo dell'economia regionale(87) e su quello politico le intese faticosamente raggiunte negli anni dell'emigrazione politica e della lotta contro gli austriaci sui futuri assetti di potere da raggiungere nelle nuove istituzioni.
Ma si chiedeva in termini ancor più espliciti la salvaguardia del prezioso patrimonio rappresentato dall'amministrazione asburgica. Fu ancora una volta la "Gazzetta di Venezia" a precisare i termini di questa ulteriore richiesta con un articolo pubblicato il 15 ottobre 1866 nel quale - rifacendosi alla più recente esperienza di trapasso dei poteri e di unificazione legislativa, cioè quella della Lombardia - si affermò:
È notorio che l'errore capitale che condusse l'amministrazione italiana ad un risultato così infelice, quale ce lo dipingono tutti i giornali e la voce pubblica, si fu quello di sopprimere senz'altro tutte le leggi e le istituzioni amministrative, che funzionavano da tanti anni negli Stati annessi, e d'introdurre da per tutto il sistema di amministrazione piemontese [...]. Il Ministero che reggeva il Piemonte all'epoca delle annessioni non ebbe in mente quest'ovvio principio; applicò le leggi d'un piccolo Stato ad una Monarchia grandiosa; l'evidenza gli sfuggì di mano e affaticandosi la vista per veder tutto come vedeva in Piemonte, divenne cieco e non vide più nulla.
E si lanciò un ammonimento assai preciso:
Il Veneto, specialmente in alcune parti del pubblico servigio, ha un'amministrazione eccellente. Andiamo dunque adagio, assai adagio nel demolire il di lui sistema amministrativo; studiamolo bene, osserviamo sapientemente come funziona la di lui macchina, e a poco a poco ci persuaderemo della convenienza di studiarlo ancora, e poscia ci indurremo ad applicare varie delle sue regole amministrative nelle altre provincie [...]. Il Governo dee lasciare per ora le cose come sono; dee chiamare a Firenze uomini esperti in tutti i rami d'amministrazione, ed aggiungere ad essi altrettanti uomini esperti nel sistema colà vigente, affinché, dai reciproci studi, sorga un tutto omogeneo e perfetto(88).
Come è stato più volte ricordato, e solo di recente - per la verità - ricostruito con maggior precisione e dovizia di particolari(89), pochi anni dopo, su queste stesse rivendicazioni, sollecitati da un appello lanciato da quattordici avvocati veneziani, i parlamentari veneti diedero vita ad una infuocata battaglia parlamentare contro l'unificazione legislativa.
In nome dell'attaccamento alla tradizione e in difesa di particolari interessi(90), l'intera deputazione veneta, guidata da Luigi Arrigossi, Raimondo Brenna, Augusto Righi e Francesco Piccoli, tentò di trasformare la difesa degli antichi ordinamenti in una battaglia 'autonomistica', riprendendo spesso gli argomenti che nel 1861 avevano ispirato il progetto Farini-Minghetti.
L'iniziativa dei parlamentari veneti non ottenne grandi risultati. Il governo Menabrea infatti non accolse alcuna delle richieste presentate e contro i deputati veneti si levarono accuse di "municipalismo" e di insensibilità per la causa nazionale e la tutela degli interessi generali. Intervenendo nel dibattito il senatore Michele Pironti, ministro di Grazia e giustizia, lodò i veneziani "di essere tanto veneziani" invitandoli però ad essere anche "più che veneziani, italiani"(91).
Con queste premesse la costruzione dello "spazio pubblico"(92) entrava dunque nelle sue fasi decisive. A testimonianza di quanto forte sia stata la produzione di "opinioni" e di "culture" che doveva preparare i passaggi più delicati dell'unificazione, vi è la proliferazione di una pubblicistica che tratteggiava i profili dei futuri consiglieri comunali e dei deputati da eleggere nelle prime consultazioni elettorali. Il loro identikit doveva corrispondere a quello di una persona dotata "di cognizioni utili ed atta ad applicarle su vasta scala, ligia allo statuto ed indipendente dallo straniero e dai preti, nemica delle ciarle ed amica dei fatti", un uomo politico "desideroso di riforme possibili, graduali, effettuabili coi mezzi che si hanno in potere e perciò né abborrente dalle novità, né infatuato di utopistiche riforme"(93).
Circa, invece, la composizione dei consigli, la stessa "Gazzetta di Venezia" fu prodiga di indicazioni. Innanzitutto suggerì di escludere tanto i benemeriti del cessato regime quanto gli oppositori costituzionali e i "fanatici religiosi", auspicò inoltre di puntare ad eleggere consessi ben assortiti, dove potessero trovare posto possidenti, commercianti, banchieri, ingegneri, avvocati, medici, professori; l'elettore non avrebbe dovuto dimenticare che a parità di circostanze "non poca parte della dignità e dell'autorità di un uomo è dovuta alla sua posizione economica e sociale"(94).
Il lavoro di costruzione della fisionomia-tipo dell'uomo pubblico moderato proseguì incessantemente nelle settimane che precedettero le prime consultazioni politiche fissate per il 25 novembre 1866, parallelamente al più prosaico gioco delle mediazioni e delle alleanze che lentamente andavano definendosi all'interno del ceto politico locale. In vista dell'appuntamento elettorale, l'asse più forte lungo il quale presero corpo le candidature fu quello che legava l'entourage della "Gazzetta" al commissario regio e, quindi, agli ambienti governativi.
La linea seguita da Pasolini - ispirata, come abbiamo visto in precedenza, alla massima prudenza, alla ricerca di una forte continuità tra vecchi e nuovi ordinamenti, all'emarginazione degli elementi progressisti - si sposò benissimo con il disegno e con l'impegno profuso nella definizione del nuovo spazio pubblico che i moderati della "Gazzetta" svilupparono in quei mesi. Tutti e tre i candidati direttamente sostenuti dal potente organo di stampa conquistarono i collegi cittadini(95): nel I collegio prevalse il capitano di fregata Giacomo Galeazzo Maldini, un militare di carriera formatosi a Venezia nel Collegio di marina, tra gli animatori della rivoluzione quarantottesca(96); nel II collegio si insediò l'ingegnere di formazione, ma giornalista di professione, Paulo Fambri, anch'egli attivo nelle campagne risorgimentali(97); nel III fu eletto Saverio Scolari, giurista, docente nelle Università di Parma e di Pisa, personaggio di passaggio sulla scena politica locale(98), chiamato a contrastare quello che fu il vero protagonista di questa prima tornata elettorale: il conte Pierluigi Bembo che si presentò in tutti i collegi cittadini ed anche in quello di Mirano riuscendo a conquistare due ballottaggi.
La candidatura e la mancata elezione del notabile-simbolo degli amministratori austriacanti provocò molte proteste e qualche disordine(99); di fronte ai consensi raccolti dall'ex podestà lo stesso Pasolini si lasciò andare ad alcuni commenti negativi. In una lettera a Giuseppe Chechetelli il commissario regio scrisse:
In queste elezioni della mia Provincia io veggo rappresentato il vero spirito del Paese. Sopra sei collegi quattro hanno dato il secondo posto al Bembo, in due dei quali è in ballottaggio. Al Bembo si sono uniti tutti i clericali, tutti i conservatori che hanno paura dei faccendieri nuovi, tutti quelli che non hanno voglia o interesse proprio di tenere vivo l'odio contro il passato, il quale già non può ritornare. È stato un lavoro di partito, ma non di vero maneggio elettorale, che si concentra in un collegio per riuscire; è una dimostrazione, senza essere un trionfo: a meno che non riuscisse in un ballottaggio, il che mi pare difficile(100).
Pasolini aveva visto giusto. Non solo aveva 'interpretato' il risultato ottenuto da Bembo - il quale nella successiva tornata elettorale del 1867 ottenne un facile successo nel collegio di Venezia III dove fu riconfermato per altre due legislature - ma aveva anche intuito alcuni movimenti in atto nella società veneziana messi in evidenza dai risultati elettorali.
Nonostante infatti la percentuale dei votanti fosse risultata di poco superiore al 50% (nel I collegio votarono 844 elettori su 1.637 aventi diritto, nel II collegio 560 elettori su 1.003, nel III 483 su 925(101)) questa prima tornata elettorale, al pari di quanto avvenne in ambito regionale(102), segnò l'inizio di un trend preciso, destinato a durare nel tempo e a incidere profondamente sulla struttura del sistema politico locale. Che queste prime elezioni e le successive del 1867 abbiano fissato "il limes di un vasto scampolo sub-regionale dove potere politico, status patrimoniale, reddito e stanzialità tendono a risolversi gli uni negli altri"(103) fu sicuramente vero. La vittoria delle forze moderate fu schiacciante in tutte le province venete ed inaugurò un'egemonia durata fino alla svolta del secolo. Ma è altrettanto vero che la realtà veneziana presentò, sin dal 1866, una serie di elementi di maggior complessità rispetto al quadro regionale.
Certo, il risultato dei moderati fu anche a Venezia e provincia netto: se allarghiamo lo sguardo a tutti e sei i collegi, solo quello di Portogruaro fu conquistato al ballottaggio da un candidato della sinistra. Ci vollero, però, un personaggio dello spessore di Giambattista Varè - avvocato, legato a Daniele Manin con il quale condivise tutte le esperienze rivoluzionarie e l'esilio a Parigi, destinato ad una prestigiosa carriera politica anche a livello nazionale(104) - e le spaccature del fronte moderato, che al primo turno si divise tra l'avvocato Edoardo Deodati, al quale andarono 106 voti, e Alessandro Marcello (62 voti) contro i 152 di Varè, per arrivare a questo risultato.
Nelle elezioni del marzo 1867 i moderati bissarono i successi ottenuti pochi mesi prima. Maldini fu confermato, con ampio margine, nel collegio di Venezia I - quello più 'cittadino' - iniziando così una lunghissima carriera parlamentare, conclusasi solo nel 1890 dopo la bellezza di 8 mandati; Fambri, di nuovo opposto al conte Bembo nel II collegio, ottenne una facile riconferma.
Mentre anche negli altri collegi non vi furono risultati a sorpresa(105), emblematica, per la dispersione dei voti moderati, risultò la battaglia nel collegio di Venezia III. Qui Bembo prevalse al ballottaggio su un altro moderato, l'avvocato Adriano Rocca: il primo ottenne 250 voti contro i 217 del secondo, dopo che al primo turno gli oppositori di Bembo non erano riusciti a concentrare i voti su Rocca, che ne aveva ottenuti solo 130, mentre 65 erano andati ad altri due esponenti dello stesso schieramento quali Giovanni Paolovich, il presidente della Camera di commercio, e Antonio Berti, assessore nelle giunta "provvisoria". L'episodio evidenziò un dato destinato, come vedremo di seguito, ad assumere un carattere strutturale: l'esistenza cioè di forti divisioni del blocco moderato, caratteristica che sin dall'unificazione differenziò Venezia dalle altre realtà regionali.
Uno sguardo panoramico agli eletti in queste prime due tornate consente di sottolineare anche un secondo aspetto significativo di questa fase di formazione del sistema politico: il basso tasso di ricambio del personale politico, con la piccola borghesia e quella delle professioni che - tranne qualche rara eccezione - rimase sostanzialmente ai margini delle zone del potere e finì per irrobustire i germi di una cultura democratica, radicale e socialista. Il sistema politico prese dunque corpo attorno a due figure prevalenti: quella dell'"austriacante riciclato" e quella del notabile della generazione del '48.
Queste prime valutazioni vengono ulteriormente confermate seguendo altri due passaggi che interessano direttamente la selezione del ceto politico: le nomine senatoriali e le prime elezioni amministrative. Concepite dal governo come un ulteriore segnale della ricerca di una 'conciliazione' tra le parti, le prime arrivarono il 5 novembre 1866, due giorni prima dell'inizio della visita alla città di Vittorio Emanuele II. La scelta del governo cadde sul principe Giuseppe Giovanelli e sui conti Giovanni Battista Giustinian, Luigi Michiel, Luigi Revedin e Agostino Sagredo. I primi quattro furono convalidati per la 21a categoria, "le persone che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria", vale a dire perché ricchi e potenti, il Sagredo per la 18a, nella quale rientravano "i membri della Regia Accademia delle scienze, dopo sette anni di nomina"(106).
Si trattava in tutti i casi di personaggi che offrivano le più ampie garanzie circa la loro collocazione politica: del Giustinian abbiamo già detto in precedenza, Michiel era stato membro della giunta 'ombra', Giovanelli aveva già ricoperto cariche amministrative sotto la dominazione austriaca, Revedin vantava un passato rivoluzionario ma da anni si dedicava quasi esclusivamente alla cura delle sue proprietà nel Trevigiano(107), Sagredo, di ricca famiglia patrizia, si divideva tra gli incarichi amministrativi e lo studio, deputato all'Assemblea del '48, ma su posizioni estremamente moderate al punto che la polizia austriaca nel '55 lo aveva definito di "una condotta morale e politica immune da censura"(108). Il fatto poi che, come abbiamo in precedenza ricordato, sia Giovanelli che Revedin furono chiamati dal commissario Pasolini a far parte della nuova congregazione provinciale, confermava la scelta di procedere alla formazione di una ristretta élite di politici da utilizzare per più incarichi.
Per quanto attiene invece l'andamento delle prime elezioni amministrative, la mancanza di ricerche sulla storia amministrativa locale rende assai problematica la ricostruzione di un quadro generale e la stessa analisi dei risultati. Ci limiteremo pertanto ad alcune riflessioni centrate soprattutto sul profilo del ceto politico che emerge in queste due consultazioni, entrambe convocate per il 23 dicembre.
Il rinnovo del consiglio comunale fu deciso da appena 1.525 elettori sui 4.033 iscritti(109). Quattro furono le liste che scesero in campo: l'Associazione elettorale veneziana, l'Associazione per le elezioni amministrative, la lista della "Gazzetta di Venezia" e la lista de "Il Rinnovamento", ciascuna delle quali rappresentava una porzione del vasto arcipelago moderato. Il fenomeno dei molti candidati presenti in più di una lista complica la lettura dei risultati finali e rende difficile la definizione di una precisa geografia elettorale. Tuttavia le informazioni fornite da Sergio Barizza sui 60 eletti e sugli intrecci tra le diverse liste consentono quantomeno di evidenziare che i consiglieri più votati furono - oltre a quelli presenti in tutte e quattro le liste come Antonio Fornoni, Giovanni Battista Giustinian, Antonio Berti, Nicolò Papadopoli, Roberto Boldù, tutti già presenti a vario titolo nelle amministrazioni provvisorie - quelli sostenuti dalle liste della "Gazzetta", de "Il Rinnovamento" e dall'Associazione elettorale veneziana, come Alessandro Palazzi che risultò il primo degli eletti con 1.321 voti, Nicolò Antonini (terzo con 1.212 voti) o dalla combinazione comprendente la "Gazzetta", l'Associazione elettorale veneziana e l'Associazione per le elezioni amministrative che piazzarono 3 consiglieri nei primi 10, vale a dire Giovanni Bizio, quinto con 1.067 voti, Angelo Rosada, settimo con 1.005 voti, e Cesare Sacerdoti, nono con 990 voti.
Il particolare sistema di voto adottato in queste consultazioni - maggioritario di lista che consentiva all'elettore di scrivere sulla scheda tanti nomi quanti erano i rappresentanti da eleggere, esaltando il carattere "notabilare" e non partitico del voto(110) - renderebbe pressoché infiniti i riscontri e gli incroci sugli eletti. Ciò che invece interessa a noi evidenziare è l'assenza, anche in questo caso, di un reale ricambio del ceto politico che si afferma in questa tornata elettorale. La composizione della giunta che si insedia a Ca' Farsetti ne è la fedele riprova. Guidata dal sindaco Giovanni Battista Giustinian, essa risulta in larga parte composta da un personale già presente con vari incarichi nello 'spazio amministrativo' formatosi negli anni a cavallo del trapasso di regime. Affiancarono il sindaco gli assessori Antonio Marini, Carlo Balbi Velier, Alessandro Marcello, Roberto Boldù, Antonio Fornoni, Antonio De Reali, Nicolò Papadopoli ed Elia Vivante.
Lo scenario non cambia se guardiamo a quanto avvenne nelle elezioni per un'istituzione 'nuova' come la Provincia(111). Tra i 40 consiglieri da eleggere nei 7 collegi della provincia ritroviamo molti nomi noti: per il distretto di Venezia Alessandro Marcello, Edoardo Deodati, Luigi Revedin, Giuseppe Valmarana, Giuseppe Giovanelli, Antonio Berti, Angelo Pasini, Carlo Simeone Padovani, tutti già eletti anche nel consiglio comunale, e Domenico Dall'Acqua, Leopoldo Martinengo, Antonio Valvassori, Francesco Fabris, Giuseppe Sartori. Nei distretti extracittadini vennero tra gli altri eletti i deputati Bembo - che addirittura entrerà a far parte della giunta amministrativa - e Bullo, oltre al più volte segnalato Antonio Fornoni(112).
Il 21 gennaio 1867 si aprì nel palazzo della prefettura la prima sessione del consiglio provinciale. In quell'occasione il commissario Pasolini pronunciò uno dei suoi ultimi discorsi ufficiali nel corso del quale riassunse il significato del lavoro realizzato:
Straordinarie facoltà furono accordate dalla legge ai Commissari che in nome del Re, qui nelle provincie venete vennero primi a governare. Quanto a me, cui toccò l'insigne onore d'iniziare il Governo in Venezia stessa e nella sua Provincia, pensai che di quelle facoltà era dovere lo usare il meno possibile. [...] Procacciai però che i nuovi pubblici ufficii prontamente esercitassero le funzioni loro; a' Consigli, alle Deputazioni Comunali non toccai con governativa autorità se non che dove pareva d'indispensabile convenienza [...](113).
In realtà il mandato affidato al commissario era già cessato con la costituzione delle prefetture, avvenuta con un decreto datato 9 dicembre 1866. A partire da quella data Pasolini era infatti rimasto a Venezia solo come facente funzioni di prefetto. Nei primi mesi del 1867 la sua posizione si era tuttavia fatta più delicata e precaria a causa di alcune divergenze politiche sorte con Ricasoli circa le disposizioni di ordine pubblico da adottare in occasione della discussione della legge di liquidazione dell'asse ecclesiastico(114). In seguito a quello scontro Pasolini aveva espressamente chiesto di essere rimosso dall'incarico, ma la crisi politica apertasi in quelle settimane e la convocazione dei comizi elettorali avevano offerto al presidente del Consiglio un valido motivo per respingere la richiesta.
Si trattò di una breve tregua. Le divergenze riemersero di lì a poco in occasione del tour elettorale di Giuseppe Garibaldi nel Veneto, che si concluse a Venezia. In questo caso i contrasti sorsero in seguito all'invito rivoltogli da Ricasoli di non rendere alcun omaggio ufficiale all'eroe dell'impresa dei Mille(115). All'indomani delle elezioni, il 18 marzo, Pasolini si mise in congedo lasciando a Bernardino Bianchi la reggenza della prefettura. Il 10 aprile, dopo la costituzione del governo Rattazzi, lasciò la città.
Si chiudeva così definitivamente la 'lunga transizione' di Venezia dal regime asburgico a quello italiano. Un anno e mezzo dopo l'arrivo del commissario regio il sistema politico veneziano aveva assunto una sua precisa fisionomia. L'attenta regia di Pasolini e le mediazioni interne ai diversi gruppi di potere locali avevano portato ad una schiacciante affermazione del personale politico moderato nelle nuove istituzioni e nelle prime consultazioni elettorali.
Qui emerge una prima anomalia del caso veneziano rispetto al quadro regionale. Come abbiamo cercato di evidenziare, dietro a questi risultati vi era la realtà di un fronte moderato percorso da ampie fratture e privo di un vero leader - il giovane Luzzatti non sembra occuparsi troppo in questa fase delle vicende locali, il centro dei suoi interessi è Milano dove trascorre gran parte del suo tempo fino al 1867, quando si trasferisce a Padova per iniziare l'insegnamento di Diritto costituzionale(116) - o di un gruppo in grado di condizionare le scelte decisive e di imporre una precisa strategia di sviluppo.
Questa situazione partorì un sistema politico bloccato, incapace di procedere ad un seppur graduale ricambio dei suoi principali protagonisti. L'assenza di figure di grande rilievo ebbe come conseguenza anche l'isolamento veneziano dai gruppi di comando del moderatismo veneto che ebbero le loro basi operative a Padova e Vicenza. Sul piano dell'elaborazione teorica, la cultura politica espressa nei primi decenni postunitari dai moderati veneziani risultò impregnata di un conservatorismo che rese meno agevole - rispetto alle sofisticate sintesi elaborate dal moderatismo riformatore, statalista e autoritario della classe politica padovana e vicentina - il confronto con le dinamiche della modernizzazione e soprattutto fece perdere il treno delle grandi trasformazioni economiche che negli anni Settanta-Ottanta cambiarono il volto dell'economia veneta. Insomma, appare chiaro che l'impoverimento economico produsse anche un impoverimento della vita politica. L'incapacità dei gruppi dirigenti veneziani di pensare ad un progetto alternativo a quello di uno sviluppo di tipo 'neoinsulare', che invece si fece strada nel dibattito dopo l'unificazione(117), ne fu un'ulteriore riprova.
All'interno di questo quadro si può poi segnalare l'emergere di altri due elementi caratteristici del sistema politico, destinati a consolidarsi nel tempo. Le divisioni e la debolezza del fronte moderato produssero una forte instabilità che ebbe il suo epicentro nel Comune. Sin dalla prima giunta eletta attraverso il voto popolare, lo spazio amministrativo fu infatti caratterizzato da ripetute crisi municipali e dal frequente ricorso ai commissari governativi. Al contrario i collegi elettorali - lo spazio politico per eccellenza - furono, almeno fino alla fine degli anni Settanta, caratterizzati da una sostanziale stabilità.
Il secondo elemento è determinato dalla precoce formazione di una cultura politica progressista. Venezia è l'unica città del Veneto dove sin dall'unificazione si sedimenta una cultura di questo genere. Alcuni anni or sono, Silvio Lanaro individuò una possibile spiegazione di questo fenomeno nel fatto che "mentre la regione conosce[va] una modernizzazione anestetica, senza dualismi", il capoluogo restava l'unica città dal carattere europeo. In altre parole, l'habitat urbano di Venezia aveva offerto le condizioni ideali per il radicamento di quelle subculture progressiste, liberal-radicali, social-riformiste che "non trovano se non saltuaria rappresentanza a Padova, a Treviso, a Vicenza, a Verona, dominate da gruppi dirigenti rotti a tutte le astuzie del clerico-moderatismo"(118).
Si tratta di un giudizio, questo, largamente condivisibile, che tuttavia non può da solo spiegare un fenomeno che ha le sue radici nei movimenti che interessano la società civile veneziana e nel concorso di più fattori. A nostro parere la spiegazione va infatti ricercata nei processi di politicizzazione della vita associativa che è possibile indagare utilizzando la categoria analitica di sociabilità, una categoria, questa, che - come dimostrano i lavori di Maurizio Ridolfi(119) - si è dimostrata particolarmente adatta ad essere applicata nelle indagini sullo spazio socioculturale della politica a livello locale e regionale. Vanno inoltre esplorati i nessi che collegano queste trasformazioni alla rappresentanza elettorale degli interessi e dunque alla lotta politica che si combatte nei collegi elettorali; in sostanza si tratta di capire le correlazioni che si vennero a determinare tra le forme di autorità sociale e le strutture del potere sul piano istituzionale.
Nell'arco di un quadriennio, dal 1866 al 1870, nella società civile veneziana si registrarono profonde trasformazioni. Dalla trama delle reti comunitarie e dell'associazionismo volontario (mutualistico, politico, borghese(120)) emersero segnali significativi di risveglio della partecipazione alla vita pubblica e alla politica.
In assenza di una mappa di queste strutture associative cercheremo di far emergere alcune tendenze di fondo. Partiamo, dunque, dall'associazionismo mutualistico, l'unico fino ad oggi sufficientemente indagato(121). A parte gli antefatti preunitari, poche settimane dopo la liberazione di Venezia si costituirono tre nuove società. Sempre nel corso del 1866 sorgono altri cinque sodalizi. In sostanza di queste otto nuove società, sette erano "operaie", e sei di esse erano di "mestiere" (artieri, compositori tipografi, sarti, calzolai, lavoratori delle conterie, operai dell'Arsenale), alcune risultarono già impegnate nel biennio '66-'67 nel promuovere agitazioni di vario tipo(122). La Società generale e la Società dei carpentieri e calafati, sorte entrambe nel corso del 1866, furono tra quelle maggiormente influenzate dalle istanze democratiche. Giuseppe Garibaldi fu il presidente onorario della prima, mentre la seconda fu presieduta dall'avvocato garibaldino Augusto Tironi. Nel 1868, quando uscì il primo studio statistico sulla diffusione di queste associazioni, l'autore - l'economista veneziano Alberto Errera, figura di studioso che meriterebbe un'adeguata rivalutazione(123) - riportò dati relativi a quindici società, nove delle quali operaie(124). Esse raccoglievano 3.375 soci effettivi (di cui solo 61 donne) e 300 onorari, poche erogavano sussidi di malattia, solo tre si impegnavano a favore dell'istruzione dei soci con biblioteche e scuole serali, quasi tutte ricavavano la maggior parte delle entrate da donazioni e da contributi dei soci onorari(125).
Negli anni successivi il tessuto mutualistico si consolidò ulteriormente. Le statistiche ministeriali aggiornate al dicembre 1878 segnalano un aumento del numero delle società che arrivarono a quota diciannove(126). Il fenomeno non si era sgonfiato ma al contrario si era consolidato, pur facendo registrare alcune significative modificazioni circa il numero dei soci, la tipologia delle società e dei servizi erogati(127).
Il dato che a noi interessa in primo luogo evidenziare è il cambiamento del rapporto del mutualismo con la politica. Da alcuni anni si è infatti cominciato a guardare a queste esperienze associative - superando vecchie immagini ormai stereotipate - non solo come a istituzioni sorte con l'obiettivo di ammortizzare i costi sociali della modernizzazione, ma anche come a importanti veicoli dei processi di acculturazione politica e di socializzazione di larghe fasce popolari dell'Italia liberale(128).
Il fenomeno è ben visibile anche a Venezia. Non è un caso infatti se a partire dai primi anni Settanta la presidenza di una parte delle società fu conquistata da elementi moderati, e se il prefetto in occasione degli scioperi del 1872 definì "ammirabile" il contegno delle società. D'altro canto sempre nello stesso periodo almeno sette società videro ai loro vertici esponenti repubblicani(129).
Altrettanto interessanti sono i movimenti che si registrarono nell'associazionismo più propriamente politico. Con zelo paragonabile a quello che rese tristemente famosa la polizia austriaca, quella italiana si impegnò a controllare ogni minimo movimento in questo settore. Nell'ottica del governo liberale le forze antisistema da tenere sotto controllo erano quelle cattoliche e quelle dell'estrema.
Il 6 gennaio 1867 il questore di Venezia segnalò al commissario regio, facente funzioni di prefetto, l'avvenuta costituzione durante una riunione al Teatro Malibran di una Società di mutuo soccorso per i reduci delle patrie battaglie comprendenti "ex-garibaldini, emigrati, compromessi, e danneggiati d'ogni sorta per l'indipendenza d'Italia".
La riunione, promossa dall'ala più moderata dei garibaldini(130), guidata da un certo Pasini, fece registrare la contrapposizione netta con il gruppo di Tironi. Quest'ultimo, dopo aver protestato "contro lo scopo della società che dice inattuabile ed avvilente per la classe dei garibaldini [...] che furono in ogni modo maltrattati", riuscì a prendere il controllo dell'assemblea e a condizionare le elezioni interne che si tennero al termine della riunione. Nel comitato di presidenza entrarono, oltre allo stesso Tironi, tra gli altri, Pietro Vio, Antonio Frauner, Sigismondo Blumenthal, Angelo Rosada, Pietro Ferrari(131).
Due mesi più tardi l'attenzione delle autorità di polizia fu calamitata dalla già citata visita di Garibaldi che, secondo il rapporto del questore, non ottenne gli esiti sperati:
Al suo arrivo in Venezia Garibaldi fu accolto in modo adeguato alla popolarità del suo nome e si ebbe grandissime acclamazioni del popolo affollato intorno alla stazione della ferrovia. Però non destò nel pubblico né tutto quell'entusiasmo né tutta quella agitazione che si sarebbe potuto prevedere. Se è vero che lo scopo del viaggio del generale Garibaldi fu quello in gran parte di influire sulle elezioni, si può affermare che lo scopo abbia pressoché intieramente fallito, salvo il caso che il generale abbia suggerito qualche nome già benvisto dalla maggioranza degli elettori. [...] Si può affermare che il soggiorno di esso a Venezia non ha certamente reso maggiore il prestigio del suo nome in mezzo questa popolazione(132).
Mentre la scarsa consistenza della massoneria non destava soverchie preoccupazioni(133), diverso appare il giudizio sul pericolo "nero". In un altro rapporto del 1° ottobre 1867 leggiamo:
Il partito clericale non tralascia occasione di [...] alimentare il malcontento nel popolo e di criticare acremente la legge sull'incameramento dei beni ecclesiastici, non cessando di insinuare nelle menti delle moltitudini che il colera, la grandine ed altre pubbliche calamità siano tanti castighi del cielo cagionati da codesta che essi chiamano persecuzione contro la chiesa(134).
