ASTRONOMIA
(dal gr. ἀστρονομία) - Le origini dell'astronomia presso i popoli primitivi si confondono con quelle della civiltà e della religione. Non è da pensare tuttavia che la psiche collettiva degli aggregati umani abbia dovunque reagito in uguale misura, e con effetti tra loro paragonabili, alle impressioni suscitate dalla vista del cielo stellato e dalla contemplazione dei movimenti regolari che vi si osservano. In alcuni paesi lo svolgersi solenne dei fenomeni celesti ha suggerito, con la possibilità di prevederli, il concetto di legge naturale immutabile, spianando così la via al passaggio da forme grossolane di culto, quali il feticismo, il totemismo, l'animismo, a credenze più elevate in divinità esterne al mondo terrestre e capaci di agire sopra di esso. Altrove, e, meglio che dovunque, tra gl'Israeliti, si arrivò direttamente sino al monoteismo, senza attingere dall'osservazione dei fatti astronomici gli argomenti favorevoli alla maggiore purezza di sviluppo del pensiero religioso. Si può dire anzi che la molteplicità e l'apparente indipendenza relativa dei movimenti osservati in cielo fu occasione presso i popoli più dediti all'astronomia al diffondersi di mitologie ricche di dei e di semidei: politeisti furono infatti i Babilonesi, gli Indiani, gli Egizî, i Cinesi e gli stessi Greci, sino a quando almeno la formazione di una coscienza filosofica e religiosa più progredita non condusse le menti più illuminate a riconoscere nell'unità del cosmo rispecchiata l'unità della causa prima.
Un carattere comune a tutti i sistemi astronomici primitivi è dato dalla distinzione netta, assoluta, tra il cielo e la terra. La dottrina, quale è stata professata dai Greci, è riassunta nei frammenti di Giovanni Stobeo, erudito del sec. V d. C., dove si assegna al cielo l'immutabilità, alla terra la variabilità: al cielo la libertà, alla terra la dipendenza: al cielo la conoscenza, alla terra l'ignoranza: al cielo l'impeccabilità, alla terra la colpa. Le interferenze inevitabili tra l'uno e l'altro ordine di fenomeni hanno bensì attenuato il concetto di un distacco assoluto, primordiale, ma non l'hanno fatto scomparire mai. Per gli Ebrei (Genesi, I) il distacco deriva da successive differenziazioni nell'atto creativo, mentre i Babilonesi lo riportano addirittura all'origine del mondo, e ne affermano la preesistenza agli stessi dei.
Approfondire siffatte questioni è compito non della storia dell'astronomia, ma piuttosto di quella delle religioni comparate e dei sistemi cosmogonici e teogonici, nei quali è tanta parte del pensiero antico. Esce altresì dal nostro campo l'investigare per quali vie le interferenze accennate abbiano dato occasione al sorgere e allo svolgersi di un corpo di dottrina che ne ha esagerato oltre ogni limite ragionevole l'estensione e la portata, giungendo sino ad affermare, sulla base d'induzioni superficiali e di fantastiche connessioni, la dipendenza di ogni fatto terrestre, e delle stesse vicende umane, dalle configurazioni e dai movimenti degli astri. Qui basterà notare come tale dottrina, comunemente nota sotto il nome di astrologia, si sia sviluppata quasi parallelamente alla vera astronomia, scambiandosi talora con essa, o permutando il proprio nome con il suo: mentre le sue esigenze hanno innegabilmente servito a stimolare i progressi di questa scienza, cattivandole (siccome argutamente osservò Keplero) le simpatie e il favore del pubblico e dei potenti, sempre meglio disposti ad apprezzare promesse fallaci di vaticinî sull'avvenire, che non cognizioni positive sulla costituzione dell'universo. Ciò tuttavia non avviene senza reazione da parte di pensatori e di astronomi, che in ogni epoca si studiano di sceverare la vera dalla falsa scienza. L'avversione ai procedimenti astrologici dei Caldei e dei loro continuatori, e in generale a ogni aspetto dell'arte divinatoria, si palesa già nelle eloquenti invettive dei profeti di Israele, citate dallo Schiaparelli (Isaia, XLVII, 13; Geremia, X, 2): passa poi nella letteratura patristica, nel poema di Dante, in molti scritti degli umanisti del Rinascimento, come espressione alta e genuina della tendenza cristiana, sino ai tempi del newtonianismo trionfante, nei quali trova copia di argomentazioni solide per merito di Geminiano Montanari (L'astrologia convinta di falso, Venezia 1685).
Né, per quello che riguarda i primordî dell'astronomia vera e propria, vale la pena d'indugiarsi su ipotesi del tutto fantastiche, quale quella diffusa, non senza fortuna, nella seconda metà del sec. XVIII, dal Bailly, che a spiegare le evidenti e numerose somiglianze, che si notano nelle rappresentazioni dei principali fenomeni celesti presso varî popoli primitivi, sosteneva che quelle frammentarie nozioni astronomiche erano reliquie d'una scienza ben più ampia, posseduta dal popolo preistorico che sarebbe scomparso col continente favoloso dell'Atlantide.
Noi, anche per dare una traccia alla nostra trattazione, diremo che per la storia dell'astronomia hanno importanza fondamentale quelle nazioni che, come i Caldei, gli Egiziani, i Greci, hanno fornito gli elementi necessarî alla prima grande sintesi, l'alessandrina, e quelle che, come gli Arabi, prepararono la seconda, iniziata nel Quattrocento e portata alla sua maggiore altezza negli ultimi quattro secoli. Tra le civiltà antiche escluse dal quadro, primeggiano per uno sviluppo autoctono della loro astronomia i Cinesi, i Persiani, gl'Indiani: vengono in seguito alcune popolazioni celtiche e scite, e, tra gli aborigeni del Nuovo Continente, gli Aztechi del Messico e gl'Inca del Perù. Speciale menzione meritano gl'Israeliti, non tanto per il valore e la vastità del loro corpo di dottrina astronomica, quanto per il contributo che la loro religione e la loro letteratura hanno dato nel preparare la civiltà cristiana. Del popolo eletto, in relazione alla nostra disciplina, ha compiuto uno studio esauriente Giovanni Schiaparelli nell'opera breve, ma densa di erudizione e di concetto, intitolata L'astronomia nell'antico Testamento (Milano 1903).
La storia dell'astronomia presso i Cinesi è assai più ricca e copiosa ma non ha ancora trovatochi abbia saputo compendiarla in un insieme organico e completo. Le fonti alle quali possiamo attingere per ricostruirne i punti principali sono di due specie diverse: documenti originali e relazioni di viaggiatori europei. Fra queste, primeggiano per antichità e per numero le opere geografiche e storiche dei missionarî, e specialmente dei Gesuiti, che da parecchi secoli ebbero frequenti contatti con dotti, con governanti e con la grande massa della popolazione, favoriti dalla singolare larghezza di spirito propria un tempo della civiltà cinese. Le notizie di fonte cinese provengono in massima parte da voluminosi annali, da storie generali e speciali, da atti di governo: materiale immenso, raccolto con meticolosa cura e con perseverante continuità di metodo attraverso periodi lunghissimi di storia.
Due fatti, in apparenza contraddittorî, emergono dallo studio dell'uno e dell'altro gruppo di documenti. Risulta che i Cinesi possedettero in epoche remotissime nozioni abbastanza estese e sicure di astronomia; risulta che soltanto negli ultimi tre secoli essi ebbero occasione d'imparare dai missionarî la pratica dell'astronomia occidentale. Essi sono dunque nella condizione di chi riapprende una scienza dimenticata, oppure di chi abbia lasciato disseccare lentamente e isterilire i germi della sua antica conoscenza. Un'indagine attenta sull'anima di quel popolo misterioso, sulla sua storia, sulle sue tendenze tenacemente conservatrici, esclude la prima ipotesi e rafforza la seconda: veramente i Cinesi, raggiunto nello studio dei fenomeni celesti (come in tanti altri campi) un certo grado di perfezione, non hanno più cercato di progredire, di approfondire, e si sono lasciati superare da popoli che essi avevano preceduto nel cammino della civiltà e della scienza. Quando i missionarî li hanno messi al corrente di quelle che per loro potevano dirsi le novità degli ultimi duemila anni, non hanno avuto difficoltà a seguire le nuove linee di pensiero, pur senza curarsi di contribuire al movimento intellettuale che essi docilmente accettavano con simpatia non scevra di diffidenza.
