ASTRI
Nell'accezione moderna il termine a. indica genericamente i corpi celesti, senza distinguere fra stelle, pianeti, satelliti, comete o meteoriti. In epoca medievale le conoscenze astronomiche e astrologiche, infatti, costituivano un corpus di conoscenze che possono essere considerate le due facce della stessa medaglia in quanto entrambe basate sui presupposti teorici tolemaici (v. Cielo). Prova ne è che le due discipline avevano adottato la nomenclatura della classicità, quando il lat. astrum (gr. ἄστϱον) significava 'costellazione'. Tuttavia, come spiega ampiamente Isidoro di Siviglia, se la parola stella si riferisce alla singola stella, sidera sono gli ammassi stellari come le Pleiadi o le Iadi e astra sono le stellae grandes - cioè le costellazioni quali Orione e Boote - spesso "haec nomina scriptores confundunt et astra pro stellis et stellas pro sideribus ponunt" (Etym., III, 60, 1-2; PL, LXXXII, col. 177). A questo punto giova ancora precisare che la moderna distinzione fra stelle e pianeti non trova riscontro nella terminologia classica. Così Seneca, nel capitolo sulle comete delle Naturales quaestiones, riferendosi a Saturno, lo chiama stella (VII, 4, 2; 29, 1). È noto, infatti, che i pianeti venivano detti stellae errantes, secondo una definizione non condivisa da Cicerone (De natura deorum, II, 20, 51) che ebbe però influenza sull'iconografia ancora in pieno Rinascimento, come mostrano, per es., le miniature di Cristoforo de' Predis (1470 ca.), che raffigurò i pianeti con una stella sulle pudenda (Modena, Bibl. Estense, α. X. 2. 14). D'altra parte Restoro d'Arezzo (sec. 13°) aveva già scritto: "E trovamo andare entro per lo cerchio del zodiaco sette stelle capetane, e paiono per lo loro effetto quasi donne de l'altre, le quali so' chiamate planeti" (La composizione del mondo, I, 12, 1; a cura di A. Morino, Firenze 1976, p. 18). Pertanto, si considera la definizione classico-medievale del termine a. generica quanto quella moderna, ma basata su differenti presupposti teorici, che escludono i luminari maggiori (il sole e la luna) e le costellazioni zodiacali.In ambito cristiano, raffigurazioni stilizzate di stelle stricto sensu appaiono già nelle catacombe; l'arcosolio del cimitero di Callisto a Roma, la cui volta monocroma è ornata da stelle a otto punte di colore sanguigno, ne è certamente uno degli esempi monumentali più significativi. A questo si aggiunge una gran quantità di epigrafi nelle quali compaiono immagini di stelle, come per es. quella del sec. 3° proveniente dalla catacomba di Priscilla, dove se ne affiancano due a un'ancora cruciforme (De Rossi, 1892).Il legame fra simili rappresentazioni e il culto dei morti si spiega sulla base della speculazione platonica (Timeo, 42b), che da una parte affonda le radici nelle dottrine pitagoriche, dall'altra ricorre nella singolare combinazione di culti mazdaici e caldei fiorita nella Babilonia dei Magi (Bidez, Cumont, 1938; Cumont, 1942). La concezione platonica trova riscontro nel pensiero filosofico filoniano (De somnis, I, 137) e in parte agostiniano (De civ. Dei, XIII, 19; PL, XLI, coll. 392-393), giacché se quest'ultimo in parte se ne discosta, tuttavia proprio a Platone si riferisce. Alla luce dei testi citati e di altri (per es. Plinio, Nat. Hist., 2, 24, 95), che convergono tutti sull'identità della natura di anime e stelle (sicché le prime, una volta liberate dal corpo, tendono a ricongiungersi con le seconde), si comprende il senso di un graffito (datato al 364) proveniente dalla cripta papale del cimitero di Callisto a Roma, ove si può leggere: "In p(ace) astra pete" (Leclercq, 1907, col. 3006). Una concezione