Abstract
Dopo una ricostruzione dei principali elementi che caratterizzano il sistema di relazioni sindacali nel settore del pubblico impiego, lo scritto si sofferma sui diversi ambiti normativi in cui è previsto il protagonismo dell’associazionismo sindacale, evidenziandone gli aspetti positivi ma anche le criticità evidenziate nelle fasi applicative ed interpretative.
Il ruolo ricoperto dall’associazionismo sindacale nel settore pubblico è senz’altro maggiore di quello ricoperto nel settore privato già nella determinazione storica e fattuale dello stesso “diritto sindacale” nei comparti delle amministrazioni pubbliche. Si può quindi dire che lo stesso fenomeno della contrattualizzazione del rapporto di lavoro nelle diverse fasi che lo hanno caratterizzato sia stato influenzato geneticamente dall’influenza esercitata sul legislatore dall’associazionismo sindacale di livello confederale.
L’esperienza negoziale e di rappresentanza in questo settore nasce già coi caratteri della istituzionalizzazione delle regole e dei rapporti. Infatti, fino alla metà degli anni ’70 del Novecento il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti era regolato esclusivamente da norme legislative o comunque pubblicistiche. La natura della fonte aveva quindi influenzato quella delle relazioni, e la rappresentanza dei lavoratori si era espressa fino a quel momento attraverso il ruolo di lobby che le associazioni sindacali riuscivano ad esercitare nei confronti di forze politiche e interlocutori parlamentari. Una necessità che, in verità, non si è esaurita del tutto nemmeno dopo la cd. contrattualizzazione del rapporto di lavoro in conseguenza del fatto che una quota di normazione pubblicista, con ripercussioni variabili sul rapporto di lavoro, resta in ossequio al principio di riserva di legge sancito dal secondo comma dell’art. 97 Cost.
Le prime sperimentazioni di contrattazione collettiva e pertanto la stessa esperienza negoziale si realizzano secondo un processo politico-sindacale guidato dall’alto nel quale il livello nazionale, chiamato in primo luogo a emancipare il rapporto di lavoro dall’esclusività della fonte pubblicistica, crea solo successivamente la propria struttura articolata secondo una logica inversa rispetto a quella che nel settore privato ha visto il luogo di lavoro come sede elettiva della nascita del diritto sindacale; e infatti, mentre nelle imprese il contratto nazionale nasce per aggregazione successiva di interessi che dal luogo di lavoro si amplia a livelli territoriali sempre più estesi, nel settore pubblico il secondo livello di contrattazione si configura come decentramento del contratto nazionale, una volta che questo si sia emancipato dalla funzione normativa di volta in volta svolta dalla legge. Ed è evidente che questa modalità favorisca la forma associativa del sindacato rispetto a quella di rappresentanza spontanea o elettiva, non fosse altro che per garantirsi una specifica credibilità rappresentativa per porsi quali interlocutori istituzionali.
Il percorso che ha visto l’“avvento” della contrattazione collettiva non ha fatto registrare la stessa linearità in tutti i comparti del settore pubblico. Nella fase della informalità del modello di relazioni sindacali pubbliche (quella che precede la legge-quadro del 1983) ogni tipologia di amministrazione aveva una sua fisionomia di sistema fortemente caratterizzata dal proprio assetto amministrativo ed istituzionale; e le leggi che nel corso del decennio precedente avevano previsto prime forme di sperimentazione partivano proprio dalla prassi informale per costruire un modello comunque orientato al controllo della spesa pubblica ed alla perequazione dei trattamenti economici dei pubblici dipendenti. L’orientamento perequativo della legislazione si era accentuato per effetto dell’Accordo Governo Cgil-Cisl-Uil del 17 marzo 1973 col quale si avviava un processo di accorpamento e controllo sia delle strutture sindacali (a favore delle Confederazioni rispetto alle strutture categoriali, e dei sindacati confederali rispetto agli autonomi) che dei centri di spesa (a favore di quelli accentrati rispetto a quelli di singola amministrazione): un processo che ha effetto soprattutto sugli assetti delle regioni, degli enti locali e delle amministrazioni ospedaliere che in precedenza avevano sperimentato informali intese locali; ma che ha effetto anche sulla precedente legislazione (mai attuata) delle amministrazioni ministeriali che era prevista all’art. 24 della l. 28.10.1970, n. 775 e che ipotizzava accordi emanati con deliberazione del Consiglio dei ministri di concerto con i ministri o il ministro competente.