Siffatta condizione di cose trae la sua origine da un altro fenomeno caratteristico della vita e della psicologia cinese. Pochi paesi sono stati più dell'Impero di Mezzo staccati dal resto del mondo, estranei agli avvenimenti che si svolgevano oltre il mare e oltre la Grande Muraglia. Pochi paesi al tempo stesso hanno accolto con uguale benevolenza e curiosità le visite occasionali di stranieri, l'infiltrazione naturale d'idee e di cognizioni che ne veniva di conseguenza. Politicamente e socialmente isolati, i Cinesi non hanno mai rifuggito da contatti nell'ordine intellettuale e morale. Non è dubbio che già ai tempi della conquista di Alessandro essi abbiano avuto occasione di conoscere, sia pure indirettamente, la civiltà ellenica: più tardi, nel Medioevo, Marco Polo iniziò la serie degli esploratori che nel vasto paese trovarono ospitalità cordiale. Non mancavano, d'altra parte, migrazioni in senso opposto, alle quali gli storici cinesi attribuiscono importanza grande in relazione al diffondersi nel resto dell'Asia e nella stessa Europa di quei rudimenti scientifici dei quali vantano la priorità indiscussa. In modo speciale, è affermato in un'opera cinese del primo secolo a. C. che, circa seicento anni prima, la scuola astronomica cinese, ricca già di tradizioni ultramillenarie, si disperse per fuggire la tirannide della dinastia Chou. Da tale esodo avrebbe avuto origine la penetrazione della cultura cinese tra i "barbari", d'occidente. È curioso notare la coincidenza, molto probabilmente fortuita, di questa data con quella del maggiore sviluppo dell'astronomia babilonese, e con il sorgere delle prime speculazioni cosmologiche della scuola ionica.
I caratteri specifici dell'astronomia cinese sono il frutto di una lunga elaborazione che ha conservato per millennî le norme e i metodi con uniformità di criterî, in connessione stretta con le funzioni fondamentali dello Stato (v. cina). Quando pure si riconosca (con il Günther e con il Bertrand) insostenibile la tesi di G. Schlegel, che nell'Uranographie Chinoise (L'Aia 1875) faceva risalire la scoperta delle costellazioni della sfera cinese a non meno di 169 seeoli prima dell'era volgare, non è possibile negar fede alle concordi affermazioni degli annalisti indigeni e dei viaggiatori e missionarî europei, dalle quali risulta che già sotto il regno di Yao, nel sec. XXIV a. C., l'osservazione sistematica del cielo era ufficialmente affidata a uomini specialmente preparati e scelti con cura meticolosa anche in considerazione dell'acutezza di vista necessaria per tale funzione. In tempi a noi più vicini, la Cina è stata forse l'unico paese del mondo che abbia istituito e mantenuto con attribuzioni giuridiche ben definite un vero e proprio Tribunale astronomico, al quale il sovrano deferiva direttamente la soluzione d'importanti questioni connesse con la scienza e con le sue applicazioni al bene generale. Così quando, sul cadere del sec. XVII dell'era nostra, un missionario europeo, il padre gesuita Verbiest, scoperse un errore nel calendario, sottoposta la questione dall'imperatore K'ang-hsi al tribunale, l'errore fu riconosciuto e corretto. E fu tanta la gratitudine verso il dotto censore, che, da quel giorno sino al 1828. un missionario gesuita fu sempre chiamato a far parte del tribunale come vicepresidente. Si attribuisce pure al padre Verbiest e ai suoi confratelli la costruzione di alcuni strumenti astronomici in stile cinese, collocati sul terrazzo superiore dell'osservatorio di Pechino verso il 1670, in luogo di due altri ideati secondo la tradizione scientifica del paese sin dal 1279. Con discutibile criterio di opportunità, i preziosi cimelî, attestanti a un tempo l'industre abilità dei missionarî e la larghezza di spirito del popolo che li ospitava, furono rimossi nel 1900 dai Tedeschi, dopo la repressione della rivolta dei boxers, e trasportati al castello di Potsdam.
Mancano gli elementi per risolvere la questione dell'antichità della sfera cinese: ma non è dubbio che il quadro delle costellazioni bene limitate e denominate sia stato compiuto in ogni sua parte verso l'anno 120 a. C., regnando la dinastia Han. I nomi degli asterismi e delle singole stelle sono affatto diversi da quelli a noi trasmessi dal vicino Oriente e dalla Grecia. Gli aggruppamenti sono in generale più piccoli: dove Tolomeo colloca quarantotto costellazioni, i Cinesi ne annoverano più di trecento. Per loro le due maggiori stelle della Lira formano la ricamatrice; la nostra Orsa Maggiore s'identifica con una casseruola o un moggio e anche le singole stelle della caratteristica configurazione prendono nomi speciali: α è il perno del cielo, β e γ sono le pietre preziose, η la luce agitata, α e β dell'Orsa Minore le sovrane del cielo.
Sembra che la conoscenza delle costellazioni australi sia stata in Cina assai meno progredita: benché i Cinesi si siano spinti nei loro viaggi in regioni, dalle quali si potevano scorgere asterismi non visibili sotto la latitudine di Pechino, non si hanno tracce di una loro descrizione del cielo meridionale. Boreali sono i gruppi ai quali accenna Confucio nei suoi libri (sec. V a. C.):. e anche nello studio dello zodiaco si direbbe che gli astronomi del Celeste Impero si sono arrestati, evitando di scendere oltre l'equatore celeste. Ciò forse proviene dal metodo al quale si attennero costantemente nell'esplorare le leggi del movimento annuo del sole. La loro attenzione si è assai presto concentrata sulle variazioni di posizione del grande luminare, ma queste furono desunte piuttosto dall'osservazione delle ombre durante il giorno, che non dall'indagine sui gruppi di stelle, che nel corso dell'anno andavano successivamente svincolandosi dai raggi del sole nel crepuscolo mattutino. Il procedimento al quale, come vedremo in seguito, i Caldei e gli Egizî debbono i maggiori progressi della loro astronomia solare, cioè l'osservazione del levare eliaco di alcune stelle più brillanti, non è stato seguito dai Cinesi, i quali si attennero di preferenza alle misure meridiane delle ombre. Contro l'affermazione del Delambre, che attribuisce ai Caldei l'invenzione del gnomone, sembra accertato che in età di gran lunga più remota qualche cosa di simile a tale strumento fosse in uso per le osservazioni dei solstizî. Forse si esagera quando si risale al sec. XXIV a. C.: ma non par dubbio che l'osservazione solstiziale di Chou Kung nel sec. XII a. C. sia autentica. Sicura, ad ogni modo, è l'antichità delle osservazioni di eclissi, alle quali gli astronomi non avrebbero potuto prepararsi senza la conoscenza empirica di alcuni cicli atti alla previsione. Tra questi è certamente il periodo di 60 anni, che taluni fanno risalire sino al regno leggendario di Huang Ti, nel sec. XVII a. C., mentre l'uso corrente nella pratica astronomica ufficiale si riporta a duemila anni più tardi.
L'astronomia europea ha avuto parecchie occasioni di trarre partito dalle osservazioni cinesi: la citata solstiziale del sec. XII ha servito con altre successive, comprese tra il 49 a. C. e il 1279 d. C., per la celebre determinazione della diminuzione progressiva dell'obliquità dell'eclittica, eseguita dal Laplace. Altri astronomi hanno utilizzato le eclissi, specialmente solari: tra essi l'Oppolzer, che fa datare la più antica regolarmente classificata dal 2136, identificandola con quella che ha dato origine alla leggenda di Hi e Ho, condannati a morte per non aver saputo prevedere il fenomeno. Secondo il padre Gaubil (v.), autore di una importante Histoire de l'astronomie chinoise, non meno di 656 eclissi solari e di 32 lunari sono state osservate: il numero sale a ben 3858, solari tutte, meno una, se si accettano altre fonti.
La preferenza data alle osservazioni meridiane non si limita a quelle eseguite di giorno mediante gnomoni, ma si estende anche a osservazioni notturne. Già ventidue secoli avanti l'era nostra si registravano nel calendario le principali apparenze stellari nell'Orsa e di α e β Lyrae. Meno sicura sino a tempi a noi relativamente vicini fu la conoscenza dei movimenti planetarî: si hanno osservazioni sporadiche di pianeti sin dal sec. VI, ma cento anni più tardi non si mostra ancora di saper calcolare le stazioni e le retrogradazioni. Ciò è forse dipendente dalla mancanza di uno zodiaco proprio. La nozione relativa è stata attinta dai Greci e dai Caldei: ellenico è l'uso delle dodecatemorie, introdotto dal bonzo Fo nel sec. VIII a. C., e la ricostruzione di uno zodiaco lunare, avvenuta uno o due secoli d. C., appare ispirata dagl'Indiani, dai quali anche proviene la nozione delle ventotto stelle che segnano il cammino della luna tra le costellazioni.
