Abstract
Viene esaminato il complessivo quadro normativo rilevante di fronte al giudice italiano per l’assunzione di prove all’estero, quale condizionato dal limite territoriale della sovranità statale. Tale quadro risulta dal concorso di norme interne, incentrate sull’art. 204 c.p.c., e di regole recate da convenzioni internazionali, quale la convenzione dell’Aja del 18 marzo 1970, e, sul piano europeo, dal regolamento CE n. 1206 del 28 maggio 2001.
Lo svolgimento del processo civile di fronte al giudice italiano subisce in varie direzioni condizionamenti risultanti da elementi di estraneità che tocchino la controversia o che incidano sulle possibilità di sua soluzione. Tali condizionamenti possono indurre l’applicazione di regole speciali, che assumano come presupposto il ricorrere del rilevante elemento di estraneità, e che siano allo stesso tempo conseguenze inevitabili di esso.
Ciò avviene, ad esempio, laddove debba essere svolta attività all’estero, finalizzata all’assunzione di una prova. La collocazione in altro Stato della prova incide infatti direttamente sulle regole processuali relative al compimento dell’atto istruttorio, richiedendo un trattamento differenziato rispetto a quello normalmente applicabile.
La speciale disciplina rilevante di fronte al nostro giudice in tema di assunzione di prove all’estero risponde infatti a un’esigenza imprescindibile, nascente dalla limitazione territoriale della possibilità di conduzione dell’attività giurisdizionale: infatti, il diritto internazionale generale attribuisce al sovrano territoriale in via esclusiva l’esercizio materiale della funzione giurisdizionale sul proprio territorio. Ne consegue che il giudice italiano, così come il giudice di qualunque altro Stato, non possa compiere in territorio estero un’attività, quale quella istruttoria, che costituisce esplicazione di una funzione statale, poiché altrimenti violerebbe la sovranità dello Stato straniero che su quel territorio esercita la propria attività di governo: la limitazione territoriale della sovranità statale rappresenta, in altre parole, un limite alla proiezione nello spazio dell’esercizio del potere giurisdizionale, cui l’assunzione delle prove si riferisce.
Da siffatto condizionamento nasce l’esigenza di prevedere procedure volte a rendere compatibile l’esecuzione dell’atto processuale all’estero con la sovranità dello Stato sul cui territorio esso deve essere compiuto. Se il diritto internazionale attribuisce al sovrano territoriale in via esclusiva l’esercizio materiale della funzione giurisdizionale sul suo territorio, un atto istruttorio potrà essere compiuto in quello Stato solo sotto il suo controllo o per mezzo dell’attività dei suoi organi. Tale risultato è ottenuto con la messa in opera di meccanismi di “assistenza giudiziaria internazionale”, attraverso i quali si pone in essere una forma di cooperazione tra Stati che si risolve in un aiuto dato dal sovrano territoriale a un altro Stato al fine del compimento di atti attinenti alla esplicazione della sua funzione giurisdizionale. Tale aiuto, poi, si realizza in due forme: una definita “attiva”, nell’ipotesi in cui il sovrano territoriale, sollecitato attraverso una “commissione rogatoria”, mette a disposizione l’attività dei propri organi, svolta a favore del processo straniero; e un’altra definita “passiva”, poiché lo Stato, titolare della sovranità nel luogo in cui l’atto deve essere compiuto, si limita ad acconsentire al compimento dell’atto istruttorio da parte dell’autorità straniera.
In tale quadro, l’assunzione di prove all’estero risulta soggetta a un complesso di regole, derivano dal concorso di fonti sovranazionali e interne. Ed invero, la messa in opera dei meccanismi di assistenza giudiziaria internazionale implicano l’interferenza tra sistemi giurisdizionali e normativi differenti, che richiedono un coordinamento tra gli stessi. Di qui la necessità di procedure stabilite a livello sovranazionale che rendano possibile un’efficace cooperazione.
Ciò non significa, peraltro, che il diritto interno, per quanto “cedevole” rispetto alle regole sovranazionali, in forza dell’usuale meccanismo di coordinamento tra norme speciali e generali, abbia un ruolo del tutto marginale. Esso, infatti, conserva una posizione determinante ai fini della messa in opera delle procedure di assistenza giudiziaria internazionale, poiché, oltre che a rilevare per gli aspetti non toccati dalle norme sovranazionali o in funzione integrativa di queste, dal diritto interno in larga misura dipendono i presupposti e gli effetti della loro applicazione.