questa che, se ha un'eco assai più tarda in Dante (per es. Convivio IV, XXII, 2; Par. IV, vv. 23, 52), sempre sulla scorta della speculazione platonica, trova un tramite preciso nel pensiero di Alberto Magno (De somno et vigilia, III, 1, 8). A questo proposito non si può fare a meno di ricordare il reliquiario di s. Candido conservato nel Trésor de l'Abbaye di Saint-Maurice d'Agaune, in Svizzera (seconda metà del sec. 12°), ove, accanto al rilievo che illustra il martirio del santo, è scritto: "Ca(n)did(us) / ex e(m)pio / dum / sic / mucr / one li / tatur / sp(iritus) astra petit / pro nece vita datur" ("Mentre Candido è sacrificato così dall'empia spada, il suo spirito guadagna gli astri: in cambio della morte gli è data la vita").Connessa al simbolismo apotropaico, o comunque bene augurante, degli a. è la presenza delle stelle sulle monete, almeno in alcuni casi certi. Raffigurazioni di stelle nella monetazione compaiono nel mondo romano fin dall'età repubblicana, per continuare non soltanto nella produzione monetaria imperiale e bizantina (Lacam, 1974), ma anche in quella sasanide e nelle rispettive derivazioni islamiche (Walker, 1956; Strika, 1978, pp. 54-58).Per altro, la concezione stessa del potere è da collegarsi con la simbologia astrale, giacché il sovrano è considerato particeps siderum così da giustificarne la regalità (L'Orange, 1953), secondo un pensiero i cui echi si fanno più vivi per es. sul manto regale di Enrico II, decorato dalle immagini delle costellazioni (Bamberga, Diözesanmus.). Forse, proprio a questo tipo di speculazione si ispira la coppa di Cosroe I (Parigi, BN, Cab. Méd.), ove la figura del sovrano sasanide (531-579), seduta in trono, è intagliata al centro di un disco in cristallo di rocca incorniciato da tre giri di rosette in vetro, rosse e bianche, che si alternano con losanghe verdi dello stesso materiale (Ghirshman, 1962). L'interpretazione fornita da L'Orange (1953) è che si tratti di un clipeus caelestis, ovverosia di un cielo stellato al centro del quale l'immagine regale ricopre il medesimo ruolo del sole. Del resto la derivazione del motivo della stella da quello della rosetta, sicché la prima altro non sarebbe che una stilizzazione della seconda, è stata sostenuta da più di uno studioso (Goodenough, 1974, p. 189; Strika, 1978). D'altra parte la vicinanza dei due motivi iconografici, così da giustificarne l'intercambiabilità, pare attestata da monumenti come l'altare di Ratchis (Cividale, Mus. Cristiano) o la cattedra episcopale del duomo di Torcello, per non parlare della decorazione musiva sulle volte a botte del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna.In ambito cristiano si assiste a un'ulteriore assimilazione iconografica: quella fra la figura della stella e il chrismon, il monogramma di Cristo (Cecchelli, 1954, p. 57). Già De Rossi (1877, p. 250), infatti, notava la stringente analogia formale fra le due figure, esaminando la stella clipeata dipinta al vertice dell'intradosso nel ricordato arcosolio del cimitero di Callisto. Del resto, il chrismon che appare nel mosaico dell'abside del battistero di Albenga in Liguria - al di là delle implicazioni trinitarie (Morey, 1953, p. 286) - rivela l'intento di rendere visivamente il fulgore del monogramma, quasi fosse una stella assai più luminosa delle altre rappresentate sullo sfondo. In altre opere il chrismon finisce per diventare una vera e propria stella dal punto di vista formale, come accade per es. sulla capsella di Henchir Ziara (Roma, BAV, Mus. Sacro) o sul sarcofago di fanciullo proveniente da Sarıgüzel, in Turchia (Istanbul, Arkeoloji Müz.), oppure sul coperchio del sarcofago dei