I Cinesi si vantano di aver preceduto tutti gli altri popoli nell'uso di strumenti per le osservazioni astronomiche e nautiche. Una vignetta satirica di pretto sapore volterriano li rappresenta intenti ad osservare con cannocchiali la creazione mosaica. Certo è che i loro annalisti del '700 fanno datare dal sec. XXII a. C. non soltanto le ricerche alle quali abbiamo accennato, ma anche l'uso di clessidre a due recipienti sovrapposti, di tubi di puntata, di specchi concavi e convessi. Di più recente origine è la conoscenza della polarità magnetica, con la conseguente applicazione alla costruzione della bussola e all'uso di tale strumento per l'orientazione delle navi. Tale pratica utilissima da storici cinesi del '700 è fatta rimontare al 1122: una tradizione, forse più attendibile, esclude che il prezioso ausilio alla navigazione sia stato insegnato da altri popoli, in quanto la grande abbondanza di depositi magnetici nel sottosuolo avrebbe facilitato già parecchi secoli prima di Cristo la sostituzione di aghi di ferro ad aghi di pietra nei lavori donneschi, diffondendo così la nozione delle proprietà dell'ago calamitato, che, d'altra parte, venivano considerate come prove del potere magico di certi oggetti (geomanzia). Si afferma inoltre che otto secoli dopo Cristo un Cinese avrebbe appreso dagl'Indiani la deviazione dell'ago magnetico dal meridiano astronomico, e che cento anni più tardi si sarebbe riconosciuta la variazione della declinazione stessa. Con ciò si renderebbe verosimile la connessione della bussola con l'orologio solare e con i metodi di determinazione della linea meridiana, fondati sull'osservazione delle digressioni massime delle stelle circumpolari e su quella delle ombre al levare e al tramonto del sole.
Riassumendo, si può dire che i caratteri innegabilmente originali dell'astronomia cinese sono stati fissati in alcune epoche storiche ben determinate: quella, remotissima, del primo regno che esca dalla leggenda (Yao, verso il 2400 a. C.), nella quale si osservarono le prime eclissi bene accertate, si applicarono i primi strumenti e si determinò la lunghezza dell'anno solare in 365 giorni e un quarto: la seconda, distribuita tra l'undecimo e il sesto secolo a. C., durante la quale i perfezionamenti dei metodi di osservazione furono accompagnati dal diffondersi di conoscenze matematiche e geografiche (triangolo o perfetto, rettangolo, a lati misurati da 3, 4 e 5: risoluzione dei triangoli rettangoli, rotondità della terra, dipendenza dei climi dalla latitudine): la terza, tra i tempi di Confucio e quelli di Cristo, caratterizzata dalla ricostruzione della scienza dopo l'immane incendio che distrusse le collezioni di libri quasi nella loro totalità, e dallo stabilirsi di relazioni occasionali con i popoli limitrofie con gli stessi Greci (esodo degli astronomi dalla Cina, spedizione di Alessandro). Segue un lungo intervallo, privo d'innovazioni importanti: i materiali di osservazione si accumulano automaticamente con lo scorrer dei secoli, senza luce di originalità, secondo le linee tradizionali imparate dagli avi, finché il giungere dei missionarî cristiani non porta una nuova corrente d'idee e d'iniziative. Con la consueta tolleranza e lo speciale spirito di adattamento della razza, gli astronomi cinesi del sec. XVII fanno buon viso alle novità apprese, apprezzano le traduzioni dei testi europei fatte dai gesuiti, sostituiscono gli strumenti, ma poi ricadono nell'antico sistema, e la scienza rimane stazionaria, senza contatti ulteriori con il movimento del pensiero occidentale.
Ciò spiega come, non ostante la meravigliosa tenacità del popolo e la ricchissima messe di documenti raccolti in più di quaranta secoli con assidua e continua esplorazione del cielo, il contributo dei Cinesi all'astronomia sia rimasto affatto inadeguato e non tale certamente da costituire un corpo organico di dottrina. Ben a ragione dunque ha potuto dire lo Schiaparelli che gl'Indiani sono stati "il solo popolo dell'antichità, che, dopo i Greci, abbia avuto un sistema completo di astronomia".
È da lamentare che l'insigne astronomo e storico della scienza non abbia avuto il tempo d'illustrare l'opinione così esplicitamente manifestata, con uno studio dell'astronomia indiana paragonabile a quelli estesi e profondi che egli dedicò alla scienza degli Ebrei, dei Caldei e dei Greci. Manca una storia ordinata e critica, dalla quale sia possibile desumere con sicurezza il grado e il limite dei contributi originali recati dal popolo indiano alla conoscenza e all'interpretazione dei fenomeni celesti: e manca specialmente il mezzo di accertare sino a quale punto l'innegabile copia delle nozioni sia dovuta a infiltrazioni straniere. La questione è legata, anche qui, a quella dell'epoca alla quale si vogliano far risalire le prime cognizioni astronomiche, e a quella non meno interessante dell'affinità che queste presentino con quelle proprie di nazioni vicine, e delle relazioni politiche e culturali con esse. Esclusa, per insufficienza di prove concrete, l'ipotesi avanzata dal Bailly di una derivazione da una civiltà anteriore, non si può negare che le analogie della remota tradizione astronomica indiana con quelle dei Persiani, dei Caldei e dei Cinesi, ammettano di essere spiegate con la congettura di una provenienza comune dal centro dell'Asia, considerato sin dai tempi più remoti come culla dell'uman genere e come centro dal quale si sono diffuse le prime rudimentali forme di incivilimento. È vero che le recenti scoperte geografiche hanno sfatato la leggenda di un centro di alta spiritualità negli altipiani dell'Asia centrale: ma non si può escludere che tale leggenda, arrivata sino ai giorni nostri, abbia conservato il ricordo di una antichissima realtà, oggi contraddetta dallo stato di torpore e di abbrutimento nel quale gli esploratori hanno trovato le sacre regioni del Gran Lama. Comunque si pensi sulla controversa questione, non si può lasciare inosservata una curiosa coincidenza: cioè, che la nascente astronomia presso i popoli dell'Asia australe ignora sistematicamente le costellazioni prossime al popolatissimo luogo del cielo che lo Schiaparelli denomina, traducendo dall'ebraico, i penetrali dell'Austro. Forse l'unico cenno che di tale fulgida regione a mezzogiorno dell'equatore ci sia pervenuto è quello appunto al quale l'astronomo di Brera si riferisce: regione che nei due millennî avanti l'era volgare doveva essere notevolmente più alta che non sia ora per paesi compresi fra i tropici, e quindi accessibile alle osservazioni in località subtropicali come il mezzogiorno della Cina e dell'India.
Mentre per la Cina, sino a un certo punto, è ragionevole ammettere che la mancanza di un'astronomia australe sia stata determinata dall'essere stata coltivata questa scienza di preferenza nelle parti più settentrionali del vastissimo paese, la mancanza analoga presso gl'Indiani suggerisce l'idea di una migrazione di questo popolo da settentrione: idea sulla quale il consenso degli studiosi è ormai generale, in base a ragioni che qui non è il luogo di esporre. Certamente nelle terre più meridionali della penisola non avrebbe potuto nascere e rafforzarsi la credenza antichissima, secondo la quale il sud-ovest è la regione dei Mani, della dea Nirrti e di Yama dio della morte: regione ove il sole "muore", scendendo sotterra al solstizio d'inverno.
Fantasie magiche e religiose di questo tipo si trovano, nell'Atharva Veda, frammischiate a indicazioni, dalle quali risulta che sin da allora si conoscevano e s'identificavano con nomi le stelle e le costellazioni principali incontrate dalla luna nel suo cammino mensile. È noto d'altra parte che la compilazione dell'Atharva, ancorché posteriore a quella degli altri tre libri vedici, non risale a meno di dieci secoli avanti l'era nostra: le nozioni astronomiche in esso contenute provengono dal Panjab, se non da paesi a settentrione del Himālaya, poiché in quel periodo di tempo gli Arî non avevano ancora popolato la valle del Gange e il Dekkan, dove le razze dravidiche regnavano ancora indisturbate.