La regola generale è posta dall’art. 204 c.p.c., che prevede la trasmissione in via diplomatica della rogatoria all’autorità straniera, nonché la delega al console, quando la rogatoria riguardi cittadini italiani residenti all’estero.
La trasmissione di una rogatoria alle autorità estere costituisce dunque il mezzo ordinario di esecuzione all’estero di un atto istruttorio, attraverso l’assistenza “attiva” dello Stato straniero, mentre la delega al console, che esegua l’atto sul presupposto della concessione di un’assistenza “passiva” dello Stato straniero, rappresenta uno strumento disponibile solo in una situazione particolare.
La disciplina processuale, rilevante al momento della decisione di procedere all’assunzione di una prova all’estero, è peraltro comune ai due casi: con il provvedimento che dispone l’assunzione della prova all’estero, tramite rogatoria all’autorità straniera ovvero delega al console, il giudice titolare del processo deve infatti fissare il termine entro il quale la prova deve essere assunta e la data dell’udienza davanti a sé per la prosecuzione del giudizio (art. 203 c.p.c.). Il termine per l’assunzione può poi essere prorogato, ma solo sulla base di un’istanza a tal fine formulata prima della scadenza del termine originariamente fissato. Secondo Cass., 19.10.1966, n. 2553, in Foro it., 1967, I, 2614 ss., è infatti sanzionata con la decadenza dalla prova una richiesta di proroga del termine di assunzione formulata dopo il suo spirare. Dunque, App. Milano, 14.1.1969, in Riv. dir. int. priv. proc., 1970, 74 ss., ha ritenuto nulla la prova assunta per rogatoria estera allorché il giudice straniero abbia svolto la propria attività durante la proroga richiesta dalla parte dopo la scadenza del termine originariamente fissato. Si ritiene comunque (Cass., 27.1.1986, n. 539, in Riv. dir. int. priv. proc., 1987, 330 ss.) che la nullità abbia carattere relativo e sia quindi sanata se non viene dedotta nella prima «istanza» successiva all’atto di assunzione del mezzo istruttorio o alla notizia di esso.
Oggetto di rogatoria all’autorità straniera o al console può essere l’assunzione di qualsiasi mezzo di prova. Allo stesso modo potrà essere eseguita all’estero una consulenza tecnica. Inoltre, l’assunzione di mezzi istruttori per rogatoria o delega è possibile in ogni tipo di procedimento.
Incombe alla parte attivarsi affinché il provvedimento del giudice che ha ammesso la rogatoria abbia seguito (Cass., 25.11.1975, n. 3942, in Foro it. Mas.s, 1975, 939 s.; Cass., 19.10.1966, n. 2553, in Foro it., 1967, I, 2614 ss.): la parte interessata deve chiedere copia dell’ordinanza pronunciata dal giudice, presentarla all’ufficio del pubblico ministero, affinché questi provveda a inoltrarla al giudice straniero ovvero al console, e vigilare sull’espletamento dell’incombente, così che la prova venga assunta nel termine fissato. Da tale orientamento sembra discostarsi, in relazione a un regime convenzionale, Cass., 28.11.2001, n. 15096, in Giur. it. Mass., 2001, 1201, che sottolinea che, «quando un trattato di collaborazione … non prevede che la rogatoria possa eseguirsi ad impulso di parte, deve … escludersi che possa incorrere in decadenza la parte richiedente per eventuali ritardi nell’espletamento della rogatoria che, una volta ammessa, resta affidata all’impulso dell’Ufficio». La richiesta all’autorità straniera, o la delega al console, non è comunque subordinata a un preventivo tentativo di assumere la prova direttamente (Cass., 19.11.1993, n. 11446, in Riv. dir. int. priv. proc., 1994, 832 ss.; Cass. n. 15096/2001, cit.).
Si noti, in ogni caso, che nei confronti della parte la disponibilità di sanzioni endoprocessuali (es.: art. 118 c.p.c. in tema di ispezione e esibizione; art. 232 c.p.c. in tema di interrogatorio formale; art. 239 c.p.c. in tema di giuramento) può rendere possibile un’assunzione diretta, ossia di fronte al giudice procedente, ancorché la parte sia residente o comunque si trovi all’estero, ovvero all’estero si trovino i documenti che la parte deve produrre. Il ricorso alla rogatoria all’autorità straniera o al console italiano appare peraltro inevitabile e obbligatorio quando sussista un giustificato motivo che impedisca alla parte di adempiere all’ordine del giudice, ovvero quando l’assunzione della prova da parte del giudice titolare del processo sia obiettivamente impossibile o soggettivamente incoercibile.
