L’impero romano accoglie la scienza greca, ma in una forma priva delle componenti matematiche più avanzate. Mentre i pensatori romani trattano argomenti e nozioni astronomiche in modo generale e discorsivo, la figura del matematico è sostituita da quella del tecnologo: agrimensore o architetto. L’astronomia romana è di fatto una scienza applicata, destinata a servire alla corretta gestione di uno stato molto esteso sotto i due aspetti della misura del tempo e dell’organizzazione del territorio.
Così come negli altri grandi regni fioriti anticamente nel Mediterraneo orientale, anche nel più giovane impero romano si creano rapporti simbiotici fra astronomia, potere e religione. Alcuni imperatori collocano in modo artificioso il momento della loro nascita sotto particolari configurazioni astrali o si fanno raffigurare nelle statue o sulle monete in abbinamento con il dio Sole. Altri si appoggiano alla pratica della divinazione astrologica per prendere decisioni di governo o per eliminare innanzi tempo quei soggetti politici il cui tema natale li individua come possibili nemici futuri. Negli ambienti dei ceti elevati si diffondono invece culti orientali di tipo astrale, come quello egizio della dea Iside o quello persiano del dio Mitra. Questi culti si affiancano alla religione politeista classica delle varie divinità celesti ricavate dall’Olimpo greco; Giove (Zeus), Marte (Ares), Venere (Afrodite) ecc.
Quanto alle conoscenze astronomiche in sé, gli intellettuali del mondo romano sono in linea di tendenza meno sensibili alla speculazione matematica rispetto ai corrispettivi greci, ellenistici e alessandrini. Venendo meno il legame fra la riflessione filosofica e il pensiero matematico, che nell’area di influenza greca favorisce a un serrato scambio di idee fra i filosofi-cosmologi e gli astronomi-matematici, nell’area romana si registra una differente caratterizzazione delle figure interessate allo studio degli astri.
I filosofi si dedicano ad argomenti di tipo generale e particolare, già emersi nel mondo greco, che spesso affrontano da un punto di vista eminentemente retorico. Tito Lucrezio Caro si fa per esempio portavoce del pensiero atomista di Leucippo di Mileto e di Democrito di Abdera, che diffonde nel De rerum natura. In questo poema ritorna l’idea di atomi che si muovono nel vuoto e che concorrono a formare la Terra e gli astri. In equilibrio fra concezioni platoniche e atomiste, Lucio Anneo Seneca espone nel settimo libro delle Naturales quaestiones idee sulla natura delle comete. Gaio Plinio Secondo, detto “il Vecchio”, compone una monumentale opera enciclopedica, la Naturalis Historia, dove in maniera non esattamente sistematica espone anche nozioni di cosmologia e di astronomia già elaborate dagli autori di lingua greca. Perfino ben noti uomini di stato, come Caio Giulio Cesare e Marco Tullio Cicerone non mancano di scrivere opere di astronomia.
Se da un lato questo nutrito insieme di pensatori, che si muove in parallelo con lo straordinario sviluppo dell’astronomia alessandrina, è importante perché contribuisce a tramandare informazioni su autori più antichi, dall’altro si dimostra incapace di elaborare idee innovative. La tendenza non si inverte nei secoli immediatamente successivi. Nel caso migliore gli autori latini vivono nella scia dell’astronomia tolemaica, senza peraltro riuscire a penetrarne l’ultima essenza, dedicandosi a redigere commenti o opere enciclopediche. Nel caso peggiore gli autori latini si fanno portavoce della reazione cristiana alla scienza greca. Questo movimento tocca il punto infimo con la lapidazione di Ipazia di Alessandria, figlia e allieva di Teone di Alessandria, responsabile di essere, oltre che donna, una valente matematica pagana.
A fronte dei filosofi e degli altri intellettuali, la nicchia culturale che nel mondo greco spetta ai matematici ospita nel mondo romano le nuove figure degli agrimensori e degli architetti. Più spiccatamente che altrove, a Roma la scienza acquisisce una connotazione tecnico-pratica e di pubblica utilità. Di conseguenza, l’astronomia si trasforma da raffinata scienza matematica in scienza applicata, adibita a risolvere questioni di due ambiti funzionali alla conduzione dell’impero: la regolazione del tempo e l’organizzazione dello spazio. L’astronomia torna di fatto a interessarsi al modo di definire un calendario, indispensabile per regolare la vita agricola, economica e militare dello stato, e al modo di orientare città ed edifici, utile per garantire la sicurezza e il benessere dei cittadini.
