Astronauta
Il termine astronauta e il suo sinonimo cosmonauta designano sia il pilota di un veicolo spaziale sia chi compie voli spaziali. Se naturalmente non esiste una tipologia psicofisica che differenzi gli astronauti dalle persone 'normali', tuttavia, le condizioni in base alle quali viene operata la loro selezione sono peculiari, in quanto risultato della coesistenza e della convergenza di un numero elevatissimo di elementi normali, in assenza di anomalie. In sintesi, si tratta di soggetti 'eccezionali' nella loro normalità. A parte gli elementi di carattere psicofisico, l'astronauta è, in generale, anche una persona con curriculum scientifico e professionale di notevole livello. Il comportamento delle attività vitali in condizioni di microgravità e lo studio di eventuali patologie conseguenti al volo spaziale sono oggetto di studio da parte della branca della medicina detta 'medicina spaziale'.
I. I criteri per la selezione
L'astronauta è un soggetto dalle caratteristiche funzionali sostanzialmente 'normali'. Tuttavia, mentre la cosiddetta normalità per un individuo comune, anche fisicamente attivo, viene definita in base alla compatibilità di alcuni suoi fondamentali parametri fisiologici con i valori medi rilevati sulla popolazione di appartenenza, la 'normalità' dell'astronauta deve essere stabilita facendo riferimento a un ventaglio molto più ampio di criteri funzionali. Ciò rende il giudizio più restrittivo, in quanto basato su un grande numero di variabili, facendo sì che la selezione sia particolarmente severa. A riprova di ciò stanno alcuni dati disponibili presso la NASA (National aeronautics and space administration). A tutto il 1991, dopo oltre 30 anni di attività, sono risultati ammessi al Corpo astronauti degli Stati Uniti 214 soggetti (191 uomini e 23 donne, di età media 33 anni) su un totale di 1319 'finalisti', costituenti, questi ultimi, il 10% circa dei candidati iniziali.Le prime batterie di esami eseguite per la selezione degli astronauti provvidero a scegliere, rispettivamente, sette astronauti per la missione Mercury e, nell'ex URSS, venti cosmonauti per i progetti spaziali sovietici.
Le tecniche adottate inizialmente erano quelle in uso: a) nei laboratori di medicina aeronautica per la scelta dei piloti collaudatori di aerei militari; b) nei centri per lo studio della prestazione fisica dell'uomo in ambienti usuali o particolari (ipo- e iperbarici, ipossici, caratterizzati da ipo- o ipergravità ecc.); c) in istituzioni di medicina preventiva.
Successivamente, con il progresso della tecnologia, i criteri di valutazione sono diventati più specifici e approfonditi, comportando anche prove di decompressione e ricompressione rapida in camere ipo- o iperbariche, di accelerazione/decelerazione (particolarmente nell'ex URSS), di esposizione a campi gravitazionali molto elevati a mezzo di centrifugazione (fino a 10 volte il valore della gravità g) o prossimi a zero-gravità (in piscine o durante voli parabolici); sono stati inoltre adottati esami basati su tecniche d'avanguardia, quali la spettroscopia a risonanza magnetica, la densitometria ossea, l'ecografia o il prelievo bioptico di campioni di tessuti.
La severa selezione, integrata da un'approfondita analisi del profilo psicologico, specie in condizioni di stress psicofisico, è stata giustificata, oltre che dalla necessaria affidabilità degli equipaggi dei veicoli spaziali, dal rispetto dei programmi di lancio e dall'ingente costo di formazione dell'astronauta, requisiti incompatibili con contrattempi dovuti al manifestarsi di condizioni di inidoneità in corso di addestramento. Con l'evoluzione delle attività spaziali, i compiti del cosmonauta sono diventati molto più specifici che ai primordi. Al momento attuale si possono infatti identificare quattro diverse categorie di partecipanti a missioni spaziali: i piloti, i cosiddetti specialisti di missione, gli specialisti a pagamento (ricercatori di enti che collaborano con i responsabili del volo), i partecipanti ad altro titolo (passeggeri). Va da sé che gli standard fisiologici richiesti per le suddette categorie sono diversi e progressivamente meno severi, arrivando a essere per i cosiddetti passeggeri del tutto simili a quelli che sono richiesti per una prolungata attività sportiva a livello amatoriale.