Dodici apostoli (Ravenna, S. Apollinare in Classe). Spiega anzi Leclercq (1907, coll. 3017ss.) che l'avvicinamento alla stella - sostenuto questa volta solo da affinità simboliche e non formali - debba essere esteso pure agli altri emblemi di Cristo come l'agnello o la croce, che, in più di un caso, compaiono sullo sfondo del cielo stellato (per es. a Ravenna: in S. Vitale, mosaico della volta del coro; in S. Apollinare in Classe, mosaico absidale; nel mausoleo di Galla Placidia, mosaico della volta centrale). Non sembra azzardato pensare che su queste immagini abbiano influito i passi biblici che alludono a Cristo come alla vera 'stella' (Nm. 24, 17; Mt. 2, 2; Lc. 1, 78s.; Ap. 2, 28; 22, 16). Inoltre, il cielo notturno allude alla dimensione iperurania e immutabile di Dio, sicché in un sarcofago (Arles, Mus. Lapidaire d'Art Chrétien) i dodici apostoli disposti in simmetrica teoria ricevono, ognuno sul proprio capo, una corona tenuta dalla mano divina che appare dal retrostante firmamento. Non per nulla il cielo stellato, in più di un caso, finì per diventare il naturale completamento pittorico di strutture architettoniche monumentali: basti ricordare la volta della cappella degli Scrovegni a Padova, le crociere del duomo di Siena (per quanto assai restaurate) e, non ultimo, il suggestivo disegno con il firmamento immaginato da Pier Matteo d'Amelia (Firenze, Uffizi, Gab. Disegni e Stampe) a coronamento della Sistina, prima dell'intervento michelangiolesco. La cultura artistica islamica, d'altra parte, tramutò il cielo notturno in un fitto motivo decorativo dove le stelle si 'incastrano' l'una accanto all'altra nel soffitto a muqarnas della Cappella Palatina a Palermo. Fin dall'Antichità il transito delle comete interessò eruditi, astrologi o filosofi (per es. Seneca, Natur. quaest., VII; Marco Manilio, Astronomicon, I), che spesso e volentieri ne interpretarono funestamente le apparizioni (Plinio, Nat. Hist., 2, 24-25). Non diversamente accadde in epoca medievale, sicché oscuri presagi si attribuirono alla cometa del 1014 (Rodolfo il Glabro, Storie, III, 3; Duby, 1967), mentre quella del 1066 - raffigurata sul ricamo di Bayeux (Bayeux, Tapisserie de Bayeux) fra il 1066 e il 1077 - sembrò siglare con il suo sinistro splendore l'invasione normanna dell'Inghilterra voluta da Guglielmo il Conquistatore. Ma se questa è la più antica raffigurazione di una cometa, quella dipinta da Giotto nell'Epifania della cappella degli Scrovegni a Padova (1304-1306) è senz'altro il primo esempio di cometa a comparire nella rappresentazione della Natività di Gesù (Romanini, 1987). Il testo evangelico riferisce che i Magi seguivano "la sua stella" (Mt. 2, 2), dove quel "sua" la qualifica come astrum natale, cioè stella di nascita, ma non aggiunge altro sulla sua natura. È Origene (Contra Celsum, I, 59; PG, XI, coll. 768-769), il primo che la indica espressamente come cometa (ϰομήτηϚ), giacché, spiega, non ha eguali in tutto il firmamento e nelle sfere inferiori. Il significato del termine cometa è 'dai lunghi capelli', chiaramente per la presenza della lunga scia luminescente, tuttavia queste stelle furono immaginate in vari aspetti, come mostra un calendario francese del sec. 15° (Cambridge, Fitzwilliam Mus., 167, cc. 88v, 89r). In particolare, sulla c. 89r la cometa compare con le ali di un angelo (estoille volant), secondo un'antica e complessa tradizione che considera la stella dei Magi un messo divino (Murdoch, 1984; Bussagli, 1985-1986). Accanto a questa figura, si trova la stella cometa rappresentata come colonna di fuoco, secondo l'indicazione di un passo di Giovanni Crisostomo (In Mattheum Homilia