Poiché la legittimazione della contrattazione rispetto alla legge si fonda sulla premessa del perseguimento degli obiettivi di perequazione dei trattamenti e di controllo della spesa pubblica, il livello associativo direttamente privilegiato in questa fase è quello confederale che a sua volta guida (coordinandolo nel corso delle trattative) e organizza (definendo i comparti di contrattazione ma anche aggregando statutariamente al proprio interno le federazioni) quello di categoria.
E anche per queste ragioni che, diversamente da quello privato, il settore pubblico è il primo a darsi una struttura contrattuale formalizzata (ed eteronoma): proprio con la l. 29.3.1983, n. 93 (legge-quadro sul pubblico impiego) – ed ancora una volta con finalità macro-economiche di controllo della spesa e di perequazione dei trattamenti economici – si crea un raccordo tra i livelli di contrattazione più rigido di quello previsto dal cd. “Protocollo Scotti” del 22.1.1983 (Protocollo globale d’intesa sul costo del lavoro) che si limitava a definire l’impegno del rispetto dei limiti prefissati di incremento del costo del lavoro anche sommando più livelli di contrattazione: ne è garante l’art. 14 della legge-quadro quando esordisce affermando che «nell’ambito e nei limiti fissati dalla disciplina emanata a seguito degli accordi sindacali … (nazionali di comparto ed intercompartimentali) … sono consentiti accordi decentrati (…) anche territoriali ...».
D’altra parte l’istituzionalizzazione e il favor per l’organizzazione della rappresentanza sindacale in forma associativa sono connaturati nel modello pubblico dell’epoca e sono testimoniati sul fronte datoriale dal fatto che la delegazione pubblica è composta direttamente da componenti del governo e che quella sindacale è formata da “organizzazioni sindacali” la misurazione della cui maggiore rappresentatività avviene basandosi sul dato associativo e sull’adozione di un codice di autoregolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero dai contenuti in parte definiti dalla stessa l. n. 93/1983. La sostanziale unicità del requisito associativo è solo teoricamente affievolita dalla previsione dell’art. 8 del d.P.R. 23.8.1988, n. 395 (e dalla successiva circolare ministeriale) che aggiunge quelli «dell’adesione in occasione di membri sindacali negli organismi rappresentativi» e quello della diffusione e consistenza negli ambiti categoriali e territoriali interessati: nel primo caso, perché l’uscita dei rappresentanti sindacali dai consigli di amministrazione e da altri organismi amministrativi priva questo requisito di ogni effettività almeno fino a quando, come vedremo non si giungerà alla forma rappresentativa basata sulle Rsu; nel secondo caso perché per sua natura il requisito della diffusione non mette in discussione ma anzi conferma l’importanza di quello principale e, per quanto appena detto, privilegiato.
Anche il modello definito nel 1993 e poi confluito nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165 privilegia la forma associativa della rappresentanza sindacale, seppur contemperata quanto alla misurazione della rappresentatività dal dato elettorale ricavato dalle elezioni delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) che dalla fine degli anni ’90 si susseguono con sufficiente regolarità ogni triennio.
Rispetto al modello precedente, il d.lgs. 165/2001 (artt. 40 e ss.) conferma il ruolo delle Confederazioni nella determinazione dei comparti e delle aree dirigenziali (seppur questa volta individuandone il numero massimo) e in quello di partecipazione anche a tutti i tavoli negoziali nazionali, ma definisce un meccanismo di misurazione della rappresentatività basato sulle organizzazioni di comparto che si estende alle Confederazioni qualora ad esse siano affiliate federazioni rappresentative in almeno due comparti o due aree.