Tuttavia in questa fase le maggiori attenzioni furono dedicate al controllo delle attività dei gruppi mazziniani. Lo stesso ministro dell'Interno Gualtiero in una circolare sollecitò il prefetto Luigi Torelli
a sorvegliare con ogni diligenza il lavorio latente e continuo del partito mazziniano, temibile e pericoloso perché si cela tra le tenebre. A me costa in modo positivo che il Mazzini si dichiarava soddisfatto dei preparativi largamente disposti dai suoi agenti nel Veneto: ciò prova che si lavora, e si lavora attivamente(135).
L'imprevisto peggioramento del clima politico aumentò infatti la sorveglianza su gruppi e associazioni 'sovversive'. Due episodi fecero salire la tensione: gli incidenti verificatisi in occasione della processione del Corpus Domini e nella successiva processione della parrocchia di S. Geremia nel sestiere di Cannaregio(136) e il 'caso' scoppiato intorno al problema del trasporto delle ceneri di Daniele Manin che provocò accese polemiche in consiglio comunale e dimostrazioni contro il prefetto(137).
Una prima radiografia su quello che si stava muovendo nel milieu del garibaldinismo venne fornita da un rapporto di polizia dell'agosto 1868. Risale a quel periodo la notizia della costituzione di un comitato segreto composto da Tironi, Bianchetti, Fabris, Conti, collegato con analoghe iniziative sorte in altre province venete e non. Il rapporto indicava in Bianchetti il personaggio "più intelligente ed attivo" impegnato nei collegamenti con i gruppi esterni e annunziava l'imminente potenziamento della "Cronaca Turchina", il giornale sorto per iniziativa di Tironi e Bianchetti che in coincidenza delle imminenti elezioni si accingeva ad uscire tutti i giorni "entrando nelle alcove dei candidati"(138).
Come si deduce da un successivo rapporto della questura datato 29 ottobre 1868, il comitato segreto continuò, con l'ausilio anche di Alberto Mario, nel tentativo di creare una rete provinciale e regionale del movimento repubblicano senza tuttavia riuscire ad ottenere i risultati sperati(139).
Dalle carte di polizia si evince che il fallimento di questo tentativo diede vita ad un cambio di strategia da parte degli ex garibaldini. Una nota proveniente dal Ministero dell'Interno, datata 29 ottobre 1868, chiariva la nuova situazione:
Dalle informazioni che il Ministro ha sui maneggi del partito d'azione, risulta come esso faccia ora assegnamento grandissimo, per l'attuazione dei suoi men retti disegni, sull'Associazione denominata 'Dei reduci delle patrie battaglie'. Questa associazione nella quale vengono quasi esclusivamente ammessi i già volontari garibaldini, si è già da qualche mese stabilita in vari luoghi dello Stato e particolarmente in alcune delle città più importanti per popolazione e per influenza [...]. Suo scopo apparente è il mutuo soccorso, ma riflettendo ai suoi atti, emerge chiaramente come ben altro ne sia lo scopo recondito, quello cioè di organizzare il partito, radunarne e disciplinarne le forze effettive per averle pronte ad ogni evenienza, e ciò risulta poi maggiormente dall'organizzazione militare che si vuol dare alla stessa Società, essendo stabiliti nei suoi statuti, tiri al bersaglio, scuole e passeggiate militari [...](140).
In effetti, nei mesi successivi qualche concreto segnale di organizzazione ci fu. Ad esempio, il 17 marzo 1869 presso il Caffè Vittoria di Dolo si costituì la Società dei reduci delle patrie battaglie. Pur avendo raccolto poche adesioni, la neonata associazione poteva contare - secondo le fonti di polizia - su un largo seguito di simpatizzanti(141). A parte questo episodio, un reale salto di qualità nelle organizzazioni del fronte democratico tardò ad arrivare. Certo non mancarono le adunanze in occasione delle ricorrenze più care al mondo garibaldino (anniversario di Mentana, onomastico del generale), ma in questa fase la propaganda politica prese decisamente una piega anticlericale.
Protagonisti delle polemiche anticattoliche furono alcuni giornali di dichiarato orientamento razionalista e ateista quali "La Fenice", "L'Oca" e i fogli del barone Ferdinando Swift, "La Ragione" (fondato nel 1868) e "L'Ateo"(142). Questa componente della cultura laica e progressista, che si sedimenta nei primi anni dopo l'unificazione, merita di essere sottolineata. In primo luogo per l'impatto che ebbero sull'opinione pubblica alcuni episodi: dalle campagne giornalistiche, all'uso di travestimenti da ecclesiastici(143), dalla parodia del sacramento eucaristico inscenata durante il carnevale del '69, agli sfregi ai capitelli di soggetto religioso(144), fino alla mobilitazione "antipretesca", ma secondariamente anche per le reazioni e le conseguenze che essi provocarono nel mondo cattolico. Reazioni che sfociarono in episodi come quello che vide protagonista il sacerdote Luigi Callegari che a Mirano, in occasione delle manifestazioni per l'Immacolata Concezione di Maria, affrontò la locale filarmonica - che aveva intonato l'inno di Garibaldi - gridando: "Italiani porci, vorreste rubare anche Roma?"(145); o casi di fanatismo, tipici di un clima politico connotato da forti contrapposizioni ideologiche, come quello segnalato dai reali carabinieri in merito all'apparizione della Madonna avvenuta in località Chiesanuova, vicino a San Donà di Piave, nei campi del "signor Sperandio", indicato come proprietario di Venezia(146).
Ma ciò che più conta segnalare è che tra gli effetti di questo anticlericalismo vi fu quello di inasprire la reazione del mondo cattolico, rafforzandone la componente intransigente ed annullando quasi del tutto lo spazio di manovra di quella liberale(147). La precoce riorganizzazione dei cattolici veneziani agli inizi degli anni Settanta - altra caratteristica che contraddistinse Venezia dalle altre città venete - prese infatti avvio attestandosi sin da subito su una linea di netta chiusura ad ogni novità politica e religiosa(148).
Nella seconda metà del 1870 il processo di organizzazione dell'associazionismo democratico fece registrare qualche segnale di ripresa. Annunciato da alcune azioni dimostrative come quella del lancio dei volantini che ricordavano il ferimento di Garibaldi sul monte Suello, si concretizzò nel tentativo di potenziare la Società dei reduci organizzando alcune riunioni, non sfuggite alla stretta sorveglianza della polizia che poteva contare anche su un certo numero di infiltrati.
Mentre questo processo proseguiva tra molte difficoltà, si andava invece definendo una mappa dei luoghi della sociabilità democratica. Proprio seguendo i rapporti sugli spostamenti di alcuni sorvegliati, le fonti di polizia ci conducono nei ritrovi abituali dei democratici. Scopriamo così che una serata tipo degli ex garibaldini poteva iniziare alla Birreria Bauer, spostarsi prima al Caffè S. Fantin e proseguire poi al Caffè S. Vidal(149).
Nel pomeriggio del 30 aprile 1871, 49 soci della Società dei reduci si riunirono per discutere alcune modifiche statutarie. Il nodo più importante riguardava l'eventuale modificazione della denominazione dell'associazione che avrebbe assunto il nome di Società repubblicana. Dopo una lunga e accesa discussione fu deciso di nominare una commissione composta da Talamini, De Col, Brocchieri e Filippini. Pochi giorni dopo, in una nuova riunione della società, la commissione incaricata comunicò la decisione di non adottare l'ipotizzata denominazione, ma di dar vita ad un nuovo sodalizio con il nome di Società democratica(150). Dopo un lungo percorso, dal ceppo delle società reducistiche nasceva dunque questo nuovo soggetto che non appariva dotato di particolari forze, ma presentava alcune novità interessanti come la presenza di soci non veneziani (alla citata riunione aderì, secondo la polizia, "un tale che disse di chiamarsi Lucchini da Brescia" che avanzò la proposta di fondare un giornale(151)) e la ricerca di altre prestigiose adesioni tra gli esponenti della borghesia cittadina.
In poche settimane la società trovò voce nel giornale "Avanti" - al quale si sarebbe poco dopo affiancata la "Veneta Democrazia" che durò dal 1872 al 1873 - e furono fatti alcuni tentativi per affidare la presidenza del sodalizio all'avvocato Giuriati o all'avvocato Quadri. In una nota non firmata, probabilmente redatta da un informatore, datata 6 luglio, si informava il prefetto che la società poteva contare già sull'adesione di "40 membri di principi avanzati e con tendenze repubblicane".
Era questo il primo tassello di un mosaico che ben presto si arricchì di altre strutture organizzative, destinate a svolgere un ruolo decisivo nel corso degli anni Settanta per la crescita del fronte progressista veneziano. Con le associazioni e i giornali, che ebbero un ruolo fondamentale, ed iniziative come quella tentata da Alberto Mario nel novembre del '72 per dar vita ad una Lega democratica del Veneto, si posero le basi per il rafforzamento delle forze antagoniste al blocco moderato sul terreno più propriamente politico ed elettorale. Questa Lega, con il suo programma incentrato "sulla areligiosità dello Stato e della scuola, sulla riforma del sistema tributario, sul progressivo scioglimento dell'esercito stanziale, sull'abolizione della pena di morte e sul suffragio universale", finì per attirare i consensi di un'altra iniziativa sorta nel medesimo campo politico. Alludiamo alla nascita del primo circolo socialista che nel Veneto diede la sua adesione all'Internazionale nell'agosto del 1872.
Sorta per iniziativa di Tito Zanardelli, una figura di 'nomade' originario di Vittorio, dell'artigiano Pietro Magri e del giovanissimo pubblicista Emilio Castellani, collaboratore della "Veneta Democrazia", la sezione veneziana ebbe debole consistenza numerica, arrivando a toccare la cinquantina di iscritti, e mantenne così stretti legami con l'area democratica al punto - secondo Briguglio - di essere assorbita dalla Lega democratica veneta (divenuta poi Lega veneto-mantovana), dopo l'arresto di Magri avvenuto nel '73(152).
Ci vollero alcuni anni, ed ulteriori sforzi organizzativi, prima che la cultura politica progressista producesse risultati significativi sul piano elettorale. La scena politica presentava un quadro sostanzialmente immutato rispetto a quello descritto in precedenza, con un'ulteriore accentuazione della tendenza all'instabilità per quanto riguardava il Comune e alla stabilità nei collegi elettorali.
La tornata elettorale del 1870 fu affrontata in tutta tranquillità dai candidati moderati. La tensione della competizione non si fece minimamente sentire al punto che le stesse autorità governative, poche settimane prima del voto, poterono affermare: "L'agitazione elettorale non si è finora sviluppata. Nessun comitato elettorale si è formato e non è avvenuta alcuna riunione di elettori. Anche i giornali non hanno ancora messo fuori liste di candidati né hanno cominciato a discutere di nomi [...]"(153).
Nei giorni successivi qualche movimento ci fu. Furono infatti proprio i giornali, specie quelli governativi, opportunamente istruiti a tal scopo(154), ad animare la campagna elettorale. La "Gazzetta" e "Il Rinnovamento" erano scesi in campo a sostegno della candidatura di Maldini nel I collegio, di Bembo nel III e di Fambri nel II. Quest'ultima candidatura era infatti considerata la più difficile. Contro di essa si schierò "Il Tempo", affermando che "porterebbe alla Camera rancori ed occasioni di scandali che ogni patriotta deve riguardare come un mortale pericolo"(155). Analogo attacco fu portato alla candidatura di Bembo, descritto come "un deputato che quando parla di patriottismo, di sentimento nazionale, fa ridere la Camera"(156). Il giornale diretto da Roberto Galli, figura emergente nell'area progressista(157), decise di appoggiare la candidatura di Maldini, ritenuto inattaccabile, e le candidature dell'avvocato Giovan Battista Ruffini nel II e di Varè nel III.
Da mesi "Il Tempo" aveva puntato il dito contro l'inadeguatezza dei parlamentari veneziani, e sullo scarso peso 'romano' della pattuglia veneta. Leggiamo in un articolo apparso nel settembre del 1870:
È una verità dolorosa ma è impossibile più a lungo tacerla. Il Veneto è trattato come se fosse la Beozia d'Italia: non vi è un prefetto veneto, o quasi in tutta l'estensione della Penisola; non un consigliere di stato, non un ammiraglio e nemmeno un solo impiegato veneto nel ministero della marina.
Qui poi l'ingiustizia giunse al colmo: tutti gli elementi della marina veneta furono gelosamente allontanati da ogni servizio attivo. I difensori di Venezia intieramente sconosciuti o rimessi per la pensione al grado austriaco che avevano il 21 marzo 1848. Noi sfidiamo chiunque a dirci se tutto ciò non sia dolorosamente vero! Il compiacente silenzio dei nostri deputati, delle nostre rappresentanze provinciali e comunali; il silenzio del giornalismo, così moderato, non può essere giudicato che paura di libertà o amore al disordine e connivenza al male(158).
I toni e i contenuti dell'articolo segnalano un significativo cambio di rotta intervenuto nella linea del giornale che risulta ancor più chiaro se si considera che nel corso della campagna elettorale esso tornò più volte ad insistere su un tema come quello del decentramento, che era stato un cavallo di battaglia dei moderati(159).
I risultati confermarono la supremazia dei moderati: Maldini stravinse nel suo 'feudo' di Venezia I, Fambri e Bembo passarono al ballottaggio ma con ampio margine, rispettivamente nel II e III collegio. Pochi i movimenti registratisi anche negli altri collegi della provincia: a Mirano continuò indisturbato il dominio di Isacco Pesaro Maurogonato, a Chioggia fu eletto un 'esterno' di peso come l'avvocato Angelo Bargoni(160), chiamato a sostituire la debole candidatura di Sante Bullo avversato da una parte dell'elettorato, a Portogruaro la rinuncia del deputato uscente, il nobile Alessandro Marcello, scatenò la competizione, tutta interna ai gruppi moderati, tra due uomini politici friulani quali Gabriele Pecile, che prevalse al ballottaggio dopo una strenua battaglia, e Pacifico Valussi(161).
Grande fu invece l'instabilità sul piano amministrativo. La giunta Giustinian era nata come punto di equilibrio più avanzato per garantire il trapasso dei poteri e l'avvio della nuova legislazione nel modo meno traumatico possibile. Il sindaco, che vantava un pedigree in grado di tranquillizzare anche i settori più moderati della città, si trovò da subito al centro di continui attacchi. Accusata da prima di presunti favoritismi per l'appalto dello scavo dei rii, l'amministrazione entrò in crisi nell'agosto del 1868 sulla questione dell'allargamento della pianta organica che alcuni settori moderati, pilotati dalla "Gazzetta", avversavano(162).
Il Ministero dell'Interno decise per lo scioglimento del consiglio(163) e a reggere le sorti dell'amministrazione fu nominato un commissario governativo, l'ex braccio destro di Pasolini, Ferdinando Laurin, alto funzionario prefettizio che guidò il Comune fino alle elezioni del novembre 1868(164). Le consultazioni rafforzarono nettamente la componente moderata(165) e portarono a capo dell'amministrazione comunale il principe Giuseppe Giovanelli. Anche questa nuova giunta non ebbe lunga vita. Nel settembre del Settanta il sindaco diede le dimissioni. Per un biennio circa il consiglio comunale non riuscì più ad esprimere delle maggioranze stabili e pertanto sia Giovanelli sia Antonio Fornoni furono chiamati, in qualità di assessori anziani, a ricoprire il ruolo di facenti funzioni di sindaco(166). Nel marzo del 1872 Fornoni ottenne la nomina regia a sindaco, riuscendo a completare il suo mandato fino alla scadenza prevista per il mese di settembre del 1875(167).
Fu questo uno dei rari periodi contrassegnati da una certa stabilità amministrativa, seguito subito da un altro biennio in cui si dovette di nuovo ricorrere ad un facente funzioni scelto in questo caso nella persona del conte Francesco Donà dalle Rose. A questi succedette, tra il 1877 e il 1878 di nuovo Giustinian, seguito dal conte Dante Serego degli Allighieri, il quale prima resse il Comune come facente funzioni, dal settembre fino al dicembre 1879, momento in cui ottenne la nomina a sindaco che mantenne fino al settembre 1881.
A quel punto si aprì di nuovo una fase di grande confusione e rissosità tra i gruppi moderati. Dante Serego degli Allighieri tornò a svolgere il ruolo di facente funzioni fino al settembre 1882, quando rassegnò le dimissioni che portarono al secondo scioglimento del Comune e al conseguente commissariamento, questa volta affidato a Carlo Astengo, un ispettore del Ministero dell'Interno che aveva all'attivo altre esperienze come regio delegato straordinario in capoluoghi importanti come Bari e Genova(168).
Di fronte a questa situazione il prefetto Giovanni Mussi lavorò per trovare un'intesa tra i progressisti e i liberali moderati, che limitasse il peso - fattosi sempre più crescente a partire dai primi anni Settanta(169) - dei cattolici. L'operazione riuscì e il prefetto scrisse al ministro: "si raggiunse lo scopo per cui le elezioni erano state indette, e cioè furono esclusi tutti i capi clericali, riducendo questo partito ad essere nel consiglio una piccola minoranza"(170). Dante Serego degli Allighieri venne nuovamente nominato sindaco nell'aprile del 1883; riconfermato nel settembre del 1885 si dimise nel giugno del 1888.
Con l'ingresso in campo del successore, il conte Lorenzo Tiepolo, nominato alla guida del Comune nel novembre del 1888, iniziò una fase nuova della storia amministrativa e politica della città. Le elezioni del novembre 1889 - le prime con l'allargamento del suffragio, fortemente avversato dalla "Gazzetta", che ironizzò sul fatto che per la prima volta anche gli analfabeti potevano recarsi a votare(171), e l'elezione diretta del sindaco da parte del consiglio comunale - modificarono notevolmente la geografia politica del Comune(172).
La svolta nacque dall'accordo tra una parte dei moderati e i progressisti e portò alla ribalta in entrambi gli schieramenti una serie di personaggi che avrebbero esercitato un ruolo di primo piano nella vita politica cittadina per molti anni. Tra i progressisti, che conquistarono la maggioranza del consiglio, troviamo i nomi di Riccardo Selvatico, Giovanni Castellani, Sebastiano Tecchio, Giovanni Bordiga, Cesare Musatti, Michelangelo Guggenheim; tra i moderati, accanto a vecchi notabili quali Antonio Fornoni, Angelo Minich, Nicolò Papadopoli, Paulo Fambri, si impose la figura di Pompeo Gherardo Molmenti.
Il difficile equilibrio tra le due componenti fu trovato attorno ad un programma che tra i punti qualificanti prevedeva l'impegno di ridurre per le classi più deboli la pressione tributaria e di avviare un piano di edilizia popolare. Tiepolo riuscì a rimanere in sella fino a quando fu in grado di tenere unito il fronte moderato che si era presentato alle elezioni diviso tra la lista dell'Associazione costituzionale "Camillo Cavour" e quella del Comitato elettorale conservatore sostenuto anche dai cattolici. Le dimissioni dell'assessore Minich, arrivate nel novembre 1889(173), furono il segnale che la tregua all'interno del partito moderato era saltata. Tiepolo ne prese atto e, il 6 aprile del '90, si dimise aprendo così la strada, attraverso un complesso gioco di alleanze, alla nascita della giunta guidata da Riccardo Selvatico. Questi, già assessore nella precedente amministrazione, riuscì a restare al governo della città, superando lo scoglio di alcune elezioni e contando sempre su maggioranze risicate, per un quinquennio, fino alla fine del mandato nell'agosto del 1895.
Con questa esperienza Venezia anticipava la stagione delle giunte bloccarde che si affermarono nel resto del Veneto un decennio più tardi(174), e recuperava un nuovo ruolo nel contesto politico regionale. Ma soprattutto Venezia si scopriva laboratorio politico di interesse nazionale, dove vennero sperimentate formule che caratterizzarono la politica in età giolittiana. La fine dell'esperienza Selvatico sancì infatti l'inizio dell'era Grimani che consacrò le alleanze clerico-moderate.
Come si era giunti alla svolta maturata nella seconda metà degli anni Ottanta? I primi segnali di una rottura dell'egemonia moderata giunsero dalla provincia con le elezioni suppletive tenutesi nel dicembre 1871 nel collegio di Chioggia in seguito alla rinuncia del deputato Bargoni. La sinistra riuscì in questo caso ad eleggere al ballottaggio Giacomo Alvisi, un patriota del '48, fondatore nel '66 de "Il Tempo", grande esperto di questioni bancarie di cui si occupò a lungo durante la sua attività parlamentare(175).
Il cambiamento degli equilibri politici divenne chiaro con la consultazione generale del novembre 1874. Da parecchi mesi lo spettro della crisi politica aleggiava nelle aule di Montecitorio: il governo Minghetti si trascinava stancamente, messo in continua difficoltà dal progressivo logoramento del gruppo parlamentare moderato, diviso al suo interno su alcuni provvedimenti finanziari di grande importanza, ma soprattutto sulle strategie future(176).
Attivate per tempo, le prefetture cominciarono già nel mese di maggio a fornire informazioni sui movimenti elettorali. I tre deputati eletti nei collegi di Venezia (Minich(177), Fambri e Maldini) furono dati per sicuri rieletti. La sola posizione di Fambri risultava non del tutto certa. Secondo il rapporto del questore
Fambri è quello forse nel cui partito può essersi verificato qualche vuoto; ma potrà tuttavia raccogliere un numero di voti bastante alla sua rielezione inquantoché si è da alcun tempo accostato all'alta aristocrazia, che lo accolse volentieri per il prestigio dei suoi meriti letterari, e da questi potrà ottenere probabilmente l'appoggio necessario per riuscire novamente eletto deputato [...](178).
Pochi mesi dopo il prefetto Carlo Mayr inviò una circolare a tutti i commissari distrettuali della provincia raccomandando
di dar opera a raccogliere per tempo ed ordinare le file della parte liberale, affinché l'improvvida inerzia o il difetto di preventivi accordi, intorno alle candidature più accettevoli non lascino facile vittoria alla opposizione che si avvantaggia spesso delle astensioni e della dispersione dei voti dei suoi avversari(179).
Nelle settimane successive le autorità governative puntarono decisamente alla costruzione di candidature forti da opporre a quelle dei progressisti nei collegi ritenuti più a rischio. Fu il caso ad esempio di quello di Chioggia, dove Alvisi era considerato difficilmente attaccabile. Qui si profilò la possibilità di sostenere la candidatura di Giacomo Collotta, di famiglia veneziana, già eletto nel '66 e nel '67 nel collegio di Palmanova e nel '70 in quello di Tolmezzo(180), rimasto escluso nei collegi friulani. Nulla fu lasciato al caso. Per indebolire il candidato progressista, il prefetto e Collotta decisero di puntare su un programma incentrato sulla realizzazione di una nuova tratta ferroviaria(181).
La strategia della sinistra - che si era notevolmente rafforzata sul piano organizzativo(182) - fu speculare, puntò cioè i propri sforzi sui collegi ritenuti più abbordabili. Nelle mire delle forze progressiste vi era il collegio di Venezia II, dove la candidatura di Fambri era ritenuta debole. In una riunione tenutasi il 4 ottobre presso l'abitazione di Roberto Galli, direttore de "Il Tempo", alla presenza dello stato maggiore regionale della sinistra (vi erano, tra gli altri, Carlo Tivaroni, Pietro Ellero, Cesare Parenzo), fu deciso di puntare sulla candidatura di Varè(183).
Man mano che la campagna elettorale entrò nel vivo cominciarono a delinearsi alcuni elementi di novità rispetto alle precedenti competizioni. La mobilitazione fu senz'altro maggiore, sia da parte delle forze di governo sia da parte di quelle di opposizione e con essa il ricorso a nuovi strumenti organizzativi. In primo luogo, secondo quanto riportano le fonti di polizia, si diffonde l'impiego da parte dei candidati di risorse economiche personali(184), in secondo luogo la campagna elettorale assume caratteri più moderni, invade, oltre agli ambienti privati, anche gli spazi pubblici come le piazze e i caffè(185) e contempla frequenti 'visite' da parte dei candidati al collegio, incontri con le autorità, discorsi ufficiali; in terzo luogo si assiste ad un massiccio impiego dell'associazionismo volontario che, come in precedenza segnalato, si presenta, soprattutto nel campo progressista, profondamente modificato.
Un quarto elemento riguarda invece l'attività dei candidati moderati. La loro risposta al rafforzamento organizzativo dei democratici fu un deciso potenziamento delle reti notabilari. Il caso del deputato Isacco Pesaro Maurogonato fu in tal senso illuminante. All'indomani della sua quarta elezione consecutiva, sempre al primo scrutinio, nel collegio di Mirano, fu indetto un banchetto di ringraziamento. Alla presenza di "oltre 80 elettori", e di "un buon numero dei Sindaci dei due distretti" (l'altro era quello di Dolo), tutti i più importanti notabili del collegio salirono sul palco per tributare il loro omaggio al deputato: parlarono Cesare Beretta, medico di Dolo, il sindaco di Mirano Francesco Mariutto, l'ufficiale del registro di Dolo Carlo Granziotto, il sindaco di Santa Maria di Sala Emilio Tipaldo.
Lo stesso intervento pronunciato da Maurogonato rappresentò un saggio del discorso pubblico del deputato moderato, nel quale non mancarono i toni anticipatori della incipiente stagione trasformistica. Secondo il minuzioso rapporto stilato dal commissario distrettuale, Maurogonato, dopo aver ringraziato i notabili che maggiormente avevano sostenuto la sua candidatura, affermò: "noi abbiamo bisogno di una maggioranza forte, per evitare le sorprese e per dare forza al governo che altrimenti è debole ed incerto, nel quale caso l'amministrazione e il credito pubblico ne soffrono con grave danno del paese".
Dopo aver concluso il suo discorso nel corso del quale non aveva esitato a dichiarare "alcuna antipatia per l'opposizione" e che anzi, "per indole analitica", si sentiva "trascinato piuttosto a quella parte", Maurogonato smise i panni del parlamentare per indossare subito quelli di presidente della Società operaia di Mirano e in quella veste si rivolse ai soci presenti esaltandone il lavoro e i risultati raggiunti, attribuibili a suo giudizio principalmente al fatto che la Società "si astiene dalla politica"(186).
La battaglia elettorale del '74 si concluse nei collegi veneziani con un buon risultato per la sinistra. Varè vinse al ballottaggio il confronto con Fambri nel II collegio di Venezia, Alvisi superò al primo turno il confronto con Collotta in quello di Chioggia. In tutti gli altri prevalsero i candidati moderati: Maldini in quello di Venezia I, Minich in quello di Venezia III, Pecile a Portogruaro.
I risultati furono in linea con il quadro nazionale(187) e regionale dove i deputati della sinistra passarono da 2 a 9 su un totale di 47(188). Per la destra non si trattò di un vero e proprio terremoto, ma di uno smottamento di notevoli dimensioni: molte roccaforti moderate furono per la prima volta violate dai candidati della sinistra come accadde, ad esempio, con la vittoria di Varè a Venezia(189).
Le elezioni del '74 segnarono dunque a tutti gli effetti un momento decisivo per le sorti della destra, mentre per la sinistra, ancora molto frantumata al suo interno, la rottura dell'egemonia moderata significò il raggiungimento di un primo importante risultato, impensabile solo pochi anni prima. Mentre a Roma tra i leaders della destra storica - a partire dal presidente del Consiglio Marco Minghetti per arrivare a Luigi Luzzatti, ormai affermatosi come una delle personalità politiche emergenti in quest'area - si faceva strada la percezione di una crisi irreversibile nella quale versava il partito(190), in periferia l'esito delle consultazioni elettorali non suscitò particolari reazioni.
Nella sua relazione semestrale il prefetto Mayr tendeva a fornire un quadro non troppo allarmistico della situazione politica. Parlò di "maggioranza del partito liberale [che] si mostrò sinceramente convinta e disposta ad appoggiare il Governo, e specialmente il Ministero attuale", di un risultato che "ha dimostrato come il partito liberale-moderato abbia pur sempre in questo paese una prevalenza assicurata e come sia seriamente compreso del bisogno di evitare le scosse e i mutamenti di indirizzo". Circa le due sconfitte subite dai candidati moderati, scrisse che nel collegio di Chioggia la situazione
era talmente radicata in favore dell'antico deputato di opposizione, che da tutti si riteneva difficilissima cosa, per non dire impossibile, riuscire a scalzarlo. Eppure si fece molto e in Cavarzere specialmente si ottenne un numero di voti molto significante e lusinghiero pel partito governativo.
E per quanto riguardava l'elezione di Varè, egli cercò di presentarla come una vittoria che non aveva un netto carattere di opposizione al governo e che nasceva soprattutto dal tradimento di una parte dell'elettorato moderato motivato dalle antipatie e dai contrasti personali sorti con Fambri(191).
La situazione rimase bloccata fino al 18 marzo 1876. Dopo la caduta di Minghetti, che segnò la fine dell'esperienza di governo della destra, prese avvio un processo di riorganizzazione di entrambi gli schieramenti. Per quello moderato, uscito a pezzi dalla "rivoluzione parlamentare", occorreva correre al più presto ai ripari.