Gli astronauti in attività ripetono ogni anno un esame di controllo completo. Negli USA anche gran parte di coloro che lasciano il servizio accettano controlli medici regolari, con cadenza annuale. Ciò ha consentito ai sanitari della NASA di effettuare, tra l'altro, uno studio comparativo retrospettivo tra un gruppo di 154 astronauti ed ex astronauti - suddivisi in due sottogruppi: quelli selezionati tra il 1959 e il 1969, con età dai 25 ai 60 anni, e quelli dell'era degli Shuttle (1978-89), oggetto d'indagine tra i 25 e i 45 anni di età - e un gruppo di 653 soggetti di controllo (circa 5 per ogni astronauta), allo scopo di esaminare l'evoluzione, con la pratica spaziale e con l'età, di talune variabili fisiologiche e strutturali.
I risultati di tale indagine hanno reso possibile un interessante confronto tra astronauti, controllati dall'inizio dell'attività spaziale fino al periodo successivo al termine, e soggetti di controllo.
Per quanto attiene alla funzione cardiovascolare, l'analisi riguarda i dati di pressione arteriosa sistolica (massima) e diastolica (minima) e di frequenza cardiaca a riposo. Astronauti e sedentari a 25 anni di età sono caratterizzati da una pressione arteriosa identica (in media, 117/73 mmHg); entrambi i sottogruppi di astronauti selezionati (1959-69 e 1978-89) col trascorrere dell'età non hanno subito aumenti significativi di pressione, sia sistolica sia diastolica, mentre nel gruppo di controllo (oltre i 45 anni di età), si è rilevato un aumento di pressione sistolica e diastolica, rispettivamente di circa 15 e 10 mmHg. La frequenza cardiaca di riposo negli astronauti presentava, dopo i 45 anni di età, una marcata riduzione (10-15 pulsazioni al minuto), rispetto al livello riscontrato a 25 anni (70 pulsazioni al minuto). Al contrario, nei soggetti di controllo la frequenza cardiaca di riposo non ha subito variazioni per effetto dell'età, oscillando intorno alle 70 pulsazioni al minuto. L'indagine ha permesso di concludere che il sistema cardiovascolare del cosmonauta non subisce influenze negative dall'attività spaziale, un riscontro tra l'altro confermato dalla bassa frequenza di casi di morte cardiaca fra gli ex astronauti (solo due casi su 154 soggetti).
Anche il rischio di patologia cardiovascolare accertato attraverso il cosiddetto Framingham score, che si basa sulla valutazione di sei variabili (età, livello ematico del colesterolo, sesso, fumo di tabacco, pressione sistolica e peso corporeo), nel sottogruppo di astronauti più anziani (1959-69) risulta sostanzialmente identico a quello dei soggetti di controllo.Per quanto riguarda la funzione respiratoria e la capacità di lavoro muscolare, i test di determinazione delle resistenze opposte dalle vie aeree al flusso dell'aria durante l'espirazione (capacità vitale forzata e frazione della capacità vitale espirata nel primo secondo dall'inizio dell'espirazione) non hanno indicato alcuna alterazione della meccanica respiratoria nell'astronauta o nell'ex astronauta, rispetto ai soggetti di controllo. Entrambi i gruppi hanno mostrato una lieve riduzione dei parametri sopra indicati con l'aumento dell'età.
L'esame della massima potenza aerobica, un test globale basato sulla capacità di consumare ossigeno (V·o₂max) da parte della massa muscolare attiva del soggetto, e pertanto di compiere esercizi di tipo aerobico, vale a dire a spese di reazioni ossidative (per es., marcia, corsa, nuoto, ciclismo in prestazioni di elevata intensità e lunga durata), ha permesso di rilevare che gli astronauti, all'età di 25 anni, presentavano valori più elevati rispetto a quelli dei soggetti di controllo, verosimilmente per effetto dell'allenamento cui erano regolarmente sottoposti nell'ambito della loro attività professionale. Con il trascorrere dell'età, tuttavia, i valori di V·o₂max hanno subito una progressiva riduzione tanto negli astronauti quanto nel gruppo di controllo, nonché una tendenza all'equalizzazione, a indicazione del fatto che, ai fini della selezione iniziale degli astronauti, il criterio V·o₂max non era stato presumibilmente determinante. Infatti, se gli astronauti fossero risultati geneticamente più potenti sul piano della prestazione muscolare, essi avrebbero mantenuto una capacità di prestazione superiore rispetto a quella dei controlli anche al termine dell'attività spaziale.
Per quanto riguarda la funzionalità di vista e udito, il gruppo di astronauti esaminato in ambito di età più giovanile (programmi Shuttle) presenta dati di acuità visiva migliore rispetto a quelli del gruppo di controllo, e questo sta a testimoniare il rigore del criterio di selezione adottato. La perdita della visione prossima (presbiopia) ha cominciato a verificarsi per gli astronauti all'età di 43 anni. A 50 anni le condizioni risultavano le stesse per i due gruppi di cosmonauti esaminati e per quello di controllo, e tutti i soggetti facevano uso di lenti convergenti. In tutti l'acuità visiva ha presentato una tendenziale riduzione con il trascorrere dell'età.