Ma se la data di redazione dei Veda è nota entro limiti abbastanza stretti, così da farci conoscere i primi rudimenti dell'astronomia presso gl'Indiani, le difficoltà si complicano quando si cerca di precisare l'epoca nella quale si sono stabiliti i fondamenti di un'astronomia più perfezionata, quali risultano da libri posteriori. Tra questi, hanno importanza eccezionale i Siddhānta, considerati come opere scritte per rivelazione divina: il che non impedì ad un astronomo del sec. VII d. C. di rifare il libro più venerato, pubblicando sotto il nome di Brahma Sphuṭa Siddhānta un testo riveduto, corretto e aggiornato in base ai progressi della scienza. L'autore del trattato, Brahmagupta, si rivela in esso, forse perché ligio al testo primitivo, meno sicuro nelle conclusioni scientifiche di quel che non sia stato, un secolo circa prima di lui, il massimo tra gli astronomi indiani, Āryabhata, autore di una determinazione del movimento precessionale più precisa di quella dovuta ad Ipparco. Sulla fede di Brahmagupta si attribuisce pure ad Āryabhata la scoperta del movimento di rotazione della terra, riferito a una sfera stellata immobile, e la dimostrazione del processo geometrico al quale sono dovute le eclissi.
Mentre per i due astronomi ora citati non si può ragionevolmente escludere un'influenza del pensiero greco, anzi una conoscenza abbastanza precisa della scienza alessandrina, della quale si hanno tracce evidenti nei loro scritti, l'incertezza sulla data di compilazione dei primi Siddhānta, e il fatto stesso del rifacimento di uno di essi, provano ben poco a favore di tale derivazione, resa ancor più incerta dalla differenza dei procedimenti seguiti dai due popoli in epoche anteriori ai loro contatti storicamente accertati. Come ha mostrato con sagace e dotta indagine il prof. Cantor nei suoi rinomati Studî greco-indiani, tradotti in italiano dallo Schiaparelli, la possibilità di un influsso reciproco delle antiche culture greca e indiana si deve oggi ritenere come dimostrata. Tracce di derivazioni verbali si hanno sino dal sec. XVII a. C. in lingue di popoli aventi relazioni con l'India e con la Grecia, come gli Egizî e i Fenici: ma i rapporti diretti tra i due popoli hanno sicura origine nel quarto secolo avanti l'era volgare, quando le spedizioni di Alessandro dischiusero al mondo ellenico le porte della penisola, connessa con i dominî asiatici dell'effimero impero macedone. Le correnti avviate allora ebbero per necessaria conseguenza una mutua compenetrazione del pensiero indiano e del greco, con reazioni che giunsero per riflesso sino alle scuole di Alessandria e a Roma, centro dell'Impero nei primi secoli dell'era nostra. Ciò non vuol dire che l'India tutto abbia ricevuto, e nulla abbia dato: ché anzi il Cantor dimostra con copia di argomenti l'originalità degl'Indiani nel campo dell'aritmetica e dell'algebra, che essi coltivarono essenzialmente in vista delle applicazioni all'astronomia e all'astrologia, mentre la loro attitudine alle speculazioni geometriche sembra da escludersi. La loro geometria era intuitiva: se in Āryabhata, in Brahmagupta e, più tardi, in altri astronomi e matematici compaiono argomentazioni condotte secondo il classico procedimento logico insegnato dai Greci, un regresso simile a quello che si nota nei quattro o cinque secoli successivi, quando da Brahmagupta si scende a Bhāscarācārya (nato nel 1114), appare al Cantor comprensibile, soltanto quando si tratti principalmente di nozioni straniere trapiantate in modo non naturale sul suolo indiano. Anche gli scrittori che, come lo Hankel, più decisamente si sono pronunziati in favore d'uno sviluppo originale nella geometria indiana, sono costretti a concedere che presso gl'Indiani non si trova alcuna traccia di dimostrazioni rigorose e costruttive. Dovunque è possibile, essi si fondano sul calcolo, perdendo affatto d'occhio la base geometrica della questione, la quale non ricomparisce che quando si tratta di concludere: e quando di verità geometriche non si può dare altra dimostrazione che quella geometrica, essi si contentano di fare appello all'occhio del discente.
La conclusione dello studio del Cantor merita di essere qui riportata, perché ci dà lo stato più attendibile delle nostre cognizioni storiche circa l'astronomia indiana: "La matematica indiana e la greca (specialmente alessandrina) non si sono sviluppate in modo interamente indipendente. Quanto ora ne sappiamo ci dà ragione di pensare che gl'Indiani siano stati maestri dei Greci nelle cose di aritmetica e di algebra: che in ogni caso essi siano stati discepoli dei Greci nelle cose d'astronomia, d'astrologia e di geometria".
Al giudizio di tanto competente maestro, fatto suo anche dallo Schiaparelli, noi dobbiamo aderire senza riserve, pur che si accetti il criterio implicito, secondo il quale senza geometria non esiste vera astronomia. Realmente, come lo stesso Schiaparelli mostra con eloquenti parole nel raffronto tra l'astronomia babilonese e l'ellenica, la scienza nostra nacque, nella sua prima fase geocentrica, dal connubio di tre elementi: osservazione, teoria speculativa, calcolo, quale si è raggiunto nella scuola di Alessandria. Ma l'unione di essi è frutto di un contatto di tendenze astratte, caratteristiche del genio ellenico, con la pratica degl'indefessi osservatori e calcolatori asiatici: ed è ingiusto rifiutare a questi antichi precursori il tributo di ammirazione loro dovuto, sol perché loro mancò lo stimolo della speculazione pura, sostituito dal desiderio di trovare nello studio dei fenomeni celesti il fondamento dell'astrologia. La ricerca delle connessioni vere o supposte tra i movimenti degli astri e gli eventi terreni e umani, non è stata così bassamente utilitaria come da taluni oggi si crede: gli astrologi di Babilonia e di Ninive, come quelli dell'India, procedevano con una certa buona fede, e s'ispiravano a dottrine resevenerabili dal tempo e sacre dal carattere di chi le professava (Schiaparelli): essi avevano un sistema di regole fisse per l'interpretazione di ogni dato evento; e tali regole erano consegnate in ampî repertorî, trasmessi nelle diverse scuole dall'una all'altra generazione, e naturalmente anche ampliati e corretti di mano in mano, secondo che l'esperienza dimostrava necessario. Ciò afferma lo Schiaparelli per i Caldei: a maggior ragione ciò vale anche per gl'Indiani, i quali, nelle epoche anteriori alle loro relazioni con i Greci, arrivarono pure a quello che è il più utile risultato delle lunghe continue vigilie astrologiche: la scoperta e l'applicazione dei principali cicli astronomici. Se Āryabhata e i suoi continuatori non ebbero difficoltà ad accettare periodi annui e precessionali più esatti di quelli assegnati da Tolomeo, e quasi coincidenti con quelli degli Arabi, ben si può vedere in tanta precisione di risultati non soltanto la derivazione da fonti occidentali, come vorrebbe il Colebroocke, ma anche il frutto di un'assidua e prolungata attenzione ai fenomeni e ai loro ritorni. Non bisogna dimenticare che anche nel campo religioso, anzi più specialmente in esso, domina la concezione ciclica, che gli antichissimi bramini pongono a fondamento della loro cosmogonia, in luogo della concezione progressiva propria di altre scuole asiatiche. Il nesso tra i periodi astronomici e i cicli ideati per ragioni liturgiche, e largamente applicati in ogni sistema filosofico e mistico indiano, scaturisce dallo spirito aritmetico caratteristico del popolo, e prova la sua naturale tendenza a studiare le cose divine e umane sotto la specie del numero, come fecero più tardi i seguaci della scuola italica. Né sembra da escludere che le leggendarie relazioni di Pitagora con i gimnosofisti abbiano un fondo di verità, in quanto accennano a influenze indiane sul pensiero greco.