VI; PG, LVII, col. 64), dove il santo paragona l'andamento della stella dei Magi alla colonna (στῦλοϚ) di fuoco di Es. 13, 21. Il paragone diviene identificazione in un trattato siriaco falsamente attribuito a Dionigi l'Areopagita (Kugener, 1907). La medesima stella, del resto, in altre tradizioni è detta racchiudere una fanciulla che tiene in grembo un bimbo dal capo coronato, oppure un fanciullo su cui sta la croce (Monneret de Villard 1952, pp. 9, 50). Versione quest'ultima già presente nell'Opus imperfectum in Matthaeum, ripresa da Giovanni da Hildesheim nell'identificazione del bimbo con Cristo e diffusa in epoca medievale (ivi, pp. 51, 186). Al Cristo nella stella è quindi attribuito il valore salvifico di colui che indica la via, laddove è plausibile nella fanciulla con il bimbo, la Vergine. Del resto, l'accostamento fra Maria e la stella (da cui deriva l'epiteto di stella maris interpretabile nell'accezione di punto di riferimento per i marinai in senso metaforico) è attestato sia dalla tradizione orientale sia da quella occidentale. A tale riguardo Efrem Siro scrive infatti che "lo spuntar delle stelle è simbolo di Maria / dal seno di cui spuntò per noi / il Signor delle stelle" (Cecchelli, 1946-1954, IV, p. 59), mentre Dante (Par. XXXI, vv. 37-38) considera il rapporto fra s. Bernardo di Chiaravalle e la Vergine simile a quello che intercorre fra la stella mattutina e il sole giacché egli - evidentemente - sottintende quello fra Maria stella del mattino e Dio (Roschini, 1953). Le tre stelle che talvolta ornano il manto della Vergine (una sul capo e due sulle spalle), viceversa, alluderebbero alla sua verginità ante partum, in partu e post partum (Giamberardini, 1975-1978, III, p. 371).Il cammino che determinò la formulazione dell'iconografia di costellazioni e pianeti fu ancora più complesso. In entrambi i casi, infatti, ci si trova dinanzi a un processo che si potrebbe definire di mitologizzazione della volta celeste, completato nel sec. 3° a.C. da Eratostene, bibliotecario di Alessandria. Se per le costellazioni si trattò anche di un espediente mnemotecnico, per quanto riguarda i pianeti il procedimento si basò sostanzialmente sull'idea che il moto delle sfere rivelasse un ordine intelligente e perciò divino (Platone, Leggi, X, 899b; Timeo, 38e-39a). Tuttavia, non si attribuì a ognuna delle cinque 'stelle erranti' il nome di una divinità, ma si indicò quale degli dei avesse giurisdizione su l'una o l'altra di esse (Seznec, 1953, p. 39), sicché i pianeti non venivano indicati con un vero e proprio nome, ma con una perifrasi (per es.: ὁ ἀστὴϱ τοῦ ΔιόϚ;ὁ ἀστὴϱ τῆϚ ᾽ΑΦϱοδίτηϚ). Questa maniera di designare i pianeti, in uso all'epoca di Platone (Timeo, 38d-e), sotto la spinta del panteismo materialista stoico e caldaico, finì per cedere il passo alla forma sostantivata, abbreviata in ΚϱόνοϚ, ZεύϚ, ᾽ΑΦϱοδίτη, 'ΕϱμῆϚ (Cumont, 1935, pp. 35-36). In questo modo si compì il processo di mitologizzazione planetaria (volgarizzato sotto Augusto con la settimana astrologica; Boll, 1912, col. 2573) avviatosi quando i Greci, grazie al contatto con i Babilonesi, impararono a distinguere gli a. erranti da quelli che formavano le altre costellazioni. Furono forse i pitagorici a siglare le corrispondenze fra le divinità (e perciò gli a.) del pantheon babilonese e quelle greche alle quali esse potevano essere assimilate (Cumont, 1935, p. 7). Su questa base, in epoca classica, si elaborò un'iconografia planetaria che non teneva conto delle divinità babilonesi originarie. Così, per es., Mercurio-pianeta (identificato con Nabu, il dio scriba di Babilonia) venne rappresentato secondo l'immagine tradizionale