Gli scavi archeologici rivelano l’attenzione dei Romani alla misura del tempo su scala giornaliera o annuale. La scansione della vita civile di uno stato agricolo e burocratico richiede un confronto pressoché costante con i ritmi stabiliti dal trascorrere delle ore e dei giorni. Dai siti archeologici meglio conservati, costituiti dalle città di Ercolano e Pompei, entrambe sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79, sono affiorati una grande quantità di solaria, vale a dire orologi solari (o impropriamente “meridiane”) di varia forma e dimensione. Più frequenti sono gli orologi solari del tipo “a scafea”, dove il tracciato orario è inciso all’interno di una cavità sferica. Compaiono tuttavia anche orologi solari piani, dove il tracciato orario è inciso su una lastra di pietra o di altro materiale da collocare verticalmente su una parete o orizzontalmente su un qualche supporto.
Lo studio degli oggetti rinvenuti evidenzia prima di tutto la non perfetta orientazione e calibrazione degli orologi solari per la latitudine del luogo di ritrovamento. Questo elemento depone sia per una scarsa sensibilità dei Romani ai dettami dell’astronomia matematica, sia per la consuetudine di trasportare a Pompei orologi originariamente nati per altre regioni dell’impero. In ogni caso, i reperti mostrano come il criterio di misurazione del tempo maggiormente diffuso fra la popolazione sia quello delle ore ineguali (o stagionali). Il giorno e la notte sono divisi rispettivamente in dodici (ore) e in quattro (vigilie) parti uguali, indipendentemente dalla stagione, con la conseguenza che le ore diurne estive sono più lunghe di quelle invernali, mentre le vigilie notturne estive sono viceversa più corte di quelle invernali.
Altre testimonianze archeologiche riguardano l’applicazione concreta di nozioni astronomiche elementari alla regolazione del ciclo agricolo. Per decidere quando arare i campi, seminare, potare e raccogliere piante o frutti delle diverse specie vegetali, i contadini si affidano alle stelle che nelle varie stagioni sorgono poco prima del Sole o tramontano subito dopo di esso. I contadini guardano inoltre alle reciproche posizioni dei pianeti per trarre previsioni sul verificarsi di condizioni meteorologiche particolarmente favorevoli o avverse. Fra i reperti più interessanti al riguardo figurano i calendari rustici, cippi di pietra a forma di parallelepipedo collocati nei luoghi pubblici delle città. L’esempio forse più noto, rinvenuto a Roma, in Campo Marzio, risale al I secolo. Ciascuna faccia del cippo contiene informazioni relative a tre mesi. Ogni mese è presieduto dal relativo segno zodiacale. Seguono il numero dei giorni che compongono il mese, le lunghezze del giorno e della notte misurate in ore uguali (o equinoziali), le festività e le principali attività agricole.
Il calendario rustico sintetizza un tipo di informazioni che si trovano in forma molto più estesa – e talora poetica – nei prodotti di un fiorente genere letterario. Le opere a sfondo agricolo espongono le regole pratiche di coltivazione, descrivono le stelle che occorre conoscere, e talora si soffermano sui miti che collegano le une alle altre. Questi scritti sono talora dovuti ad autori illustri: le Georgiche di Publio Virgilio Marone, i Fasti di Publio Ovidio Nasone, il De re rustica di Lucio Giunio Moderato Columella, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. In apertura del XIX libro di quest’ultima, subito dopo essersi dedicato alle operazioni agricole da compiere nelle diverse stagioni, Plinio stesso riassume lo stretto rapporto fra l’uomo e l’astronomia commentando che “la campagna contribuisce alla conoscenza del cielo non meno che la scienza astronomica alla coltivazione della terra”.