La rappresentatività delle organizzazioni sindacali si misura come media tra dato associativo (percentuale degli iscritti rispetto all’insieme dei lavoratori sindacalizzati nell’ambito contrattuale di riferimento) e dato elettorale (percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato.
Ma la preferenza accordata alla forma associativa della rappresentanza è testimoniata dai soggetti che l’accordo collettivo quadro (ACQ) del 7.8.1998 legittima a promuovere la costituzione delle Rsu e che sono oltre alle associazioni sindacali rappresentative firmatarie aderenti allo stesso ACQ, anche «altre organizzazioni sindacali, purché costituite in associazione con proprio statuto e aderenti» anch’esse all’ACQ. In quest’ultimo caso, a differenza che nel settore privato, non è necessario che la lista sia sottoscritta da un numero minimo di lavoratori aventi diritto al voto. E nelle aree dirigenziali la rappresentatività è misurata esclusivamente in base al dato associativo.
Ulteriore arroccamento alla forma associativa della rappresentanza si ritrova nella disciplina sull’esercizio del diritto di sciopero dettata dalla l. 12.6.1990, n. 146 per la quale l’individuazione delle prestazioni indispensabili nei servizi erogati da pubbliche amministrazioni è individuabile negli accordi firmati dalle organizzazioni sindacali rappresentative a norma del d.lgs. n. 165/2001 (art. 2, co. 2).
L’istituzionalizzazione del modello di relazioni sindacali del settore pubblico è, quindi, determinata da due fattori: la fonte normativa di regolamentazione che lo dota di un quadro giuridico non modificabile dalle parti; la forma associativa del sindacato rappresentativo che induce alla moltiplicazione dei soggetti sindacali formalmente costituiti (frammentazione della rappresentanza) alla continua ricerca di aggiustamenti organizzativi per raggiungere e soddisfare al massimo grado possibile i requisiti di rappresentatività.
Questa dimensione della rappresentatività è stata senz’altro quella che ha fatto registrare il maggiore consenso tra gli osservatori e gli studiosi tanto da essere stata più volte richiamata come possibile soluzione anche per il settore privato in modo da ufficializzare il superamento di criteri meno certi (maggiore rappresentatività, rappresentatività comparativa) e poter porre le basi anche per l’estensione erga omnes dei contratti.
Basato sul contemperamento tra dato associativo e dato elettorale, il metodo di misurazione della rappresentatività ai fini dell’ammissione al tavolo Aran ha nel tempo semplificato lo scenario sindacale.
È stato un percorso costellato di tensioni interne alle stesse organizzazioni sindacali indotte recalcitranti a più ampie aggregazioni, e tra queste e l’Aran chiamata in più occasioni a fare i conti con ordinanze del giudice del lavoro per l’ammissione con riserva ai tavoli (competente in materia come sancito già dalla Corte di Cassazione con sentenza, S.U., 22.7.1998, n. 7179) e perfino con interrogazioni parlamentari.
La contrattazione collettiva ha nel corso del tempo cercato di arginare fittizie aggregazioni che si consumavano nel breve lasso di tempo nel quale veniva rilevato il dato associativo per poi riscomporsi soprattutto ai fini della distribuzione delle prerogative sindacali (permessi e distacchi). Emblematiche a questo proposito le modifiche apportate dal CCNQ 24/9/2007 all’art. 19 del CCNQ del 7.8.1998.
Avviene così che dal 2003 al 2012, 95 adesioni di sindacati minori all’accordo del 7 agosto 1998 (per la partecipazione alle elezioni delle Rsu, proponendosi quindi come possibili soggetti, magari a seguito di confluenze e aggregazioni, a rappresentatività nazionale); e che al 31.12.2007, 61 sindacati sono confluiti in 9 nuovi sindacati per tutti comparti e le aree e che 33 sindacati sono confluiti in 13 nuovi sindacati con riferimento a singoli comparti e/o aree (ponendo basi più solide per la definizione del dato associativo ai fini della misurazione della rappresentatività).