di Mercurio; Marte-pianeta (connesso con il dio babilonese della guerra Ninb) secondo quella di Marte e così via. Se ne trovano esempi nel planisfero Bianchini, databile al sec. 1°-2° d.C. (Parigi, Louvre), nel mosaico proveniente da Bir Chana, del sec. 2°-3° (Tunisi, Mus. Nat. du Bardo), nel Cronografo del 354 (Roma, BAV, Barb. lat. 2154). Tuttavia questo processo di mitologizzazione aveva già trovato veste letteraria negli scritti di Arato da Soli (315-240 a.C.), che aveva descritto la volta celeste più come un mitografo che come un astrologo. La sua opera Φαινόμενα - che ebbe grande fortuna e dalla quale, per es., dipende il globo del c.d. atlante Farnese (Napoli, Mus. Archeologico Naz.) - fu tradotta da Varrone Atacino, Cicerone, Germanico e Rufo Festo Avieno. Il gruppo degli Aratea carolingi (codici miniati nel sec. 9° che ripropongono il testo di Arato nelle varie versioni latine), costituisce una famiglia di manoscritti il cui modello iconografico classico si è perpetuato con pochissime varianti (Seznec, 1953, p. 149); tra questi vanno ricordati i manoscritti di Leida (Bibl. der Rijksuniv., Voss. lat. Q 79), di Londra (BL, Harley 647), di Vienna (Öst. Nat. Bibl., 387), di Roma (BAV, Reg. lat. 309) e quelli, databili ai secc. 10°-11°, di Boulogne-sur-Mer (Bibl. Mun., 188) e Göttweig (Stiftsbibl., 7).Questa, però, non è da considerarsi l'unica linea figurativa dell'iconografia planetaria medievale. Come ha dimostrato Saxl (1912), infatti, grazie agli attardamenti della cultura di Ḥarrān "le raffigurazioni islamiche dei pianeti del Tardo Medioevo e dell'età moderna risalgono in linea diretta a Babilonia" da cui la cultura occidentale, attraverso la trasmissione figurativa e la mediazione letteraria araba - accolta da Michele Scoto nel suo Liber introductorius (Bauer, 1983) e dal Picatrix latino, che a sua volta deriva dal Ghāyat al-ḥakīm (Il fine del saggio), un testo arabo del sec. 11° (Perrone Compagni, 1975) -, elaborò sulla base di quella islamica una tradizione figurativa che si affrancava dai modelli classici. Le tipologie planetarie vi appaiono completamente mutate, sicché per es. si può trovare Giove rappresentato nelle vesti di un giurista (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 10268, c. 85r, del 1340 ca.) ma anche in quelle di vescovo (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 826, del 1395) o di monaco, come nelle formelle del campanile di Giotto a Firenze, scolpite da Andrea Pisano e dai suoi aiuti. La matrice lontana di questa iconografia risale, per il tramite islamico, fino al carattere del Marduk babilonese, la divinità considerata arbitro dei destini umani. Allo stesso modo Mercurio assume l'aspetto di un maestro nelle formelle del campanile fiorentino, negli affreschi del coro degli Eremitani a Padova e nel capitello dei pianeti nella loggia di Palazzo Ducale a Venezia. Appare invece come scrivano nell'affresco di Andrea Bonaiuti che rappresenta le sette Arti liberali (Firenze, S. Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli), in concordanza con l'idea che i Babilonesi avevano di Nabu, lo scriba, il dotto degli dei. Non si può fare a meno di ricordare, però, che nella Tarda Antichità Mercurio, detto Trismegisto, cioè 'tre volte grandissimo', era considerato autore di un corpus di scritti mistico-religiosi e veniva identificato con il Toth egizio (dio della sapienza), sicché vescovi ed ecclesiastici erano posti sotto la sua giurisdizione (Saxl, 1927). Non per nulla lo si trova anche in veste di vescovo (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 10268, c. 85r; Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2352, c. 