I calendari rustici e la letteratura a essi collegata si pongono su uno sfondo dominato dalla riforma del calendario voluta da Giulio Cesare. Nel regno di Roma e poi in epoca repubblicana vige un calendario di tipo lunare introdotto dal re Numa Pompilio. Il calendario “numiano” si basa su 12 mesi lunari di 29 o 30 giorni e, di conseguenza, su un anno di 355 giorni, sensibilmente più breve dell’anno solare. La necessità di mantenere il calendario al passo con le stagioni porta a introdurre di quando in quando un mese intercalare, denominato “mercedonio”. Mentre nell’area orientale del Mediterraneo si inseriscono i mesi intercalari in base a un ciclo fisso della durata di 19 anni (ciclo “metonico”), a Roma la decisione sulla collocazione o meno di un mese mercedonio spetta al collegio dei pontefici. La situazione si fa in breve estremamente confusa, perché la collocazione avviene spesso indipendentemente dalle esigenze astronomiche. I pontefici sono legati al potere politico e sono perciò inclini a seguire indicazioni sociali ed economiche, piuttosto che scientifiche. Sotto la dittatura di Giulio Cesare l’anno civile appare ormai sfasato rispetto alle stagioni di ben tre mesi.
La riforma giuliana del calendario riconosce implicitamente agli studiosi alessandrini il primato nelle scienze matematiche. Per preparare la riforma Giulio Cesare interpella l’astronomo Sosigene di Alessandria, dal quale ricava la nozione che l’anno solare dura 365 giorni e un quarto. La riforma del calendario deve dunque prevedere due fasi distinte. La prima consiste nel riportare l’equinozio di primavera alla data del 21 marzo. Allo scopo l’anno di adozione della riforma, il 45 a.C., soprannominato l’“anno della confusione”, deve essere costituito da ben 85 giorni in più per compensare lo scarto fra l’inizio dell’anno civile e l’inizio dell’anno solare. I giorni aggiunti sono inseriti mediante due mesi addizionali di inusuale lunghezza. La seconda parte della riforma consiste invece nel passare da un calendario lunare a un calendario solare. Il passaggio richiede di individuare un apposito sistema di intercalazione di giorni, in modo da evitare un nuovo scivolamento dell’anno civile rispetto alle stagioni. In proposito, la riforma giuliana prevede di introdurre un giorno intercalare ogni quattro anni. Questo giorno è detto “bisestile” (dal latino bissextus) perché consiste in un duplicato del sesto giorno antecedente le calende di marzo, vale a dire il 24 febbraio.
Nei primi anni della riforma giuliana persiste una notevole incertezza sul modo corretto di applicare il giorno bisestile. Nell’8 a.C. l’imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto è di fatto costretto a varare un correttivo per compensare l’eccessiva propensione dei pontefici a introdurre giorni bisestili. Il cammino verso il completamento della riforma è segnato dalla realizzazione di un enorme orologio solare piano in Campo Marzio. Voluto da Ottaviano Augusto per celebrare il ventennale dalla vittoriosa battaglia di Azio contro la flotta egiziana guidata da Marco Antonio, l’orologio è solennemente consacrato nel 10 a.C. Lo gnomone, l’estremità della cui ombra segna il tempo rispetto a una serie di linee orarie, è costituito da un obelisco del VI secolo a.C. (alto circa 22 metri), sovrastato da una sfera bronzea, portato a Roma dalla città di Heliopolis (lo stesso obelisco che oggi si trova in piazza Montecitorio). Come riferisce Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, il tracciato del Solarium Augusti si deve al matematico Facondio Novo e contiene, oltre all’indicazione delle ore, anche quella dei mesi, delle stagioni e dei segni zodiacali. Il tracciato si estende su una piazza lastricata di travertino nella quale sono inserite linee, diciture (in latino e in greco) e simboli di bronzo. È evidente il ruolo di misuratore pubblico del tempo e di regolatore del calendario svolto dal Solarium Augusti. Lo strumento designa l’imperatore come garante dei ritmi della vita civile desunti dal più sfolgorante di tutti gli astri, il Sole.