Nel regime comune è invece esclusa la possibilità che il giudice italiano, in alternativa alla richiesta all’autorità straniera ovvero al console italiano, proceda direttamente all’assunzione della prova nel luogo straniero in cui è essa collocata.
Nel caso di rogatoria all’autorità straniera si ha un’integrale rimessione dell’esecuzione della rogatoria all’ordinamento straniero: nell’ordinamento straniero si identifica (a cura degli organi stranieri ai quali la rogatoria sarà pervenuta tramite il canale diplomatico) l’autorità competente per darvi corso; nell’ordinamento straniero si individuano le regole sulle forme in cui la rogatoria viene eseguita. La nostra giurisprudenza è consapevole dell’ordinaria applicazione del diritto straniero alle modalità con le quali la prova viene assunta all’estero (App. Milano, 10.9.1968, in Dir. scambi internaz., 1968, 754 ss.; App. Torino, 1.7.1969, in Riv. dir. int. priv. proc., 1970, 138 ss.; App. Trieste, 29.11.1983, in Riv. circ. trasp., 1984, 388 ss.). Si ritiene che la norma italiana che prevede la rogatoria estera ne presupponga un’altra, implicita, la quale attribuisce agli atti istruttori eseguiti dall’autorità straniera ed in conformità alla legge straniera la stessa efficacia che essi avrebbero se invece fossero stati eseguiti nello Stato secondo le norme interne ordinarie (Cass., 4.5.1966, n. 1117, in Foro it., 1967, I, 184 ss.).
Tale circostanza può causare delle difficoltà nell’utilizzazione della prova assunta, quando la forma osservata nell’assunzione della prova non sia considerata idonea dal diritto italiano a garantire l’affidabilità del materiale raccolto. L’utilizzabilità della prova assunta all’estero ai sensi della legge straniera è dunque condizionata dalla sua compatibilità con i principi del nostro ordine pubblico. Peraltro, secondo App. Trieste, 29.11.1983, non attiene all’ordine pubblico il giuramento dei testimoni, con la conseguenza che una testimonianza assunta all’estero che ne sia priva produce effetti nel nostro ordinamento. A parere di Cass. n. 1117/1966, cit., poi, è valida la prova assunta con il sistema della lettura al teste della sua deposizione scritta, con conferma e sottoscrizione successive, in quanto non incompatibile con principi fondamentali del nostro ordinamento. Cass., 12.7.1991, n. 7789, in Foro it. Mass., 1991, 691, ha peraltro ritenuto nulla e non utilizzabile la prova assunta all’estero nel caso in cui l’autorità italiana che l’ha disposta, pur avendone fatto richiesta, non sia stata informata della data e del luogo di espletamento affinché le parti potessero assistervi.
Siffatte difficoltà possono essere evitate ricorrendo alla delega consolare, che consente di affrancare l’esecuzione dell’atto istruttorio dalla sua sottoposizione ad un diritto straniero. L’art. 204 c.p.c. dispone infatti che il console debba provvedere «a norma della legge consolare». In seguito all’abrogazione del d.P.R. 5.1.1967, n. 200, il riferimento contenuto nell’art. 204 c.p.c. deve ora intendersi indicare il d.lgs. 3.2.2011, n. 71 relativo a nuovo ordinamento e funzioni degli uffici consolari, che peraltro sul punto conferma la disciplina previgente. Ed in effetti anche la nuova legge consolare, dopo aver stabilito all’art. 37, co. 1, lett. b), che il console «compie gli atti istruttori ad essa delegati dalle autorità nazionali competenti», detta, agli artt. 40-42, le regole che devono essere osservate nell’esecuzione delle rogatorie. Si noti, inoltre, che in base all’art. 39 della legge consolare «[l]e norme relative ai doveri ed alle prerogative dell’autorità giudiziaria si applicano ai funzionari consolari quando questi esercitino funzioni attribuite, in Italia, alla magistratura». Si ritiene peraltro che non sia configurabile il reato di falsa testimonianza previsto dall’art. 372 c.p. nell’ipotesi di dichiarazioni mendaci rese dal teste all’estero, di fronte al console (o all’autorità straniera), in sede di esecuzione di una rogatoria.