Inseparabile dall'uso dei cicli è presso gl'Indiani l'uso delle alternanze tra opposti, suggerito evidentemente ed espressamente denominato dalla più comune di queste: l'alternanza del giorno e della notte. Giorni e notti di lunghezza differente sono formati con multipli dei giorni comuni: un mese di 30 giorni dà, diviso per metà dal novilunio, il giorno e la notte dei Pitris, reggitori delle mansioni lunari: un anno di 360 giorni (Istituti di Manu) dà il giorno e la notte degli dei, che incominciano rispettivamente all'equinozio di primavera e a quello di autunno. Analogamente si forma l'anno degli dei con 360 giorni degli dei: e di qui si sale successivamente ai quattro periodi detti yuga, di lunghezza decrescente, preceduti e seguiti da crepuscoli, e sommanti tutti insieme 12.000 anni degli dei. Questo lungo periodo forma l'età degli dei, e si ripete mille volte in un kalpa, o giorno di Brahma, periodo che comprende tutta l'evoluzione del mondo, creato ex novo all'inizio di ogni kalpa, e portato alla dissoluzione quando con l'addormentarsi di Brahma in una notte di ugual durata il kalpa finisce. Fenomeni cosmici e astronomici stanno a separare tra di loro le varie suddivisioni di ogni kalpa, alle quali presiedono speciali divinità: così i diluvî al termine di ognuno dei quattordici manavantra nei quali il kalpa si suddivide. Per ogni diluvio le differenti specie sono raccolte in un'arca da un Manu, che diviene il reggitore del periodo successivo. Anche le suddivisioni minori, come i yuga, sono sotto l'influsso di divinità proprie, e s'iniziano con fenomeni eccezionali: la presente, kaliyuga, si ritiene incominciata con una congiunzione generale dei pianeti, avvenuta il 18 febbraio dell'anno 3102 a. C. Tutto il macchinoso sistema dei cicli si trova descritto nel Mahābhārata e nei Purāna, antichi libri sacri: è dunque originale. Ma il Ginzel ritiene che l'aver fissato la data precisa dell'epoca kaliyuga sia opera posteriore, coincidendo con la compilazione del fondamentale scritto astronomico, il Sūrya Siddhānta, nel quale già si risente l'influenza greca. Lo stesso dottissimo autore osserva tuttavia che, se le iscrizioni indiane, per lo più di epoche relativamente recenti, servono per verificare le regole contenute nei Siddhānta per il computo delle date, l'antichità di questi testi, quando fosse dimostrata, verrebbe a far conoscere l'epoca nella quale le cognizioni astronomiche degl'Indiani erano arrivate a un grande sviluppo.
Tutta la questione si riduce dunque a stabilire se la compilazione dei Siddhānta è anteriore o posteriore al diffondersi della cultura greca nell'India. Di alcuni, i più recenti, basta il nome a dimostrare il potente influsso occidentale: il Romaka Siddhānta accenna indiscutibilmente a Roma, il Paulisa a Paolo alessandrino, autore, nel 378 d. C., di una introduzione all'astrologia. D'altra parte, i valori assai esatti (entro tre minuti) e tra loro concordanti della durata dell'anno siderale, dati nei Siddhānta, s'accordano pure perfettamente con quello determinato da Āryabhaṭa, mentre l'anno del Romaka è senza dubbio quello tropico.
La forte discordanza tra l'anno vedico e quello dei Siddhānta ha reso necessario un accomodamento tra le lunazioni e i mesi. Il calendario lunisolare che ne risulta è stato in vigore presso i Bengalesi e in altre regioni della penisola, facendosi corrispondere ogni lunazione al nome del mese solare nel quale si produceva la corrispondente neomenia. L'anno incominciava all'equinozio di primavera: il primo mese aveva il nome di Vaiśākha.
Non ostante questa accurata suddivisione dell'anno, il Weber nega che gl'Indiani abbiano posseduto uno zodiaco originale: e tale opinione trova argomenti che la suffragano nel fatto bene accertato che gl'Indiani, a differenza di altri popoli orientali, fondarono le loro conoscenze del movimento solare piuttosto sulle osservazioni diurne (ombre e culminazioni) che non sui riferimenti alle stelle tra le quali l'astro maggiore successivamente passava. Altri pensa, al contrario, che il derivare dalla Grecia lo zodiaco indiano sia in contraddizione con antichissime tradizioni che la letteratura sacra ci ha conservate. Sebbene si occupi particolarmente dei Babilonesi, lo Schiaparelli ha certo in mente anche gl'Indiani quando scrive: "ormai si può considerare come provato, che molte delle nozioni fondamentali, come quella dello zodiaco e delle sue costellazioni, le prime notizie sul numero e sul corso apparente dei pianeti, e sui periodi delle loro rivoluzioni, vennero in Grecia dall'Oriente".
È certo ad ogni modo che la connessione già accennata della lunazione con il mese solare non poteva venire stabilita, nella forma originale ed elegante adottata dagl'Indiani in epoca remotissima, senza osservazioni dirette dei luoghi occupati dalla Luna tra le stelle. I ventotto gruppi o nakshatra percorsi dal satellite lungo lo zodiaco implicano una nozione anche più minuta di quella delle costellazioni zodiacali. Il luogo che la Luna piena occupava fra i nakshatra definiva senz'altro la stagione dell'anno: e la durata dell'anno non era altro che il tempo del ritorno della Luna piena al medesimo nakshatra. Così lo Schiaparelli, il quale aggiunge che l'invenzione dei nakshatra è intimamente connessa con la natura del calendario indiano, e non può facilmente essere attribuita, come taluni vorrebbero, ai Babilonesi, nei cui monumenti astronomici finora non se n'è trovato indizio sicuro.
La divisione dello zodiaco in ventotto mansioni lunari non è esclusiva dell'astronomia indiana, ma appartiene anche a quella cinese, dove tali gruppi di stelle portano il nome di siu. Molto si è discusso se i siu derivino dai nakshatra, o questi da quelli, non volendosi per alcuna ragione pensare a un'origine comune da un popolo di civiltà anteriore: si è finito col credere che gli uni e gli altri siano venuti da Babilonia, la quale sarebbe stata maestra di astronomia a tutta l'Asia. Ciò è da escludere, non solo per le ragioni archeologiche citate, ma anche perché, sempre secondo lo Schiaparelli, il sistema cronologico dei Babilonesi si fondava sulle osservazioni dei novilunî apparenti, e la relazione dei mesi lunari con il moto del sole si determinava non col notare in cielo il luogo dei plenilunî, bensì con l'osservazione del levare eliaco di alcune stelle o gruppi di stelle a ciò particolarmente adatti. Le mansioni lunari sono affatto estranee ai metodi babilonesi.
La grande conoscenza di tali metodi, acquistata dallo Schiaparelli e dimostrata dalla serie importantissima di lavori da lui pubblicati sull'astronomia dei Babilonesi, ci permette di accettare senz'altro la sua conclusione, e di assumerlo come guida sicura nella rapida analisi che faremc ora di quanto quel popolo lasciò nel campo degli studî sui fenomeni del cielo. L'abbondanza e la facile accessibilità degli scritti dedicati da lui all'argomento, ci dispensano dal diffonderci su di esso. Ci limiteremo a mettere in evidenza i caratteri originali delle scuole astronomiche fiorite nella regione, e i più importanti risultati che esse ci hanno tramandati. Se gl'Indiani si distinsero per l'attitudine ai calcoli aritmetici complicati e laboriosi, se i Greci trattarono l'astronomia adeguatamente allo sviluppo della loro filosofia e geometria, nessuno vorrà negare ai Babilonesi di essere stati i maestri di quell'arte paziente e ingegnosa che si applica all'osservazione e alla misura dei fenomeni. Osservatori furono anche gl'Indiani e i Cinesi: senza osservazione non si concepisce astronomia; ma l'ordinare sistematicamente le osservazioni, il far convergere risultati, raggiunti mediante la prosecuzione ostinata e quasi automatica di operazioni identiche per anni e per secoli, alla determinazione di alcune leggi esprimenti la regolarità e l'immutabilità dei processi cosmici, così da condurre alla previsione dei fatti celesti, è opera nella quale nessun popolo dell'antichità superò i Babilonesi. Neppure i Greci, con Aristillo, con Timocari, con Ipparco, mostrarono uguale continuità di sforzo: né forse il loro energico individualismo avrebbe consentito una successione di applicazioni impersonali regolate dalla tradizione. È dunque legittimo dire che i Babilonesi furono i creatori dell'astronomia empirica, che essi portarono a un alto grado di sviluppo, fornendo al genio speculatità e geometrico dei Greci il materiale necessario per l'elaborazione delle dottrine che si trovano raccolte nell'opera imperitura di Claudio Tolomeo.