Oltre agli onnipresenti orologi solari di varia forma e dimensione, i resti archeologici romani evidenziano una spiccata presenza di temi astronomici. Per esempio, molte abitazioni di Pompei rivelano decorazioni ispirate agli astri, così come essi sono percepiti attraverso la religione politeista classica o attraverso i testi poetici che parlano di pianeti e costellazioni. Affreschi, mosaici e statue mostrano divinità celesti, costellazioni e anche alcuni strumenti astronomici. Fra questi ultimi sono più frequenti le sfere armillari – modelli della sfera celeste realizzati unendo fra loro anelli (armille) di bronzo – e i globi celesti – modelli della sfera delle fisse che riportano dipinte o incise le principali circonferenze celesti, le costellazioni e le stelle. Questi oggetti sono mostrati in scene di contesto didattico, in relazione con la musa dell’astronomia, Urania, o come puri elementi decorativi. Talora, come nel cosiddetto Atlante Farnese, una scultura realizzata nel II secolo su un originale ellenistico più antico, la raffigurazione del globo celeste, con le varie circonferenze e costellazioni, fonde alla perfezione elementi scientifici e artistici.
La propensione per una astronomia di tipo pratico si traduce anche nella ricerca di una corrispondenza sistematica fra lo spazio celeste, lo spazio terreno e l’organizzazione degli insediamenti umani. Le prime indicazioni in proposito derivano dai frammenti di testi riuniti nel cosiddetto Corpus agrimensorum. Gli agrimensori sono sguinzagliati nelle regioni più estreme dell’impero romano per eseguire misure e tracciare confini. Nelle loro operazioni essi si servono di alcuni strumenti astronomici e di rilevamento: lo gnomone, l’orologio solare, la “groma” e vari dispositivi di livellamento e misura. Alcuni di questi strumenti compaiono fra i reperti di Pompei e, più in particolare, fra gli arredi della casa di un agrimensore di nome Vero.
La groma è costituita da una staffa a forma di croce collocata all’estremità superiore di un palo. La staffa è posta in orizzontale e da ciascuna delle quattro estremità pende un filo a piombo. Una volta piantato il palo verticalmente nel terreno, la staffa può essere orientata secondo i quattro punti cardinali. Fatto ciò, i fili a piombo costituiscono dei riferimenti da far collimare per realizzare i due assi principali di una città o di un accampamento. Come illustra accuratamente Marco Vitruvio Pollione nel De architectura – un testo che rimarrà di riferimento per gli architetti fino all’Ottocento – per essere salubre una città deve essere astronomicamente orientata. La via principale, denominata “cardo”, deve seguire la direzione nord-sud, mentre la via secondaria, a essa perpendicolare e denominata “decumano”, deve seguire la direzione est-ovest. Ogni altra strada deve essere realizzata in modo da risultare parallela o al cardo o al decumano.
Ma come si individuano i quattro punti cardinali rispetto ai quali si orienta la staffa a croce della groma? Per compiere questa determinazione si deve usare uno gnomone nel modo descritto sia da Vitruvio nel De architectura, sia da Igino il Gromatico in un breve trattato di agrimensura intitolato De limitibus (“Sui confini”). Giunti in un determinato luogo si tracciano su una porzione di terreno pianeggiante da una a tre circonferenze concentriche. Si colloca al centro delle circonferenze lo gnomone, verificandone la verticalità con un filo a piombo. Si attende quindi che l’estremità dell’ombra proiettata dallo gnomone tocchi ciascuna circonferenza e si annotano i punti di contatto. Il contatto si verifica una prima volta al mattino, mentre l’ombra dello gnomone si accorcia, e una seconda volta nel pomeriggio, mentre l’ombra dello gnomone si allunga. Poiché il corso diurno del Sole è simmetrico rispetto alla direzione nord-sud, la congiungente i due punti di contatto di ciascuna circonferenza è parallela alla direzione est-ovest. Le congiungenti tracciate dalla base dello gnomone al punto medio fra i punti di contatto di ciascuna circonferenza sono invece coincidenti fra loro e parallele alla direzione nord-sud.
Come rivelano il Corpus agrimensorum, il De architectura e il De limitibus, questa procedura per individuare i punti cardinali è nota almeno a partire dal I secolo a.C. Essa è però conosciuta ancora ai nostri giorni come “metodo del cerchio indiano”. Più che dalle pagine di Vitruvio, essa viene infatti appresa dagli studiosi del tardo Medioevo europeo attraverso i testi degli astronomici islamici del IX secolo i quali, a loro volta, dichiarano di riprenderla dagli astronomi indiani.