La delega al console, inoltre, non è suscettibile di applicazione generalizzata, poiché non è consentita per l’assunzione di prove da stranieri: un’opportunità per questi di ricorrere ai servizi dell’autorità consolare italiana ai fini di un processo italiano è offerta solo dall’art. 37, co. 1, lett. b), della legge consolare, il quale autorizza il console a ricevere dichiarazioni, anche giurate, da chiunque rese, che debbano valere in giudizi nazionali.
Inoltre, secondo regole ben stabilite di diritto internazionale generale, l’assunzione di una prova da parte di un console è comunque subordinata al consenso dello Stato straniero in cui l’agente risiede. Dunque, non può ritenersi che l’art. 204 c.p.c., nel discriminare tra rogatoria all’autorità straniera e delega al console sulla base della cittadinanza (e poi della residenza) del soggetto toccato dalla rogatoria, imponga come obbligatoria la delega consolare nel caso di atto relativo a cittadino italiano: può pertanto essere necessario ricorrere all’assistenza delle autorità straniere anche quando la rogatoria riguarda cittadini italiani residenti all’estero, se nel caso concreto lo Stato straniero di loro residenza si oppone all’attività istruttoria consolare.
La genericità dell’espressione utilizzata dall’art. 204 c.p.c. induce, d’altro canto, a ritenere che la delega consolare possa essere disposta ogni volta che l’atto istruttorio abbia qualche relazione con un soggetto italiano residente all’estero, a prescindere dal fatto che esso riguardi la sua persona o i suoi beni. Inoltre, il riferimento alla «residenza» deve essere inteso in senso lato: il ricorso alla delega consolare è possibile tutte le volte che la prova riguardi un cittadino italiano ed essa non possa essere eseguita che all’estero.
Al sistema di diritto comune sopra delineato si sovrappone la disciplina di diritto internazionale, posta dalle convenzioni cui l’Italia è parte, la quale assume rilievo significativo, sia per il frequente ricorso applicativo, sia per l’efficacia delle soluzioni offerte.
Tra le convenzioni internazionali rilievo preminente deve essere riconosciuto alla convenzione dell’Aja del 18.3.1970 sull’assunzione di prove all’estero in materia civile e commerciale (l. 24.10.1980, n. 745, in vigore per l’Italia dal 21 agosto 1982).
La convenzione è caratterizzata invero da meccanismi particolarmente efficaci, i quali consentono al giudice italiano di assumere prove negli altri Stati contraenti con modalità compatibili con la sovranità straniera, e allo stesso tempo idonee a produrre risultati utilizzabili nel processo italiano. In essa, infatti, accanto al tradizionale metodo di assunzione della prova mediante il ricorso all’assistenza “attiva” dello Stato in cui la prova è situata, sollecitata attraverso una commissione rogatoria (oggetto della disciplina posta nel capitolo I della convenzione: artt. 1-4), si è dato largo spazio alla forma “passiva” di assistenza: si è pertanto introdotta la possibilità (regolata al capitolo II: artt. 15-22) di assunzione da parte di un agente diplomatico o consolare o ad opera di altro soggetto, allo scopo specificamente incaricato («commissioner»). Devono poi sottolinearsi sia la possibilità che la prova sia assunta all’estero in «forma speciale», ossia in applicazione delle forme procedurali italiane, se così richiesto dal nostro giudice, sia la sostanziale riduzione delle circostanze di rifiuto, da parte delle autorità straniere, della prestazione di assistenza.
La convenzione riguarda l’assunzione di prove all’estero in «materia civile o commerciale» (artt. 1, 15, 17).
Al fine di fissare la nozione di materia civile o commerciale soccorrono i criteri di interpretazione stabiliti dal diritto internazionale: la concreta determinazione della sua portata non può dunque essere definita di volta in volta in base al diritto interno dello Stato chiamato ad applicarla; per ricostruirla si dovrà fare riferimento a un metodo autonomo di analisi che prescinda dall’immediato richiamo del diritto interno e trovi nella convenzione la sua giustificazione. Si ritiene dunque che «civile o commerciale» sia la controversia in materia in cui rileva un’operazione economica, relativa al trasferimento di beni o servizi oppure al pagamento di somme di denaro, quando la ragione giustificativa di tali trasferimenti o pagamenti non dipende dall’esercizio di un potere di supremazia di un soggetto su di un altro, e ciò a prescindere dal carattere o dall’inquadramento funzionale dell’organo presso il quale essa è pendente.