La capacità uditiva è stata esaminata per varie frequenze. Nell'ambito delle frequenze intorno a 1 kHz, al disotto dei 40 anni di età, gli astronauti presentavano caratteristiche uditive migliori dei soggetti di controllo. Dopo i 40 anni si è verificata una progressiva perdita di udito, del tutto identica a quella riscontrata nei soggetti di controllo. Anche per le frequenze più elevate (4 e 6 kHz), la diminuzione di udito in funzione dell'età si è dimostrata identica negli astronauti e nei soggetti di controllo. Da quanto si è detto emerge, in generale, che le caratteristiche fisiologiche dell'astronauta durante l'attività professionale sono significativamente migliori di quelle dei soggetti di controllo, pur collocandosi le singole funzioni nell'ambito della 'normalità'. Con il termine dell'attività professionale, il gruppo degli astronauti tende sempre più a omologarsi con quello di controllo (a parità di età). Ciò dimostra che i cosmonauti non costituiscono un gruppo speciale, con caratteristiche fortemente differenziate, nell'ambito della normale popolazione. In questo senso, l'astronauta si differenzia da taluni gruppi di atleti che possiedono caratteristiche fisiologiche genetiche che li pongono, anche in assenza di allenamento, in categorie funzionali di eccellenza.
Se si fa eccezione per il notevole aumento della frequenza cardiaca (tachicardia) e della frequenza respiratoria (tachipnea) registrate al momento del lancio, la maggior parte dei dati fisiologici e fisiopatologici raccolti sugli astronauti nelle prime esperienze spaziali di breve durata riguardava la suscettibilità dell'organismo a una particolare sindrome, la cosiddetta chinetosi spaziale, caratterizzata da pallore, sudorazione, scialorrea, nausea, eventualmente vomito, e causata da stimolazioni vestibolari anomale e manifestantesi particolarmente nella transizione dal campo gravitazionale terrestre alla condizione di microgravità. Oltre alla classica sintomatologia della chinetosi, segnalata per primo dall'astronauta sovietico G. Titov (missione Vostok 2, dell'agosto 1961), vari membri di equipaggi spaziali, sia sovietici sia statunitensi descrissero, in coincidenza con l'inizio della fase orbitale del volo, il manifestarsi di illusioni posturali, capogiri e senso di disorientamento, particolarmente in seguito alla rotazione del capo o del capo e del tronco, e perdita della rappresentazione normale del proprio corpo. Fenomeni di origine vestibolare diretti (risposte motorie riflesse immediate, quali illusioni posturali, sensazione di rotazione, nistagmo, vertigine) e indiretti (fenomeni ritardati tipici della chinetosi, quali pallore, sudorazione, vomito) furono riscontrati nella maggior parte degli astronauti che parteciparono al programma Skylab (1973-79). Un persistente deficit dell'equilibrio posturale, perdurante anche parecchi giorni dopo il rientro, fu segnalato anche per gli equipaggi delle missioni Apollo (1968-72) e Soyuz 9 (1970).
Gli esperimenti effettuati subito dopo il rientro degli equipaggi confermarono che l'esposizione protratta all'assenza di gravità modifica la stabilità posturale dei soggetti. L'alterazione è certamente dovuta al fatto che l'input dell'apparato vestibolare (ovvero i segnali che partono dai recettori) e le sensazioni cenestesiche e tattili sono modificati dall'assenza di gravità, il che impone una 'riorganizzazione' neurale a livello del sistema nervoso centrale, non rapidamente reversibile con il rientro nel campo gravitazionale terrestre. Ciò spiega la lentezza osservata nel recupero delle condizioni funzionali precedenti il volo da parte di numerosi membri degli equipaggi dei veicoli spaziali.La microgravità influisce anche sulla traslocazione di liquido interstiziale e sull'eritrocinetica. Al momento dell'entrata in orbita, un volume cospicuo di sangue e di liquidi interstiziali si trasferisce dalla parte distale del corpo verso le regioni cefaliche, con tendenza a distendere i vasi e gli organi intratoracici, incluso il cuore. Ciò è causa di fenomeni riflessi compensatori, quali un aumento della diuresi, che conduce a una diminuzione della massa sanguigna.