Il percorso rischia di riproporsi con ripercussioni questa volta anche nelle organizzazioni maggiori, visto che con la riduzione del numero dei comparti e delle aree dirigenziali bisognerà dar vita a nuove e più corpose aggregazioni: diciamo subito che la riduzione del numero dei comparti e delle aree non è mai sembrata un’urgenza ed un’emergenza tale da richiedere l’intervento coattivo della legge rispetto all’azione contrattuale, anche considerando che i CCNQ si erano già proposto l’obiettivo di razionalizzazione un assetto che era stato nel tempo reso più complesso anche per effetto di interventi legislativi di riconoscimento di specificità ad alcune tipologie di amministrazioni e/o profili.
Nel passato i comparti erano stati costruiti dalla contrattazione collettiva in base alla omogeneità amministrative ed istituzionale delle tipologie di amministrazioni: una omogeneità che corrispondeva grosso modo all’articolazione in Federazioni dei sindacati maggioritari, così come si era definita già alla fine degli anni ’70 e fin dall’applicazione della legge-quadro del 1983; anzi, dalla prima configurazione di comparti successiva al d.lgs. 3.2.1993, n. 29 (8 comparti) si era poi preferito scomporre in parte i comparti (giungendo a 12) per riconoscere autonomia e specificità a nuove tipologie di amministrazioni la cui identità era stata ritenuta eccessivamente compressa nei comparti di partenza (Presidenza del Consiglio dei ministri, Agenzie fiscali, Alta formazione); l’ambito delle aree dirigenziali non aveva subito particolari contraccolpi dal momento che restava sostanzialmente ancorato alla struttura dei comparti di provenienza (con l’eccezione dell’area dirigenziale della scuola).
La possibile drastica aggregazione (a normativa vigente) dovrebbe mantenere una specificità solo per le autonomie locali e per la sanità, aggregare tutte le amministrazioni della conoscenza (dalla scuola, all’università amministrativa e agli enti di ricerca) e mantenere insieme tutte le amministrazioni centralizzate.
Ma, come si legge nella relazione tematica «Contrattazione collettiva e responsabilità disciplinare nel pubblico impiego privatizzato dopo la riforma c.d. “Brunetta”» (n. 41 del 12.4.2010) dell’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di Cassazione: «La scelta normativa non è peraltro, come si è già anticipato, neutra sotto il profilo della incidenza sui soggetti legittimati alla partecipazione alla procedura contrattuale: infatti, posto che il comparto, come detto, rappresenta anche l’ambito di riferimento per la misurazione della rappresentatività sindacale, è evidente che ogni mutamento della configurazione dei comparti può avere un effetto determinante ai fini del1’individuazione delle organizzazioni sindacali da ammettere alle trattative».
Forse i problemi maggiori sorgeranno nel contemperare anche all’interno delle maggiori Confederazioni, strutture di categoria con riconoscimento statutario e soggetto rappresentativo per ambito contrattuale tra loro non coincidenti.
A meno che non si decida di mantenere distinta la composizione del comparto dalla rappresentatività rispetto alla tipologia delle amministrazioni che lo compongono.
Per concludere sul punto della rappresentatività utile all’ammissione ai tavoli negoziali, i dati sulla rappresentatività dimostrano come la frammentazione della rappresentanza associativa sia ancora lontana dall’essere superata e come anche essa stessa abbia, almeno in questo settore, una funzione aggregante di interessi solo per poche associazioni particolarmente e storicamente incardinate nella categoria di riferimento. E così, solo per considerare i comparti più rilevanti, la rappresentatività 2013-2015 vede nel comparto Ministeri 7 associazioni rappresentative su 67; nel comparto Regioni e Autonomie locali 4 su 131; nel comparto Sanità 6 su 101; nel comparto Scuola 5 su 91. In tutti i casi sono numerosissime le associazioni che registrano meno di 5 deleghe e nessun voto ottenuto nelle elezioni delle Rsu.