L’ambito materiale di applicazione della convenzione è definito poi in senso ampio in relazione alla determinazione delle classi di atti dei quali può essere chiesto il compimento all’estero. L’art. 1, primo comma della convenzione afferma infatti che con la rogatoria all’autorità straniera può essere chiesto il compimento di «ogni atto di istruzione».
L’assistenza giudiziaria “attiva” dello Stato richiesto è sollecitata tramite una «rogatoria». L’art. 3 della convenzione disciplina l’aspetto formale della stessa, stabilendo quali indicazioni devono essere in essa contenute. L’accurata redazione della stessa è necessaria per la pronta ed efficace prestazione di assistenza.
La convenzione disciplina poi le modalità con le quali la rogatoria è trasmessa all’autorità straniera per il compimento dell’atto istruttorio richiesto. A tal riguardo, l’art. 2 della convenzione ha introdotto il sistema dell’autorità centrale, che si impernia sull’obbligatoria designazione di un’autorità incaricata di ricevere dall’estero le rogatorie e quindi di trasmetterle all’autorità del proprio Stato competente all’esecuzione.
La convenzione non determina peraltro i criteri per l’individuazione dell’autorità competente all’esecuzione: essa si limita a stabilire (art. 6) che la rogatoria deve essere trasmessa ad essa d’ufficio e senza ritardo. Poiché la convenzione non vi provvede, dunque, la sua individuazione è rimessa al diritto interno dello Stato nel quale la prova deve essere assunta.
Ricevuta la rogatoria, l’autorità competente è tenuta a eseguirla, a meno che sussistano le circostanze che giustificano il rifiuto di assistenza, indicate dall’art. 12. In base ad esso, un rifiuto è possibile solo nel caso in cui l’esecuzione non rientri, nello Stato richiesto, nelle attribuzioni del potere giudiziario, o nel caso in cui lo Stato richiesto la giudichi di natura tale da attentare alla sua sovranità o sicurezza. Tale seconda circostanza richiama il tradizionale concetto di ordine pubblico, peraltro inteso con una portata ristretta, poiché sono rilevanti solamente i principi riferiti alla sovranità ed alla sicurezza dello Stato.
Accanto a ciò deve segnalarsi la riserva, raccolta dall’art. 23, ed apposta dall’Italia, che prevede un ulteriore motivo di rifiuto, poiché in base ad essa gli Stati contraenti possono dichiarare che non eseguiranno le rogatorie aventi per oggetto la procedura conosciuta nei paesi di common law come «pre-trial discovery of documents» (sui cui limiti cfr. App. Brescia, ord. 28.11.1991, in Riv. dir. int. priv. proc., 1992, 397 ss.).
La convenzione non fissa direttamente regole relative alle modalità di assunzione della prova, ma si limita a rinviare al diritto interno (art. 9). Non si potevano tuttavia non tenere presenti le difficoltà che un’applicazione inderogabile del principio comporta: le differenti regolamentazioni processuali avrebbero impedito il conseguimento di risultati utilizzabili nel processo per il quale erano richiesti. Si è perciò stabilita (art. 9, co. 2) la possibilità di esecuzione secondo «forme speciali», ossia diverse da quelle fissate dalla legge del luogo di compimento dell’atto e modellate su quanto stabilito nello Stato del processo. Peraltro, l’esecuzione in forma speciale può essere rifiutata quando essa sia incompatibile con la legge dello Stato richiesto o non sia possibile, in ragione degli usi giudiziari dello Stato richiesto o di difficoltà pratiche. Secondo App. Roma, decr. 21.4.1995, in Riv. dir. int. priv. proc., 1995, 753 ss., l’incompatibilità con la legge dello Stato di esecuzione va peraltro intesa come contrasto con un divieto assoluto di legge, anche costituzionale. Pertanto, ad App. Brescia, 28.11.1991, cit., l’assunzione in Italia di una testimonianza nella forma speciale della cross examination non è apparsa in alcun modo in contrasto con i principi ispiratori del nostro sistema processuale; e allo stesso modo si è escluso che la video-registrazione della deposizione testimoniale sia vietata dalla legge processuale italiana o contrasti con principi fondamentali del nostro ordinamento.