Le parole di entusiasmo con le quali lo Schiaparelli chiude il suo scritto dedicato ai "progressi dell'astronomia presso i Babilonesi" sembrano dunque meglio rispondenti a un giusto apprezzamento di critica storica, che non le aspre svalutazioni del Delambre e del Bailly. Quest'ultimo nega ai precursori immediati dell'astronomia greca ogni lume di genialità, spinto dalla sua idea preconcetta di una civiltà scomparsa, della quale le manifestazioni loro sarebbero gli ultimi residui: l'altro segue una linea di pensiero propria della cultura francese, che l'attinse dalla filosofia cartesiana e la espresse nella sua forma più intransigente con la filosofia positiva di Augusto Comte, secondo la quale il pregio e, quasi potremmo dire, la nobiltà d'ogni scienza è in ragione diretta della parte che le matematiche hanno nei suoi processi di ragionamento e nelle sue formule definitive.
Fino a settant'anni fa gli elementi per lo studio della storia dell'astronomia babilonese si riducevano a poche osservazioni di eclissi, conservate nell'opera di Tolomeo. Si sapeva dalle citazioni, che i testi classici fanno frequentemente, che dotti caldei, come Seleuco e Beroso, avevano fatto conoscere in Occidente la scienza del loro paese: si aveva notizia del dilagare delle superstizioni astrologiche e della magia, che, secondo la severa espressione di Plinio, infettavano il mondo con il percorrerlo. Ma non si osava sperare che documenti copiosi della civiltà mesopotamica potessero essere scoperti e decifrati: cosa che, a giudizio dell'astronomo di Brera, costituisce "uno dei più grandi trionfi dell'ingegno umano nel sec. XIX".
Per ciò che all'astronomia più specialmente si riferisce, dopo le iniziali ricerche di Rawlinson, di Hincks, di Oppert, di Sayce, di Jensen, che rischiararono i punti fondamentali dell'antica scienza assiro-babilonese, vennero i lavori poderosi dei padri Strassmeier, Epping e Kugler, della Compagnia di Gesù, i quali dallo studio delle tavolette conservate nel British Museum dedussero i principî e i metodi di quegli astronomi, stabilirono il significato di molti nomi proprî di pianeti e di stelle, e di molti termini tecnici, fissarono l'era dei Seleucidi e gli elementi del calendario, dimostrarono che quegli astronomi sapevano predire con un certo grado di approssimazione le stazioni e le retrogradazioni dei pianeti, il loro levare e tramontare eliaco, il loro avvicinarsi alle stelle principali dello zodiaco, calcolare i novilunî e le eclissi, costruire tavole dei movimenti celesti.
Anche per questo popolo si distingue nettamente il periodo delle origini da quello del fiorire dell'astronomia. Il primo precede, con il suo inizio, di parecchi secoli il regno di Hammurabi, al quale il Maspero assegna per data il secolo XXIII a. C. Il secondo dalla catastrofe di Ninive (607 a. C.) arriva sino alla decadenza di Babilonia, e risponde a un'astronomia non più rudimentale, ma sistematica, fatta di osservazioni e di teorie intese a rappresentare con tavole numeriche le leggi del corso apparente degli astri: vera scienza, ancorché intesa a predire l'avvenire, ma dall'arte di tali previsioni ormai del tutto separata e indipendente.
L'astronomia babilonese nasce nel paese di Sumer, dove ancor oggi se ne trovano tracce in rovine di edifizî che rimontano a più di tremila anni avanti l'era volgare. Caratteristico di tali edifizî è l'orientamento in relazione alle direzioni fondamentali della rosa dei venti. Insieme con i rudimenti dell'orientamento secondo i punti cardinali, si sviluppa la conoscenza dei periodi lunari e solari che servono di base al calendario: dalle relazioni di tali periodi nascono i processi d'intercalazione, dapprima arbitrarî e occasionali, poi sostituiti dalla pratica delle osservazioni dell'epoca nella quale una data stella diventa visibile al mattino sull'orizzonte orientale (levare eliaco).
All'epoca della distruzione di Ninive, e probabilmente già molto prima, si trova stabilita presso i Babilonesi e presso gli Assiri la divisione del giorno in dodici kaspu, uguali ciascuno a due delle nostre ore. Kaspu furono pure per loro gli spazî percorsi dal Sole e dalla Luna in due ore: e poiché il kaspu lunare misura appunto un grado (se la lunazione si suppone di 30 giorni), da esso ebbe origine il metodo, detto babilonese, di suddividere la circonferenza in 360 gradi, metodo adottato poi dai Greci e da tutti i matematici e astronomi successivi, sino a noi.
I cicli babilonesi, celebrati a ragione dagli storici della scienza, non sono così antichi come gl'indiani, ma rimontano soltanto all'origine dell'era di Nabonassar (747 a. C.). Forse il ritardo è dovuto all'origine empirica di tali periodi, determinati a posteriori con le osservazioni accumulate, mentre i periodi analoghi degli Indiani derivano da concezioni cosmologiche a priori, che le osservazioni hanno condotto a inquadrare in verificazioni e in adattamenti più o meno spontanei. A tale data si assegna con buona approssimazione l'inizio delle serie sistematiche di osservazioni rivolte dapprima alle eclissi lunari e ad altri fenomeni atti a perfezionare la nostra conoscenza dei corsi del Sole e della Luna, e dei movimenti dei pianeti attraverso alle costellazioni. Tali ricerche si facevano con attento esame del cielo da punti elevati di edifizî detti bīt tamarti, vere specole astronomiche considerate oggi dagli archeologi come distinte dalle alte torri piramidali dette zigurrat, annesse ai grandi templi.
Il padre Epping in modo speciale ha illustrato l'uranologia dei Babilonesi, dimostrandone l'importanza per gli studî sull'origine dei nomi stellari e sulle costellazioni che ancor oggi sono in uso. Attraverso le trasformazioni che nella stessa astronomia caldaica e presso i popoli successivi hanno subito, non è difficile scorgere nei nomi principali di stelle e di costellazioni analogie e identità con la sfera dei Greci, degli Arabi e dei moderni. Come nell'astronomia indiana, ventotto costellazioni segnano in cielo le mansioni lunari, mentre il cammino del Sole corrisponde ai gruppi che a mano a mano si svincolano dalla luce dell'astro maggiore nel crepuscolo mattutino, e si divide quindi in dodici segni (tre per stagione), lungo i quali una lista scoperta dallo Smith tra i documenti di Assurbanipal enumera non meno di 36 stelle o costellazioni, tre per ogni mese. Ciò è il primo germe donde scaturì l'idea di uno zodiaco; non è ancora lo zodiaco, al quale si arriva verso l'epoca della conquista persiana, ossia intorno al 538 a. C. Con tale nozione, l'astronomia solare si perfeziona, fissandosi i solstizî e gli equinozî, e ottenendosi una grossolana valutazione delle ineguali durate dei giorni e delle notti nelle diverse stagioni. Tali progressi sono legati con l'applicazione di metodi adatti per la misura d'intervalli uguali di tempo, quali erano i kaspu: sembra che tali metodi si fondassero sopra l'efflusso uniforme dell'acqua da appositi recipienti. L'invenzione della clessidra è infatti attribuita da Sesto Empirico e da Macrobio agli osservatori caldei.
Stimolo fondamentale alla ricerca astronomica è stato presso i popoli assiro-babilonesi il desiderio di fornire materiali di previsione all'astrologia, considerata come parte dell'arte divinatoria: ma quando la predizione di fenomeni non comuni, come le eclissi lunari, ebbe per effetto di aumentare immensamente il loro prestigio, quegli astronomi si sentirono spinti a continuare con crescente fervore le loro vigilie, facendo oggetto separato di studio la scienza vera degli astri. Questa mutazione di cose ha portato il massimo fiorire di tale scienza, che i documenti scoperti dai tre dotti gesuiti sopra citati pongono tra il 523 e l'8 a. C. La ricostruzione storica dei progressi dell'astronomia nel detto periodo di cinque secoli ci permette di considerarlo come culminante nel secolo secondo prima dell'era volgare. Domina quel momento di massimo splendore la figura di un astronomo, noto già a Strabone, a Plinio il vecchio e a Sosigene sotto il nome di Cidenas, e illustrato con grande copia di notizie e d'indagini critiche dal padre Kugler, che lo chiama, sull'autorità dei testi da lui trovati, Kidinnu. L'opera di lui, nella quale il padre Kugler pone in evidenza i metodi di calcolo solare e lunare, è di pochi decennî anteriore alla conquista dei Parti, dalla quale s'inizia la decadenza della fulgida civiltà babilonese.