L’art. 43 del d.lgs. n. 165/2001 prevede al terzo comma che l’Aran sottoscriva i contratti collettivi «verificando previamente, sulla base della rappresentatività accertata per l’ammissione alle trattative (…), che le organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso il 51% come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell’area contrattuale (….)».
Secondo la prassi interpretativa ed applicativa dell’intero articolo 43, la verifica del 51% era sempre stata fatta (in analogia alla prassi seguita per la misurazione della rappresentatività per l’esigibilità della costituzione delle Rsu e per la legittimità negoziale) commisurando la media all’insieme delle organizzazioni (rappresentative e non rappresentative) presenti nell’ambito di applicazione del contratto (comparto o area); mentre per la distribuzione delle prerogative sindacali in percentuale rispetto alla rappresentatività, si era seguito il diverso criterio di rapportare il singolo dato di rappresentatività alle sole organizzazioni riconosciute come rappresentative.
Il duplice criterio era stato convenuto in un clima di unità d’azione tra le maggiori confederazioni; ma, in un clima di forte competitività e contrapposizione, la diversa base di calcolo poteva rappresentare il discrimine tra un contratto cui l’Aran poteva apporre la sua firma ed un contratto privo della rappresentatività minima richiesta dalla legge.
In occasione dei rinnovi contrattuali del biennio 2008-2009, la correttezza della prassi seguita è stata sottoposta dal Dipartimento della Funzione Pubblica al vaglio del Consiglio di Stato che, nel parere n. 4108/2008 espresso dall’Adunanza della Sezione Prima già il 3.12.2008, pur riconoscendo la possibilità di interpretare l’art. 43 in entrambi i modi esposti, si preoccupa di sottolineare come per la misurazione del 51% sia più corretto ricorrere al criterio utilizzato per la distribuzione delle prerogative sindacali che garantisce una base di calcolo rapportata ad organizzazioni che sono parte effettiva del sistema di relazioni sindacali ed evita una dispersione di rappresentatività, nel caso di una miriade di organizzazioni che collocandosi tutte al di sotto del 5%, non consentissero a quelle rappresentative di raggiungere il fatidico 51%.
La rideterminazione delle regole ad opera della funzione consultiva del Consiglio di Stato è conseguenza diretta dell’alto tasso di istituzionalizzazione delle relazioni sindacali all’interno del settore pubblico, cui è connesso il sostanziale regime di “erga omnes” attribuito ai contratti collettivi firmati presso l’Aran.
Il fatto che il parere del Consiglio di Stato sia intervenuto su una disposizione già in vigore ed applicata da tempo testimonia da un lato la instabilità di modelli regolati in modo eteronomo che non siano più supportati dallo stesso consenso sindacale che aveva accompagnato l’approvazione di quella legge e la sua prima fase di applicazione; dall’altro, testimonia il continuo rischio di aggirare le prassi condivise e consolidate attraverso l’iniziativa di una sola delle parti, anche ricorrendo ad avalli di Autorità che operano al di fuori del sistema di relazioni sindacali; e ciò è tanto più vero quando si pensi che il parere non disconosce la correttezza interpretativa precedentemente fatta propria dalle parti, ma ne critica le conseguenze applicative che potrebbero realizzarsi in presenza di un teorico quadro di dispersione della rappresentatività che proprio le nuove regole introdotte dal d.lgs. 4.11.1997, n. 396 hanno voluto contrastare.
Con questo non si vuole negare né la legittimità dell’intervento dell’Autorità giudiziaria (con pareri o sentenze) né l’auspicabilità fisiologica di tale intervento nei casi di contrasti applicativi e/o interpretativi di una norma; si vuole però riflettere sul fatto che l’autonomia dell’ordinamento intersindacale (che aveva fortemente contribuito a predisporre le regole poi formalizzate con il d.lgs. n. 396/1997) subisce un vulnus a causa della crisi di quella stessa unità d’azione che poco più di dieci anni prima aveva consentito l’emanazione della regola ora diversamente interpretata.