Nel giugno 1876 fu fondata a Roma, sotto la guida di Quintino Sella, l'Associazione costituzionale centrale. Essa si poneva come pilastro di una nuova macchina organizzativa che doveva espandersi in tutte le regioni e rilanciare l'azione della destra(192). A Venezia l'Associazione costituzionale sorse nell'agosto di quell'anno per opera di un comitato promotore nel quale trovarono posto tutti i notabili moderati più importanti tra i quali Nicolò Papadopoli, il principe Giovanelli, Antonio Fornoni, Giovanni Battista Giustinian(193). L'unica novità fu costituita dalla presenza del ventitreenne Pompeo Molmenti in qualità di segretario del comitato. Cresciuto all'ombra di Luzzatti, al quale resterà legato per tutta la vita, Molmenti acquisì dopo il '76 un ruolo sempre più importante all'interno dell'area moderata, alleandosi ad un altro personaggio emergente come Lorenzo Tiepolo e ponendosi come regista di alcuni passaggi delicati che portarono al superamento di vecchi equilibri interni al partito(194).
Sul fronte opposto il 13 agosto 1876 si riunì a Venezia il congresso dei progressisti veneti. Alla presenza di tutti i deputati eletti nei collegi regionali, dei direttori delle testate 'amiche' quali "Il Bacchiglione" di Padova, "Il Tempo" di Venezia, "Il Polesine", "Il Gazzettino" di Treviso e di oltre 300 partecipanti, si sviluppò un'ampia discussione al termine della quale fu deliberata l'istituzione di un comitato generale con lo scopo di promuovere la costituzione di società progressiste(195) e la fondazione di nuove testate per potenziare il network giornalistico già esistente. Proprio in quei mesi, in ottobre, nacque a Venezia "L'Adriatico", giornale a lungo diretto da Sebastiano Tecchio che nei decenni successivi ebbe un ruolo decisivo nella vita politica cittadina e regionale.
Questo sforzo riorganizzativo, resosi necessario per le 'trasformazioni' che investirono su scala europea tutti i sistemi politici(196), coinvolse anche il mondo cattolico, rinvigorito dal congresso nazionale celebratosi nel giugno 1874 a Venezia, che vide la nascita dell'Opera dei Congressi(197). Sotto la spinta propulsiva di Giuseppe Sacchetti l'associazionismo cattolico conobbe subito una forte crescita(198); nel campo politico tutta l'attenzione dei cattolici si concentrò invece sulle amministrazioni locali dove, a partire dal 1875, l'impegno divenne, come segnalavano con crescente preoccupazione i prefetti governativi, sempre più massiccio e di aperta sfida all'ordine liberale.
Clamoroso fu lo scontro che si verificò alla vigilia delle elezioni amministrative di quell'anno, quando il prefetto Mayr diramò una circolare nella quale, invitando i cittadini "più stimati" a votare per i candidati liberali filogovernativi, dichiarava:
confido che anche nelle prossime elezioni amministrative i candidati del partito clericale-retrivo rimarranno soccombenti: mancherei al mio dovere se non ricordassi essere base del programma di simile partito elaborato nello scorso anno dal Congresso di Venezia, l'insinuarsi a poco a poco per mezzo delle elezioni, nelle locali amministrazioni collo scopo s'intende, di avversare ogni misura che direttamente od indirettamente favorisse i principii di progresso e di libertà, e d'impadronirsi del paese [...](199).
La polemica continuò a mezzo stampa all'indomani del voto, che fece segnare un forte avanzamento del consenso verso i candidati cattolici(200). Nei mesi successivi l'attività dei clericali proseguì secondo la strategia indicata dal congresso: la parallela costruzione di un tessuto associativo e di "opere" cattoliche con le quali portare avanti il disegno di realizzare una "società cristiana", l'utilizzo delle parrocchie come centrali organizzative per la mobilitazione elettorale, e la conquista di spazi sempre maggiori nelle amministrazioni pubbliche attraverso alleanze con una parte dei moderati, sperimentate con largo anticipo rispetto agli accordi organici della stagione del clerico-moderatismo, alleanze quindi non ancora ufficializzate, ma esplicite nei programmi pubblicati dai rispettivi organi di stampa.
La nascita avvenuta nel 1875 del Comitato conservatore fece registrare un ulteriore salto di qualità nell'organizzazione politica dei cattolici: presieduto dal conte Giustiniani Recanati, esso si trasformò nello strumento di mobilitazione degli intransigenti il cui peso elettorale divenne in alcune situazioni decisivo sugli equilibri amministrativi.
Nel giro di pochi anni il campo politico venne dunque profondamente modificato e si strutturò attorno a tre poli: l'Associazione costituzionale, per l'area liberal-moderata, l'Associazione progressista, per la sinistra storica e più in generale per l'area democratica, e il Comitato conservatore, per il movimento cattolico e per quei moderati che, come vedremo di seguito, non seguirono l'evoluzione in senso modernizzatore del moderatismo veneziano.
Le elezioni politiche del novembre 1876 non modificarono gli equilibri raggiunti due anni prima. Nei tre collegi veneziani furono confermati tutti i deputati uscenti: il solito Maldini nel I, Varè nel II e Minich nel III. Poche le novità anche negli altri collegi: Alvisi si guadagnò un'altra conferma in quello di Chioggia, scontata quella di Maurogonato a Mirano, l'unica novità fu rappresentata dal ritorno di Fambri che riuscì a farsi eleggere a Portogruaro, in una lotta tutta interna ai candidati moderati, sconfiggendo il deputato uscente Gabriele Pecile.
A Venezia e provincia la sinistra non avanzò ma conservò le posizioni già conquistate. Nel resto della regione, invece, essa ottenne un notevole risultato: dei 47 collegi disponibili, 27 andarono alla sinistra, che partiva da una dote di soli 9 collegi, e 20 alla destra, che invece prima ne controllava ben 38. Questi dati illustrano la portata di un successo che di fatto ribaltò il quadro politico regionale con forti avanzate dei progressisti nelle province di Treviso, Udine e Vicenza(201).
Il sistema politico sembrava dunque aver trovato un nuovo equilibrio interno. In realtà non fu così. Per un decennio circa, le principali aree politiche furono al loro interno interessate da profonde trasformazioni che seguirono modalità assai diverse. I nuovi equilibri che ne scaturirono, le nuove leve che emersero, le nuove alleanze che si formarono, incisero in modo determinante nella svolta delineatasi all'inizio degli anni Novanta nella vita politica veneziana.
Nel biennio 1877-1878 le relazioni prefettizie segnalarono con insistenza il crescente attivismo dei cattolici in campo politico(202) e le difficoltà dell'Associazione costituzionale che al contrario conobbe una continua emorragia di adesioni(203).
Proprio il '78 fu un anno decisivo per il movimento cattolico veneziano. Le tensioni da tempo latenti tra Sacchetti e i cattolici liberali giunsero al culmine a causa delle pesanti espressioni usate da "Il Veneto Cattolico" in occasione della morte di Vittorio Emanuele II. Quando gli anticlericali divulgarono il testo dei due telegrammi usati da Sacchetti per dare la notizia della morte del sovrano ("il Re è morto" e "il Papa sta benissimo"), l'opinione pubblica liberale insorse e in poco tempo dalle polemiche verbali si passò alle vie di fatto con l'assalto alla tipografia del giornale cattolico(204). Poche settimane più tardi Giuseppe Sacchetti fu costretto a lasciare la redazione del "Il Veneto Cattolico" e ad abbandonare Venezia(205). All'interno del movimento cattolico veneziano si stava preparando un cambio della guardia che portò alla ribalta le figure dell'avvocato Giambattista Paganuzzi e dei giovani Francesco Saccardo ed Ettore Songer, entrambi allievi del giornalista padovano; essi qualche anno più tardi, sulle ceneri de "Il Veneto Cattolico", diedero vita a "La Difesa", un nuovo e più moderno giornale che divenne il portavoce degli intransigenti veneziani e dell'intera regione, e continuarono l'azione di diffusione capillare delle organizzazioni del laicato cattolico nel tessuto sociale cittadino(206).
Più complessa appare la situazione nell'area moderata, all'interno della quale le divisioni tra i vari gruppi di notabili paralizzano e vanificano qualsiasi tentativo di riorganizzazione politica. Sempre nel corso del '78, Pompeo Molmenti, astro emergente del moderatismo veneziano, pubblicò sulla "Rivista Europea", un mensile fondato a Firenze nel 1869 da Angelo De Gubernatis, un interessante saggio intitolato L'ordinamento dei partiti politici in Italia(207). Nell'articolo, ampiamente ripreso e discusso sui giornali veneziani(208), affrontò alcuni dei temi classici della pubblicistica sviluppatasi dopo la svolta del '76, come quello sulla formazione di un grande partito liberale e soprattutto quello della partecipazione dei cattolici alla vita politica, tema, questo, rispetto al quale la sua posizione fu di appoggio all'ipotesi di formazione di un partito cattolico ma di netta opposizione a qualsiasi accordo in chiave clerico-moderata.
Spalleggiato dal quotidiano moderato "La Venezia", diretto in quel periodo da Carlo Pisani(209), ed ispirato da Luzzatti, Molmenti tentò di imprimere al moderatismo veneziano una svolta modernizzatrice attraverso la quale, in nome di una visione laica dei rapporti Stato-Chiesa, tagliare i ponti con i settori favorevoli ad un accordo con le forze cattoliche e cominciare ad affrontare in termini scientifici - sulla scorta dell'esperienza che andavano sviluppando i cosiddetti "socialisti della cattedra" italiani guidati da Lampertico e da Luzzatti - le questioni sociali più urgenti.
Pur consolidando i legami con la politica nazionale attraverso la partecipazione alle attività dell'Associazione costituzionale centrale, Molmenti cominciò sul finire degli anni Settanta ad occuparsi più da vicino dei problemi cittadini. Nel 1887 pubblicò sulla "Nuova Antologia" un polemico articolo con il quale attaccò duramente il piano regolatore e di risanamento approvato dal Comune nel dicembre 1886(210); due anni più tardi fece il suo ingresso nel consiglio comunale come candidato dell'Associazione costituzionale "Camillo Cavour" - sorta come tentativo di superamento dell'esperienza dell'Associazione costituzionale di cui raccoglieva l'eredità - e della lista radical-progressista(211).
Presidente di questa associazione era il conte Lorenzo Tiepolo con il quale da tempo Molmenti era in stretti rapporti epistolari. Entrambi condividevano la strategia di isolare all'interno dell'area moderata i settori più conservatori. Il primo banco di prova di questa nuova linea fu, come in precedenza ricordato, la nascita, in accordo con i progressisti, della giunta guidata da Tiepolo che rappresentò un punto di svolta nella storia amministrativa della città(212).
Dal quel momento, pur con continue oscillazioni tra i diversi schieramenti del fronte liberale e compatibilmente con gli impegni politici ed amministrativi assunti a partire dal 1890 nel Bresciano(213), Molmenti occupò una posizione di rilievo all'interno del gruppo moderato veneziano contribuendo, assieme a Tiepolo, ad avviare un processo - dal carattere totalmente endogeno - di rinnovamento delle strategie e della cultura politica del gruppo moderato.
Ma torniamo allo lotta politica dei primi anni Ottanta. Le trasformazioni che avevano interessato dopo il '76 le diverse aree politiche non produssero grandi mutamenti negli equilibri politici locali. Guardando alle competizioni per le elezioni politiche si possono dunque avanzare due distinte osservazioni: mentre il voto del 1880 non fece registrare novità sostanziali, diversa si presentò la situazione all'indomani della consultazione dell'82, la prima che sperimentò la nuova legge elettorale - fortemente voluta da Depretis e da lui stesso definita "il suffragio universale possibile"(214) - che allargò sensibilmente l'elettorato attivo e introdusse il passaggio dal criterio uninominale allo scrutinio di lista. Vediamo dunque come nell'arco di due tornate elettorali cambiò la geografia elettorale. Con la consultazione del 1880 nei tre collegi di Venezia furono confermati gli equilibri precedenti: rieletti il moderato Maldini nel I collegio e il progressista Varè nel II, l'unica novità fu costituita dal cambio avvenuto nel III collegio tra il deputato uscente Minich, che rifiutò la ricandidatura, e il generale Emilio Mattei sostenuto dall'Associazione costituzionale. Negli altri collegi della provincia si registrò un'unica modificazione della preesistente situazione: mentre nei collegi di Mirano e di Chioggia furono confermati i moderati Isacco Pesaro Maurogonato e Giuseppe Micheli, quello di Portogruaro fu per la prima volta conquistato dalla sinistra con l'avvocato Clemente Pellegrini. Non ci fu, insomma, quella netta ripresa fatta registrare dalla destra in tutte le altre province dopo la débâcle del '76(215).
Più mosso risultò invece il quadro uscito dalle elezioni dell'82. A determinare tali modificazioni concorsero vari elementi: in primo luogo il nuovo sistema elettorale e la conseguente ridefinizione della stessa fisionomia dei collegi elettorali(216), in secondo luogo la crisi interna alla Associazione costituzionale e i disinvolti spostamenti di alcuni personaggi da un raggruppamento all'altro. Inoltre l'allargamento dell'elettorato provocò la mobilitazione delle associazioni 'collaterali' che si impegnarono per favorire l'iscrizione alle liste elettorali(217).
Saltato l'accordo 'trasformistico' sulla candidatura di Varè(218) - che l'Associazione costituzionale si rifiutò di sostenere - i due schieramenti maggiori affrontarono la competizione elettorale in ordine sparso in un clima di grande confusione, accentuato anche dal gioco degli stessi grandi giornali come "L'Adriatico" e il "Tempo" che, collocati in maniera diversa rispetto agli equilibri nazionali e al governo Depretis, si divisero sul sostegno alle candidature della sinistra.
Guardando al quadro degli eletti, il bilancio finale premiò i candidati di quest'ultimo raggruppamento. Nel I collegio furono eletti, in ordine di preferenze, i moderati Maldini, Mattei e Varè, nel II collegio Micheli, Pellegrini e Tecchio, alla sua prima elezione in un collegio veneziano(219), figura già destinata a ricoprire il ruolo di leader del variegato gruppo democratico. Tenuto conto che Micheli in quest'occasione si presentò sotto le bandiere della sinistra, il risultato fu di quattro deputati per la sinistra contro i due della destra. Esso fotografava in maniera precisa il processo di rafforzamento della compagine progressista, la cui crescita non venne messa in discussione dalle pur evidenti divisioni che si andarono definendo tra la componente che faceva capo alla sinistra storica e quella legata alla tradizione democratica e radicale.
Questo risultato può a nostro giudizio essere spiegato con il rafforzamento del tessuto associativo progressista avvenuto in città a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Il tema meriterebbe un adeguato approfondimento. In questo caso ci limitiamo a porre in evidenza, utilizzando le fonti di polizia, alcuni segnali che testimoniano la vitalità della sociabilità democratica.
Primo esempio: nel settembre del 1881 la prefettura di Venezia dirama, sulla scorta delle indicazioni contenute in un telegramma a firma dello stesso Depretis(220), una circolare a tutti i commissari distrettuali per bloccare la formazione dei gruppi di cosiddetti "allievi volontari", una sorta di milizia, dotata di divisa ed armi, in via di formazione su scala nazionale ad opera della Società dei reduci(221).
Come secondo esempio è da ricordare l'imponente manifestazione tenutasi l'8 giugno 1884 nelle sale del Ridotto in occasione della commemorazione della morte di Giuseppe Garibaldi nel corso della quale, dopo il discorso ufficiale del prof. Giovanni Bordiga, scoppiarono disordini tra i rappresentanti delle società operaie e delle associazioni politiche. Gli arresti attuati dalla polizia innescarono proteste ed altri scontri che proseguirono nella stessa serata e nel giorno successivo in piazza S. Marco dove, secondo il rapporto di polizia, si radunarono circa 800 dimostranti(222).
Terzo esempio: sempre nel corso del 1884, dopo un silenzio durato qualche anno, la polizia tornò ad occuparsi dei movimenti delle associazioni politiche dell'area democratico-mazziniana, seguendo con particolare attenzione le attività del Circolo democratico "Fratelli Bandiera", da qualche tempo un sicuro punto di riferimento non solo per gli ex mazziniani ma anche per gli esponenti socialisti e radicali che divennero ben presto maggioranza tra gli iscritti(223). L'attivismo delle associazioni dei reduci e degli ex garibaldini si mantenne alto nel corso di tutti gli anni Ottanta, concentrandosi in modo particolare sul culto della memoria dei grandi avvenimenti dell'epopea risorgimentale. Con toni preoccupati e persino sorpresi, la polizia segnalò la commemorazione del 22 marzo 1848 tenutasi nella sala del Ridotto alla presenza di circa 700 persone tra lo sventolio delle bandiere delle varie società operaie e politiche(224).
Nel giugno di quello stesso anno il questore di Venezia, facendo il punto sulla situazione dell'associazionismo politico in città, diede notizia al prefetto dell'avvenuta costituzione della "società radicale Fratelli Bandiera", della "società repubblicana Guglielmo Oberdan" e di una socialista intitolata a Carlo Pisacane. Circa le attività delle suddette società, il questore affermò:
tutte queste società hanno in animo nella prima occasione di pubblici comizi o dimostrazioni di uscire colle loro bandiere; la rossa pella Società Guglielmo Oberdan, la rossa e nera per la società Carlo Pisacane. Per distrarre l'attenzione delle autorità di P.S. esse averebbero pensato che in quell'occasione debbano farsi scoppiare bombe o petardi in varie parti della città(225).
Altro esempio si ebbe quando la crescente conflittualità operaia registratasi sempre nel corso del 1884 innescò varie manifestazioni di protesta che ebbero come epicentri le grandi fabbriche come lo stabilimento Naville(226) e la Manifattura Tabacchi, nella quale le donne furono protagoniste di alcuni scioperi dal carattere spontaneo, privi cioè del supporto di una struttura organizzativa sindacale(227).
Infine un discorso a parte merita la figura di Sebastiano Tecchio: il suo ruolo in questi anni nel promuovere la ripresa delle attività della Società dei reduci non può passare inosservato(228). Questo suo impegno coincise con un rallentamento della sua carriera parlamentare dovuto alla posizione assunta rispetto alle alleanze nazionali. L'opposizione a Depretis, iniziata assai precocemente sulle pagine del quotidiano che dirigeva(229), e la linea tenuta dallo stesso giornale dopo la svolta trasformistica del 1882, di attacco alla restrizione delle libertà individuali, al dilagare della corruzione, ai tentativi di condizionare l'operato della magistratura, gli costarono la mancata elezione nel 1886 e la rottura dei rapporti con la sinistra storica, favorevole a Depretis, che pagò con una seconda sconfitta elettorale patita nel 1890.
Ma accanto alle vicende strettamente politiche, altri motivi contribuirono in realtà a distogliere Tecchio dall'agone politico: la morte del padre, Sebastiano senior, grande figura di patriota(230), e la grave crisi de "L'Adriatico", per il quale da alcuni mesi era stata lanciata un'operazione di ricapitalizzazione che avrebbe dovuto consentire a Tecchio di rientrare di una parte almeno del capitale anticipato all'atto della fondazione della testata.
In pratica si trattava di trasformare un'iniziativa editoriale nata con un'impronta familiare in una vera impresa industriale come ormai richiesto dai tempi. A tale scopo erano state mobilitate tutte le personalità della sinistra, dai deputati veneti ai grandi leaders nazionali, come Cairoli e soprattutto Zanardelli. La crisi del giornale fu l'occasione sulla quale Tecchio e Pellegrini(231) puntarono per coinvolgere il deputato bresciano in un ragionamento più ampio sulla crisi della sinistra non ministeriale nel Veneto.
Privo del mandato parlamentare, Tecchio si dedicò alla cura dei rapporti con il tessuto delle associazioni politiche e mutualistiche e alla guida dell'Associazione del progresso. Non è un caso che la sua rielezione in Parlamento coincida con le elezioni del '92, le prime che segnarono il ritorno al vecchio sistema elettorale per collegi uninominali, che valorizzava al massimo la forza dei legami notabilari di ciascun candidato.
La ripresa e la crescita dell'associazionismo volontario registratesi nel corso degli anni Ottanta non fu tuttavia sufficiente ad impedire la forte battuta d'arresto che la sinistra subì nelle elezioni del 1886. Cosa era dunque successo? Il risultato negativo dipese in gran parte dalla rottura che, in prossimità del voto, si consumò tra le due anime della sinistra, quella, appunto, di Tecchio e quella di Roberto Galli. Il direttore de "Il Tempo", di due anni più giovane di Tecchio, anch'egli ben inserito, come si è visto, nel network associativo cittadino, sostenuto dal prefetto Mussi, passò armi e bagagli tra le file governative iniziando una carriera che avrebbe proseguito interamente all'ombra di Crispi, di cui divenne uno dei più fidati collaboratori.
Le fasi preliminari della campagna elettorale furono caratterizzate da una forte mobilitazione che coinvolse, attraverso la costituzione di appositi comitati, categorie come i negozianti(232) e gli operai(233) - entrambe in larga parte schieratesi a favore di Galli - che fino ad allora erano rimaste ai margini della competizione.
La divisione si rivelò fatale per la sinistra e fece il gioco dei moderati che, sapientemente guidati da Tiepolo, ottennero l'en plein in tutti e due i collegi cittadini. I moderati elessero Maurogonato, Mattei e Maldini nel I collegio sconfiggendo Giovan Battista Ruffini e Giacomo Ricco sostenuti dall'Associazione politica del progresso, e Paolo De Marco, candidato proposto dal Comitato operaio. Nel II collegio furono eletti Nicolò Papadopoli, Aristide Gabelli e Galli, che godette dell'appoggio attivo del prefetto(234). Tra i non eletti figurarono Amos Pellegrini, Tecchio (a favore del quale si schierò apertamente la Società dei reduci) e Bernini, tutti proposti dall'Associazione del progresso.
Così Tecchio scrisse a Zanardelli all'indomani del voto:
Avrai visto l'esito delle elezioni nel Veneto [...]. I prefetti ne hanno fatto di tutti i colori. Nel nostro secondo collegio il Mussi e il Galli uniti ai moderati col miliardario Papadopoli ci fecero una guerra spietata, seminando corruzione, intimidazioni e pressioni colla più evidente sfacciataggine. La caduta mia e quella del Bernini erano prevedute. Ma nessuno sognava che potesse cadere il Pellegrini e che riescisse il Galli [...]. L'esito della votazione ha sbalordito tutti. Adesso cominciano a giungere notizie che spiegano colla corruzione su vastissima scala, i 700 voti raccolti dal Galli in più del Pellegrini. Papadopoli ha pagato tutto essendosi all'ultimo momento impegnato il Galli a far votare i suoi amici di Chioggia per i due moderati, i quali ebbero infatti in quella città circa 600 voti ciascuno. Una vera infamia. Adesso, naturalmente, il Galli andrà a Roma a fare il sinistro [sic] agli stipendi del Depretis!! Altro che pantano!
Basta! Se il resto d'Italia non salva mandando alla Camera una forte opposizione capace di liberarci presto da quell'ignobile vecchio, non so dove andremo a finire(235).
Dopo la sconfitta elettorale, Tecchio riprese ad occuparsi della situazione del giornale. La ricerca di finanziamenti fu portata avanti con la diretta partecipazione di Zanardelli che coinvolse le grandi banche nazionali. Il potenziamento e l'ammodernamento de "L'Adriatico" rimanevano dunque il punto fermo per la ripresa politica della sinistra. Scriveva l'ex deputato veneziano nel dicembre 1886:
La reazione rialza baldanzosa il capo in tutta Italia e qui nel Veneto par d'essere ritornati ai più brutti tempi della vecchia destra. Bisogna assolutamente fare qualche cosa per rialzare le sorti del partito liberale e riordinarlo, e prima di tutto, mi pare, dovrebbesi provvedere al solo giornale di grande formato che nel Veneto tiene alta la comune bandiera [...](236).
Il rilancio della sinistra non fu tuttavia facile. Sul piano editoriale la nascita de "Il Gazzettino", avvenuta nel marzo 1887 per opera del democratico cadorino Giampietro Talamini, creò non pochi problemi. La nuova testata recava sotto il titolo la dicitura "Giornale della Democrazia Veneta" e, come si legge dall'editoriale di presentazione del direttore-proprietario, ambiva a collocarsi in un'area politica molto vicina a quella de "L'Adriatico"(237).
Per quanto riguardò invece il campo strettamente politico, i cambiamenti intervenuti nella politica nazionale a partire dall'aprile 1887 - con la nascita dell'ultimo governo Depretis nel quale entrarono i due più importanti esponenti della "Pentarchia", vale a dire Zanardelli e Crispi - modificarono l'atteggiamento del deputato bresciano da tempo punto di riferimento politico e organizzativo per la sinistra veneziana e veneta. Non più all'opposizione, Zanardelli iniziò a muoversi con maggiore cautela: bloccato nel gioco delle mediazioni tra il centro e la periferia, distolto dalle occupazioni ministeriali, cominciò ad affrontare le questioni locali con maggior distacco e con una grande attenzione a non rompere gli equilibri politici con le altre componenti presenti nel governo, crispini e giolittiani in primis.
Tecchio dovette prendere atto della nuova situazione e cercare di ritagliarsi uno spazio politico in un contesto reso ancor più complicato dall'evoluzione della situazione locale. Molti dei vecchi equilibri erano saltati; le vicende politiche locali si intrecciavano in maniera sempre più forte con quelle nazionali, cresceva inoltre il peso di nuove figure come quella di Luigi Luzzatti, prossimo ormai a raggiungere i vertici della sua carriera politica e sempre più determinante negli equilibri politici cittadini.
Ancora una volta per capire gli spostamenti avvenuti all'interno del quadro politico locale bisogna analizzare le vicende interne al Comune che anticipano tendenze che diverranno decisive nel corso degli anni Novanta. Cos'era dunque successo tra l'89 e i primi mesi del Novanta? Dopo circa sei mesi dalla sua elezione a sindaco, Lorenzo Tiepolo aveva gettato la spugna. L'accordo tra moderati e sinistra non aveva retto alle forti tensioni interne che caratterizzavano entrambi gli schieramenti e alle pressioni del governo centrale. È probabile che lo stesso Tiepolo, fiutando il rischio di essere impallinato da alcuni uomini del gruppo moderato, avesse deciso di non correre eccessivi rischi e di puntare ad una candidatura per le elezioni politiche. Sta di fatto che il suo tentativo di tenere unite in una prospettiva liberaleggiante e avanzata tutte le componenti del moderatismo veneziano era fallito(238).
Qualcosa di importante era infatti avvenuto in quei mesi all'interno di quest'area. Acquisendo dagli eredi Zajotti la "Gazzetta di Venezia", verso la fine del 1888 irrompeva sulla scena politica locale il conte Ferruccio Macola di Castelfranco. Giornalista, aveva nel 1886 fondato a Genova "Il Secolo XIX", testata che aveva diretto fino al trasferimento a Venezia per rilevare la vecchia, ma sempre potente, testata dei liberali moderati e conservatori. Dopo aver esordito come fervente sostenitore di Crispi, il conte, personalità irrequieta dal carattere rissoso e violento, compì nel giro di pochi anni una straordinaria metamorfosi spostandosi progressivamente su posizioni ultraconservatrici. A partire, infatti, dal 1893, anno della nomina del conterraneo mons. Giuseppe Sarto alla guida del patriarcato di Venezia, divenne il garante politico degli accordi con i clericali, accordi ai quali avrebbe in larga parte affidato la sua carriera politica che si divise tra Venezia e Castelfranco, divenuto a partire dal 1895 fino al 1909 suo feudo elettorale(239).
Il suo arrivo a Venezia provocò un terremoto nelle calme e stagnanti acque del gruppo moderato. Nel giugno del 1889 pubblicò il Progetto per costituire una Federazione Politica Regionale(240), una summa delle sue idee conservatrici e reazionarie, nella quale ufficializzava il distacco da Crispi, spostatosi a suo modo di vedere più a sinistra che a destra, e rilanciava il ruolo dei moderati veneti come collante per una futura intesa con le forze conservatrici e con quelle cattoliche.
Nel 1890 intervenne, sempre dalle colonne della "Gazzetta", nel merito del dibattito(241) che si era sviluppato a partire dalla pubblicazione di un articolo di Fedele Lampertico nel quale il senatore vicentino aveva avanzato l'idea della formazione di un partito conservatore che riunisse moderati e cattolici(242). Oltre a quella di Macola, la proposta trovò la piena adesione di Fambri(243), mentre contrario si dichiarò Molmenti che fu duramente e ripetutamente attaccato dal direttore della "Gazzetta"(244).
Il dibattito anticipò la resa dei conti che si consumò in casa moderata in vista delle elezioni politiche convocate per il mese di novembre di quello stesso anno. La linea di Macola non tardò ad imporsi e si tradusse nella definizione di nuovi accordi: nel I collegio furono candidati Tiepolo, il barone Alberto Treves de' Bonfili e il generale Emilio Castelli che risultarono tutti eletti; nel II collegio furono riconfermati i tre deputati uscenti Papadopoli, Galli e Gabelli che si imposero sui candidati democratici.