È stata inoltre messa in evidenza anche una riduzione della massa eritrocitaria (globuli rossi) circolante, attribuita a una riduzione della produzione di eritropoietina e ad altre variabili tuttora non identificate. La traslocazione di una notevole aliquota di sangue e di liquidi interstiziali alla parte craniale del corpo si manifesta prevalentemente nelle prime ore di esposizione a microgravità, provocando vampe di calore al viso, congestione della mucosa nasale, cefalea, edema facciale, e anche un aumento della gettata cardiaca e pulsatoria. Nel corso e a seguito del volo spaziale la funzione polmonare è influenzata, in quanto la capacità vitale, in assenza di gravità, subisce una riduzione di circa il 10% rispetto ai valori precedenti al volo, riduzione rapidamente corretta con il rientro nel campo gravitazionale terrestre. Le cause sono uno spostamento caudocraniale del diaframma e la ridistribuzione dei liquidi provenienti dalla parte inferiore del corpo nella cavità toracica.In condizioni di microgravità risulta alterato in misura significativa il metabolismo del calcio. Nelle missioni spaziali di lunga durata si è riscontrata una perdita continua di calcio dalle ossa degli arti inferiori. Il tasso di eliminazione di Ca++ è di entità tale che, a gravità zero, è possibile prevedere in 18 mesi il tempo limite perché s'instauri una condizione critica di demineralizzazione e di fragilità ossea.
Un altro aspetto del bilancio negativo di calcio è la facilitata formazione di calcoli renali. La perdita di calcio associata a condizioni di microgravità è stata messa in relazione con la forzata riduzione dell'attività fisica. Tuttavia, anche programmi di intenso esercizio fisico nel corso del volo, quali quelli effettuati durante il progetto Skylab, non sono stati in grado di ritardare la perdita di calcio e quindi i danni allo scheletro, né finora hanno consentito di limitare il fenomeno i tentativi d'intervento mediante arricchimento della dieta in calcio e fosforo. Si è dunque ipotizzato che la perdita di sali minerali dalle ossa sia legata a una riduzione di un'attività nervosa, cosiddetta trofica, che, come l'attività motoria, verrebbe meno durante lunghi periodi d'immobilità o microgravità.
Un aspetto interessante ai fini dell'attività spaziale, particolarmente in vista di future prolungate permanenze di cosmonauti nello spazio, è il tipo di patologia generica o specifica rilevata negli astronauti durante i tre decenni di attività della clinica specializzata operante a Houston presso il Johnson space center della NASA. Analoghi dati sono stati certamente ottenuti anche da studi sugli astronauti dell'ex Unione Sovietica, ma non sono per ora disponibili in maniera sistematica.
Anzitutto, è interessante rilevare che interventi urgenti (che hanno costretto a evacuazione dalla base) seguiti da ricovero ospedaliero sono stati in tutto questo periodo molto inferiori per gli astronauti che per altri gruppi elitari di soggetti, quali piloti di aerei, sommergibilisti, ricercatori isolati in basi antartiche ecc. Essi ammontano a 0,02 casi per astronauta e per anno, un numero estremamente limitato, dunque, che riflette la validità dei sistemi di selezione adottati, nonché l'elevata motivazione dei soggetti.
Nei circa trent'anni di osservazione sono state richieste 2282 consultazioni mediche in favore di 188 astronauti che sono state ripartite in codici differenti per il tipo di patologia, nonché per la classe di età. Premesso che circa il 10% delle manifestazioni patologiche sono state di origine traumatica, conseguenti a pratiche sportive, la maggior parte dei fenomeni patologici registrati consistono in affezioni delle vie respiratorie (circa il 20% del totale). Nessun'altra manifestazione patologica ha superato l'incidenza del 2% (gastroenteriti, sindromi virali, influenza ecc.). Il numero di casi diagnosticati risulta relativamente inferiore nell'ambito di età tra i 25 e i 43 anni, per aumentare drasticamente in seguito, in modo particolare in soggetti più anziani, che hanno lasciato il servizio attivo.
Come si può rilevare, l'astronauta è una persona che gode di invidiabile salute, anzitutto perché appartiene a un gruppo di soggetti selezionati, ancorché 'normali', e, particolarmente, perché ha fruito di un'educazione sanitaria volta a eliminare abitudini di vita non idonee, potenzialmente lesive della propria integrità fisica e funzionale. In conclusione, è possibile affermare che l'astronauta è un individuo sostanzialmente normale, nel senso che tutti i suoi dati funzionali suscettibili di analisi specifica ricadono nella media statistica per una popolazione sana nonché moderatamente attiva sul piano fisico.
Biomedical results from Skylab, ed. R.S. Johnson, L.F. Dietlein, Washington, NASA, 1977.
Space physiology and medicine, ed. A.E. Nicogassian, C. Leach Huntoon, S.L. Pool, Baltimore, Lea & Febiger, 19943.