I principali punti nei quali i sei secoli compresi tra la caduta di Ninive e la nascita di Cristo segnano il graduale sviluppo dell'astronomia babilonese sono i seguenti, quali risultano dalle ricerche del Kugler e dalla discussione critica che ne ha fatto lo Schiaparelli:
1. Introduzione di cicli lunisolari sempre più approssimati ai veri movimenti (prima l'ottaeride, poi il ciclo metonico di 19 anni, applicato in maniera ben più costante e regolare che non sia quella seguita dai Greci, benchè i primi documenti che ne parlano siano di mezzo secolo posteriori alla riforma introdotta dall'astronomo ateniese).
2. Riforma delle suddivisioni del giorno solare, mediante le quali si è fatto corrispondere al grado sessagesimale di arco nella circonferenza il grado di tempo (quattro minuti) nel giorno. Come il grado di arco occupava la 360ª parte di tutta la circonferenza, così il grado di tempo rappresentava la 360ª parte di tutta la rivoluzione diurna. Questa corrispondenza, osserva lo Schiaparelli, produceva nei calcoli astronomici una facilità, che gli astronomi posteriori non hanno saputo conservare.
3. Riduzione delle antiche costellazioni corrispondenti ai singoli mesi a forma e a divisione geometrica: il che costituisce la vera invenzione dello zodiaco: l'epoca di tale riduzione non deve scostarsi molto da quella del biblico Nabucodonosor (600 a. C.).
4. Misura dell'anno, fondata sull'osservazione del cammino del Sole tra le costellazioni (anno siderale) piuttosto che su quella degli equinozî e solstizî (anno tropico). Neppure l'introduzione del ciclo di 235 lune, da loro pareggiato a 19 anni civili, ha mostrato agli astronomi caldei che la loro misura si accordava meglio assai con l'anno tropico che non con l'anno siderale: né risulta che lo spostamento dei cardini su l'eclittica abbia condotto le scuole di Babilonia ad ammettere la precessione degli equinozî.
5. Riconoscimento dell'ineguale velocità del Sole su l'eclittica, dipendente dall'eccentricità dell'orbita, e della conseguente diversità delle stagioni. Su questo si fonda l'ingegnoso metodo adottato da Kidinu nei suoi calcoli lunisolari.
6. Applicazioni dei metodi di Kidinnu alle sue determinazioni di durata delle rivoluzioni sinodica, siderale, anomalistica e draconica della Luna.
7. Scoperta ed applicazione dei cicli planetarî, con costruzione di effemeridi perpetue dei maggiori pianeti.
Quanto abbiamo detto sin qui mostra come le recenti scoperte archeologiche abbiano gettato molta luce sull'astronomia dei popoli assiro-babilonesi, che ormai ci è nota nelle sue linee principali e nel suo ordinamento storico. Rimangono soltanto alcuni dubbî sull'epoca nella quale gl'influssi ellenici hanno incominciato a farsi sentire, e sul grado di perfezione al quale si credono giunte le cognizioni e le dottrine di quegli astronomi prima della penetrazione: dubbî che nuove scoperte nell'inesauribile suolo della Mesopotamia potranno rimuovere o, quanto meno, attenuare.
Più antica, e di gran lunga più vasta, è la letteratura che si occupa dell'astronomia presso gli antichi Egizî: i documenti delle relazioni loro con i popoli mediterranei sono copiosissimi, ed hanno fornito argomento a discussioni critiche sin dai tempi di Strabone e di Plutarco. E se le indagini del sec. XIX hanno portato a far conoscere più intimamente la vita, il pensiero, l'anima di quel popolo misterioso, la storia della sua astronomia ne è uscita con elementi d'informazione e di giudizio assai più sicuri di quelli che si avevano prima che lo Champollion aprisse la serie meravigliosa delle rivelazioni.
Anche qui, come presso i popoli asiatici, due scuole opposte stanno di fronte: quella che accetta e quella che respinge l'ipotesi di un'antichità remota nelle manifestazioni astronomiche, che fanno parte tanto importante delle tracce di civiltà a noi pervenute. Ma se, nel caso presente, il contrasto è ancor più vivo e più ostinato forse che in quello delle altre civiltà da noi esaminate, è innegabile che esso non rimane ugualmente acuto per tutte le questioni di astronomia che si presentano: si può dire anzi che per parecchi argomenti, e in modo speciale per il calendario, le scoperte archeologiche più recenti tendono ad avvicinare le opinioni avverse e a fissare un'interpretazione cronologica accettabile da tutti gli studiosi non guidati da idee preconcette.
La storia dell'astronomia presso gli antichi Egizî s' identifica con quella del loro calendario: e ciò per due ragioni distinte. Anzitutto si osserva che la vita economica e sociale di quel popolo è stata dominata dalla periodicità delle variazioni di portata del Nilo: donde la necessità di far dipendere le norme dell'avvicendarsi delle occupazioni e dei riti religiosi da una conoscenza sicura dei periodi che riconducevano le inondazioni. La conservazione del predominio sacerdotale sulla nazione e sugli stessi reggitori civili, i faraoni, era affidata a una dottrina occulta, della quale l'astronomia era parte integrante e direttiva. Senza bisogno di ricorrere alla volgare ipotesi di un sistema organizzato di ciurmerie, noi possiamo comprendere, e fors'anche giustificare, la pratica del mistero, che tutti gli storici sin dall'antichità considerarono essenziale del culto egizio. Sollevare un lembo del velo che copriva l'esoterismo dei templi era cosa forse pericolosa: donde quel complesso di cerimonie, di simboli, di atti magici, di divinazioni, che proteggevano la supremazia politica della casta. Per essa il calendario era, e rimase sempre sino alla conquista romana, lo strumento più sicuro di dominio sulle popolazioni.
Il calendario è d'altra parte l'ausilio migliore al quale possa ricorrere la critica storica moderna, per orientarsi nel difficile campo della cronologia egizia. Non è forse eccessivo il dire che, mentre presso altri popoli antichi l'archeologia ha rivelato documenti necessarî per fissare la storia dell'astronomia, qui è avvenuto il contrario: l'astronomia, con le sue applicazioni cronologiche, ha illuminato la storia ricostruita sui monumenti.
Il punto più controverso si riferisce alla durata dell'anno. È noto che gli Egizî ebbero in uso per tutte le necessità della vita civile l'anno vago di 365 giorni: e ciò da tempo assai remoto (secondo il Biot, dal 1780 a. C., quando i mesi dell'anno vago corrispondevano con le rispettive circostanze fisiche ai loro simboli geroglifici, accordandosi in più con l'istituzione dei giorni epagomeni, che Giorgio Sincello fissa al 1778). Ma il Boeckh va più in là: egli pone condizioni che ci fanno risalire, con lo Schiaparelli, sino al 2782 a. C. Gli editori della raccolta schiaparelliana su l'astronomia antica osservano anzi che il trasportare al 4242 a. C. l'istituzione ufficiale dell'anno vago è necessario per tener conto dell'autorevole opinione del Ginzel, il quale afferma, sulla base di documenti recentemente scoperti, che gli epagomeni vennero aggiunti all'anno originario di 360, verisimilmente già nel quarto o quinto millennio avanti l'era volgare. E aggiungono: "Se l'autore non ha preso in considerazione quest'ultima data, si è perché, al tempo in cui stese il presente scritto (1871), egli, come parecchi fra i più reputaii egittologi, non era forse disposto a far risalire la cronologia storica degli Egiziani a epoche tanto remote".
Lo Schiaparelli modificò il suo giudizio anche riguardo al valore dell'opera cronologica di Manetone, base di ogni computo di tempo relativo alla storia dell'Egitto. Mentre in un luogo egli afferma: "Manetone, sacerdote, ierogrammata ed istorico, esser in continua contraddizione con la testimonianza indefettibile dei monumenti non solo rispetto alla durata dei regni, ma anche rispetto al loro numero e alla loro successione", altrove sembra ammettere una opinione meno avversa all'autorità che a Manetone altri attribuisce. Con ciò egli mostra di accettare piuttosto il giudizio benevolo del Maspero e del Boeckh che quello severo del Herman. È vero che l'avere interamente fondato la sua cronologia sull'uso del ciclo sotiaco non prova che Manetone conoscesse l'epoca remota nella quale tale ciclo era stato istituito: ma non è dubbio che il disordine a lui attribuito risulti un'esagerazione di critici moderni. E quanto alla mancanza di tracce di tale ciclo nei documenti che gli egittologi vanno scoprendo, non è presumibile si possa ascrivere al carattere occulto della dottrina dei sacerdoti, che certamente li faceva restii al fissare in modo accessibile alle indiscrezioni altrui ciò che maggiormente loro premeva di tener gelosamente celato?