Tecchio e Pellegrini furono invece sacrificati sull'altare degli accordi nazionali a cui lo stesso Zanardelli dovette piegarsi. A quel punto le speranze di una ripresa della sinistra si legarono interamente, fino ad una successiva evoluzione della politica nazionale, alla nuova giunta comunale guidata da Riccardo Selvatico.
La giunta del sindaco poeta nacque ufficialmente il 21 aprile 1890, nello stesso giorno in cui Lorenzo Tiepolo rassegnò le sue dimissioni.
Seppur l'esperienza politica dello scrittore e commediografo(245), nato a Venezia il 16 aprile 1849 da una agiata famiglia borghese, morto nella città lagunare il 22 agosto 1901, rappresenti uno dei tanti buchi neri della storia otto-novecentesca di Venezia, è possibile fissare alcuni punti di questa fase della vita amministrativa cittadina. In primo luogo giova ricordare che essa non nacque come frutto di un piano studiato a tavolino, bensì fu il risultato di una serie di fortuite coincidenze, prima tra tutte il già citato fallimento del tentativo compiuto da Tiepolo di tenere unite le diverse anime dell'area moderata attorno ad un programma socialmente avanzato.
Depongono a favore di questa interpretazione vari elementi. Il fatto che Selvatico non fosse assolutamente un politico navigato: fino al 1889, anno nel quale fu eletto con un buon risultato personale nel consiglio comunale, non solo non aveva occupato nessuna altra carica in campo amministrativo ma non aveva dimostrato nessun particolare trasporto per l'impegno politico. Egli insomma si era limitato ad osservare da lontano, dai tavolini del Caffè Florian - dove a partire dai primi anni Ottanta formava con Giacinto Gallina, Enrico Castelnuovo, Pompeo Molmenti, Giovanni Bordiga, diventato più tardi suo genero, e Antonio Fradeletto un gruppo ben affiatato - gli avvenimenti della politica locale.
Trascinato da Fradeletto - che nel 1885 esordì come critico letterario e artistico su "La Venezia" ancora diretta da Carlo Pisani e che in quello stesso anno accettò la candidatura alle elezioni amministrative tra le file dei moderati, senza tuttavia risultare eletto - Selvatico aveva aderito nel 1888 al comitato per l'erezione del monumento a Paolo Sarpi(246), all'interno del quale si era distinto per le sue posizioni anticlericali, e questo era stato l'unico suo impegno pubblico assunto in quegli anni. Solo nel 1889 aveva ceduto al corteggiamento di Clemente Pellegrini e di Sebastiano Tecchio ed aveva accettato di candidarsi per il consiglio comunale(247).
Dunque Selvatico non solo non seguì le convulse fasi della crisi amministrativa della primavera del '90, ma non si impegnò per favorire la caduta della giunta Tiepolo. Prova ne sia che il giorno successivo alla sua nomina scrisse da Milano, dove si trovava, all'assessore anziano Eugenio Caluci la seguente lettera:
Illustrissimo signore,
la grande testimonianza di stima che il Consiglio Comunale volle darmi eleggendomi a Sindaco, mi ha profondamente commosso. Se l'eminente ufficio significasse soltanto sacrificio di me, non lo vedrei che un dovere da compiere e l'accetterei senza esitare. Ma esso include un onore tanto al di là delle mie aspirazioni, un assunto tanto superiore alla mia breve esperienza, che un altro dovere mi impone: quello di rinunciare. Preferisco di parere poco riconoscente oggi, piuttosto che essere giudicato immeritevole domani. La prego, ill.mo signore, di partecipare al Consiglio, insieme coi miei più vivi ringraziamenti, questa mia ferma risoluzione [...](248).
La lettera, che non fu mai resa pubblica, gettò nel panico totale i grandi sponsors dell'operazione. Tecchio e Fradeletto iniziarono un'opera di convincimento che tuttavia non fu facile e che si protrasse per alcuni giorni incontrando, come chiaramente si deduce da una fitta corrispondenza(249), la ferma resistenza di Selvatico.
È difficile dire se la ritrosia ad accettare il prestigioso incarico facesse parte di un atteggiamento studiato. Il Selvatico che emerge dalle corrispondenze contenute nelle carte recentemente rese consultabili(250) è certamente un uomo con una flebile passione per la pratica e la battaglia politica, che alla fine si piegò ad accettare l'incarico sotto il pressing incalzante degli amici, per puro senso del dovere.
È curioso notare che colui che si trovò a guidare un passaggio così importante per le sorti delle forze democratiche, trasformando il caso veneziano in una sorta di vetrina cui guardò l'intera politica nazionale, fosse un "non politico" per eccellenza. Come questo intellettuale prestato alla politica sia riuscito ad imprimere una svolta decisiva all'amministrazione cittadina è questione che ancor oggi attende una spiegazione che solo studi settoriali potranno dare. Certo è che Selvatico ereditò, salvo pochi spostamenti, la stessa base di consensi del predecessore, base che confermò, e leggermente incrementò, superando lo scoglio di due elezioni parziali nel 1892 e nel 1893: in queste ultime lo stesso sindaco dovette presentarsi alle elezioni, in quanto decaduto per sorteggio dalla carica di consigliere: superò brillantemente il test e fu riconfermato sindaco dopo qualche mese(251).
Alla debolezza di maggioranze risicate fece quindi fronte con l'indubbia popolarità di cui godeva, frutto dell'attività in campo culturale. Il programma presentato non si discostò molto da quello della giunta Tiepolo; fu ribadito l'impegno per alleggerire il carico tributario e quello a favore del problema delle abitazioni, ma a differenza del predecessore Selvatico puntò su un deciso piano di risanamento delle finanze comunali, sulla laicizzazione dell'insegnamento, e soprattutto sul ruolo di Venezia, definita "città mondiale", per la quale "noi siamo responsabili dei suoi tesori di natura e d'arte"(252).
Prudenti furono anche le scelte dei nuovi assessori, tra i quali trovarono posto solo due consiglieri eletti nella lista radical-progressista: Giuseppe Caroncini, che fu chiamato ad occuparsi di "beneficienza e culto", e Giovanni Bordiga, il quale inizialmente si occupò di lavori pubblici per poi assumere il delicato referato dell'istruzione pubblica. Proprio quest'ultimo sembra essere il vero motore della giunta; il sindaco-ombra dotato di fiuto politico ed anche di grandi capacità gestionali che lo portarono a dirigere molte delle scelte più qualificanti.
La partenza della giunta Selvatico fu piuttosto lenta. A parte l'approvazione del piano regolatore (1891) e l'apertura dell'esercizio del puntofranco a S. Basilio (1892), gli atti più significativi furono: l'approvazione della famosa circolare del 15 novembre 1892 sull'abolizione della preghiera nelle scuole comunali, che sarebbe entrata in vigore fra il 1893 e il 1894; la decisione, fortemente avversata da Filippo Grimani a nome dei moderati, di concedere un appoggio logistico e finanziario alla Camera del lavoro nata verso la fine del 1892(253) e l'inaugurazione della statua di Paolo Sarpi collocata in campo S. Fosca, accanto al ponte del suo tentato assassinio; tre provvedimenti, questi, politicamente assai difficili da gestire.
Non è un caso che all'indomani delle elezioni politiche del novembre '92 Fradeletto - che in campagna elettorale aveva auspicato il superamento della scissione tra una "Venezia nuova" che sedeva in consiglio comunale e una "Venezia vecchia" che occupava i banchi del Parlamento - abbia scritto una lettera dai toni preoccupati all'amico Selvatico:
Il momento che la città sta attraversando è importantissimo e tu devi comprenderlo. Da quasi tre anni i liberali tengono l'amministrazione; e ormai abbiamo conquistato un seggio in Parlamento. Al Tecchio spetta una grande responsabilità: dopo tante accuse [...] di negligenza e di impotenza lanciate al Tiepolo, egli ha l'obbligo di esercitare degnamente, altamente il suo mandato. Ma un'altra grande responsabilità pesa anche su di te, Riccardo mio. Bisogna dire addio al Marcello, addio ai cari sogni dell'arte, e lavorare, lavorare assiduamente per la città. Poco si è fatto finora; e la tua amministrazione non può morire sotto l'accusa di essere stata fiacca e sonnolenta. I moderati si preparano certo a darvi delle grosse battaglie [...]. Tu oggi sei sorretto dalla generale simpatia che ispira la tua nobile e netta figura, ma ciò non basta; bene o male che sia, hai accettato d'essere e di rimanere Sindaco. Vai dunque giudicato come Sindaco; e un'amministrazione tormentata, lenta, svogliata, potrebbe compromettere anche (permettimi di parlare con tutta franchezza) la tua reputazione morale.
Mi pare di avertelo detto altre volte. La bontà di un'amministrazione si manifesta o colle ardite e originali iniziative - o colla cura [...] quotidiana del buon andamento degli affari. Ti offenderai se ti dirò che da parecchi mesi, da molti mesi a questa parte, voi mi sembrate colti da paralisi e da afasia?
Dopo aver indicato un elenco di provvedimenti che da tempo aspettavano di essere adottati, Fradeletto conclude il suo sfogo affermando:
Se questa lettera avesse un po' il tono di una predica, perdonami, amico mio, e credi che non l'ho fatto apposta. Io vorrei, per te, pel partito liberale, per la mia Venezia - e anche un pochino per me - che il tuo sindacato lasciasse traccia d'operosità degna ed utile, altrimenti prevedo una clamorosa e, purtroppo, non ingiustificata caduta. So che il tuo cuore e il tuo pensiero sono coll'arte; ma oggi il dovere ti impone di sacrificarla. E tu sei sempre stato pronto a rispondere all'appello del dovere [...](254).
La lettera fotografa in maniera pressoché perfetta la situazione. In essa ritroviamo tutta la delusione per il lavoro della giunta e la consapevolezza che si stava giocando una partita decisiva per le sorti delle forze democratiche. Essa inoltre conferma, da una fonte autorevole e scevra da interessi personali e di parte, il profilo di un sindaco che a mala voglia si adatta ai ritmi della politica e che continuamente sente il richiamo esercitato dall'arte e dagli studi.
Nella restante parte del mandato amministrativo la giunta riuscì effettivamente a portare a termine alcune importanti iniziative: nel 1893 fu, ad esempio, avviato con il contributo della Cassa di Risparmio un piano di edilizia popolare di ampia portata, gestito direttamente dal Comune sotto la sua responsabilità. Fu creata la nuova scuola professionale femminile, fu migliorato il servizio medico, nel 1894 fu abolita la tassa comunale sulle farine, furono adottati anche altri provvedimenti tesi a migliorare la struttura industriale e commerciale della città(255), ma l'eredità più significativa che Selvatico lasciò fu l'invenzione della Biennale.
Concepita sui tavolini del Caffè Florian(256), l'idea di una esposizione periodica d'arte contemporanea trovò il suo momento di avvio con l'approvazione, avvenuta il 19 aprile 1893, da parte del consiglio comunale della proposta di istituire una commissione (composta da Bartolomeo Bezzi(257), Marius De Maria, Giuseppe Minio, Emilio Marsili, Augusto Sezanne e Antonio Fradeletto che fungeva da segretario) con il compito di preparare il programma di una mostra inizialmente prevista per il 1894 ma che per varie ragioni slittò all'anno successivo(258). Riccardo Selvatico fece appena in tempo ad inaugurare la prima Esposizione, che fu chiusa quattro mesi più tardi dal suo successore Filippo Grimani.
La crisi della giunta Selvatico era iniziata ben prima che il voto delle elezioni generali amministrative del luglio 1895 sancisse la larga vittoria dei candidati della lista sostenuta dal Comitato antiradicale e da quello conservatore, che ottennero 48 consiglieri su 60(259).
Alle origini della sconfitta vi furono svariati motivi. Quelli interni, innanzitutto: i limiti della compagine di governo e le caratteristiche stesse del sindaco - che non smise mai di sentirsi 'poeta' e non riuscì a calarsi nel ruolo del politico - più volte rimarcate. Vi era poi la sproporzione tra gli obiettivi politici ed amministrativi e la caratura delle forze di cui disponeva la giunta sia nel consiglio comunale, sia fuori da Ca' Farsetti. Non dimentichiamo che a sostenere il sindaco Selvatico vi erano forze moderate come quelle dei 'terzaforzisti' di Tiepolo, in perenne oscillazione tra i diversi raggruppamenti. Da questo punto di vista la giunta Selvatico, pur presentando elementi programmatici simili, non può essere considerata l'antesignana delle esperienze bloccarde affermatesi nei primi anni del Novecento in molti capoluoghi del Veneto(260), proprio perché si reggeva su un'alleanza diversa.
Quanto alla situazione organizzativa delle forze progressiste in città, essa non era sostanzialmente mutata. Tecchio, sempre attento a seguire l'evoluzione della politica nazionale e le posizioni di Zanardelli, aveva visto con favore la nascita del primo governo Giolitti: in una lettera inviata il 16 giugno 1892 al deputato bresciano allude alla creazione di un "Comitato regionale sotto il nome di Comitato progressista-democratico e con un programma ministeriale". Nella stessa missiva confidava a Zanardelli la speranza che Giolitti intervenisse a rimuovere i prefetti di Belluno, Treviso e Vicenza e che si definisse al più presto un accordo con il presidente del Consiglio per i collegi veneti(261).
Come abbiamo letto nella lettera di Fradeletto a Selvatico scritta all'indomani delle elezioni del novembre 1892, Tecchio fu l'unico deputato della sinistra eletto in quella tornata nei collegi cittadini(262). Aveva accettato, controvoglia, come scrisse a Zanardelli un mese prima, di fare il candidato ministeriale nel I collegio di Venezia "quando sulla porta del mio collegio il Ministero accorda i suoi favori [...] a chi per politica e moralità rappresenta la mia antitesi"(263).
Tecchio alludeva a Macola che in quei mesi non perdeva occasione per attaccare sulla "Gazzetta" il governo, ma che essendo anch'egli alla caccia di un collegio sicuro sottobanco trattava con Giolitti e nelle conversazioni informali non esitava a sbandierare l'appoggio del presidente del Consiglio(264). Nelle parole del direttore de "L'Adriatico" affiorava anche una forte delusione: "[...] Capisco che bisogna usar prudenza, per non compromettere tutto, ma ti assicuro che la delusione è grande. Sono proprio stomacato e se non avessi la catena di questo maledettissimo giornale, la galera della mia vita, mi ritirerei [...]"(265).
Ma, accanto alle difficoltà provenienti dall'interno dell'area della sinistra democratica, è notorio che la spallata decisiva fu portata dalla nomina di mons. Giuseppe Sarto a patriarca di Venezia. Vescovo di Mantova dal 1884, mons. Sarto era stato nominato al nuovo incarico nel giugno 1893. Per più di un anno la sua nomina fu bloccata dalla mancata concessione dell'exequatur da parte del governo Giolitti. La questione si risolse solo con il ritorno al potere di Francesco Crispi, il quale tra l'estate del '94 e l'inizio del '95 si impegnò, grazie anche alla mediazione del senatore Fedele Lampertico come dimostrano alcuni carteggi(266), nello smorzare le tensioni da tempo acuitesi con il Vaticano.
Il 24 novembre 1894 mons. Sarto prese finalmente possesso della sua sede. Nella basilica di S. Marco, davanti alle autorità civili e religiose - tra le quali spiccava l'assenza del sindaco Selvatico e dei membri della giunta - pronunciò il discorso di insediamento, nel quale annunciò, al motto di Instaurare omnia in Christo che verrà ripreso anche nel suo stemma papale, il suo programma di riscossa cattolica. La capitale dell'Opera dei Congressi e del clerico-intransigentismo si accingeva a diventare la capitale del clerico-moderatismo: il terreno amministrativo appariva come quello più facilmente conquistabile, mettendo assieme l'esperienza di governo dei notabili moderati e la forza d'urto dell'elettorato cattolico opportunamente istruito e sollecitato a scendere in campo.
"Lavorate, pregate, votate" furono dunque le parole d'ordine con le quali Giuseppe Sarto - perfetto "impasto di bonomia veneta e di determinazione autoritaria"(267) - mobilitò il mondo cattolico alla riconquista della società civile e delle istituzioni. Mentre la stampa cattolica cominciò un bombardamento senza tregua contro la giunta Selvatico, accusata di essere ostaggio della "setta giudaico-massonica", e tutte le strutture diocesane furono mobilitate in vista dell'appuntamento elettorale, si affidò al conte Macola il compito di stipulare un accordo elettorale con le forze moderate. Il patto prevedeva un'equa ripartizione dei seggi consiliari, l'esclusione di candidature massoniche o anticlericali, la divisione dei referati, il ripristino dell'insegnamento religioso, la partecipazione della giunta alle cerimonie religiose che erano state sistematicamente disertate dagli esponenti della giunta Selvatico.
Con l'insediamento della nuova giunta, nella quale spiccava il rientro alla politica attiva di Pompeo Molmenti che assumeva il referato alla pubblica istruzione, iniziò effettivamente una nuova stagione della politica cittadina. Per circa venticinque anni Venezia fu governata dal "sindaco d'oro" e da maggioranze che ad ogni tornata elettorale, parziale o generale che fosse, si rinnovarono nel segno dell'accordo clerico-moderato risultato vincente nella competizione del luglio 1895.
Di questa lunga esperienza di governo, assolutamente insolita per una grande città italiana nel periodo compreso tra la fine del secolo e i primi decenni del Novecento, abbiamo una conoscenza ancora troppo scarsa. Due elementi ci sembrano, tuttavia, chiari anche se bisognosi di ulteriori approfondimenti: la biografia di Filippo Grimani e la rilevanza di alcune scelte strategiche compiute dalla giunta clerico-moderata rispetto all'evoluzione capitalistica di Venezia e al suo futuro 'novecentesco'.
Dotato di una personalità fuori dal comune e di una capacità di comunicazione rara nel ceto politico del tempo, la carriera politica di Grimani non assomiglia a quella tipica del grande notabile moderato del tempo, ma sembra per certi versi anticipare la figura del leader carismatico che comincia ad imporsi a partire dalla tarda età giolittiana in cui si afferma definitivamente la politica di massa.
Il suo indiscusso potere affonda le radici non solo nelle risorse derivanti da un'attenta gestione degli scambi clientelari tipici dei notabili ottocenteschi, ma anche dalla capacità di amministratore, dalla tecnica di governo che gli consentiva di mediare e soddisfare le diverse istanze dei gruppi di interesse che a partire dalla fine del secolo si affacciano prepotentemente sulla scena politica cittadina.
Carisma e grande tecnica di governo suscitarono l'entusiasmo dei seguaci e l'ammirazione degli avversari, in alcuni casi anche interni alla stessa area moderata, che spesso riuscì a cooptare nella sua maggioranza. La concezione della politica e il metodo di governo della cosa pubblica non gli consentirono di creare una scuola, un gruppo di discepoli. Non è un caso che egli si sia circondato di personaggi di secondo piano e che alcune delle personalità più brillanti della sua stessa parte politica se ne siano allontanate, non solo per i dissensi politici ma anche perché soffocate dal suo protagonismo. Infine va sottolineato il fatto che Grimani non lasciò una vera eredità politica. Con la sua morte si chiuse definitivamente un'epoca: va tuttavia segnalato un ultimo particolare e cioè il fatto che gli uomini politici di formazione liberale che ritroviamo in posizioni di comando negli anni del fascismo avevano quasi tutti compiuto il loro apprendistato nelle amministrazioni guidate dal "sindaco d'oro".
Premesso che non ci soffermeremo sulla valutazione di quanto realizzato dall'amministrazione Grimani nel corso del suo lungo periodo di governo(268), orienteremo invece le nostre osservazioni sulle trasformazioni che il sistema politico locale conobbe in quel periodo. Una prima questione riguarda la consistenza del blocco di potere su cui si resse l'alleanza clerico-moderata. Guardando all'interno di quest'aggregazione, l'immagine di compattezza e la stessa visione di un Grimani signore incontrastato della politica locale vengono almeno in parte ridimensionate.
Per tutto il periodo della sua permanenza a Ca' Farsetti egli dovette fare continuamente i conti con due vere spine nel fianco rappresentate da Pompeo Molmenti e Lorenzo Tiepolo. Il primo, come sopra ricordato, nel '95 era entrato a far parte della giunta clerico-moderata. Pochi mesi prima di essere eletto al consiglio comunale di Venezia, aveva egli stesso sperimentato la forza degli accordi clerico-moderati facendosi rieleggere nel collegio di Salò con l'appoggio determinante dei voti cattolici(269). Due anni dopo, nel marzo '97, Molmenti mutò nuovamente la sua posizione politica. Decise di ripresentarsi alle elezioni ufficialmente come candidato indipendente, avvicinandosi in realtà allo schieramento zanardelliano e stringendo rapporti a livello nazionale con il marchese di Rudinì. La sua nuova collocazione parlamentare diveniva così difficilmente compatibile con quella veneziana che lo vedeva direttamente impegnato come assessore all'istruzione nel ripristino del Pater noster e dell'insegnamento religioso nelle scuole, suscitando gli entusiastici commenti della stampa cattolica e di Macola e i sarcastici commenti de "L'Adriatico"(270).
Circondato dall'attenzione del patriarca Sarto che seguì passo dopo passo l'attuazione dei provvedimenti citati e protetto dalla stampa cattolica, Molmenti, ergendosi a paladino dei principi religiosi, venne ad occupare una posizione di assoluto rilievo nella giunta clerico-moderata e nei rapporti con i vertici del mondo cattolico veneziano. Pur riuscendo per un certo periodo a conciliare abilmente la sua posizione 'nazionale' con quella 'locale', nel giugno del '97 presentò le dimissioni da assessore. La rottura con Grimani avvenne sulle scelte riguardanti il collegamento con la terraferma attraverso un ponte carrozzabile e su quelle riguardanti il futuro economico della città che egli poneva in secondo piano rispetto alla salvaguardia del patrimonio artistico.
Lasciato l'incarico di assessore, Molmenti iniziò una dura polemica protrattasi per anni contro i progetti della giunta, senza tuttavia rompere definitivamente i rapporti con i moderati veneziani. Si mantenne su questa posizione di cauto distacco fino al 1900, quando assunse un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Grimani e dei suoi alleati cattolici che avevano ostacolato in ogni modo l'elezione di Lorenzo Tiepolo nel collegio di Venezia(271).
Dopo la cocente delusione della mancata rielezione, Tiepolo lavorò in quegli anni per consolidare la propria posizione e per organizzare quanti nell'area moderata non si riconoscevano nella politica del "sindaco d'oro". Nel frattempo maturava la definitiva rottura tra Molmenti e Grimani. L'occasione fu determinata dal violento scontro verbale verificatosi in consiglio comunale tra Molmenti e l'avvocato Giuseppe Cerruti, leader dei cattolici a Ca' Farsetti, durante la commemorazione di Riccardo Selvatico. La vicenda si trascinò per parecchi mesi provocando forti contrasti all'interno del partito moderato(272) e il giudizio sfavorevole a Molmenti, emesso da un giurì appositamente nominato(273), provocò nel maggio del 1902 le sue dimissioni dal consiglio. Tale decisione segnò la sua rottura con il gruppo Grimani e l'avvio di un'intensa attività politica per consolidare l'opposizione moderata al "sindaco d'oro".
Pochi mesi dopo, nel gennaio 1903, Tiepolo, con la determinante mediazione di Molmenti, portò a buon fine una laboriosa trattativa per l'acquisto della "Gazzetta di Venezia" da Macola, riuscendo a rintuzzare un estremo tentativo compiuto dal gruppo Grimani di chiuderla a proprio vantaggio(274). Attorno al giornale egli riuscì a coagulare un gruppo di liberal-moderati contrari all'alleanza con i clericali in nome dei vecchi principi della destra storica, tra cui spiccavano i nomi di Angelo Papadopoli, Alberto Giovanelli, Alberto Treves de' Bonfili, Enrico Castelnuovo, Marco Besso, Antonio Revedin.
Se dal versante amministrativo passiamo a quello politico, emergono altri punti di debolezza di Grimani. Guardando alle due ultime tornate elettorali che chiudevano la decade e il secolo, la capacità del sindaco di controllare la situazione dei collegi elettorali appare molto debole. L'assenza di un accordo politico nazionale, simile a quello sperimentato in sede locale, modificava profondamente il quadro della situazione. Il vero fulcro attorno al quale ruotavano tutti gli accordi politici era Luigi Luzzatti, la cui carriera politica entrava, sul finire degli anni Novanta, nella fase ascendente.
Dopo aver esordito nel '92 come ministro del Tesoro del primo governo Rudinì, a distanza di quattro anni, nel luglio 1896, Luzzatti tornava a ricoprire lo stesso incarico nel secondo ministero presieduto dal marchese siciliano. Da quel momento Luzzatti rimase senza interruzioni fino al giugno 1898 alla guida dell'importante dicastero, partecipando a tutti i governi presieduti da Rudinì, con il quale il rapporto di collaborazione continuò anche nel corso dei primi anni del Novecento, dando vita ad un vero e proprio gruppo parlamentare e politico che tentò di rilanciare - in parte aggiornandoli rispetto alla mutata situazione del paese - gli ideali e i programmi della vecchia destra storica(275).
In vista delle elezioni del '97 si rivolsero a Luzzatti tutti i principali protagonisti della vita politica veneziana. Nel campo moderato la scelta delle candidature si rivelò quanto mai problematica per la rinuncia, dopo tre mandati, del barone Alberto Treves de' Bonfili; la decisione del nobile veneziano mise in discussione l'intero scacchiere al quale Luzzatti lavorava da mesi. La base dell'accordo che il ministro stava faticosamente cercando prevedeva la rinuncia dei moderati al II collegio in cambio di una benevola astensione nel III sul nome di Tiepolo. Questo era infatti il massimo che i democratici potevano garantire come chiaramente Tecchio - che stava trattando con Luzzatti la situazione di vari collegi del Veneto - si incarica di far sapere: "Se il II° collegio non resta libero [scrive il direttore de "L'Adriatico"] per un candidato della sinistra, la tregua a Venezia diventa impossibile e la riuscita del Tiepolo più che problematica"(276).
La situazione prese in effetti la piega ipotizzata da Tecchio. Annunciando il ritiro della candidatura di Treves, Grimani metteva a nudo le difficoltà dei moderati nel fronteggiare una situazione a loro sfavorevole. Così il sindaco si rivolgeva a Luzzatti:
Eccellenza, Finché l'on. Treves pareva voler rimanere deputato del 2° collegio di Venezia, tanto il senatore Fornoni quanto io ci siamo prestati secondo le intenzioni di V.E. ad ottenere che nessun mutamento venisse fatto nel 3° collegio. E infatti neutralità da una parte assicurata, dall'altra cioè dall'Associazione antiradicale, astensione e forse appoggio avrebbero reso si può dire senza ostacoli la posizione dell'on. Tiepolo. Il ritiro dell'on. Treves e a quanto si dice la candidatura di altra persona del partito progressista probabilmente con seri appoggi, hanno mutato la condizione di cose ed io non mi sento più in caso di spiegare azione efficace in contrario [...](277).
In quelle settimane aveva inaspettatamente preso corpo, nonostante la riluttanza del diretto interessato, la candidatura di Riccardo Selvatico nel II collegio. La situazione si era di conseguenza definitivamente chiarita: nel I collegio i moderati non riuscirono a trovare un antagonista in grado di competere con Tecchio e invitarono addirittura a votare per il socialista Panebianco. I dati elettorali dimostrano, però, che pochi seguirono queste indicazioni e preferirono astenersi (su 6.565 aventi diritto votarono solo 2.794 elettori): Tecchio passò al primo turno. Nel II collegio Selvatico fu costretto al ballottaggio dal moderato Pacifico Ceresa, proprietario terriero, consigliere comunale e uomo forte della Camera di commercio, riuscendo a prendere una parte dei voti socialisti che al primo turno erano andati a Francesco Cabianca. Nel III collegio Tiepolo si impose sul generale Castelli, uomo fidato di Grimani: anche in questo caso i socialisti ottennero un buon risultato con Lazzarini.
Anche per Venezia, come è stato sottolineato a proposito dell'andamento nazionale(278), questo passaggio elettorale rappresentò un momento di rottura di vecchie alleanze e l'inizio di una fase caratterizzata dalla ricerca di nuove intese. Sul piano nazionale la prima conseguenza del voto fu l'avvio della trattativa che avrebbe portato ad un rimpasto di governo con l'ingresso di Zanardelli nel quarto ministero guidato da Rudinì(279). Tecchio, ormai riconosciuto come il più autorevole parlamentare del gruppo zanardelliano, premeva da mesi con Luzzatti per questa soluzione e per l'adozione di un programma "coraggioso", incentrato su riforme avanzate in campo sociale, economico e tributario. Secondo il direttore de "L'Adriatico" questo programma costituiva l'ultima chance a disposizione per evitare la crisi irreversibile delle forze liberali. È interessante notare, anche per i riflessi che tali posizioni ebbero a livello locale, che Tecchio non individuava il pericolo maggiore nelle forze cattoliche ("Dai clericali, che vogliono andare indietro, possiamo difenderci"), ma, come scrisse a Luzzatti, nei socialisti "che camminano avanti" e rispetto ai quali "non possiamo resistere se non mostrando che sappiamo e possiamo andar avanti anche noi"(280).