Una delle caratteristiche principali della convenzione consiste nell’aver previsto, accanto al tradizionale strumento della rogatoria, anche la possibilità di assumere prove all’estero mediante un agente diplomatico o consolare o per mezzo di un commissario all’uopo designato: a tali soggetti, che derivano la propria “investitura” dallo Stato contraente in cui è pendente il procedimento per il quale la prova è richiesta, è dunque dato il potere di compiere attività istruttoria in altro Stato contraente.
Uno dei principali vantaggi della procedura diretta di assunzione riguarda le forme in cui essa avviene, dal momento che l’agente applica a tal fine la legge del processo (art. 21, lett. d). L’osservanza della legge straniera risulta infatti in tal caso più semplice ed efficace che non allorché essa venga applicata dal giudice dello Stato richiesto che procede dell’assunzione della prova «in forma speciale», dal momento che il soggetto incaricato dell’atto istruttorio dovrebbe esserne più profondo conoscitore. Simile è comunque il limite: la condizione che le forme non siano vietate dalla legge dello Stato di esecuzione è equivalente a quella che richiede che non siano incompatibili con la stessa legge.
Posizione centrale, nel quadro della disciplina dell’assistenza giudiziaria in materia istruttoria, spetta anche al reg. CE n. 1206/2001 del 28 maggio 2001 relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale, applicabile dal 1° gennaio 2004, che nell’ambito della propria sfera di applicazione assume rilievo prevalente rispetto alle altre regolamentazioni che ad esso si sovrappongono.
I meccanismi ivi previsti vincolano, infatti, le autorità degli Stati membri dell’Unione europea (ad eccezione della Danimarca: art. 1, par. 3) alla cooperazione nel settore dell’assunzione delle prove; gli strumenti attraverso i quali questa si realizza consentono, in termini ragionevolmente brevi e senza eccessivi formalismi, l’assunzione, con modalità assolutamente tollerabili per lo Stato membro in cui si compie, di una prova utilizzabile nel processo per cui è richiesta.
L’ambito materiale di applicazione del regolamento, quale definito dal suo art. 1, corrisponde a quello della convenzione: si prevede che il regolamento si applichi in materia civile o commerciale allorché, conformemente alle disposizioni della propria legislazione, l’autorità giudiziaria di uno Stato membro chieda i) che l’autorità giudiziaria competente di un altro Stato membro proceda all’assunzione delle prove, ovvero ii) che sia essa stessa a procedere all’assunzione delle prove in un altro Stato membro; si precisa poi che non sono ammesse richieste intese a ottenere prove che non siano destinate ad essere utilizzate in procedimenti giudiziari pendenti o previsti.
La disposizione, dunque, stabilisce almeno quattro condizioni di applicazione del regolamento: esso si applica solo a) in materia civile o commerciale, b) all’assunzione di prove, c) richieste da un’autorità giudiziaria e d) destinate a essere utilizzate in procedimenti giudiziari pendenti o contemplati.
Pertanto, il regolamento si applica solo laddove l’atto il cui compimento è richiesto sia una «prova»: resta pertanto esclusa l’assistenza giudiziaria allorché l’atto in questione non abbia natura istruttoria, ma cautelare o esecutiva (principio deducibile anche da C. giust., 28.4.2005, C-104/03, St. Paul Dairy Industries). Inoltre, il regolamento considera solo richieste di assistenza al fine della assunzione di prove formulate da «autorità giudiziarie». Deve pertanto ritenersi esclusa la possibilità che una richiesta di assistenza sia formulata non solo da un’autorità amministrativa, ma anche da un organo arbitrale. Infine, come sottolineato da C. giust., 6.9.2012, C-170/11, Lippens, il regolamento è applicabile in linea di principio solo nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria di uno Stato membro chieda di procedere all’assunzione delle prove all’estero tramite uno dei metodi da essa previsti. Dunque, l’autorità giudiziaria di uno Stato membro ha la facoltà di citare dinanzi a sé come testimone una parte residente in un altro Stato membro e di sentirla conformemente al proprio diritto nazionale, traendo da un’ingiustificata mancata comparizione le eventuali conseguenze previste dal proprio diritto.