28v; Firenze, Bibl. Naz., Landau Finaly 22, c. 37v).I contatti fra l'Oriente islamico e l'Occidente medievale produssero nuove raffigurazioni planetarie, ma l'interesse per il cielo stellato era già stato motivo di scambio fra la cultura babilonese e quella greca. Anzi, durante il periodo alessandrino i rapporti diretti con le religioni orientali dovettero determinare una certa confusione nell'onomastica planetaria, sicché si preferì designare i pianeti non più con il nome di una divinità, ma con un aggettivo che ne descrivesse il carattere (per es. Mercurio fu detto Στίλβων, 'lo Scintillante'). Quest'uso, divenuto desueto nel sec. 2° d.C. (Cumont, 1935), ma del quale conserva memoria ancora Isidoro di Siviglia (Etym., III, 71, 20; PL, LXXXII, col. 181), è la spia di una situazione che divenne più complessa nella Tarda Antichità, dopo Alessandro Magno. Insieme alle costellazioni di tradizione greca (per es. Ercole, Perseo, Andromeda, i Dioscuri, ecc.), che costituivano la sphaera graecanica sistematizzata già da Eudosso di Cnido (sec. 4° a.C.), da Arato e da Eratostene, lo scienziato ellenistico conobbe, provocando le ire di Tolomeo, pure una selva di nomi orientali presi dai cataloghi astronomici babilonesi ed egizi che componevano la sphaera barbarica. La canonizzazione della sphaera barbarica fu opera di Teucro il Babilonese (sec. 1° a.C.); essa superava di circa tre volte il catalogo di Arato. Come è noto, la sua influenza fu duplice in quanto fu utilizzata sia dagli astrologi della Tarda Antichità (per es. Manilio e Firmico Materno) sia da quelli del Tardo Medioevo. È noto però che in ambito medievale la sphaera ricomparve, grazie alla mediazione islamica, attraverso l'opera e la figura centrale di Abū Ma῾shar (Boll, 1903). Il suo influsso sulle arti figurative fu notevole come mostrano gli affreschi del salone della Ragione a Padova. Questi, come ha chiarito Saxl (1927), dipendono dall'Astrolabium planum, attribuito a Pietro d'Abano, che deve considerarsi il discendente diretto della tradizione di Teucro. Il processo di mitologizzazione delle costellazioni, nato per uno scopo eminentemente mnemotecnico (per connettere cioè con maggiore facilità i punti luminosi del cielo notturno posti all'interno di iconografie note come quelle dei personaggi mitici) e quindi strettamente legato all'osservazione diretta delle stelle, finì per prevalere, sicché si tralasciò l'aspetto scientifico (Settis, 1985). Gli Arabi, invece, cercarono addirittura di localizzare graficamente sull'immagine della costellazione gruppi di stelle divenuti ormai ignoti all'Occidente, come mostra il Ṣuwar al-kawākib al-thābita (Descrizione delle stelle fisse) di 'Abd al-Rahmān b. 'Umar al-Ṣūfī, astronomo del sec. 10° (Parigi, BN, arab. 5036). In questo modo, però, essi modificarono l'originale iconografia greca secondo il gusto e la cultura islamica (Hauber, 1918). I copisti occidentali dei secc. 13° e 14°, soprattutto in Spagna e in Sicilia (Seznec, 1953), non riconoscendo più in essi gli archetipi classici, si adeguarono ai nuovi modelli introducendoli nel Medioevo occidentale (Roma, BAV, lat. 8174; Parigi, Ars., lat. 1036, eseguito per Alfonso X il Saggio e derivato dal precedente).La tradizione scientifica e iconografica degli a. appare in definitiva caratterizzata da un continuo scambio fra le culture orientali (dalla babilonese all'indiana, all'islamica) e occidentale (da quella ellenistico-pagana a quella cristiana), accomunate da un unico intento: comprendere l''anatomia' della volta celeste per fare un ulteriore passo sulla lunga via che conduce all'assoluto.
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