Le elezioni fecero registrare un avanzamento dell'estrema sinistra che passò da 63 a 75 deputati e dei socialisti che passarono da 12 a 16 deputati, con un aumento dei voti da circa 77.000 a 135.000. I radicali che con il Cavallotti erano stati in prima fila nel chiedere il ritorno al voto, ottennero a livello nazionale un leggero miglioramento delle loro posizioni, senza tuttavia raggiungere gli obiettivi auspicati, mentre nel Veneto ebbero il migliore risultato eleggendo 8 deputati tra cui Egisto Zabeo, commerciante di Dolo, giunto al suo secondo mandato nel collegio di Mirano(281).
Alle elezioni del giugno 1900 la situazione nei collegi veneziani si presentava di nuovo modificata. Nel I collegio Tecchio superò al ballottaggio l'ingegnere navale Ugo Gregoretti, mentre il socialista Elia Musatti, al suo esordio, otteneva un lusinghiero successo di voti. Nel II dopo il ritiro di Riccardo Selvatico prevalse il radicale Renato Manzato, avvocato, docente alla Scuola Superiore di Commercio di Venezia(282), sul moderato Adriano Diena e sul socialista Carlo Monticelli. Infine nel III collegio avvenne il colpo di scena più clamoroso, ovvero la candidatura sotto la bandiera dei radicali di Antonio Fradeletto il quale, oltre alla robusta fama di cui godeva e alla stima conquistata sul campo come segretario della Esposizione Generale, godette della neutralità di una parte della stampa moderata e soprattutto dell'avversione di quest'ultima - e della "Gazzetta" in particolare - nei confronti di Lorenzo Tiepolo. Capace di pescare voti in tutti i bacini elettorali, compreso quello dei moderati e dei conservatori, Fradeletto si impose con largo margine al primo turno su Tiepolo e sul socialista Enrico Ferri. Iniziò così la sua attività parlamentare e la sua militanza tra le file del partito radicale(283), destinate come vedremo a movimentare la vita politica veneziana per parecchi anni.
Il passaggio del secolo ci consegna dunque una realtà politica complessa ma in continua evoluzione. Come più volte è stato sottolineato la storia del Veneto in età giolittiana è stata poco studiata(284). Il caso veneziano è solo in parte esente da questa lacuna nel senso che la rilevanza assunta dalla vicenda del nazionalismo nella storia politica della città ha indotto gli studiosi a spostare l'attenzione più sugli anni in cui matura la crisi finale del sistema liberale che sulle premesse della stessa, individuabile invece nella prima decade del Novecento.
In termini generali si potrebbe tranquillamente affermare che i caratteri tipici dell'età giolittiana appaiono confermati anche per la storia veneziana del periodo 1900-1915. Per dirla con le parole di uno studioso che ad essa ha dedicato alcune tra le opere più significative sulla storia italiana di questo periodo, l'età giolittiana "è un'età cerniera, che segna da un lato il superamento definitivo dell'era che si può definire risorgimentale, e pone dall'altro le premesse effettive dell'Italia contemporanea, industriale, campo di battaglia di forze politiche nuove"(285).
Nel primo quindicennio del secolo assistiamo ad una grande trasformazione della struttura economica nazionale, all'affermazione di grandi gruppi e concentrazioni economico-industrial-finanziarie che alterano profondamente il rapporto tra potere politico e potere economico, fra pubblica amministrazione e iniziativa privata.
Lo sforzo di modernizzazione portato avanti da Giolitti si proiettava essenzialmente in due direzioni: il superamento dello Stato risorgimentale mediante il graduale inserimento nel regime liberale delle forze cattoliche e di quelle socialiste, e la professionalizzazione, intesa come specializzazione(286), della vita politica, resa indispensabile dai nuovi compiti dello Stato e dal nuovo ruolo della pubblica amministrazione(287). Mutano di conseguenza gli stessi meccanismi di organizzazione della politica e di formazione del consenso. Sul piano politico si registra una scomposizione di vecchie alleanze e la loro ricomposizione sia attraverso nuove combinazioni parlamentari, sia con la nascita di soggetti politici del tutto nuovi.
L'evoluzione della politica veneziana nel primo quindicennio del Novecento sembra rientrare perfettamente in questo trend. La città fu concretamente interessata da forti trasformazioni del suo tessuto economico, attribuibili alle iniziative avviate da Giuseppe Volpi e Piero Foscari in svariati campi, dentro e fuori i confini nazionali (dal settore elettrico alla cantieristica, dalla navigazione commerciale al settore minerario fino a quello industriale con la nascita di Porto Marghera).
Il peso di questi interessi sulla vita politica locale fu fortissimo, al pari degli intrecci che essi generarono rendendo in questo modo Venezia un terreno di scontro tra gruppi di rilevanza nazionale. Lo scenario politico si complicò ulteriormente: i confini tra i diversi campi divennero più labili; quasi tutti i raggruppamenti furono al loro interno interessati da profonde trasformazioni e da fenomeni di mobilità del personale politico da un parte all'altra dei diversi movimenti e partiti. Vi fu, almeno in parte, anche un ricambio della classe politica e l'affermazione di una serie di personalità politiche di levatura nazionale che poche altre città potevano vantare.
Ciò che invece costituì un'anomalia rispetto al quadro nazionale/regionale, fu la stabilità amministrativa garantita dalla giunta clerico-moderata che resistette a tutti i mutamenti della politica, in parte adeguandosi ad essi come fu nel caso del nascente nazionalismo, in parte subendo il ricatto dei gruppi di pressione legati ai poteri economici.
Sta di fatto che se si guarda a Grimani al di fuori della ristretta cerchia del Comune, dove regnava come un monarca assoluto, emergono altri suoi punti di debolezza oltre a quelli in precedenza segnalati. Accanto alle difficoltà incontrate dai moderati nelle competizioni elettorali a partire dai primi anni del Novecento, non è un caso che la sua carriera non spicchi mai il volo verso la grande politica (la nomina a senatore giunse tardivamente nel 1917, dopo molte difficoltà(288), ed apparve esclusivamente una sorta di 'premio alla carriera') e che egli non diventi mai un leader nazionale della destra.
Da queste considerazioni di carattere generale, passiamo ora a delineare la situazione interna alle principali aree politiche(289), ciascuna delle quali adeguò la propria azione e i propri strumenti di propaganda alle mutate condizioni.
Partiamo da quella del liberalismo moderato, riprendendo il filo del ragionamento sospeso al momento delle polemiche dimissioni di Molmenti dal consiglio comunale e dei successivi contrasti sorti con Filippo Grimani. L'operazione del passaggio di proprietà della "Gazzetta" ai "tiepolini", cui Molmenti aveva offerto una mediazione decisiva, costituì un momento di rimescolamento degli equilibri interni alle forze moderate. Grimani rispose all'offensiva promuovendo la nascita di una nuova testata, "Il Giornale di Venezia" - che si definì "organo del partito moderato veneto" -, affidata alla direzione del romanziere Luciano Zuccoli il quale iniziò subito una pesante campagna giornalistica contro Tiepolo, accusato di aver rotto l'unità interna(290), e contro Molmenti, accusato invece di aver nel 1902 cercato accordi con Elia Musatti per confluire nel blocco composto da democratici e socialisti sceso in campo per le elezioni amministrative parziali tenutesi in quell'anno. L'opposizione 'interna' a Grimani rallentò a partire dal 1904, quando ci fu un riavvicinamento tra Tiepolo, indebolitosi politicamente e in difficoltà finanziarie per la gestione della "Gazzetta", e il sindaco. Le elezioni amministrative del 1905 e il mancato accordo politico tra le due parti rallentarono momentaneamente questo processo che invece, auspice un Molmenti spinto da una serie di interessi personali(291), si concluse nel giugno 1906, dopo la sconfitta elettorale dei "tiepolini" alle amministrative, con la fusione della "Gazzetta di Venezia" con "Il Giornale di Venezia". L'operazione portò Zuccoli alla direzione della "Gazzetta" dove rimase fino al maggio 1912, quando fu sostituito da Mario Pascolato.
La disponibilità di capitali, l'interscambiabilità di ruoli e il controllo della stampa cittadina rimasero risorse importanti a disposizione del gruppo moderato che ritrovò una maggiore compattezza, ma che soffriva di un ricambio dei gruppi dirigenti lento, legato esclusivamente ai meccanismi di cooptazione notabilari mentre era del tutto assente l'adozione di tecniche di propaganda alle quali cominciavano ad avvicinarsi le altre formazioni politiche.
In sostanza l'area moderata espresse due figure preminenti, diverse tra loro ma per certi aspetti complementari: quella di Luigi Luzzatti e quella di Filippo Grimani. Il primo svolse in sede locale una modesta attività clientelare(292), ma a partire dalla fine degli anni Ottanta, in virtù della posizione acquisita a livello nazionale, il suo peso nella vita politica cittadina divenne sempre più determinante.
Del secondo si è già detto. La mancanza di riscontri documentari presso l'archivio della famiglia Grimani rende impossibile la ricostruzione delle reti clientelari costruite durante la sua attività politica. Tuttavia sue missive rintracciabili in altri archivi(293) rendono più che plausibile ipotizzare un suo impegno in questa attività tipica del notabile liberale. Il suo potere - immenso dentro i confini amministrativi - appare, come detto in precedenza, molto meno forte se misurato sul terreno della competizione elettorale per il controllo dei collegi. Su questo piano va segnalato che il peso dei moderati si ridusse drasticamente nelle elezioni del primo quindicennio del Novecento. Nelle consultazioni del 1904, tenutesi dopo lo sciopero generale del settembre, il blocco clerico-moderato riuscì - sfruttando il mancato accordo tra radicali e socialisti e il voto cattolico, in una sperimentazione ante litteram degli accordi del patto Gentiloni - a strappare al radicale Manzato il II collegio di Venezia facendo eleggere Girolamo Marcello. Uomo più legato a Foscari che a Grimani, Marcello rimase l'unico deputato eletto nella provincia di area moderata e riuscì ad essere riconfermato anche nelle tornate del 1909 e del 1913(294).
Un elemento accomuna i due campioni del moderatismo veneziano, e cioè il fatto di non aver lasciato eredi. L'unica figura a loro affiancabile è quella di Molmenti che in realtà fu legato, in fasi diverse, ad entrambi anche se continuò a professarsi fino alla morte "allievo" del solo Luzzatti. Dopo la ricomposizione del dissenso con Grimani, Molmenti si era progressivamente disinteressato della politica cittadina. Aveva continuato la sua attività parlamentare fino al 1909, anno in cui rinunciò a ricandidarsi nel suo feudo elettorale bresciano in cambio della più sicura nomina a senatore, arrivata puntualmente nell'aprile di quell'anno per intervento diretto di Giolitti.
Negli anni successivi Molmenti fu in più occasioni avvicinato da esponenti moderati con richieste di un suo rientro nella politica cittadina, offerte che egli sempre rifiutò. In realtà era ormai completamente assorbito dagli studi e dal ruolo di tutore del patrimonio artistico e cantore della venezianità a cui si dedicava attraverso un'intensa attività giornalistica (nel 1911 aveva iniziato a collaborare con "L'Adriatico", passato un anno prima sotto il controllo di Volpi) e saggistica. Fu proprio in questa veste che egli strinse rapporti con tutte le personalità emergenti della nuova classe dirigente veneziana. Con Piero Foscari, eletto per la prima volta in consiglio comunale nel 1902 nelle file moderate, il rapporto risaliva addirittura al 1894 e durò fino al 1920(295), con Volpi iniziò ai tempi della citata collaborazione de "L'Adriatico" e si protrasse fino al decollo del progetto di Porto Marghera che Molmenti non condivideva. Infine risaliva al 1909 l'inizio dell'amicizia e collaborazione con il giovane Gino Damerini, al tempo critico teatrale della "Gazzetta"(296).
Insomma Molmenti appariva come l'unico rappresentante della vecchia destra liberale in grado di ricoprire un ruolo di trait d'union con gli esponenti di punta della nuova destra, per i quali il contatto con i vecchi moderati sembra quasi un passaggio obbligato del loro apprentissage politico. Ma il suo ruolo era ormai esclusivamente legato alla posizione occupata in campo culturale e quindi non poteva in alcun modo influire sull'evoluzione futura dell'area moderata avviata, dopo il 1910, verso un inarrestabile declino, più evidente sul piano della cultura politica e della capacità di guida dei processi di modernizzazione che su quello elettorale, dove i voti dei clericali costituirono ancora per parecchi anni una sicura ancora di salvataggio per il vecchio mondo liberale.
La situazione relativa all'area socialista appare più facilmente delineabile(297). Superata la bufera di fine secolo, il partito socialista si era ricostruito a Venezia per impulso dell'avvocato israelita Elia Musatti(298). Esso disponeva di un settimanale, "Il Secolo Nuovo"(299)- erede della "Nuova Idea" di fine Ottocento -, diretto al suo sorgere dal polesano Vittorio Piva, al quale fra il 1904 e il 1906 si sarebbe affiancato, in un ambizioso tentativo poi travolto dalle difficoltà finanziarie, il quotidiano "Il Giornaletto", un foglio postosi in concorrenza con "Il Gazzettino" di Talamini. Sul fronte sindacale nel 1902, dopo sei anni di forzata chiusura, riprendevano le attività della Camera del lavoro all'interno della quale si imponeva subito la componente socialista che imprimeva una svolta in senso classista alle attività camerali. In pochi anni il sindacalismo socialista si espandeva fino al punto di insidiare associazioni e categorie, come quelle degli arsenalotti, tradizionali sostenitori di Tecchio e dei radicali alla Pietriboni. A partire dai primi anni del Novecento la crescita dell'area socialista fu continua. Nel primo biennio della sua rinascita la Camera del lavoro, prima guidata da Tommasi poi da Guido Marangoni, entrambi su posizioni intransigenti, avviò un ciclo di lotte e di scioperi, coinvolgendo nuove categorie di lavoratori, che ebbe come protagonisti le tabacchine, i muratori e le impiraresse (le infilatrici di perle). Questa fase di mobilitazione continua durò per parecchi mesi e culminò nello sciopero generale del settembre 1904 che paralizzò la città(300) e scatenò la reazione del sindaco Grimani che attaccò il governo con la famosa lettera aperta, ampiamente ripresa dalla stampa nazionale, inviata al presidente del Consiglio Giolitti(301).
Su queste basi maturò anche la crescita politica del partito socialista(302) quasi interamente attestato sulle posizioni intransigenti di Musatti, fatto salvo per la piccola pattuglia riformista guidata da Eugenio Florian, favorevole ad una collaborazione con le forze della "democrazia costituzionale" raggruppate nella Unione democratica di Tecchio.
Già le elezioni politiche del 1904 rappresentano una prima tappa di questa avanzata: Musatti costringe Tecchio al ballottaggio nel I collegio di Venezia ottenendo un forte incremento dei voti rispetto alle precedenti elezioni del 1900. L'anno successivo, alle elezioni amministrative parziali, lo stesso Musatti ed altri tre socialisti fecero per la prima volta il loro ingresso a Ca' Farsetti, sostituendosi così ai democratici nel ruolo di oppositori alla giunta Grimani e dando vita a memorabili battaglie sul caro-vita, sul problema delle abitazioni, sul trattamento economico dei dipendenti comunali, sulle tariffe e sui servizi comunali.
La terza tappa fu costituita dalle elezioni del marzo 1909. Precedute da un lungo dibattito interno a tutte le forze popolari nel corso del quale Musatti respinse decisamente ogni tentativo di aprire uno spiraglio ad una intesa con i radicali che invece con Ernesto Pietriboni avevano pubblicamente avanzato questa ipotesi(303), le elezioni videro la netta vittoria di Musatti al ballottaggio sul candidato clerico-moderato Mario Pascolato. Il P.S.I. (Partito Socialista Italiano) divenne il primo partito cittadino e il suo leader indiscusso il primo deputato socialista della storia veneziana: l'ingresso nel Parlamento segnò per Musatti la consacrazione come esponente socialista di livello nazionale.
A ben vedere, tuttavia, quella vittoria rappresentò per molti versi una svolta nella vita politica cittadina ed ebbe conseguenze pesanti. In primo luogo rese difficile l'alleanza di tipo bloccardo a cui con grande impegno subito dopo il voto politico si posero a lavorare esponenti dell'Unione democratica, repubblicani, radicali e socialisti, in vista delle amministrative del settembre 1910. L'alleanza non nacque mai, il progetto di un blocco di tutte le forze di opposizione naufragò per le divisioni interne. Pesarono soprattutto i contrasti tra "L'Adriatico" e i socialisti, insospettiti dal fatto che, come ricordato in precedenza, proprio in quei mesi il giornale era stato acquistato da Ruggero Revedin, uomo legato a Volpi e alla Banca Commerciale Italiana. Pesò anche la preannunciata posizione di astensione di Fradeletto, motivata come scelta di correttezza rispetto al suo ruolo di segretario dell'Esposizione e aspramente criticata da "Il Radicale" diretto da Pietriboni e Antonio Feder(304).
I socialisti ottennero un nuovo successo elettorale e conquistarono 5 seggi nel consiglio comunale, senza tuttavia influire minimamente sui rapporti di forza in seno al consiglio che rimasero nettamente a favore della giunta Grimani. Il risultato vanificava gli sforzi compiuti negli anni precedenti: la pars destruens del programma socialista "appariva velleitaria e verbale consentendo per contro a Grimani di sbandierare un bilancio nel complesso lusinghiero del proprio operato" e induceva Musatti a riconoscere che il P.S.I. si riduceva ad essere "l'esponente del malcontento"(305).
Nonostante questo momentaneo cedimento al pessimismo, il capo del socialismo veneziano non cambiò linea. Cavalcò abilmente l'onda della protesta popolare diffusasi nei mesi precedenti alla guerra di Libia per l'aumento dei generi alimentari e il peggioramento delle condizioni abitative e nello stesso tempo rafforzò il suo peso a livello nazionale: nella primavera del 1911 fu tra i pochi deputati socialisti a non votare la fiducia al governo Giolitti e contemporaneamente rinfocolò le polemiche contro Bissolati e i sostenitori delle alleanze bloccarde, per altro ormai entrate in crisi in tutta Italia.
Il sostanziale fallimento dello sciopero generale indetto per il 27 settembre 1911(306), giorno dell'ultimatum italiano al governo turco, indusse Musatti a presentare le dimissioni da deputato con una lettera inviata il 2 ottobre all'"Avanti". Le elezioni suppletive indette per il marzo del 1912 furono la prova generale delle alleanze politiche che in quei mesi si erano messe a punto tra clerico-moderati, i nazionalisti di Foscari, spezzoni della vecchia area democratica dalla quale, per l'appunto, proveniva Pietro Orsi, professore di storia al liceo "Foscarini", futuro podestà fascista, il candidato che sconfisse Musatti(307).
L'anno successivo, nelle prime elezioni a suffragio 'quasi' universale Musatti si riprese il suo seggio superando largamente Orsi. Il P.S.I. veneziano ottenne uno dei risultati migliori a livello nazionale(308) e divenne il primo partito a livello provinciale con circa 9.500 voti contro i circa 7.500 dell'alleanza clerico-moderata e dei nazionalisti(309). Come già era avvenuto nel 1910, si pose il problema di capitalizzare questo risultato sul piano amministrativo tentando di conquistare il Comune(310). Nel giugno del 1914 i socialisti affrontarono le elezioni amministrative sicuri della vittoria - la prima pagina del "Secolo Nuovo" del giorno prima del voto titolava: Bandiera rossa a Ca' Farsetti. Noi abbiamo già vinto - scegliendo ancora una volta la strada del muro contro muro, ma arrivò l'ennesima delusione.
Al di là degli errori strategici, il voto amministrativo certificava l'incapacità del partito socialista di interpretare le trasformazioni in corso nella società veneziana che avevano soprattutto interessato i ceti medi e la borghesia.
Questo era in effetti il vero nodo politico con il quale tutte le forze politiche, vecchie e nuove, dovevano confrontarsi: Venezia era al centro di grandi interessi economici e finanziari e la nuova borghesia, protagonista della "rinascita" industriale e commerciale della città, tornava ad affacciarsi alla politica, alla ricerca di nuovi interlocutori e di una nuova collocazione.
L'area democratica fu tra le più terremotate dalla 'svolta' del 1909. Il grande sconfitto delle elezioni tenutesi in quell'anno era stato Sebastiano Tecchio il quale nel giro di pochi mesi perdeva il seggio parlamentare, la proprietà e la direzione de "L'Adriatico", la creatura alla quale aveva dedicato trent'anni di amorevoli cure. È vero che la sconfitta elettorale fu parzialmente compensata dalla nomina senatoriale che giunse nel giugno del 1911, ma ormai la carriera politica dell'uomo che per decenni era stato il simbolo della sinistra costituzionale era giunta al capolinea.
Il punto di svolta della sua lunga attività era stata la morte di Zanardelli, avvenuta nel dicembre 1903. Con la scomparsa del ministro bresciano Tecchio aveva perduto quello che per molti anni era stato il suo punto di riferimento politico nazionale. Nel gennaio 1904 egli scrisse a Giolitti: "Il posto del povero Zanardelli è tuo e tu devi occuparlo risolutamente. Ne hai il diritto, il dovere, e la possibilità. Organizzeremo la sinistra e la metteremo a tua disposizione, ma a patto, almeno così penso io, che le forze complementari tu le cerchi a sinistra e non a destra"(311).
Nella realtà la situazione politica non era così semplice. Il richiamo ad alcuni ideali della tradizione risorgimentale della sinistra storica - il suo anticlericalismo, ad esempio, non si annacquò mai - non sembrava da solo sufficiente a garantire un futuro politico all'area della democrazia. Tecchio faticò ad adattarsi alla nuova situazione e mentre a livello nazionale gli ex zanardelliani continuarono a mantenere un loro gruppo parlamentare, a livello cittadino la sua posizione si fece sempre più difficile, assediato com'era dal partito socialista a sinistra e spesso scavalcato a destra dai radicali. Lo stesso giornale-partito "L'Adriatico" conobbe momenti difficili e subì la concorrenza di altre testate collocatesi, almeno inizialmente come accadde per "Il Gazzettino", nella stessa area d'influenza.
Tecchio cercò di adattarsi alla nuova fase politica apertasi agli inizi del Novecento in tre modi: accentuò, come è ben visibile dai carteggi intercorsi con Luzzatti, la sua attività di 'notabile progressista' dedicandosi al controllo delle candidature nei collegi veneti e agli accordi elettorali con moderati e radicali, e ad una discreta attività di patronage collegata soprattutto alle associazioni (patriottiche, culturali, mutualistiche) e alla rete di istituzioni economiche che controllava.
La seconda modalità fu quella legata all'attività parlamentare e si configurò come intermediazione tra parlamento, gruppi privati ed organismi economici su temi di grande rilevanza riguardanti lo sviluppo del porto e la questione della navigazione.
Il terzo tipo di iniziativa mirò all'allargamento dei confini politici dell'area democratica nella prospettiva di un blocco elettorale e si concretizzò nella nascita attorno al 1904 dell'Unione democratica che fu inizialmente presieduta da Giovanni Bordiga. I limiti di questa iniziativa furono sin dal suo esordio quelli di presentarsi come un cartello elettorale eccessivamente variegato, che andava dai radicali alla Feder e Fradeletto ai moderati dissidenti, comprendeva un mazziniano anticlericale come lo stesso Bordiga ed arrivava fino ad un personaggio come Orsi. La sconfitta di Tecchio nelle elezioni del 1909, il successivo e definitivo fallimento delle ipotesi bloccarde in campo amministrativo e le divisioni provocate dalla guerra di Libia segnarono il declino di quest'area sempre più schiacciata dalla polarizzazione del quadro politico e soprattutto incapace anch'essa di interpretare le trasformazioni in corso nella società veneziana dopo l'ingresso prepotente nella vita economica di nuove forze, fatto questo che, a partire dai primi anni del Novecento, impresse un'accelerazione fortissima alla vita politica cittadina e ne modificò gli equilibri interni.
Su questo specifico terreno, la forza politica che meglio di ogni altra tentò di 'leggere' questa nuova situazione furono i radicali. Da quest'area, contigua ma anche concorrenziale a quella democratica, negli anni di cui stiamo parlando vennero infatti i fermenti più interessanti. L'assenza di studi specifici rende più complicato disegnare la geografia interna di quella che meglio sarebbe definire una galassia in continua evoluzione, con una debole fisionomia organizzativa, attraverso la quale transitano molti personaggi che approderanno ai più disparati lidi politici, la maggior parte a quelli del nascente fascismo.
Sappiamo che per lunghi tratti della storia novecentesca il radicalismo veneziano si identificò con la figura di Antonio Fradeletto eletto, come abbiamo già segnalato, nel 1900 per la prima volta nel III collegio di Venezia, che mantenne ininterrottamente fino alle elezioni del 1913 non disdegnando in alcuni casi l'appoggio dei clerico-moderati(312).
Personaggio camaleontico, Fradeletto si collocò almeno fino al 1904 tra i "sacchiani"(313). Dopo lo sciopero nazionale egli assunse una posizione 'indipendente', rompendo di fatto con il partito come annunciò in una lettera inviata a Sacchi(314). Se tale decisione gli valse l'appoggio di alcuni settori moderati che non esitarono a votarlo nel corso delle elezioni del 1904 o invitarono all'astensione, è vero anche che provocò una spaccatura all'interno dell'Unione democratica guidata da Pietriboni e da Enrico Villanova, che sostennero la candidatura di Vittorio Moschini sindaco di Padova.
Per anni Fradeletto mantenne in ambito locale una posizione ibrida: astenendosi dalle lotte amministrative non diede alcun contributo alla formazione di un blocco delle forze popolari; dopo il definitivo accantonamento di questo progetto, nel 1911 iniziò contro di lui una dura campagna da parte dell'organo socialista "Il Secolo Nuovo" che, con articoli del direttore Cesare Alessandri, lo accusava di avere intascato una somma considerevole dalle compagnie assicurative per la sua campagna contro il progetto di monopolio(315). Prosciolto dalle accuse, Fradeletto si vendicò nel marzo 1912 quando nel corso delle elezioni suppletive nel I collegio, convocate a causa delle dimissioni di Musatti, annunciò il suo appoggio al candidato della neonata Unione democratica radicale(316), Pietro Orsi, sferrando così un duro attacco a "Elia Bey", il leader del socialismo veneziano(317). Questo episodio e la sua successiva entusiastica presa di posizione a favore della guerra libica, annunciata con una conferenza tenutasi alla Fenice il 28 febbraio 1912, rappresentarono una seria ipoteca circa la futura collocazione nel blocco conservatore che stava velocemente prendendo forma.
Lo strappo definitivo dal partito coincise con la posizione contraria di Fradeletto al nuovo governo Giolitti nato nell'aprile 1911 nel quale erano entrati illustri esponenti radicali come Sacchi e Nitti. Il deputato veneziano attaccò in aula Giolitti con un famoso discorso nel quale smontò il programma dell'esecutivo e la proposta di suffragio universale(318). L'intervento fu ampiamente ripreso dalla stampa nazionale, ma provocò anche le reazioni dei radicali veneziani schierati in quel momento a favore del governo. Così la stampa di partito commentò l'intervento parlamentare:
Fradeletto... è Fradeletto; radicale, ma fuori del gruppo, fuori del partito; radicale, ma coi conservatori; radicale ma di un partito nuovo - ce l'ha detto lui l'altra sera - del quale ha fatto il nome: radicale nazionale, segnandone il programma in una frase che se non ha il dono della novità, non per questo cessa di essere peregrina: né rossi né neri!
Né rossi né neri; né carne, né pesce; l'anfibiologia politica, il radicalismo temperato di nazionalismo, il nazionalismo temperato di radicalismo; Evviva! [...](319).
Tre successivi episodi chiariscono l'evoluzione politica del deputato radicale: la sua adesione all'adunanza dei "giovani turchi"(320) - si trattava per lo più di nazionalisti, sonniniani e clerico-moderati uniti dal comune antigiolittismo e dalla prospettiva della costruzione di una nuova destra - che si tenne nel giugno del 1911 a Roma; l'attacco portato alle istituzioni parlamentari(321); la candidatura alle elezioni politiche del 1913, quando fu sostenuto da una coalizione composta dai moderati di Grimani, dai nazionalisti(322), dall'associazione dei Giovani monarchici e, seppur con qualche difficoltà per i trascorsi anticlericali del candidato, dai cattolici(323).
La decisione di Fradeletto provocò l'ennesima spaccatura in seno ai radicali veneziani, una parte dei quali decise di staccarsi dall'Unione democratica e di candidare nello stesso collegio Nino Massimo Fovel e negli altri due Traiano Mozzoni e Antonio Feder, tutti con scarsi risultati. Rieletto con un largo vantaggio sul candidato socialista Giacinto Menotti Serrati, divenuto nell'agosto del 1912 segretario della Camera del lavoro(324), Fradeletto completava il suo percorso politico favorendo con la sua candidatura una delle prime sperimentazioni sul campo delle nuove alleanze che daranno vita al blocco d'ordine impostosi a partire dagli anni che precedono la Grande guerra. Egli, in linea teorica, incarna, seppur tra mille contraddizioni e all'interno di un percorso atipico nel radicalismo di primo Novecento, l'idea di un partito radicale come partito 'intermedio'(325), gradualista e riformista, più vicino al liberalismo che al socialismo: non una forza antisistema come nella tradizione democratica ottocentesca, ma una forza di governo, capace nella contingente situazione apertasi con la guerra libica di porsi come sbocco alla ormai incipiente crisi del liberalismo.