L’art. 1 annuncia le diverse modalità di assunzione all’estero della prova, poi sviluppate, con la relativa disciplina procedurale, nel capo II del regolamento: esso si applica allorché l’autorità giudiziaria di uno Stato membro chieda che l’autorità giudiziaria competente di un altro Stato membro proceda all’assunzione delle prove (art. 1, par. 1, lett. a), ovvero nel caso in cui l’autorità giudiziaria di uno Stato membro chieda di essere autorizzata a procedere direttamente all’assunzione delle prove in un altro Stato membro (art. 1, par. 1, lett. b). In altre parole, l’art. 1 introduce le due distinte procedure volte all’assunzione all’estero della prova: la prima basata sull’intervento e la cooperazione dell’autorità giudiziaria dello Stato membro in cui la prova deve essere raccolta (definita come «autorità giudiziaria richiesta»); la seconda consistente nella diretta assunzione, previa autorizzazione, della prova, sul territorio in cui è collocata, da parte dell’autorità giudiziaria dello Stato membro in cui essa è destinata ad essere utilizzata (ossia della «autorità giudiziaria richiedente»).
Le due procedure si svolgono poi con modalità tra loro assai diverse, oggetto di specifica, distinta disciplina (stabilita agli art. 10-16 per la prima e all’art. 17 per la seconda), per quanto entrambe basate su, e avviate da, una richiesta formulata da parte dell’autorità giudiziaria del paese in cui la prova è destinata a essere utilizzata e rivolta a un’autorità dello Stato in cui la prova deve essere raccolta.
La necessità di tale richiesta, comune ai due sistemi, induce anche l’applicazione di regole (almeno in parte) comuni, intese a definirne la forma ed il contenuto (art. 4), ispirate a principi di semplificazione, rapidità ed efficacia. L’utilizzazione di formulari, poi, prevista dal regolamento per ogni tipo di comunicazione, introducendo una notevole misura di standardizzazione, giova all’efficacia delle procedure. Quanto alle modalità di trasmissione, si prevede (art. 2), quale metodo ordinario per le richieste di assistenza giudiziaria «attiva» (ossia per richieste formulate ai sensi dell’art. 1 par. 1, lett. a), un meccanismo di trasmissione diretta fra le autorità giudiziarie degli Stati membri. L’art. 3 prevede invece l’istituzione di uno o più organi o autorità in ogni Stato membro competenti ai fini della ricezione e della decisione sulle domande di assistenza giudiziaria «passiva» (ossia sulle richieste formulate ai sensi dell’art. 1 par. 1, lett. b). In altre parole, il regolamento, non prevede la necessità di passaggi intermedi, attraverso autorità centrali o altro.
Posizione centrale nel sistema del regolamento è assegnata all’assunzione di prove da parte di un organo dello Stato membro nel quale l’attività istruttoria deve essere svolta.
Più specificamente, la disciplina dei meccanismi dell’assistenza giudiziaria «attiva» si svolge in regole relative ai presupposti e ai limiti di eseguibilità, nonché in disposizioni volte a disciplinare le concrete modalità di assunzione della prova richiesta. Tali previsioni confermano, e traducono in pratica, l’ispirazione di fondo della disciplina comunitaria, volta a semplificare i meccanismi di assistenza giudiziaria.
Sintomatica in tal senso è la decisa limitazione delle circostanze che legittimano il rifiuto di esecuzione di un atto istruttorio. L’art. 14, par. 2, prevede infatti che l’esecuzione di una richiesta possa essere rifiutata soltanto se la richiesta non rientra nell’ambito di applicazione del regolamento, se l’esecuzione, a norma del diritto dello Stato dell’autorità giudiziaria richiesta, non rientra nelle attribuzioni del potere giudiziario, nel caso in cui l’autorità giudiziaria richiedente non ha dato tempestivamente (ossia entro trenta giorni dal momento in cui è stata sollecitata) seguito alla domanda di completamento della richiesta avanzata dall’autorità giudiziaria richiesta a norma dell’art. 9, oppure nel caso in cui un deposito o un anticipo, chiesto a norma dell’art. 18, par. 3, non sia costituito entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda di tale deposito o anticipo.
La portata assai ristretta dei limiti si manifesta in due direzioni, tra loro complementari.
In primo luogo si rinuncia al limite dell’ordine pubblico, che in un sistema fortemente integrato quale quello dell’Unione europea è apparso fuori luogo.