Il De architectura non si occupa esclusivamente di come orientare le città. Nel nono libro dell’opera gli interessi di Vitruvio si concentrano su altre nozioni di astronomia pratica utili in architettura. Chi edifica un palazzo deve possedere cognizioni sulla disposizione delle principali circonferenze celesti, conoscere stelle e costellazioni, e perfino possedere nozioni sulla posizione e la forma della Terra, sul moto dei pianeti (sia diretto che retrogrado) e le fasi della Luna. Nel caso di Vitruvio, le varie nozioni denotano una chiara influenza delle opere di Platone, Aristotele, Eraclide Pontico e altri scrittori greci.
Un architetto deve soprattutto sapere come si esegue la particolare costruzione geometrica su cui si fonda tutta la gnomonica, la scienza che presiede alla realizzazione degli orologi solari e, per estensione, alla misura del tempo. Tale costruzione – nota come “proiezione analemmatica” o, più semplicemente, “analemma” – è legata al moto combinato del Sole da est verso ovest in un giorno e da ovest verso est lungo lo zodiaco in un anno. È questo secondo movimento che porta il Sole a essere più basso sull’orizzonte in inverno, quando si trova nel segno del Capricorno, e più alto sull’orizzonte in estate, quando si trova nel segno diametralmente opposto del Cancro. Questo stesso movimento dà luogo alla variazione della lunghezza dell’ombra dello gnomone nel corso delle stagioni e alla sensibile variazione delle durate del giorno e della notte. Di queste variazioni occorre tener conto nel tracciare il quadrante di un orologio solare.
Nota la geometria di base della sfera celeste, l’obliquità dell’eclittica rispetto all’equatore celeste, la dislocazione dei segni zodiacali lungo l’eclittica e la latitudine del luogo in cui ci si trova, l’analemma permette di tracciare con cura il quadrante di qualunque orologio solare. Il quadrante non è infatti altro che la proiezione della sfera celeste su una superficie di varia forma e inclinazione. Per effetto dell’analemma i meridiani (cerchi orari) della sfera celeste si trasformano nelle linee orarie, mentre i paralleli della sfera celeste passanti per i punti di inizio dei segni zodiacali si trasformano nelle linee dei mesi e delle stagioni. La proiezione si applica, con le dovute varianti, a tutti i tipi di orologio solare che Vitruvio descrive per sommi capi, talora citandone l’inventore vero o presunto.
La gnomonica incontra però gravi ostacoli nelle condizioni atmosferiche avverse. Quando le nubi nascondono il Sole gli orologi solari divengono muti. Per questo motivo Vitruvio conclude il nono libro del De architectura con l’esposizione del particolare orologio ad acqua inventato da Ctesibio di Alessandria. Nello strumento l’acqua esce lentamente da un piccolo foro praticato in un serbatoio e riempie un contenitore dotato di galleggiante. Mentre sale progressivamente, il galleggiante sospinge un’asta dentata verticale che agisce su un ingranaggio solidale a un asse girevole orizzontale. L’asse trasmette il movimento a vari dispositivi adibiti a indicare lo scorrere del tempo e, in particolare, a un indice che scorre su un cilindro graduato dotato di scale orarie diverse per ciascun mese dell’anno.
Fra l’altro, Vitruvio identifica nell’asse girevole dell’orologio ad acqua il motore del cosiddetto “orologio anaforico”. Questo strumento cronometrico è dotato di un quadrante formato da due elementi, l’uno fisso e l’altro girevole. L’elemento fisso è una griglia formata da bacchette di bronzo disposte a raggiera. L’elemento mobile è un tamburo che raffigura il firmamento, probabilmente secondo la proiezione stereografica di Ipparco di Nicea. La rappresentazione comprende uno zodiaco lungo il quale sono praticati tanti forellini quanti sono i giorni dell’anno. Una volta inserito nel forellino di un dato giorno un apposito indicatore per la posizione del Sole, il ruotare dell’indicatore dietro la parte fissa del quadrante mostra lo scorrere delle ore del giorno e della notte. In questo modo l’orologio anaforico si presenta come uno fra i primi esempi di dispositivi meccanici concepiti per rappresentare il movimento dei cieli.