Le posizioni espresse in politica estera nel corso del 1908, con il precipitare della crisi balcanica in seguito all'annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria(326), fecero guadagnare a Fradeletto le simpatie dei gruppi irredentisti e di uomini come Ippolito Radaelli e Giovanni Giuriati, esponenti della Trento-Trieste. A quest'area del radicalismo guardarono, insomma, quanti pensavano alla costruzione di una destra conservatrice, capace di salvare una parte della tradizione liberale.
L'altra tendenza che si fece strada nel radicalismo veneziano si ricollegava alla figura del citato Nino Massimo Fovel - in stretti rapporti con l'associazione radicale veneziana a partire dal 1910 -, il più illustre esponente di una frazione del partito che aveva scelto di chiamarsi "radical-socialista"(327). Rimasta sempre fortemente minoritaria, questa componente acquisì maggior peso durante la grave crisi che il partito radicale attraversò dal marzo del 1913 al marzo 1914, quando maturò la traumatica decisione di uscire dal governo Giolitti.
A Venezia Fovel poteva contare su un gruppo di giovani intellettuali e di professionisti di sicuro valore, tra cui il docente universitario Mario Marinoni, gli avvocati Piero Marsich, Marco Fano e Renzo Ascoli. Naturalmente la situazione cittadina non lasciava molti spazi per un'intesa con il partito socialista: per il gruppo di Fovel il rilancio del partito doveva passare attraverso il recupero della tradizione ottocentesca (a partire da Cavallotti e da Mazzini), il ritorno all'anticlericalismo(328) e la riscoperta di un nazionalismo dalle forti sfumature antimperialiste(329). Per dirla con Fovel, il partito radicale doveva diventare "sempre meno borghese e sempre più partito di popolo, di massa e quindi accentuatamente operaio"(330).
Se sul piano politico-organizzativo il ruolo di questa pattuglia di radico-socialisti sulle vicende politiche locali fu modesto, ben diverso appare invece il peso che questa area del radicalismo ebbe nella elaborazione e diffusione di temi, suggestioni e parole d'ordine attorno ai quali si cementò una nuova destra.
È soprattutto in quest'area che fermentò un humus culturale e ideologico nel quale avvenne l'incontro tra i gruppi dell'irredentismo, le giovani leve del nazionalismo e gli esponenti del cosiddetto "imperialismo adriatico"(331). Arare il 'campo' del protonazionalismo alla ricerca dei percorsi individuali e dei nessi culturali che portarono al superamento delle divisioni che per decenni avevano separato destra e sinistra, laici e cattolici, moderati e progressisti, radicali e conservatori, è compito assai difficile. Tuttavia, ritornando all'area del radicalismo - che a nostro giudizio svolge un ruolo fondamentale in questo processo - è possibile individuare alcuni elementi che contribuirono ad accelerare la formazione di concezioni totalizzanti della società e dello Stato.
Nel caso di Fovel vanno, ad esempio, ricordati i suoi legami con i principali gruppi irredentisti veneziani; egli collaborò con "La Voce della Patria", l'organo della Trento-Trieste, e con "Il Mare Nostro", il foglio fondato a Venezia nel 1909 ad opera di un gruppo di accesi imperialisti capeggiati da Andrea Busetto, Cesare Facchini e Gino Dal Lago. Ma è sul piano dell'elaborazione culturale che troviamo i più significativi punti di convergenza con il nazionalismo. Non dimentichiamo, infatti, l'importanza che aveva acquisito nella riflessione di Fovel il tema dei ceti medi con i quali il partito doveva stringere, come in effetti avvenne a Venezia(332), un legame particolare.
Nel 1912 il leader dei radico-socialisti specificava che la strategia del radicalismo doveva poggiare "su gruppi abbastanza larghi e uniformi di bisogni e di volontà", "su zone di affinità sociale ampie, elastiche, in cui affonda[re] radici per non essere una accademia inutile" e identificava questi gruppi nei "medii ceti"(333).
Qualche anno prima, Alfredo Rocco, un giovane delegato di Perugia, aveva presentato al terzo congresso nazionale del partito radicale tenutosi a Bologna nel 1907 una comunicazione sul problema degli impiegati e delle classi medie. Secondo Rocco, allora professore ordinario di Procedura civile all'Università di Parma, il partito radicale avrebbe dovuto divenire il rappresentante delle classi medie(334).
Faceva da corollario a queste affermazioni l'esaltazione della burocrazia quale risorsa di "moralità" per un paese in cui i partiti erano assenti e il Parlamento corrotto. L'ordine del giorno fu approvato all'unanimità, ma il partito radicale non riuscì a seguire la via indicata da Rocco, il quale dopo quell'intervento si allontanò dalla politica attiva per ritornarvi solo nel 1913, data coincidente con il suo passaggio al nazionalismo: in quell'anno egli assunse la presidenza del Comitato nazionalista di Padova, la città presso il cui ateneo dal 1910 era titolare della cattedra di Diritto commerciale.
La sua ascesa ai vertici del movimento, di cui divenne il principale teorico, fu rapida ed inarrestabile. Essa si svolse, come è stato ampiamente ricostruito, lungo l'asse Padova-Venezia(335). Nella città lagunare l'azione organizzativa messa in atto da Rocco dopo la costituzione della Federazione dei gruppi nazionalisti del Veneto avvenuta nel marzo del 1914 e la fondazione, due mesi più tardi, del "Dovere Nazionale. Organo Settimanale dei Nazionalisti del Veneto", trovò un terreno ideale di espansione. Da anni esisteva un consolidato tessuto di associazioni irredentiste: tra il 1903 e il 1910 erano sorte la sezione della Trento-Trieste (fondata a Vicenza nel 1903), quella della Dante Alighieri e il Circolo Garibaldi pro Venezia Giulia. Non è un caso che tutte le più significative figure del nazionalismo veneziano transitino - provenendo magari da esperienze diverse - per queste associazioni: Pietro Foscari, cresciuto politicamente nell'area liberal-moderata, nel 1904 fu presidente della Trento-Trieste (uguale carica ricopriva nella Lega navale di cui era stato uno dei fondatori) prima di divenire nel 1909 deputato nel collegio di Mirano; Giovanni Giuriati, vicino al partito radicale, divenne anch'egli nel 1913 presidente generale della stessa associazione; Piero Marsich, vicino ai radicali di Fovel, presiedette la sezione studentesca della Dante Alighieri. Quando nel gennaio 1911 si costituì il Gruppo nazionalista di Venezia, l'irredentismo organizzato fornirà l'ossatura del nuovo gruppo: in esso entrarono, tra quanti avevano ricoperto cariche di un certo peso nelle associazioni, Giovanni Chiggiato (presidente della Dante Alighieri), Silvio Scarpa e Giovanni Giuriati, al tempo rispettivamente segretario e presidente della sezione veneziana della Trento-Trieste.
Negli anni precedenti l'impresa libica, la destra emergente aveva trovato in Gabriele D'Annunzio uno straordinario "propagatore di motivazioni e messaggi" e l'uomo capace sul piano culturale di attuare una sistematica opera di "rianimazione e risignificazione degli stereotipi della venezianità"(336), un'opera essenziale per i progetti di modernizzazione economica perseguiti dai gruppi industriali guidati da Foscari e Volpi. Anno dannunziano per eccellenza fu il 1908, quando per iniziativa di Pietro Foscari andarono in scena, dopo il trionfo della prima romana al Teatro Argentina - con tutto un cerimoniale di accompagnamento e molte polemiche(337) -, quattro repliche dell'opera La Nave, che esaltava la volontà di potenza del popolo italiano che riconquistando il predominio sull'Adriatico avrebbe potuto far risorgere la sua grandezza nel mondo intero.
Che la battaglia apertasi tra le élites veneziane si combatta anche sul piano culturale ci viene d'altro canto confermato anche da altri fermenti che in quegli anni agitano le istituzioni culturali cittadine. La nascita della Galleria d'arte moderna di Ca' Pesaro e dell'Opera Bevilacqua La Masa, entrambe affidate alle cure di Nino Barbantini, un giovane avvocato ferrarese che dimostrò grandi doti di organizzatore ed impresario culturale, è stata giustamente interpretata come un'operazione contro la Biennale dominata dalla figura di Fradeletto e dalle sue scelte improntate ad una netta chiusura alle novità artistiche ormai affermatesi in Europa(338). In un clima di grande effervescenza culturale, uniti dalla comune passione per l'arte, Damerini, Barbantini e Fogolari - il sovrintendente alle gallerie e ai monumenti veneziani che aveva voluto il giovane direttore - diedero vita nel 1909 alla 'fraglia' di Ca' Pesaro. Oltre ai tre 'soci' fondatori si unirono in questo che si presenta come cenacolo culturale, ma che in realtà diventò presto una potente lobby politica, l'avvocato Giuseppe Fortunato, il professore di letteratura Omero Soppelsa, l'avvocato Alberto Musatti, figlio di Cesare e cugino di Elia(339), il professore di storia Giuseppe Fiocco, l'avvocato Raffaello Levi, il poeta Diego Valeri e il pittore Gino Rossi. Dall'arte alla politica il passo fu breve. Alcuni dei citati personaggi scoprirono di condividere non solo le stesse passioni artistiche ma anche quelle politiche. Damerini, Barbantini, Fogolari, Fusinato, Soppelsa e Musatti, ai quali si unì Pietro Foscari, diedero vita al gruppo dei "Sette Savi"(340) che installarono la loro base operativa nell'antica osteria di Giovanni Codroma all'Angelo Raffaele in fondamenta Briati, costituendo quello che viene considerato il primo gruppo protonazionalista veneziano. Il carattere informale del gruppo, che continuò ad incontrarsi anche dopo la costituzione del Gruppo nazionalista di Venezia avvenuta nel 1911, non deve trarre in inganno circa l'influenza che i sette continuarono ad esercitare in campo culturale e politico in quegli anni ed anche nel primo dopoguerra.
Questo è dunque il 'campo' nazionalista che Rocco trovò quando rientrò nella politica attiva. Venezia poteva offrirgli i supporti logistici e le personalità di cui aveva bisogno per lanciare il suo progetto. Individuò in Gino Damerini l'uomo giusto a cui affidare la cura del "Dovere Nazionale". A lui, giornalista professionista, caporedattore della "Gazzetta", Rocco affidò il compito di organizzare la redazione del nuovo giornale che venne ospitata presso l'Ateneo Veneto, e la preparazione tecnica del settimanale per la quale si avvalse della stessa tipografia dove si stampava il quotidiano moderato(341).
La scelta di puntare su Damerini si rivelò azzeccata non solo per le garanzie 'tecniche' che sul piano professionale il personaggio poteva offrire - sappiamo che di fatto Damerini divenne in poco tempo il vero direttore della testata dei nazionalisti veneti - ma soprattutto per quelle politiche. Damerini era il personaggio che meglio di ogni altro poteva in quel momento rappresentare il senso del progetto politico che Rocco si accingeva a lanciare definitivamente, al termine del periodo di studio al quale si era dedicato prima del suo ritorno all'impegno politico.
Durante gli anni del suo distacco dalla politica, Rocco aveva riflettuto sulla evoluzione della società italiana e sui problemi dello Stato, sul ruolo dei partiti e dei sindacati, sul rapporto tra le classi, ed aveva sviluppato una serrata critica all'ordinamento liberale(342). La guerra di Libia, la crisi balcanica e la situazione interna italiana avevano rafforzato la sua convinzione che le forze liberali non fossero più in grado da sole di bloccare l'avanzata di quelle democratiche e socialiste. Da qui nacque l'idea di un blocco conservatore formato da nazionalisti, cattolici e liberali. Nel famoso articolo intitolato Esame di coscienza, pubblicato in due puntate sul "Dovere Nazionale" nel giugno del '14, Rocco espose il suo pensiero:
Il compito dei nazionalisti, nell'ora che volge, è dunque quello di impedire la concentrazione liberale democratica, apparentemente seducente, sostanzialmente fatale per la nazione. Al posto della concentrazione liberale democratica noi dobbiamo, con ogni sforzo, favorire e diffondere la coalizione cattolico-liberale-nazionalista, che è l'unica abbastanza solida per opporsi alle forze antinazionali e massoniche, l'unica talmente imbevuta di idealità nazionali, da esercitare una influenza sufficiente sulla frazione cattolica, e da favorire, anziché combattere, la sua trasformazione in un elemento sempre più vigoroso e fattivo della vita nazionale.
La sperimentazione di questo blocco trovò rapide applicazioni in molte città italiane, comprese Padova e Venezia(343), già a partire dalle elezioni amministrative del giugno 1914. Lo scoppio della guerra e le posizioni inizialmente assunte dalle forze liberali e cattoliche, rallentarono, come emerge dalla lettura del "Dovere Nazionale", la costruzione di quest'alleanza.
A Venezia ciò non avvenne. Non solo perché Damerini assunse il ruolo di grande mediatore e tessitore tra gli ambienti del vecchio liberalismo e quelli della nuova destra, ma anche per il fatto che qui le basi della nuova alleanza avevano solide fondamenta negli interessi commerciali ed industriali capaci di coniugare le istanze modernizzatrici e quelle nazionalistiche ed espansionistiche.
Il 5 aprile 1914 Gino Damerini tenne una conferenza alla Fenice intitolata Industria del forestiero e dignità nazionale, poi pubblicata nel "Dovere Nazionale" in due puntate rispettivamente il 4 e l'11 luglio. L'uomo cui era stato affidato il compito di traghettare le vecchie élites moderate verso il nazionalismo, profondo conoscitore degli umori più reconditi della città, sapeva quali corde toccare: egli espose la tesi di una Venezia industriale che avrebbe dovuto soppiantare quella turistico-alberghiera, ponendosi così come modello per la rinascita dell'industria nazionale e ponte per una riconquista dei Balcani da parte del "Leone di San Marco".
Quando Damerini pronunciò queste parole, il nuovo blocco di potere nazional-liberal-cattolico era già una realtà e con esso si erano già poste le premesse per una precoce affermazione del fascismo veneziano, i cui caratteri presero corpo in questo tornante di anni.
1. V. Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, p. 406 (pp. 405-436).
2. Ippolito Nievo, Venezia e la libertà d'Italia, in Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, a cura di Marcella Gorra, Udine 1994, p. 133 (pp. 133-156).
3. Ci limitiamo a segnalare il Fascicolo speciale per il centenario dell'unione del Veneto all'Italia (1866-1966), "Ateneo Veneto", 242, 1966; Carlo Ghisalberti, Aspetti di vita pubblica e amministrativa nel Veneto intorno al 1866, in Atti del convegno di studi risorgimentali nel centenario dell'unione del Veneto al regno d'Italia, Vicenza, 8-10 giugno 1966, Vicenza 1969, pp. 23-43; Silvio Lanaro, Dopo il '66. Una regione in patria, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Id., Torino 1984, pp. 409-431. (pp. 407-468).
4. M. Isnenghi, Fine della Storia?, p. 407.
5. Cf. Giandomenico Romanelli, Venezia nell'Ottocento: ritorno alla vita e nascita del mito della morte, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall'età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 749-766.
6. V. Massimo Canella, Appunti e spunti sulla storiografia veneziana dell'Ottocento, "Archivio Veneto", ser. V, 107, 1976, nr. 141, pp. 72-115, e Gino Benzoni, La storiografia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall'età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 597-612 (pp. 597-623).
7. Cf. Monica Donaglio, Il difensore di Venezia. Pompeo Molmenti tra memoria e ripensamento della venezianità, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1994-1995.
8. Su questa lettura della storia veneziana rimandiamo a Giandomenico Romanelli, Venezia nell'Ottocento, in Venezia nell'Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra, a cura di Giuseppe Pavanello-Giandomenico Romanelli, Milano 1983, pp. 253-254 (pp. 253-270).
9. Emilio Franzina, Introduzione, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 13 (pp. 3-113).
10. Ibid.
11. Cf. Laura Alban, Il monumento a Daniele Manin, "Venetica", 5, 1996, pp. 11-44.
12. Si distingue in questo senso la prosa di Pietro Manfrin, L'avvenire di Venezia. Studio, Treviso 1877.
13. Gioacchino Brognoligo, Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del secolo XIX. VI. La cultura veneta, "La Critica", 19, 1921, p. 35 (pp. 34-46). Sempre sulle stesse pagine della rivista crociana, Brognoligo scrisse (ibid., p. 90): "Il 1866 segna dunque, anche nella cultura, l'inizio d'un nuovo periodo, anzi d'una nuova vita; e un segno se ne può trovare pure in questo, che con quell'anno o col successivo misero fine alle cronache che da anni andavano scrivendo con quella libertà e quella compiutezza di notizie e osservazioni che ai giornali non erano concesse, e furon da loro conservate, e ancora si conservano, manoscritte, il Cicogna a Venezia, il Gloria a Padova, il Da Schio a Vicenza [...]".
14. Raffaele Romanelli, La nazionalizzazione della periferia. Casi e prospettive di studio, "Meridiana", 4, 1988, p. 17 (pp. 13-24), ma dello stesso autore v. la raccolta di saggi Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, Bologna 1988.
18. Fondamentale rimane su questi passaggi la ricerca di Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, pp. 26-35. V. inoltre Nicola Raponi, Politica ed amministrazione in Lombardia agli esordi dell'unità. Il programma dei moderati, Milano 1967.
19. Cf. Carteggio Cavalletto-Meneghini, pp. 274-275.
20. Ibid., p. 279.
21. In una lettera del luglio 1866 Ricasoli scrisse a Celestino Bianchi: "i commissari del re non sono un governo provvisorio, ma un governo del re in forma eccezionale". Cf. Carteggi di Bettino Ricasoli, a cura di Sergio Camerani-Gaetano Arfè, XXII, Roma 1967, p. 297.
22. Così scrive Claudio Pavone nella Prefazione a Gli archivi dei regi commissari nelle provincie del Veneto e di Mantova, I, Roma 1968, p. XII (pp. XI-XVI).
23. Giuseppe Pasolini (Ravenna 1815-1876), conte, fu nominato senatore nel 1860. Ministro degli Esteri nel governo Farini dal marzo 1862 al marzo 1863, fu successivamente prefetto in varie sedi tra cui Milano e Torino.
24. R. Romanelli, Il comando impossibile, p. 9.
25. Molto probabilmente questa scelta fu, almeno in parte, condizionata anche dalla difficile situazione diplomatica all'interno della quale si collocava in quel preciso momento la questione di Venezia.
26. Lettere e documenti del barone Bettino Ricasoli, a cura di Marco Tabarrini-Aurelio Gotti, VIII, Firenze 1893, pp. 197-198.
27. V. a tal proposito Gli archivi dei regi commissari, I, pp. 3-9.
28. Ibid., p. 11.
29. Cf. Gli archivi dei regi commissari nelle provincie del Veneto e di Mantova, II, Documenti, Roma 1968, p. 112.
30. È quanto si apprende dalla lettera dell'inviato italiano a Venezia Ottavio Vimercati ad Emilio Visconti Venosta dell'8 ottobre 1866, ibid., p. 114.
31. Pierluigi Bembo (Venezia 1823-1882), fu nominato podestà nel maggio del 1860. Riconfermato tre anni più tardi, si dimise nel febbraio 1866. È l'autore dell'interessante lavoro intitolato Il Comune di Venezia nel triennio 1863, 1864, 1865, Venezia 1866.
32. Avanza questa ipotesi E. Franzina, Introduzione, p. 17. Secondo invece Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L'istituzione, il territorio, guida-inventario dell'Archivio Municipale, Venezia 1982, p. 12, il contrasto sarebbe da far risalire alla decisione di Bembo di rendere pubblici i rendiconti dei verbali delle sedute consiliari.
33. Per sostenere l'intensa attività connessa al passaggio dei poteri, la giunta 'ombra' fu successivamente affiancata da un gruppo di collaboratori comprendente: Antonio Perisotti, Antonio Berti, Alessandro Palazzi, Cesare Sacerdoti, Giovanni Battista Meduna e Marco Bisacco. Cf. S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 47.
34. Il 19 settembre 1866 Angelo Papadopoli scriveva a Bettino Ricasoli: "Ho la compiacenza di poterle annunciare, che gli affari del Municipio di Venezia mi fanno sperare una conclusione soddisfacente. I sei assessori eletti nel maggio passato dal Consiglio comunale di Venezia e non confermati dall'i.r. governo austriaco lascieranno funzionare tranquillamente il vigente municipio, e gli hanno anzi offerto i loro servigi non come corpo costituito, ma come individui desiderosi di cooperare al bene della loro città [...]". Carteggi di Bettino Ricasoli, a cura di Sergio Camerani-Gaetano Arfè, XXIII, Roma 1968, p. 431.
35. Ibid., pp. 488-489.
36. V. Giuseppe Pasolini, Memorie raccolte da suo figlio Pietro Desiderio, Imola 1880, p. 436.
37. Pasolini ricevette il conte Luigi Michiel, al quale dopo l'entrata delle truppe italiane nella città era stato affidato il governo della città, in rappresentanza del Municipio e le rappresentanze della delegazione provinciale e del commissariato distrettuale. Tutti gli altri uffici, eccetto i tribunali, erano stati abbandonati nelle concitate fasi della partenza delle truppe austriache dalla città. Cf. ibid., p. 437.
38. Una panoramica della situazione si trova nello scritto, opera collettiva degli ultimi amministratori del periodo austriaco come Grimani, Gaspari, Visinoni e Recanati, intitolato Il Comune di Venezia negli ultimi otto mesi della dominazione austriaca: relazione e documenti, Venezia 1867.
39. Sul dibattito che aveva preceduto il plebiscito e sullo svolgimento dello stesso cf. C. Ghisalberti, Aspetti di vita pubblica, pp. 35-37.
40. Cf. ad esempio il parere del giornalista francese Armand Dubarry, Deux mois de l'histoire de Venise: 1866, Paris 1869, p. 33.
41. Cf. G. Pasolini, Memorie, p. 440.
42. V. E. Franzina, Introduzione, p. 22. Significativa fu in tal senso la richiesta formulata alle autorità italiane da parte di una commissione femminile di Dolo per allargare il diritto di voto anche alle donne. Cf. Gli archivi dei regi commissari, II, pp. 137-138.
43. Sottolineano questa caratteristica Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, IV, 3, Dall'Unità a oggi, Torino 1976, pp. 1676-1678 (pp. 1667-2483); Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1848-1948, Bari 1986, pp. 97-98, e Paolo Pombeni, Autorità sociale e potere politico nell'Italia contemporanea, Venezia 1993, pp. 32-34.
44. Si sofferma opportunamente su questo aspetto Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea (1770-1922), Milano 1999, p. 170.
45. Sui molteplici significati dei riti patriottici dopo l'Unità cf. Ilaria Porciani, La festa della nazione. Rappresentazioni dello Stato e spazi sociali nell'Italia unita, Bologna 1997.
46. Nelle memorie di Genova Giovanni Thaon di Revel, La cessione del Veneto. Ricordi di un commissario regio militare, Firenze 1906, p. 63, si legge che "il conte Giovanni Battista Giustinian, patrizio veneto, emigrato, degno di ogni considerazione e rispetto aveva influenza sul barone Ricasoli" e che da questi era già stato assicurato "di essere nominato podestà o sindaco di Venezia".
47. Con il termine di congregazione provinciale si fa qui riferimento ai corpi elettivi amministrativi del Lombardo-Veneto, presieduti dai delegati. I membri erano nominati dai Comuni con distinzione tra deputati nobili e non nobili, distinzione questa che fu eliminata con l'entrata in vigore dell'art. 89 del r.d. 1° agosto 1866, nr. 3130.
48. Sull'attività di questa istituzione i giudizi del commissario furono molto positivi come si deduce da un passaggio della relazione riprodotta in Gli archivi dei regi commissari, II, p. 250.
49. Cf. Raffaello Vergani, Guerra e dopoguerra nel Veneto del '66. Note di ricerca, "Archivio Veneto", 89, 1970, pp. 43-44 (pp. 17-53). Tra i documenti governativi più significativi esemplare risulta, per la quantità di eccezioni che vengono 'suggerite' nell'applicazione delle direttive per l'epurazione dei funzionari, la circolare riservata inviata da Ricasoli ai commissari regi il 3 agosto 1866 (il testo viene riprodotto in Gli archivi dei regi commissari, II, pp. 32-37).
50. V. Gli archivi dei regi commissari, I, p. 15 n. 2. Il decreto istitutivo dei commissari regi attribuiva a questi ultimi tre poteri di notevole importanza: la sospensione dall'ufficio con la privazione dello stipendio di qualsiasi funzionario pubblico, lo scioglimento dei consigli comunali e la rimozione dalle cariche comunali e provinciali di qualsiasi membro appartenente a queste istituzioni.
51. Ibid., p. 16.
52. V. E. Franzina, Introduzione, p. 23.
53. Nel lungo elenco dei risultati raggiunti durante l'attività commissariale, Pasolini segnalò anche il fatto di essere riuscito "ad instaurare un novello Governo, mutando persone ed ufficii, senza che alcuno potesse giustamente lagnarsi". V. G. Pasolini, Memorie, p. 441.
54. Lettera di Alberto Cavalletto a Francesco Coletti, 22 luglio 1866, cit. in R. Vergani, Guerra e dopoguerra, p. 43.
55. E. Franzina, Introduzione, p. 30. Molti particolari sul programma della visita e sul clima della vigilia si apprendono dal supplemento straordinario della "Gazzetta di Venezia" del 5 novembre 1866.
56. Relazione del reggente della questura di Venezia a Pasolini, 7 novembre 1866, in Gli archivi dei regi commissari, II, p. 196.
57. Relazione della Giunta municipale provvisoria di Venezia sul reggimento sostenuto negli ultimi quattro mesi dell'anno 1866, Venezia 1867, p. 18.
58. Ibid., pp. 19-20.
59. Cito da E. Franzina, Introduzione, p. 31.
60. Si tratta della tela di Girolamo Induno conservata al Museo del Risorgimento di Milano.
61. G. Pasolini, Memorie, p. 443.
62. Lettera del reggente la questura di Venezia Bignami a Pasolini, Venezia 17 novembre 1866, in Gli archivi dei regi commissari, II, p. 203.
63. Rapporto dell'ispettore di pubblica sicurezza del sestiere di S. Croce Baggi al reggente la questura di Venezia Bignami, Venezia 3 dicembre 1866, ibid., p. 209.
64. Rapporto dell'ispettore di pubblica sicurezza del sestiere di Cannaregio, Savaldelli al reggente la questura di Venezia Bignami, Venezia 3 dicembre 1866, ibid., p. 213.
65. V. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 16, c. 5, i rapporti di Pasolini a Ricasoli del 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13 e 14 novembre 1866.
66. Gli archivi dei regi commissari, II, pp. 215-216.
67. Tra i migliori lavori coevi dedicati alla decadenza commerciale di Venezia v. Emilio Morpurgo, Saggi statistici ed economici sul Veneto, Padova 1868.
68. Su questo punto v. Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Id., Torino 1984, pp. 16-17 (pp. 5-96).
69. Sottolinea il significato di questo dibattito sul destino della città e sull'inizio "di un nuovo ciclo" della sua storia Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. Materiali per una storia architettonica e urbanistica della città nel secolo XIX, Roma 1977, p. 143.
70. Per una panoramica riguardante in particolare i temi economici si rimanda a Giovanni L. Fontana, Patria veneta e stato italiano dopo l'unità: problemi di identità e di integrazione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall'età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 568-577 (pp. 553-596).
71. Tra i quali un posto di primo piano fu occupato dal moderato "Gazzetta di Venezia" e dalla rivista "Il Veneto" dei giovani Luigi Luzzatti ed Enrico Castelnuovo. Sulla prima si segnalano gli articoli apparsi il 12, 13, 19, 20, 26 ottobre, 13 e 28 novembre, 6 dicembre 1866, mentre per quanto riguarda "Il Veneto" v. l'articolo a firma P.V., L'avvenire economico di Venezia, del 14 marzo 1866.
72. Come segnala G.L. Fontana, Patria veneta e stato italiano, p. 553, molti scritti apparsi nel biennio 1866-1868 mettevano in relazione la raggiunta unificazione del Veneto al resto del Regno d'Italia con la contemporanea ripresa dei lavori dell'istmo di Suez. Tra i testi più famosi prodotti sull'argomento v. Fedele Lampertico, Sulle conseguenze che si possono presagire pel commercio in generale e pel commercio veneto in particolare dall'apertura di un canale marittimo attraverso l'Istmo di Suez, "Atti delle Adunanze dell'I.R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", III, 1859, opera premiata dall'Istituto.
73. Negli stessi anni si discute anche della possibilità di attivare una linea di navigazione tra Venezia e Alessandria d'Egitto. Cf. a tal proposito la Relazione della Giunta municipale provvisoria di Venezia, p. 32 e il documento ivi riprodotto alle pp. 73-77, dove si insiste sulla necessità di investire sullo sbocco verso il Nord Africa. V. anche E. Franzina, Introduzione, pp. 102-103.