In secondo luogo la possibilità di diniego di assistenza è limitata a circostanze strettamente definite. Infatti, l’unico limite sostanziale rimasto consiste nell’estraneità dell’esecuzione dell’atto richiesto, a norma del diritto dello Stato membro dell’autorità giudiziaria richiesta, alle attribuzioni del potere giudiziario. Con tale motivo si intende escludere l’obbligo per l’autorità giudiziaria richiesta di prestarsi all’esecuzione di quegli atti istruttori che non rientrino nelle categorie generali previste dal diritto interno dello Stato membro cui essa appartiene. Pertanto, il rifiuto di assistenza giudiziaria internazionale non è giustificato da una semplice diversità nel modo in cui l’atto è regolato o si svolge o nei presupposti dai quali dipende: rileva solo la completa estraneità al potere giudiziario.
Il regolamento, poi, rinvia al diritto interno per quanto riguarda le modalità di esecuzione dell’atto richiesto. In base all’art. 10, par. 2, infatti, l’autorità giudiziaria richiesta dà esecuzione alla richiesta applicando le proprie leggi. L’autorità giudiziaria richiedente può peraltro domandare che la richiesta sia eseguita secondo una procedura particolare prevista dalla legge dello Stato del processo, a meno che detta procedura non sia incompatibile con le leggi dello Stato di esecuzione o per notevoli difficoltà d’ordine pratico (art. 10, par. 3).
Il regolamento introduce peraltro regole che fissano direttamente criteri ai quali l’autorità richiesta deve attenersi nell’esecuzione dell’atto istruttorio, ispirate allo scopo di garantire una pronta ed efficace prestazione di assistenza. Tra queste deve segnalarsi l’obbligo per l’autorità giudiziaria richiesta di dare esecuzione alla richiesta senza indugio, al più tardi entro novanta giorni dalla sua ricezione (art. 10, par. 1), e la previsione che la prestazione di assistenza sia gratuita: in base all’art. 18, par. 1, infatti, per l’esecuzione delle richieste non può essere domandato il rimborso di tasse o spese, neanche se dovute ai testimoni in base al diritto interno (C. giust., 17.2.2011, C-283/09, Werynski).
Dedicato all’assunzione diretta delle prove da parte dell’autorità giudiziaria richiedente è invece l’art. 17, che disciplina le modalità di prestazione, da parte dello Stato membro in cui l’atto istruttorio deve essere eseguito, di un’assistenza meramente “passiva”: il regolamento ammette la possibilità che la prova venga assunta sul territorio di altro Stato membro da parte dell’autorità giudiziaria di fronte alla quale il processo è pendente e la subordina a un’autorizzazione rilasciata dalla competente autorità designata nello Stato membro in cui l’atto istruttorio è eseguito.
In base all’art. 17, par. 1, infatti, l’autorità giudiziaria che intenda procedere direttamente all’assunzione delle prove in un altro Stato membro deve formularne richiesta all’organo centrale o all’autorità competente di tale Stato, designate ai sensi dell’art. 3, par. 3. Entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta l’organo centrale o l’autorità competente dello Stato membro richiesto comunica all’autorità giudiziaria richiedente se la richiesta è accolta (art. 17, par. 4).
L’art. 17, par. 5, seguendo lo spirito del regolamento, definisce in termini restrittivi le circostanze che consentono all’organo competente nello Stato membro richiesto di rifiutare l’autorizzazione all’assunzione diretta della prova. Tale diniego è infatti consentito solo qualora: a) la richiesta non rientri nell’ambito d’applicazione del regolamento; b) la richiesta non contenga tutte le informazioni necessarie ai sensi dell’art. 4; ovvero c) l’assunzione della prova richiesta sia contraria a principi fondamentali della legge dello Stato membro in cui essa deve aver luogo. Accanto a ragioni legate a ostacoli formali, ovvero all’inapplicabilità della disciplina comunitaria, unico motivo invocabile per negare la autorizzazione al compimento diretto dell’atto istruttorio è dunque il contrasto con l’ordine pubblico dello Stato membro in cui la prova deve essere assunta.
Uno dei particolari vantaggi della procedura diretta di assunzione della prova riguarda le forme, dal momento che, come prevede l’art. 17, par. 6, l’autorità giudiziaria richiedente esegue l’atto istruttorio in conformità della legge del suo Stato membro: sotto tale profilo, dunque, la prova assunta all’estero non si distinguerà dall’atto istruttorio compiuto nello Stato del processo, finendo per godere, pertanto, del massimo grado di efficacia.
Art. 203-204 c.p.c.; convenzione dell’Aja del 18 marzo 1970; regolamento CE n. 1206 del 28 maggio 2001
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