Le regole per le elezioni delle Rsu sono l’esempio più tipico di come un modello costruito in fasi e con logiche inclusive degli attori sindacali rischi di non reggere all’affermarsi di situazioni nelle quali le ragioni della differenziazione e della concorrenza hanno la meglio su quelle dell’unità d’azione e del consenso; e di come in questo passaggio l’autonomia collettiva (per quanto istituzionalizzata come nel caso del lavoro pubblico) possa essere minacciata dalla regolazione legislativa.
Nel settore del lavoro pubblico, le Rsu sono costituite con l’Accordo quadro del 7.8.1998. L’accordo sulla costituzione delle Rsu, in modo più esplicito di quanto faccia la normativa privata, sottolinea la dimensione unitaria del nuovo soggetto che decide a maggioranza dei componenti, secondo una formulazione contenuta nell’art. 8 dell’Accordo e confermata dal contratto di interpretazione autentica del 6.4.2004.
La dimensione unitaria è stata sottolineata anche dalla Corte di Cassazione chiamata a decidere sui soggetti legittimati ad indire assemblee. La Corte ha assunto due orientamenti diversi a proposito della possibilità che l’assemblea possa essere indetta anche da singoli componenti della Rsu, ammettendo questa ipotesi nel settore privato in virtù della scelta operata dall’accordo interconfederale del 1993, ma negandola nel settore pubblico in ragione del diverso meccanismo di misurazione della rappresentatività e della natura unitaria a struttura collegiale dell'organismo elettivo.
Questa giurisprudenza fa capire come in alcune situazioni la tenuta unitaria della Rsu non regga alla prova della concorrenza tra le sigle che l’anno costituita e come questa insofferenza possa estendersi ed irradiarsi su altri aspetti quanto più la conflittualità sindacale si amplifichi coinvolgendo sempre più organizzazioni.
In queste situazioni, il richiamo all’appartenenza di sigla diventa tanto forte da rischiare di vanificare il ruolo della rappresentanza: basti pensare – e non è un fatto solo giuridico-formale – alla difficoltà di comprendere quando un contratto di secondo livello raccolga sufficiente consenso da garantirne la tenuta. Secondo la previsione contrattuale, al tavolo del contratto integrativo (e della partecipazione) sono ammesse la Rsu (al singolare) e i rappresentanti locali dei sindacati firmatari il CCNL; a questo livello non vigendo il principio della soglia minima di consenso al 51%, vale il principio generale dell’affidamento tra le parti. È naturale che la scomposizione della Rsu in componenti di sigla determini alleanze trasversali tra le diverse componenti della Rsu e i rispettivi sindacati rappresentativi di riferimento che non solo rompe l’equilibrio nella delegazione sindacale tra componente eletta e componente associativa legittimata dal livello nazionale, ma confonde e svilisce ruoli e credibilità nei confronti della delegazione pubblica e del potere dirigenziale organizzativo e di gestione del personale.
Una maggiore chiarezza e distinzione di ruoli sarebbe forse auspicabile tra le due componenti della delegazione sindacale, anche sull’esempio di esperienza straniere che privilegiano la dimensione partecipativa per la componente eletta e quella contrattuale per quella associativa emanazione delle organizzazioni rappresentative di livello nazionale che hanno firmato il contratto collettivo; sono anche presenti nel dibattito posizioni che prospettano un rafforzamento della componente elettiva, coadiuvato anche da momenti e procedure di verifica del mandato contrattuale affidato al voto dei lavoratori. Oltre a queste soluzioni se ne possono ipotizzare di intermedie che introducano forme di ponderazione del peso associativo locale delle diverse organizzazioni, da contemperare con la posizione espressa dalla Rsu. In ogni caso, si tratta di trovare forme di responsabilizzazione che tengano conto anche del fatto – e va detto esplicitamente – che non necessariamente le soluzioni di equilibrio ottimali raccolgono consenso.
Non sembrano praticabili invece soluzioni che annullino il mix di associazionismo e elettività che costituisce il modello attuale; il mero ritorno alla sola rappresentanza associativa toglierebbe alle relazioni sindacali del settore pubblico il pilastro fondamentale che gli consente di appartenere a tutti gli effetti al modello contrattualizzato del rapporto di lavoro. Se, infatti, la certificazione degli iscritti è un utile strumento per la trasparenza e la chiarezza dei ruoli, non è di per sé sufficiente a garantire la generalizzazione dei contratti collettivi.