74. Relazione della Giunta municipale provvisoria di Venezia, pp. 73-74.
75. Ibid., p. 79. Due in particolare furono le linee che vennero indicate come decisive per lo sviluppo veneziano: la prima, che da Mestre passando per Castelfranco e Bassano arrivava fino a Trento dove si collegava a quella che arrivava fino a Bolzano e, in prospettiva, "al cuore dell'Europa, attiverebbe una comunicazione diretta fra la Germania centrale e Venezia". La seconda era quella che per Portogruaro, Palma, Udine, Gemona e Pontebba poteva garantire uno sbocco verso la Germania orientale.
76. Anche su questo tema si fa notare la spinta propositiva del gruppo de "Il Veneto" che con una serie di importanti articoli 'egemonizza' la discussione. V. in partic.: Le linee ferroviarie del Veneto, "Il Veneto", 28 gennaio 1866; Considerazioni sul progetto di portare la ferrovia sino al Canale della Giudecca, ibid., supplemento al nr. 3 dell'11 febbraio 1866; G. Collotta, Venezia e le ferrovie, ibid., 4 marzo 1866.
77. Abbiamo approfondito questi aspetti dello sviluppo territoriale e della definizione di una gerarchia urbana incentrata su precise specializzazioni in Renato Camurri, La nascita di una regione politica: élites e morfologia del potere nel Veneto (1866-1900), "Memoria e Ricerca", 3, 1994, pp. 45-57 (pp. 45-70).
78. Sulla percezione di questo problema da parte delle classi dirigenti veneziane v. E. Franzina, Introduzione, pp. 46-47.
79. Cf. Maurizio Reberschak, L'economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 229-237 (pp. 227-298).
80. V. in tal senso G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 432-440.
81. Sulle conseguenze di tale scelta sull'economia locale v. M. Reberschak, L'economia, pp. 237-239.
82. Nel dibattito si inserì prepotentemente il secondo prefetto di Venezia Luigi Torelli con un suo rapporto (Le condizioni della provincia e della città di Venezia nel 1867, Relazione alla deputazione provinciale, Venezia 1867) in cui attribuì grande importanza al potenziamento dell'istruzione, sia quella "popolare", sia quella di alta specializzazione (pensava, infatti, all'apertura di una Scuola superiore di perfezionamento nelle discipline tecnico-commerciali). Torelli insisteva sull'urgenza di migliorare i collegamenti via mare (appoggiando l'ipotesi di una rotta che unisse Venezia ad Alessandra d'Egitto) e tramite ferrovia, proponendo la realizzazione dei Magazzini generali da collocare in Campo di Marte e l'avvio di un moderno sistema di rilevamento statistico. Fu autore anche di un'importante Statistica della provincia di Venezia, Venezia 1870. Su di lui e sulla sua attività a Venezia, durata dal 1867 al 1872 cf. Nico Randeraad, Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell'Italia liberale, Roma 1997, ad indicem. Sui prefetti operanti a Venezia nei primi decenni postunitari v. il contributo dello stesso Randeraad pubblicato in questo volume.
83. Cf. P.V., L'avvenire economico di Venezia.
84. S. Lanaro, Genealogia di un modello, p. 13. Oltre a La Nave di D'Annunzio che andò trionfalmente in scena alla Fenice nell'aprile del 1908, Lanaro cita tra i precursori dell'elaborazione di questo mito della Venezia conquistatrice il Vittorio Cian de La coltura e l'italianità di Venezia nel Rinascimento, Bologna 1905 e il lavoro di Isidoro Del Lungo, Patria italiana, Bologna 1912, e indica come momenti più alti della retorica nazionalista le pagine di Antonio Fradeletto, La storia di Venezia e l'ora presente d'Italia, Torino 1916 e di Antonio Battistella, La repubblica di Venezia ne' suoi undici secoli di storia, Venezia 1921 (libro che reca una prefazione dello stesso Fradeletto).
85. Articolo non firmato apparso nella "Gazzetta di Venezia", 9 ottobre 1866.
86. Articolo non firmato apparso ibid., 10 ottobre 1866.
87. Su questi temi v. Paola Lanaro, I mercati della Repubblica Veneta. Economie cittadine e stato territoriale (secoli XV-XVIII), Venezia 1999.
88. Articolo non firmato apparso nella "Gazzetta di Venezia", 15 ottobre 1866.
89. Le ultratrentennali, e solo in parte accettabili, osservazioni di Umberto Pototschnig, L'unificazione amministrativa delle province venete, Vicenza 1967, pp. 80-86, sono state ampiamente riviste dall'interessante lavoro di Daniele Ceschin, La classe dirigente veneta e il problema del decentramento politico ed amministrativo (1866-1898), "Venetica", 13, 1999, pp. 45-73.
90. Giustamente messi in luce da S. Lanaro, Dopo il '66, p. 433, riferendosi alla minaccia di trasferire alla Cassa depositi e prestiti la gestione della rendita pubblica, e di togliere ogni autonomia alla finanza locale con lo smembramento del cosiddetto "fondo del dominio" costituito dagli austriaci su base regionale.
91. Camera dei Deputati, Atti Parlamentari. Discussioni. Anno 1869, Roma 1869, Tornata del 12 giugno 1869, p. 6902.
92. Sull'uso di questo concetto v. la raccolta di saggi Pouvoir et légitimité. Figures de l'espace public, a cura di Alain Cottereau-Paul Ladrière, Paris 1992.
93. Elezioni politiche, "Giornale di Padova", 15 novembre 1866, cit. in G.L. Fontana, Patria veneta e stato italiano, p. 580.
94. Articolo non firmato apparso nella "Gazzetta di Venezia" del 22 novembre 1866.
95. Il 31 ottobre il commissario Pasolini aveva avviato le procedure per l'applicazione della legge elettorale del 17 dicembre 1860. L'importante operazione di ripartizione dei collegi fu realizzata il 9 novembre dal commissario Pasolini in accordo con la giunta municipale. Il collegio di Venezia I comprese i sestieri di S. Marco e di Castello, Venezia II i sestieri di S. Polo, S. Croce, Dorsoduro, Giudecca e Burano, Venezia III i sestieri di Cannaregio e le località di Murano, Malamocco, Mestre, Chirignago, Favaro, Marcon, Martellago, Spinea e Zelarino. Su questi passaggi v. Gli archivi dei regi commissari, I, pp. 46-48.
96. Cf. Alvise Zorzi, Venezia austriaca 1798-1866, Roma-Bari 1985, p. 237.
97. Su questo interessante e complesso personaggio cf. la voce di Nicola Labanca, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 510-515.
98. Per un suo profilo v. Carlo Rinaldi, I deputati friulani a Montecitorio nell'età liberale 1866-1919. Profili biografici, Udine 1979, pp. 373-375.
99. Cf. Gli archivi dei regi commissari, II, pp. 212-213, 217.
100. Cit. in R. Vergani, Guerra e dopoguerra, p. 51.
101. I dati si riferiscono ai votanti al primo turno e sono ricavati - come tutti quelli che di seguito verranno citati, salvo diverse indicazioni - dalla Storia dei collegi elettorali 1848-1897, pubblicata in Appendice a Camera dei Deputati, Indici degli Atti Parlamentari, Roma 1898.
102. Sulla storia dei collegi elettorali della regione rimandiamo a R. Camurri, La nascita di una regione politica, pp. 57-65.
103. S. Lanaro, Dopo il '66, p. 424.
104. Su di lui v. il profilo tracciato da Pietro Rigobon, Gli eletti alle assemblee veneziane del 1848-49, Venezia 1950, pp. 242-243.
105. Nel collegio di Mirano si consolidò l'infeudamento di Isacco Pesaro Maurogonato che fu rieletto senza interruzioni fino al 1880; in quello di Chioggia fu riconfermato l'avvocato Sante Bullo, un piccolo notabile che non dimostrò particolare attaccamento al mandato parlamentare dimettendosi nel novembre del 1868. L'unica sorpresa fu quella che si registrò nel collegio di Portogruaro dove Varè fu sconfitto dal moderato Alessandro Marcello.
106. Le notizie sono ricavate dagli Elenchi storici e statistici dei senatori del Regno, Roma 1940.
107. Cf. P. Rigobon, Gli eletti alle assemblee veneziane, pp. 196-197.
108. Su questa figura e sulla sua attività di studioso v. Giuseppe Gullino, L'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, p. 431.
109. Per i dati v. E. Franzina, Introduzione, p. 55, e Gli archivi dei regi commissari, I, p. 53. Cifre discordanti vengono fornite da S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 49, che indica in 4.133 il numero degli iscritti.
110. Cf. Raffaele Romanelli, Centralismo e autonomie, in Storia dello Stato italiano dall'unità a oggi, a cura di Id., Roma 1995, p. 130 (pp. 125-186), e Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma 1997, pp. 37-43.
111. Sull'istituzione della Provincia come ente locale autonomo cf. Le provincie, a cura di Antonio Amorth, Vicenza 1968, e Vincenzo G. Pacifici, La Provincia nel regno d'Italia, Roma 1995. Per i problemi relativi alla creazione delle Province nel Veneto v. Gli archivi dei regi commissari, I, pp. 49-51.
112. Copia del decreto di convalida dei risultati viene pubblicato in Antonio Stangherlin, La provincia di Venezia 1797-1968, Venezia 1968, p. 139.
113. Cito da G. Pasolini, Memorie, p. 450.
114. Cf. Gli archivi dei regi commissari, I, p. 54. Il commissario regio si era in pratica opposto alla richiesta del governo di impedire alcune manifestazioni popolari di protesta contro la sopracitata legge.
115. Cf. ibid., pp. 55-57.
116. La lacuna derivante dall'assenza di una vera biografia di Luzzatti è in parte rimediabile attraverso la consultazione dei due volumi delle Memorie. Per le notizie sopra riportate v. in partic. Luigi Luzzatti, Memorie autobiografiche e carteggi, I, 1841-1876, Bologna 1931, pp. 133 ss. L'unico impegno diretto di Luzzatti sulla scena politica veneziana fu il tentativo compiuto nel luglio 1866 di fondare un giornale con l'obiettivo di "impedire" la dispersione delle forze moderate. V. ibid., p. 220. Sui rapporti tra Luzzatti e Venezia rimandiamo al contributo di Paolo Pecorari pubblicato in questo volume.
117. Cf. E. Franzina, Introduzione, p. 29. Sulla rinascita di un disegno di sviluppo di tipo neoinsulare, v. le osservazioni di Wladimiro Dorigo, Venezia e il Veneto, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 1047 (pp. 1037-1065).
118. S. Lanaro, Genealogia di un modello, p. 22.
119. Cf. Maurizio Ridolfi, Interessi e passioni. Storia dei partiti politici italiani tra l'Europa e il Mediterraneo, Milano 1999, pp. 47-50.
120. Su quest'ultimo si rimanda al contributo di Marco Fincardi pubblicato in questo volume.
121. Cf. Luca Pes, Sei schede sulle società di mutuo soccorso a Venezia (1849-1881), in Venezia nell'Ottocento, a cura di Massimo Costantini, "Cheiron", 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 115-145.
122. Ibid., pp. 124-125.
123. Su Alberto Errera (Venezia 1842-Napoli 1894) v. la voce di Alessandro Polsi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIII, Roma 1993, pp. 246-249, e l'interessante carteggio con Fedele Lampertico pubblicato in Fedele Lampertico, Carteggi e diari, I, a cura di Emilio Franzina, Venezia 1996, pp. 805-834.
124. È interessante notare come la fondazione delle restanti società aventi un carattere più borghese (si trattava infatti dei sodalizi degli orchestranti, degli ingegneri, degli avvocati, dei medici, dei maestri e delle maestre, del clero e degli agenti di commercio) risalisse alla dominazione austriaca.
125. Alberto Errera, Monografia degli istituti di previdenza di cooperazione e di credito della industria e del commercio della provincia di Venezia, Venezia 1870, pp. 1-22.
126. MAIC-Direzione Generale di Statistica del Regno, Statistica delle società di mutuo soccorso anno 1878, Roma 1880.
127. V. L. Pes, Sei schede sulle società di mutuo soccorso, pp. 126-128.
128. Abbiamo approfondito questo approccio, analizzando il dibattito storiografico più recente sul mutualismo, in Renato Camurri, L'associazionismo mutualistico nel Veneto: lo stato degli studi e le prospettive di ricerca a partire da un recente censimento, in Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Le società di mutuo soccorso italiane e i loro archivi. Atti del seminario, Roma 1999, pp. 142-159.
129. L. Pes, Sei schede sulle società di mutuo soccorso, pp. 129-130.
130. Sul ruolo del garibaldinismo nelle vicende politiche dell'Italia unita cf. il recente volume di Fulvio Conti, L'Italia dei democratici. Sinistra risorgimentale, massoneria e associazionismo fra Otto e Novecento, Milano 2000, pp. 23-113.
131. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto del questore di Venezia al commissario del re, Venezia 6 gennaio 1867. Sulle associazioni dei veterani cf. il saggio di Marco Fincardi, I reduci risorgimentali veneti e friulani, "Italia Contemporanea", 52, 2001, nr. 222, pp. 65-91.
132. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto del questore di Venezia al commissario del re, Venezia 2 marzo 1867. Il questore segnalava maliziosamente che "presentemente la popolazione di Venezia [era] principalmente intenta alle sue briose feste carnevalesche".
133. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 4 luglio 1867, dove si legge: "la massoneria è in totale languore, e le due loggie qui istituite hanno pochissimi aderenti, benché però non abbiano tralasciato di farsi rappresentare all'Assemblea tenutasi a Napoli nello scorcio del passato mese di giugno". In un successivo rapporto del 16 gennaio 1868 si fornivano informazioni più dettagliate sull'esistenza di due logge. Alla prima, denominata Daniele Manin e guidata dal venerabile Luigi Fortini, risultavano iscritti il capitano di marina Gaetano Tilliseg, il medico Rodolfo Tilliseg e l'ingegnere Filippo Lazzaroni. La seconda, più politicizzata secondo le fonti poliziesche, intitolata ad Abramo Lincoln e guidata dal venerabile Luigi Franzoja, annoverava tra gli affiliati Augusto Tironi, il medico Antonio Lavezzari, l'emigrato istriano Tommaso Luciani. Sul rapporto tra massoneria e politica nell'Italia liberale v. i casi di studio analizzati da F. Conti, L'Italia dei democratici, pp. 117-189.
134. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto del questore al prefetto, Venezia 1° ottobre 1867.
135. Ibid., circolare del ministro Gualtiero al prefetto di Venezia, Firenze 9 dicembre 1867.
136. V. ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 16 giugno 1868.
137. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 21 luglio 1868.
138. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 23 agosto 1868. Il rapporto specificava anche che al termine delle consultazioni elettorali il giornale avrebbe cambiato titolo e sarebbe stato affidato alla direzione di Vittorio Talamini. Su questi passaggi editoriali cf. E. Franzina, Introduzione, p. 54.
139. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto del questore al prefetto, Venezia 29 ottobre 1868. Sulle organizzazioni repubblicane si rimanda a Maurizio Ridolfi, Tra sociabilità e 'partito': Aurelio Saffi e l'associazionismo mazziniano, in Il circolo virtuoso. Sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell'Ottocento, a cura di Id., Firenze 1990, pp. 147-168, ma dello stesso autore v. come caso di studio Il partito della repubblica. I repubblicani in Romagna e le origini del Pri nell'Italia liberale (1872-1895), Milano 1989.
140. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, circolare del ministro Cantelli, Firenze 29 ottobre 1868.
141. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 24 marzo 1869.
142. Un elenco più ampio di pubblicazioni di analogo indirizzo è quello fornito da Letterio Briguglio, La vita politica e sociale a Venezia dopo il 1866, in Venezia nell'Unità d'Italia, Firenze 1962, p. 37 n. 6 (pp. 17-40).
143. V. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, lettera del cardinale Trevisanato al prefetto, Venezia 20 gennaio 1869, nella quale il patriarca lamenta come le autorità tollerino che "sia impunemente insultata la religione di una città, sia posta in dileggio una classe di persone che hanno diritto almeno, come qualunque altro, al comune rispetto".
144. Su questo aspetto cf. Antonio Niero, La questione dei capitelli in Venezia dal 1867 al 1878, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l'unità (1868-1978), II, Milano 1973, pp. 374-395.
145. V. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto del questore al prefetto, Venezia 18 dicembre 1869.
146. Ibid., rapporto dei reali carabinieri al prefetto, Venezia 1° giugno 1870. Sulla questione delle apparizioni mariane nel corso dell'Ottocento si rimanda al fondamentale lavoro di David Blackbourn, The Apparitions of Virgin Mary in Nineteenth Century Germany, New York 1993.
147. Come segnalò Gabriele De Rosa, L'apporto dei cattolici veneziani alla vita pubblica italiana dall'unità a Giolitti, in Venezia nell'Unità d'Italia, Firenze 1962, p. 51 (pp. 43-63).
148. Non approfondiamo questo argomento rimandando al contributo di Giovanni Vian contenuto in questo volume.
149. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 43, 19, 1/1, rapporto del questore al prefetto, Venezia 23 giugno 1871. È quanto, ad esempio, si deduce dal resoconto sugli spostamenti serali di un gruppo di sorvegliati tra cui Tironi.
150. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 9 maggio 1871. Nel corso di quella riunione fu eletto un consiglio direttivo comprendente De Col, Quadri, Pasini, Pusinich, Filippini e Dal Medico.
151. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 17 giugno 1871.
152. L. Briguglio, La vita politica e sociale, p. 21.
153. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 6, 5, 1/1, relazione del prefetto al ministro dell'Interno, Venezia 8 novembre 1870.
154. Ibid., circolare del ministro Lanza, Firenze 5 novembre 1870, colla quale si invitarono i prefetti a "promuovere quella pacifica agitazione elettorale, particolarmente col mezzo di Giornali e di Comitati costituiti dalle persone più influenti [...]".
155. Cronaca elettorale, "Il Tempo", 10 novembre 1870.
156. Cronaca elettorale, ibid., 13 novembre 1870.
157. Su di lui rimandiamo alla nostra voce, in Dizionario Biografico degli Italiani, LI, Roma 1998, pp. 635-637.
158. Veneti in Italia, "Il Tempo", 22 settembre 1870.
159. La campagna fu martellante. Con lo stesso titolo Il decentramento uscirono ne "Il Tempo" quattro articoli pubblicati rispettivamente il 15, 16, 17 e 18 novembre 1870.
160. Angelo Bargoni (Cremona 1829-Roma 1901) fu ministro della Pubblica istruzione nel governo Manabrea del 1869. Rinunciò al mandato il 7 ottobre 1871 per la nomina a prefetto di Pavia. Successivamente prestò servizio presso le sedi di Torino e Napoli. Fu nominato senatore nel novembre 1876.
161. Ampie notizie su questi due parlamentari in C. Rinaldi, I deputati friulani, pp. 353-357, 419-422. Sul Valussi geografo e teorico dell'espansionismo demografico cf. Emilio Franzina, La grande emigrazione. L'esodo dei rurali dal Veneto durante il secolo XIX, Venezia 1976, pp. 269-275.
162. V. S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 21 n. 25.
163. Su questo passaggio cf. N. Randeraad, Autorità in cerca di autonomia, pp. 113-114.
164. Sul suo operato cf. Relazione fatta al Consiglio comunale di Venezia dal regio delegato straordinario nella seduta del 10 dicembre 1868, Venezia 1868; in essa scagionava anche Giustinian dalle accuse più gravi.
165. L'elenco dei 60 consiglieri eletti si trova in S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 50-51. Ad una prima lettura colpiscono due dati: il fatto che solo 8 non fossero stati eletti nella lista sostenuta dalla "Gazzetta" e che la stragrande maggioranza degli eletti risultasse appartenere al ceto possidente. Il carattere fortemente elitario di questa rappresentanza si può far risalire anche alle basse percentuali dei votanti che agli inizi degli anni Settanta si attestarono attorno al 32%, con una media nazionale del 39% (v. E. Franzina, Introduzione, p. 101), per salire sensibilmente negli anni successivi. Sergio Barizza ha calcolato che complessivamente la media del decennio 1871-1880 si attestò al 37% degli aventi diritto (v. S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 13).
166. Cf. Rendiconto morale della giunta municipale di Venezia da ottobre 1870 a tutto il 1871, Venezia 1872.
167. Cf. Rendiconto morale della giunta municipale del biennio 1874-75, Venezia 1876.
168. V. Carlo Astengo, Relazione del regio delegato straordinario al consiglio comunale di Venezia, letta nella seduta d'insediamento del 21 febbraio 1883, Venezia 1883.
169. Come si rileva da questo rapporto del sindaco Fornoni, scritto dopo le elezioni parziali svoltesi nel luglio del 1872: "Anche a Venezia vi fu lotta fra il partito chiesastico da una parte e dall'altra il partito liberale più o meno progressista. Al primo si congiunsero alcuni moderati ultraconservatori, il secondo si costituisce delle diverse gradazioni del partito moderato-liberale. Nel partito chiesastico ed ultra-conservatore vi serpeggiava qualche esagerazione [...] nel partito progressista non havvi fra gli eletti un solo che appartenga al radicalismo, e la loro inclinazione in genere propende all'ordine e alla conservazione [...]". Cit. in S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 21.
170. Citiamo da N. Randeraad, Autorità in cerca di autonomia, p. 116.
171. V. l'articolo pubblicato l'8 novembre 1889, pubblicato da S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 24 n. 42. Rispetto alle ultime elezioni amministrative generali, il numero degli iscritti alle liste passò dai 7.174 del 1883 agli 11.350 del 1889. Crebbe anche il numero dei votanti (5.273) che sfiorò il 50%.
172. Il solo elenco dei 60 eletti basterebbe a confermare il tasso di ricambio del ceto politico toccato con questa consultazione. Il riferimento, poi, alle loro professioni evidenzia il profondo cambiamento intervenuto nella composizione sociale degli eletti. Accanto alle tradizionali figure dei possidenti e dei commercianti che avevano fino ad allora dominato la scena consiliare, compaiono molti rappresentanti delle cosiddette professioni liberali (avvocati, medici, ingegneri, pubblicisti, artisti). Per la prima volta entrò nel consiglio un operaio: si trattò di Bellemo Cinildo.
173. V. il testo della lettera in S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 24 n. 45.
174. Su questo fenomeno ci permettiamo di rimandare al nostro Renato Camurri, Il Comune democratico. Riccardo Dalle Mole e l'esperienza delle giunte bloccarde nel veneto giolittiano (1900-1914), Venezia 2000.
175. Su di lui cf. la voce di Aldo Stella, in Dizionario Biografico degli Italiani, II, Roma 1960, pp. 593-594.
176. Sulla crisi politica apertasi nella primavera del 1874 e sulle sue conseguenze negli assetti interni alle forze moderate v. Aldo Berselli, La destra storica dopo l'Unità, II, Bologna 1965, pp. 282-326.
177. Raffaele Minich (Venezia 1808-Padova 1883), docente universitario di Matematica a Padova, fu eletto nel collegio di Venezia III una prima volta nel febbraio del 1874. Tale elezione fu però invalidata e fu ripetuta a distanza di due mesi con lo stesso risultato. Minich subentrava al ministro della Marina Simone Saint-Bon, eletto nel dicembre del '73 in una suppletiva resasi necessaria per le dimissioni di Bembo. In sostanza nel giro di pochi mesi gli elettori di questo collegio si recarono a votare in tre occasioni, provocando un netto calo della partecipazione come si evince dalle preoccupate note contenute in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 62, 5, 1/1, rapporto del commissario distrettuale di Mestre al prefetto, Venezia 8 aprile 1874.
178. Ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 1° maggio 1874.
179. Ibid., circolare del prefetto, Venezia 10 settembre 1874.
180. Cf. C. Rinaldi, I deputati friulani, pp. 165-169.
181. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 62, 5, 1/1, rapporto del commissario distrettuale di Chioggia al prefetto, Venezia 12 settembre 1874, nel quale si legge: "la costruzione della ferrovia [...] è quel fatto da cui si potrebbe trarre qualche profitto per porre innanzi una candidatura la quale non fosse d'opposizione".
182. Nel novembre 1872 si era tenuta a Padova la prima adunanza regionale dei progressisti alla presenza di Alberto Mario, Carlo Tivaroni, Gian Battista Varè, Antonio Bilia, Domenico Giuriati, Cesare Parenzo e Roberto Galli. Cf. Giulio Monteleone, Economia e politica nel padovano dopo l'unità (1866-1900), Venezia 1971, pp. 100-101.
183. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 62, 5, 1/1, rapporto del questore al prefetto, Venezia 8 ottobre 1874. Come si legge nel rapporto nella stessa giornata si tenne anche la riunione, con la partecipazione degli stessi personaggi, del comitato direttivo della Lega democratica veneto-mantovana nella quale fu deciso che l'associazione si sarebbe astenuta da "qualunque ingerenza" nelle elezioni. Tale scelta potrebbe a nostro giudizio essere interpretata come il segnale di una nuova strutturazione per funzioni dell'associazionismo democratico.
184. In un rapporto di polizia dell'ottobre 1874 si legge: "L'Alvisi quà in Chioggia ha uno stuolo di devoti verso i quali la sua borsa non è rimasta lontana di benificiare e di provvedere". Ibid., rapporto del commissario distrettuale di Chioggia al prefetto, Chioggia 9 ottobre 1874.
185. Ibid., rapporto del commissario distrettuale di Chioggia del 29 ottobre 1874.
186. Ibid., rapporto del commissario distrettuale di Chioggia al prefetto, Chioggia 16 novembre 1874.
187. Cf. A. Berselli, La destra storica dopo l'Unità, pp. 327-485, e Giuliano Procacci, Le elezioni del 1874 e l'opposizione meridionale, Milano 1956.
188. Maggiori dettagli sui risultati vengono forniti da G. Monteleone, Economia e politica, pp. 102-103. V. inoltre anche Carlo Tivaroni, Le elezioni politiche nel Veneto nel 1874, Padova 1874.
189. Sui risultati in Veneto si sofferma anche A. Berselli, La destra storica dopo l'Unità, pp. 436-437.
190. V. Giampiero Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, pp. 21-58.
191. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 96, 19, 1/1, relazione del prefetto al ministro dell'Interno sul secondo semestre del 1874.
192. Su questo tentativo di riorganizzazione della destra storica cf. Fulvio Conti, Quintino Sella e la riorganizzazione della Destra dopo il 1876, in Quintino Sella tra politica e cultura 1827-1884. Atti del convegno, Torino 1986, pp. 103-133.
193. Ne dà notizia "La Venezia", 30 agosto 1876.
194. Su di lui si rimanda all'interessante lavoro di M. Donaglio, Il difensore di Venezia.
195. Quella veneziana sorta subito dopo il congresso padovano ebbe ai suoi vertici Camillo Quadri, Luigi Del Col, Enrico Villanova, personaggi provenienti da esperienze politiche tra loro diverse, a testimonianza del tentativo di aggregare un'area più vasta di quella della sinistra storica.
196. Per un quadro generale di queste problematiche si rimanda a Paolo Pombeni, La trasformazione politica nell'Europa liberale 1870-1890, Bologna 1986, dove si affrontano temi più volte ripresi dallo stesso autore in altri lavori, tra cui segnaliamo in modo particolare: Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Bologna 1994.
197. V. il classico lavoro di Angelo Gambasin, Il movimento sociale nell'Opera dei Congressi 1874-1904, Roma 1958.
198. Cf. Silvio Tramontin, Il movimento cattolico, in La chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di Gabriele Ingegneri, Venezia 1987, pp. 165-188.
199. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 63, 5, 3/1, circolare del prefetto Mayr, Venezia 15 giugno 1875.
200. V. Le elezioni amministrative di Venezia, "Il Veneto Cattolico", 14 luglio 1875.
201. I risultati vanno tuttavia letti attentamente. La maggioranza dei collegi conseguita dalla sinistra non corrispondeva alla maggioranza dei voti riportati, dal momento che questa ottenne 13.930 voti contro i 13.862 della destra, che fu quindi premiata dal sistema uninominale: la sola differenza di 68 voti infatti fruttò la maggioranza dei collegi. V. G. Monteleone, Economia e politica, pp. 182-183.
202. La mobilitazione dei cattolici fu notevole anche nei comuni limitrofi a quello veneziano. Nel gennaio del 1878 il commissario distrettuale di Dolo scrisse al prefetto: "Il partito clericale retrivo non solo esiste, ma è efficientissimo. Si tiene apparentemente in una moderazione relativa ed in una legalità di aspettazione; ma la sua organizzazione gerarchica e i suoi mille nessi si rivelano nella influenza che esercita sulle famiglie e nelle stesse amministrazioni municipali, così che sfugge ad ogni più attiva sorveglianza". V. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1877-1878), b. 166, 19, 1/1, rapporto del regio commissario distrettuale di Dolo al prefetto, Dolo 6 gennaio 1878.
203. V. in partic. per la crisi dell'Associazione costituzionale ibid., minuta del rapporto prefettizio sullo spirito pubblico per il primo semestre del 1878 (alla voce associazioni politiche e società operaie).
204. Si rimanda alla ricostruzione proposta da E. Franzina, Introduzione, p. 63.
205. Sul ruolo di Sacchetti a Venezia v. Antonio Lazzarini, Giuseppe Sacchetti a Venezia la questione sociale (1872-1883), in Venezia e il movimento cattolico italiano, a cura di Silvio Tramontin-Antonio Lazzarini-Antonio Niero-Giorgio Fedalto, Venezia 1974, pp. 25-50.
206. Secondo un precisa statistica redatta dalle forze di polizia nell'ottobre 1881 operavano in città 15 organizzazioni cattoliche. Cf. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1882-1887), b. 229, rapporto della questura al prefetto di Venezia, 14 ottobre 1881.
207. L'articolo fu pubblicato il 16 marzo 1878. Sulla sua preparazione e le difficoltà per la sua pubblicazione cf. M. Donaglio, Il difensore di Venezia, pp. 108-111.
208. V. ad esempio L'ordinamento dei partiti politici, "La Venezia", 26 marzo 1878.
209. Sulla storia di questo giornale cf. Umberto Zane, La Venezia di Carlo Pisani, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1986-1987.
210. Cf. Pompeo Gherardo Molmenti, Delendae Venetiae, "Nuova Antologia", 7, 1887, pp. 413-428. Sui contenuti del piano rimandiamo a G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 365-448.
211. Ottenendo 3.810 preferenze Molmenti si posizionò al quindicesimo posto nell'elenco degli eletti. V. S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 52-53.
212. Sul ruolo della giunta Tiepolo e sull'atteggiamento di Molmenti v. le osservazioni di M. Donaglio, Il difensore di Venezia, pp. 128-131.
213. Il matrimonio avvenuto nel 1885 con la contessa bresciana Amalia Brunati spostò progressivamente i suoi interessi politici a Moniga del Garda, paese di cui nel 1890 divenne sindaco; nello stesso anno fu eletto alla Camera nel collegio di Brescia I. Tutta la parte 'bresciana' della sua esperienza politica viene attentamente ricostruita ibid., pp. 153 ss.
214. Cf. Fulvio Cammarano, Storia politica dell'Italia liberale 1861-1901, Bari 1999, p. 162.
215. Per i dati generali v. Elezioni generali politiche del 16 e 23 maggio 1880, "Archivio di Statistica", 5, 1880, pp. 393-449, mentre per un commento al voto nei collegi del Veneto si rimanda a G. Monteleone, Economia e politica, p. 280.
216. In pratica nel collegio di Venezia I confluirono le sezioni di Venezia III. Il collegio di Venezia II venne spostato a Dolo accorpando le sezioni dei vecchi collegi di Chioggia, Portogruaro e Mirano.
217. Ampia fu la campagna condotta a tale scopo da "L'Adriatico". Cf. Iscrizione nelle liste elettorali, ibid., 16 febbraio 1882, dove si segnala l'impegno profuso dalla rete delle società di mutuo soccorso nel sensibilizzare i cittadini; v. anche Andate ad iscrivervi, ibid., 19 febbraio 1882.
218. Il mancato accordo sul suo nome derivò con ogni probabilità dalla condotta parlamentare del deputato veneziano, il quale nel 1878 aderì al gruppo Cairoli in aperto dissenso con la linea del governo Depretis, ed entrò a far parte del secondo governo guidato dallo stesso Cairoli (luglio-novembre 1878) in qualità di ministro di Grazia e giustizia. Nel maggio 1880 aderì al cosiddetto gruppo della sinistra dissidente promosso da Zanardelli, Crispi e Nicotera.
219. La prima elezione di Sebastiano Tecchio risale al 1876 quando, seppur opposto nel collegio di Thiene ad un candidato moderato del calibro di Emilio Broglio, riuscì a superare il suo avversario. Si dimise nel dicembre del 1878.
220. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1882-1887), b. 222, telegramma del presidente del Consiglio Depretis ai prefetti del Regno, 15 settembre 1881.
221. Ibid., circolare del prefetto di Venezia Manfrin, 18 settembre 1881.
222. Ibid., rapporto della questura al prefetto di Venezia, 9 giugno 1884.
223. La convivenza tra le diverse culture politiche non fu del tutto esente da contrasti che portarono, attraverso concitati passaggi, la componente radicale ad assumere il controllo del sodalizio. Cf. ibid., 1, A-E, rapporto della questura al prefetto di Venezia, 28 maggio 1884.
224. Ibid., rapporto della questura al prefetto di Venezia, 23 marzo 1884.
225. Ibid., lettera del questore al prefetto di Venezia, 24 giugno 1884.
226. Ibid., b. 242, 2, 1/5, rapporto del questore al prefetto di Venezia, Venezia 16 ottobre 1884.
227. Su questo tema v. Nadia Maria Filippini, 'Su compagne!' Lavoro e lotte delle donne dall'Unità al fascismo, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 247-262.
228. Tra l'ampia documentazione disponibile a tal proposito v. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1882-1887), b. 239, 2, 1/5, rapporto del questore al prefetto, Venezia 27 giugno 1885.
229. V. La situazione, "L'Adriatico", 9 marzo 1878.
230. Su di lui v. il profilo tracciato in Sebastiano Rumor, Gli scrittori vicentini dei secoli decimottavo e decimonono, III, Venezia 1908, pp. 163-165.
231. La situazione critica della sinistra fu descritta da Pellegrini in una lettera indirizzata a Zanardelli, nella quale si parlava esplicitamente della mancanza di un coordinamento regionale dei comitati locali, che invece avevano efficacemente funzionato a partire dal 1874, e della debolezza della rete dei giornali. Brescia, Archivio di Stato, Carte Zanardelli, b. 80, lettera di Clemente Pellegrini a Giuseppe Zanardelli, Venezia 28 aprile 1886.
232. V. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1882-1887), b. 272, 3, 3/2, rapporto del questore al prefetto, Venezia 6 maggio 1886, dove, oltre ad un ampio resoconto delle varie forze mobilitate per l'appuntamento elettorale, si dà notizia della costituzione di un Comitato elettorale dei negozianti liberali.
233. Dell'attività del Comitato elettorale operaio, costituitosi in quelle settimane, si parla diffusamente ibid., rapporto del questore al prefetto, Venezia 10 maggio 1886.
234. Particolarmente intensa fu l'attività dei funzionari di polizia nel condizionare il voto a favore di Galli nella sezione di Chioggia che si trasformò nel feudo elettorale del direttore de "Il Tempo". V. ibid., rapporto del commissario distrettuale di Chioggia al prefetto, Chioggia 17 maggio 1886, dove si accenna al lavorio messo in atto per istruire gli analfabeti alla scrittura del nome di Galli sulla scheda elettorale.
235. Brescia, Archivio di Stato, Carte Zanardelli, b. 80, lettera di Sebastiano Tecchio a Giuseppe Zanardelli, Venezia 24 maggio 1886.
236. Ibid., lettera di Sebastiano Tecchio a Giuseppe Zanardelli, Venezia 29 luglio 1886.
237. Sulle origini del giornale e per il testo dell'articolo citato cf. Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976, pp. 15-28.
238. Questo aspetto del tentativo compiuto da Tiepolo fu sottolineato da Paulo Fambri sulle colonne de "La Venezia" di cui aveva assunto la direzione dopo la morte di Pisani. Cf. in partic. l'articolo intitolato Il successore, "La Venezia", 23 aprile 1889.
239. Su questo interessante personaggio, nato a Camposampiero in provincia di Padova nel 1861, morto suicida nel 1910 a Castelfranco, la cui fama è interamente legata al duello nel corso del quale nel 1898 uccise Felice Cavallotti, manca ancora un lavoro d'insieme che ne analizzi l'attività in campo giornalistico, pubblicistico e politico. Una buona base di partenza è quella fornita da Luigi Urettini, Storia di Castelfranco, Padova 1992, pp. 78-91.
240. Ferruccio Macola, Relazione del direttore della Gazzetta di Venezia sul progetto per costituire una Federazione Politica Regionale, Venezia 1889.
241. Cf. M. Donaglio, Il difensore di Venezia, pp. 145-152.
242. V. Fedele Lampertico, Per le prossime elezioni, "Rassegna Nazionale", 51, 1890, pp. 702-714.
243. V. Paulo Fambri, Le prossime elezioni, "La Venezia", 1° marzo 1890.
244. Cf. Ferruccio Macola, Un'ultima parola alle vestali del pudore politico, "Gazzetta di Venezia", 4 marzo 1890.
245. Sulla poesia di Selvatico v. Arturo Marpicati, Saggi storici-critici, Fiume 1921, mentre per un giudizio sulla produzione teatrale cf. l'articolo di Renato Simoni, Riccardo Selvatico, "Corriere della Sera", 17 giugno 1910. Circa invece i rapporti che legavano Selvatico ad altre figure importanti della vita culturale veneziana della seconda metà dell'Ottocento, quali Antonio Fradeletto, Giacinto Gallina e Giacomo Favretto, cf. Daniele Ceschin, La 'voce' di Venezia. Antonio Fradeletto e l'organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001, pp. 39-52.
246. Su questa vicenda cf. Laura Alban, La statuaria pubblica di Venezia italiana (1866-1898), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1993-1994, pp. 189-228.
247. Venezia, Museo Correr, Carte Selvatico, Corrispondenza, c. 44, lettera di Antonio Fradeletto a Riccardo Selvatico, Venezia 7 giugno 1889.
248. Ibid., c. 10, lettera di Riccardo Selvatico a Eugenio Caluci, Milano 22 aprile 1890. Nello stesso giorno scriveva alla moglie Nina: "Mi rattrista e mi amareggia il pensiero di ciò che probabilmente mi attende a Venezia". Cito da D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, p. 105 n. 38.
249. V. in partic. Venezia, Museo Correr, Carte Selvatico, Corrispondenza, c. 52, lettera di Sebastiano Tecchio a Riccardo Selvatico, Venezia 23 aprile 1890.
250. V. Musei Civici Veneziani, Archivio privato Selvatico. Inventario, a cura di Maria Giovanna Siet Casagrande, Venezia 1995.
251. Cf. S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 24 n. 47.
252. Atti del Consiglio Comunale di Venezia, Venezia 1890, Seduta del 12 maggio 1890, pp. 264-265.
253. Il provvedimento fu deliberato d'urgenza il 14 gennaio 1893 e prevedeva un contributo di 10.000 lire annuo e la disponibilità del locale della Scuola della Misericordia. Sulle origini dell'istituzione sindacale si rimanda al contributo di Tiziano Merlin, Carlo Monticelli primo segretario della Camera del lavoro di Venezia, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 266-269 (pp. 263-274).
254. Venezia, Museo Correr, Carte Selvatico, Corrispondenza, b. 45, lettera di Antonio Fradeletto a Riccardo Selvatico, Venezia 16 novembre 1892.
255. Cf. Emilio Franzina, L'eredità dell'Ottocento e le origini della politica di massa, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 124-132 (pp. 117-151), e Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I-III, Venezia 1996-1997: II, La dominante dominata, pp. 308-313.
256. V. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 430-432 (pp. 381-482).
257. Al Bezzi è stata attribuita la primogenitura dell'idea di un'esposizione d'arte, da lui inizialmente proposta alla città di Milano e successivamente a Venezia dove incontrò da subito la disponibilità del sindaco Selvatico. Cf. D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, p. 113.
258. Sulla nascita dell'Esposizione d'arte cf. il classico lavoro di Paolo Rizzi-Enzo Di Martino, Storia della Biennale 1895-1982, Milano 1982, ma per il ruolo del Selvatico cf. anche D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, pp. 109-119.
259. V. l'elenco in S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 55-56.
260. Per una panoramica sui caratteri di questo fenomeno cf. Emilio Franzina, Introduzione a Renato Camurri, Il comune democratico. Riccardo Dalle Mole e l'esperienza delle giunte bloccarde nel Veneto giolittiano (1900-1914), Venezia 2000, pp. 1-28.
261. Brescia, Archivio di Stato, Carte Zanardelli, b. 96, lettera di Sebastiano Tecchio a Giuseppe Zanardelli, Venezia 16 giugno 1892.
262. Nel collegio di Venezia II prevalse il barone Alberto Treves de' Bonfili che superò al ballottaggio il candidato della sinistra Renato Manzato. Nel collegio di Venezia III il conte Tiepolo si impose su Giacomo Ricco. La sinistra vinse invece a Portogruaro con Clemente Pellegrini e a Mirano con Egisto Zabeo. Difficile in questa fase collocare Galli che fu riconfermato nel suo feudo di Chioggia.
263. Brescia, Archivio di Stato, Carte Zanardelli, b. 96, lettera di Sebastiano Tecchio a Giuseppe Zanardelli, Venezia 5 ottobre 1892.
264. Macola si candidò nel collegio di Mirano dove fu però sconfitto da Egisto Zabeo.
265. Brescia, Archivio di Stato, Carte Zanardelli, b. 96, lettera di Sebastiano Tecchio a Giuseppe Zanardelli, Venezia 5 ottobre 1892.
266. V. il carteggio tra Alfonso Capecelatro, vescovo di Capua, e Lampertico in Fedele Lampertico, Carteggi e diari, pp. 449-450.
267. Cf. M. Isnenghi, Fine della Storia?, p. 417.
268. V. in partic. il saggio di Maurizio Reberschak contenuto in questo volume.
269. V. M. Donaglio, Il difensore di Venezia, p. 175.
270. I provvedimenti citati e le successive polemiche giornalistiche vengono ricostruiti ibid., pp. 186-192.
271. A sostegno di Tiepolo era intervenuto anche Luzzatti come risulta dalla seguente lettera: "Non seppi ma immaginai e sentii il caro tuo interessamento per me. Conosco la tua amicizia ed apparisca o no essa mi incoraggia in ogni prova, mi conforta in ogni amarezza. Caddi abbattuto più dai maltrattamenti di colui e della plebe signorile che lo circonda, che dalla potenza del competitore illustre e della forza del partito contrario [...]. Ma quantunque solo con pochissimi amici personali, senza giornali, senza associazioni, senza comitato, senza danari, conquistai pure 1200 voti! La vittoria morale mi compensò della sconfitta [...]". Venezia, Archivio dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, b. 45, lettera di Lorenzo Tiepolo a Luigi Luzzatti, Venezia 10 giugno 1900.
272. Nel corso della discussione Molmenti aveva rivolto al suo interlocutore pesanti accuse di corruzione. L'intera vicenda viene ricostruita da M. Donaglio, Il difensore di Venezia, pp. 280-289.
273. La relazione di minoranza presentata da Carlo Tivaroni mise in luce alcuni gravi fatti a carico di Cerutti. Cf. ibid., pp. 288-289.
274. V. Gianni Boldrin, Aristocrazie terriere e finanziarie all'assalto della stampa (1919-1925), in Giornali del Veneto fascista, Padova 1976, p. 18 (pp. 17-78).
275. Cf. il lavoro di Pier Luigi Ballini, La destra mancata. Il gruppo rudiniano-luzzattiano fra ministerialismo e opposizione (1901-1908), Firenze 1984.
276. Venezia, Archivio dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, b. 45, lettera di Sebastiano Tecchio a Luigi Luzzatti, Venezia 21 febbraio 1897.
277. Ibid., lettera di Filippo Grimani a Luigi Luzzatti, Venezia 11 marzo 1897.
278. Cf. Umberto Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano 1977, pp. 9 ss. L'ingresso di Zanardelli nella maggioranza di governo da un lato favorì l'avvicinamento tra il centro sonniniano e la destra lombarda, dall'altro interruppe gli sforzi di Cavallotti e di Giolitti per tentare un'unificazione della sinistra liberale.
279. Su questo passaggio politico-parlamentare v. Mario Belardinelli, Origini del connubio Di Rudinì-Zanardelli, "Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea", 21-22, 1969-1970.
280. Venezia, Archivio dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, b. 45, lettera di Sebastiano Tecchio a Luigi Luzzatti, Venezia 12 novembre 1897.
281. Zabeo costituiva da molti anni il punto di riferimento di Cavallotti nel Veneto. Dopo le elezioni del '97 aderì al gruppo repubblicano. Su di lui e più in generale sulla consistenza del movimento radicale nella regione cf. Gianni A. Cisotto, Aspetti del radicalismo veneto nel secondo Ottocento, in Movimenti politici e sociali nel Veneto dal 1876 al 1903, a cura di Id., Vicenza 1986, pp. 47-73.
282. Su Renato Manzato (Venezia 1843-1925), v. Amedeo Massari, Commemorazione di Renato Manzato, Venezia 1932.
283. L'esperienza parlamentare e la militanza nel partito radicale vengono ampiamente analizzati da D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, pp. 195-223.
284. Tranne contributi specifici che segnaleremo più avanti, la letteratura si riduce ai lavori di Emilio Franzina, Dopo Adua. Società e politica nel Veneto di fine secolo, "Venetica", 3, 1985, pp. 19-40, e Il Veneto in età giolittiana (1903-1913). Aspetti economici, sociali, politici, culturali. Atti del convegno, a cura di Gianni A. Cisotto, Vicenza 1991.
285. Cf. Alberto Aquarone, Alla ricerca dell'Italia liberale, Napoli 1972, p. 305, ma dello stesso autore v. anche L'Italia giolittiana (1896-1915), I, Le premesse politiche ed economiche, Bologna 1981.
286. Non si intende riferirci, per riprendere la nota definizione weberiana, a soggetti che vivono "di" politica, ovvero che ricavano dalla politica la principale fonte di reddito, ma all'aumento tra i deputati di figure dotate di competenze specifiche come gli avvocati. Il richiamo a Max Weber rimanda a La politica come professione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1988, pp. 57-62 (pp. 5-121). Il peso crescente degli avvocati tra i parlamentari fu messo in luce dal pionieristico studio di Paolo Farneti, Sistema politico e società civile, Torino 1971, e successivamente da Alfio Mastropaolo, Sviluppo politico e parlamento nell'Italia liberale. Un'analisi a partire dai meccanismi della rappresentanza, "Passato e Presente", 12, 1986, pp. 29-70.
287. Sull'età giolittiana come "età dell'amministrazione" rimandiamo alle interessanti osservazioni di P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico, pp. 46-48.
288. Così il sindaco di Venezia scrive a Molmenti: "Del mio sudato laticlavio, come lo ha giustamente chiamato un giornale, parrà meglio non occuparsene più. Tu hai fatto il possibile e l'impossibile, e te ne sono grato e tanto, ma è meglio ormai lasciar perdere". La lettera è conservata in Venezia, Archivio dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, b. 21, lettera di Filippo Grimani a Pompeo Molmenti, Venezia 16 novembre 1916.
289. Il termine "area politica" è molto generico, ma è anche uno dei pochi (le alternative potrebbero essere "mondo" o "universo") che consente di inquadrare un sistema politico locale estremamente frammentato, privo, naturalmente, di strutture partitiche definite. Recentemente è invalso l'uso nella letteratura del termine "famiglia politica" che a nostro parere può essere applicato solo per la politica novecentesca e all'interno di un quadro comparativo europeo. Sul significato del termine 'famiglia politica' e sul suo utilizzo cf. Les familles politiques en Europe occidentale au XIXe siècle, Rome 1999, e le perplessità avanzate da M. Ridolfi, Interessi e passioni, pp. 90-93.
290. Cf. Stefano Sorteni, La Gazzetta di Venezia di Luciano Zuccoli (1906-1912), tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1985-1986.
291. Secondo Monica Donaglio la preoccupazione maggiore di Molmenti non era legata agli equilibri politici, ma al timore di perdere una tribuna importante da cui poter continuare la sua attività culturale e le "campagne di venezianità". Cf. M. Donaglio, Il difensore di Venezia, pp. 307-319.
292. Cf. Emilio Franzina, Le strutture elementari della clientela, in La scienza moderata. Fedele Lampertico e l'Italia liberale, a cura di Renato Camurri, Milano 1992, pp. 413-422.
293. La corrispondenza con Luzzatti è ricca di richieste rivolte al ministro sia per interventi riguardanti grandi opere pubbliche e infrastrutture (porto, ferrovia, ma anche il trasferimento della Marciana) sia per favori personali.
294. La sua carriera continuò anche negli anni del fascismo. Fu infatti nominato senatore nel 1924 e continuò ad occuparsi dei problemi della città. V. a tal riguardo Girolamo Marcello, Per Venezia, Venezia 1935.
295. Sui particolari di questo rapporto rimandiamo a M. Donaglio, Il difensore di Venezia, pp. 313-316.
296. Per un profilo di questo personaggio che ebbe un ruolo determinante nelle vicende novecentesche della città cf. Giannantonio Paladini, Damerini e Venezia, postfazione a Gino Damerini, D'Annunzio e Venezia, Venezia 1992, pp. 301-318.
297. Un buon quadro d'assieme è quello ricostruito da Emilio Franzina, Una 'belle époque' socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 275-289 (pp. 275-306).
298. Per le notizie biografiche su di lui cf. la voce di Stefano Caretti, in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di Franco Andreucci-Tommaso Detti, III, Roma 1977, pp. 626-629, e Giannantonio Paladini, Politica e cultura a Venezia tra Ottocento e Novecento: i Musatti, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 440-443 (pp. 431-448).
299. Il settimanale rimase in vita fino al 1923. Sulla sua attività v. Tullio Besek, "Il Secolo Nuovo". Un giornale socialista veneziano tra politica nazionale e problemi locali, 1900-1915, Roma 1977, e più recentemente Francesca Peccolo, "Il Secolo Nuovo" di Venezia. Storia di un settimanale socialista (1900-1915), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1995-1996, pp. 168-174.
300. Per una cronaca di questi mesi e dello sciopero generale cf. Daniele Resini, Cronologia, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 353-358 (pp. 317-509).
301. Il testo viene riportato in S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 25 n. 54.
302. Sull'evoluzione nazionale del partito e sui risultati ottenuti in campo amministrativo e nelle consultazioni politiche in questa fase v. Maurizio Ridolfi, Il PSI e la nascita del partito di massa. 1892-1992, Bari 1992, pp. 63-116.
303. Si sofferma su questi passaggi G. Paladini, Politica e cultura a Venezia, pp. 441-442.
304. V. L'on. Fradeletto. L'esposizione e... l'eventuale blocco, "Il Radicale", 1° gennaio 1910. L'interessante dibattito sviluppatosi in quei mesi sulla stampa viene attentamente ricostruito da D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, pp. 230-231.
305. Cf. E. Franzina, L'eredità dell'Ottocento, p. 147.
306. Secondo il prefetto a Venezia "la vita fu quasi normale". Citiamo da Maurizio Degl'Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma 1976, p. 41, lavoro al quale rimandiamo per ulteriori approfondimenti sulla discussione interna al partito e i contrasti tra riformisti e intransigenti.
307. Sulla formazione di questo blocco di forze che scese in campo a sostegno di Orsi cf. Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi 1895-1922, "Italia Contemporanea", 38, 1987, nr. 169, pp. 71-72 (pp. 63-84).
308. Cf. M. Ridolfi, Il PSI e la nascita del partito di massa, pp. 94-95.
309. Dati più completi vengono forniti da S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 25 n. 52, sulla base dei voti riportati dalle diverse liste nei tre collegi elettorali.
310. Il concetto fu espresso dal riformista Florian in un interessante intervento in consiglio comunale poche settimane dopo il voto. V. ibid., n. 51.
311. Lettera del deputato Tecchio a Giolitti, Venezia, 1° gennaio 1904, in Dalle carte di Giovanni Giolitti, II, Dieci anni al potere 1901-1909, a cura di Giampiero Carocci, Milano 1961, pp. 350-351.
312. Sulla sua controversa militanza politica nel partito radicale cf. D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, pp. 195 ss.
313. Cf. Francesco Papafava, Dieci anni di vita italiana (1899-1909), I, Bari 1913, p. 180.
314. V. Una lettera dell'on. Fradeletto all'on. Sacchi, "L'Adriatico", 21 settembre 1904. La lettera aprì un ampio dibattito all'interno del partito come ha ben evidenziato D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, pp. 204-205.
315. D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, p. 286.
316. La nuova sigla nasceva da un accordo tra l'Unione democratica di Bordiga, Orsi e Marangoni e il partito radicale e durò fino al 1914. Cf. La solenne adunanza dell'Associazione Democratica Radicale, "Il Radicale", 17 febbraio 1912.
317. V. La requisitoria di Fradeletto, ibid., 2 marzo 1912.
318. Antonio Fradeletto, Contro il Ministero Giolitti. Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella tornata del 6 aprile 1911, Roma 1911.
319. Né rossi né neri!, "Il Radicale", 27 maggio 1911, cit. in D. Ceschin, La 'voce' di Venezia, p. 241.
320. Su questo raggruppamento parlamentare cf. Hartmut Ullrich, L'organizzazione politica dei liberali italiani nel Parlamento e nel Paese (1870-1914), in Rudolf Lill-Nicola Matteucci, Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del '48 alla prima guerra mondiale, Bologna 1980, pp. 438-441 (pp. 403-450).
321. Una summa delle sue posizioni si trova in Antonio Fradeletto, Dogmi e illusioni della Democrazia, Milano 1913.
322. Cf. Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998, pp. 72-73.
323. Interessanti carteggi sulla questione dell'intervento dei cattolici in questa consultazione vengono pubblicati da Fausto Fonzi, Sulla partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche nell'età giolittiana, in Il Veneto in età giolittiana (1903-1913). Aspetti economici, sociali, politici, culturali. Atti del convegno, a cura di Gianni A. Cisotto, Vicenza 1991, pp. 200-201 (pp. 181-231).
324. Sulla sua esperienza veneziana si è soffermato Giannantonio Paladini, Serrati e Li Causi a Venezia: un sodalizio politico ed umano, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 307-315.
325. Su questo punto v. Giovanni Orsina, Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell'età giolittiana, Roma 1998, pp. 127-155.
326. Fortemente critico con il governo, il deputato veneziano prese le difese nel suo intervento delle istituzioni ed associazioni, come la Dante Alighieri, impegnate nel tutelare la lingua e la cultura italiana nei territori sottomessi all'Austria. Cf. Antonio Fradeletto, Sulla politica estera del Ministero. Discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella tornata del 3 dicembre 1908, Roma 1908.
327. Sul significato di questa definizione e sul ruolo di questo gruppo all'interno del partito v. Lucio D'Angelo, Radical-socialismo e radicalismo sociale in Italia (1892-1914), Milano 1984. Per un profilo biografico di Fovel cf. la voce di Gianpasquale Santomassimo in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di Franco Andreucci-Tommaso Detti, II, Roma 1976, pp. 377-380.
328. V. a tal riguardo l'articolo di Piero Marsich, Giosuè Carducci e il suo anticlericalismo, "Il Radicale", 24 febbraio 1912.
329. V. Id., Nazionalismo, ibid., 10 febbraio 1912.
330. Nino Massimo Fovel, La tattica dei radicali nelle elezioni amministrative, "L'Adriatico", 25 maggio 1914.
331. V. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 17-31.
332. Le poche notizie disponibili confermano a tal proposito i legami tra l'associazione radicale veneziana e alcuni ordini professionali con le organizzazioni del pubblico impiego. Cf. Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, p. 19. Lo stesso Fradeletto era più volte intervenuto in alcune vertenze sostenendo le istanze della lega fra gli insegnanti di Venezia. Sui legami con numerose associazioni professionali si sofferma G. Orsina, Senza Chiesa né classe, pp. 129-130.
333. Cf. Nino Massimo Fovel, Intorno a una democrazia radico-sociale. Appunti, "Rivista d'Italia", ottobre 1912, pp. 624-625 (pp. 601-628).
334. Cf. il brano di Rocco citato in Emilio Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Bari 1999, pp. 171-172.
335. L'intera vicenda del nazionalismo veneziano è stata ricostruita da L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 17-75.
336. Cf. Mario Isnenghi, D'Annunzio e l'ideologia della venezianità, "Rivista di Storia Contemporanea", 19, 1990, nr. 3, p. 421 (pp. 419-431). Il testo riproduce la relazione presentata al convegno su D'Annunzio e Venezia tenutosi all'Ateneo Veneto nei giorni 28-30 ottobre 1988. Gli atti sono pubblicati nel volume D'Annunzio e Venezia, a cura di Emilio Marino, Roma 1991.
337. Foscari aveva previsto il dono del manoscritto dell'opera alla città, l'arrivo a Ca' Farsetti del poeta sulla gondola ed altri momenti tendenti a trasformare l'evento in una vera e propria celebrazione del vate del nascente nazionalismo. Sulle polemiche tra il giornale cattolico "La Difesa" e la "Gazzetta" v. M. Isnenghi, D'Annunzio e l'ideologia della venezianità, p. 422.
338. È questa la convincente ipotesi avanzata da Id., La cultura, pp. 439-449.
339. Su Alberto Musatti cf. G. Paladini, Politica e cultura a Venezia, pp. 443-448.
340. Sul richiamo al titolo dell'antica magistratura v. le considerazioni di L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 36-37.
341. Sulla nascita del giornale v. ibid., pp. 88-137, e Mario Isnenghi, "Il Dovere Nazionale". Lettere di Alfredo Rocco a Gino Damerini, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 449-459.
342. Cf. Paolo Ungari, Alfredo Rocco e l'ideologia giuridica del fascismo, Padova 1963.
343. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 335-362.