I punti di tensione che si sono manifestati sono tutti rilevanti.
Il primo riguarda la fonte contrattuale che regola l’avvio delle procedure di rinnovo. L’art. 1 del Regolamento allegato al CCNQ del 1998 prevede che almeno tre mesi prima della scadenza del mandato delle Rsu le associazioni sindacali rappresentative, congiuntamente o disgiuntamente, assumano l’iniziativa per indire le elezioni per il loro rinnovo concordando con l’Aran le date per lo svolgimento delle elezioni con apposito calendario: questa regola, propria di un clima di concordia tra sigle, ha fatto sorgere tensioni per la possibilità che le elezioni fossero indette anche senza il consenso di tutte le organizzazioni firmatarie del CCNQ.
Nello spazio della polemica infrasindacale che aveva già accompagnato l’approvazione del decreto n. 150/2009 – e che fortunatamente, almeno sull’argomento, anche in seguito non ha mai raggiunto il punto di rottura – già l’art. 65 aveva rinviato le elezioni delle Rsu al novembre 2010, prorogando «gli organismi di rappresentanza del personale anche se le relative elezioni siano state già indette». È una norma questa che di fatto unifica al 2010 (scadenza del mandato triennale per le Rsu di tutti gli altri comparti) le elezioni anche per il comparto scuola che, come detto, erano previste per la fine del 2009. il decreto legislativo aveva recepito gli esiti maggioritari di un confronto tra Aran e confederazioni rappresentative sollecitato dal Dipartimento della Funzione pubblica e svoltosi nel giugno 2009.
E ciò in presenza, per seguire il filo conduttore del rapporto tra legge e contratto, dell’art. 7 del CCNQ sulle Rsu che esclude la prorogabilità delle Rsu al termine del mandato triennale.
Dopo oltre un anno trascorso su posizioni opposte, e dopo che il problema si riproponeva nei medesimi termini in occasione delle elezioni generali previste per il 2010 ma che ancora una volta non trovano il consenso di tutte le organizzazioni sindacali, giunge il parere del Consiglio di Stato, 3.2.2011, n. 551 che in modo salomonico (o ambivalente) afferma sia la legittimità della proroga sia la necessità che questa non si protragga oltre il limite da minacciare il diritto dei lavoratori ad eleggere le proprie rappresentanze e da determinare quel rischio di cristallizzazione della misura della rappresentatività già criticato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 492/1995).
Le conclusioni del parere sono, di conseguenza, del seguente tenore:
«La legge ordinaria non può comprimere il diritto alla rappresentanza sindacale se non in modo temporaneo e con cadenze certe; l diritto delle elezioni, una volta scaduti i termini di sospensione delle stesse eccezionalmente previsti in correlazione ad un mutamento di sistema delle relazioni sindacali, si riespande in modo automatico ove non si sia nei fatti verificato alle cadenze temporali previste, il passaggio al nuovo sistema; da ciò (deriva) il corollario interpretativo, costituzionalmente adeguato, relativo all’impossibilità di connettere all’art. 65, comma 3, del decreto legislativo n. 150 del 2009 efficacia sospensiva indeterminata dei diritti di rappresentanza sindacale, avendo tale norma sospeso le elezioni (anche già indette), in via transitoria ed eccezionale, sul presupposto della possibilità di celebrarle comunque entro il 30 novembre secondo il nuovo sistema, di talché la disposizione sospensiva del diritto elettorale non può avere effetto comunque, dopo tale data ( 30 novembre 2010), sul diritto al rinnovo delle rappresentanze sindacali, ove ritenuto necessario per qualsiasi motivo dalle associazioni sindacali, e ciò con riferimento al vecchio quadro normativo dei precedenti comparti, in attesa della definizione delle regole del nuovo modulo negoziale e dei comparti ad esso relativi».
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