Che Manetone prendesse come base sicura per una cronologia estesa sopra millennî di storia egizia il ciclo sotiaco di 1461 anni vaghi, pari a 1460 anni di 365 giorni e 1/4, non sarebbe comprensibile, se si ammettesse tale ciclo in uso soltanto da poco tempo, quando il dotto sacerdote dettò la Storia d'Egitto (100 anni soltanto avanti l'era nostra). Lo Schiaparelli afferma che l'unanime consenso dei dotti, contro l'opinione di Fréret e di Bailly, ammette bensì che il ciclo sotiaco non fu mai usato nella cronologia degli Egiziani, essendo un'invenzione di autori più recenti; ma osserva poi anche non esser facile persuaderci che gli Egiziani non abbiano mai avuto occasione di esaminare la relazione del loro anno vago con l'anno solare, di cui il ritorno era loro indicato dall'inondazione del Nilo. E poiché l'inondazione era messa da tempo remotissimo in relazione con il levare eliaco di Sirio, fenomeno astronomico dal quale, sempre in epoca remota, si partiva per una valutazione dell'anno solare, par logico credere che l'uso promiscuo dei due periodi annui (di 365 e di 365 e 1/4) abbia presto condotto alla scoperta del ciclo di 1461 anni vaghi = 1460 anni solari. Né Manetone appare l'unico scrittore che abbia introdotto il ciclo sotiaco nella cronologia egizia: una simile tendenza si nota nel Vetus Chronicon, tramandato a noi da Giorgio Sincello, e forse sta pure alla base del sistema cronologico affatto simile, di cui alcune tracce si conservano nel celebre papiro di Torino, anteriore, secondo lo Champollion, alla XX dinastia, e quindi al sec. XI a. C.
Se si ammette che l'anno fisso, o solare, di 365 giorni e un quarto, fosse usato promiscuamente all'anno vago (fatto che fu definito unico e stranissimo), si porta nel dominio comune una nozione che i sacerdoti avevano motivo di conservare celata. Diodoro Siculo mostra di non sapersene dar ragione: pochi lustri più tardi Strabone, mente più avvezza al metodo scientifico, ne parla come di dottrina misteriosa, attribuita al mitico Ermete, grazie alla quale i sacerdoti di Tebe seppero accordare l'anno solare al vago, raccogliendo in un giorno intercalare le frazioni trascurate di giorno. Si vede di qui come siano in errore coloro che affermano essere stata portata in Egitto con la riforma di Giulio Cesare l'intercalazione quadriennale: l'idea, che era assai più antica, fu posta in opera da Sosigene alessandrino, il quale assai probabilmente l'ha appresa dai sacerdoti egizî.
Tutto sommato, possiamo ammettere che già in tempi molto antichi gli Egizî, pur avendo nell'uso corrente l'anno vago, non ne ignorassero la relazione con l'anno solare, espressa dal ciclo sotiaco; che la durata di questo fosse nota ab antiquo ai sacerdoti, Che le osservazioni del levare eliaco di Sirio abbiano condotto, pure in tempi remoti, a far conoscere la durata dell'anno solare in 365 giorni e un quarto, e che infine la fortuita coincidenza scoperta da Petavio, e confermata da Ideler e da Biot, tra l'anno giuliano e il periodo del levare eliaco di Sirio sul parallelo di Menfi, basti a render ragione dell'ipotesi di un'adozione generale del calendario di Giulio Cesare in tempi assai anteriori, ipotesi che, non ostante la grande autorità del Brugsch, non sembra sostenibile.
Tre metodi potevano servire per i sacerdoti egizî a determinare la durata dell'anno solare: le osservazioni del principio dell'inondazione, quelle della ricomparsa di Sirio all'orizzonte orientale nel crepuscolo mattutino, e quelle del passaggio del Sole per i cardim dell'eclittica. Contro "l'imponente autorid di Biot", lo Schiaparelli pone in dubbio che si siano mai valsi del terzo procedimento, meno semplice che non sia l'osservazione di Sirio; accetta piuttosto ciò che essi medesimi rivelarono ad Erodoto, cioè che, inventando l'anno e la sua divisione in dodici parti, fecero ricorso alle stelle. Ciò esclude implicitamente le osservazioni dei solstizî: degli equinozî non è il caso di parlare, perché fenomeni, sotto le latitudini della valle del Nilo, insignificanti.
Se dalla storia del calendario egizio passiamo ora a quella più direttamente connessa con lo studio degli astri, notiamo anzitutto l'impossibilità di riconoscere l'inizio e la portata delle infiltrazioni greche. Qui non avviene più, come in Oriente, di avere un termine abbastanza sicuro di riferimento in qualche grande fatto storico, dal quale sia logico far incominciare le relazioni tra i due popoli: assai prima delle guerre macedoniche e delle spedizioni di Alessandro, che misero in contatto i popoli asiatici con le civiltà dell'Egeo, queste erano direttamente intrecciate con la vetusta civiltà egizia. I noti, celebri passi di autori classici, dai quali si apprende che i maggiori pensatori dell'Ellade, da Solone e da Talete a Platone, a Eudosso, a Pitagora, viaggiarono in Egitto, e ascoltarono i sacerdoti, ci conducono anzi a sospettare che molti contributi delle scuole greche più antiche all'astronomia siano stati ispirati da conoscenze custodite segretamente ne' templi e rivelate agl'insigni visitatori: il che del resto è ormai accettato anche dai critici più obbiettivi dell'età nostra.
Secondo il Maspero, il nascere dell'astronomia egiziana si può far risalire al periodo menfitico, e più precisamente alle dinastie III, IV e V. È di quel tempo la distinzione tra le stelle fisse (le indistruttibili) e i pianeti. I principali tra questi corrispondevano a diversi aspetti di Oro: guida degli spazî misteriosi (Giove), sotto il nome di Hartapsitiu: generatore degli spazî superiori (Saturno), sotto il nome di Harkahri: Oro rosso (Marte). Poi Sovku, identificato con Mercurio, Duan e Bonu, corrispondenti rispettivamente alle elongazioni di Venere, mattina e sera.
Le stelle fisse erano catalogate in corrispondenza alle trentasei decadi dell'anno egizio primitivo: ciò lascia supporre che l'istituzione dei decani sia stata anteriore a quella dei cinque epagomeni, e quindi antichissima. Le stelle e i gruppi maggiori si dedicavano (o s'identificavano) a divinità: Sothis (o Sirio) a Iside, Orione ad Osiride, le Pleiadii le Iadi e altri asterismi a numi non bene identificati. Osservatorî veri e proprî a Dendera, a Thinis, a Menfi, ad Eliopoli, attendevano con regolarità a seguire il corso degli astri, costruendo le tavole del loro passaggio per l'orizzonte.
S'è voluto attribuire un'origine astronomica al definitivo stabilirsi di un culto unificato, che appunto al tempo delle dinastie menfitiche si è sostituito alle molteplici forme di credenze in divinità locali: ma l'ipotesi non regge di fronte al processo di trasformazione, ormai ben conosciuto, che ha condotto al maestoso sistema religioso dell'Egitto al tempo dei faraoni. Il Maspero ci dice che nei primi periodi le singole provincie, in cui il paese era diviso, avevano le proprie divinità regionali, appartenenti a tre gruppi ben distinti, con facoltà e attribuzioni affatto indipendenti. La compenetrazione graduale delle divinità locali ha preceduto la fusione dei gruppi, comprendenti rispettivamente gli dei dei morti, quelli degli elementi e quelli solari. Si vede quindi che un gruppo solo su tre si fondava sull'assimilazione degli dei agli astri, e che la genesi delle forme religiose è indipendente da quella delle conoscenze astronomiche. Sembra piuttosto che l'avviamento al culto d'un Dio unico (Rā, Amunrā, Fthā, Oro), sorto dalla riunione di divinità svariate, sia stato prodotto dal riconoscere che in luoghi diversi s'era divinizzato il Sole: ma anche in questo bisogna guardarsi dal correr troppo con la fantasia, mentre il Maspero ci ammonisce sagacemente a non confondere il concetto di una divinità superiore con il monoteismo, che, secondo taluni, sarebbe stato addirittura insegnato agli Ebrei per opera di Mosè, allievo delle scuole esoteriche egizie.
Un'altra forma di semplificazione del culto, legata certamente all'astronomia, è quella che faceva dipendere dal levare eliaco di Sirio l'inizio dell'anno solare. La relazione tra il principio del mese di Thoth, la ricomparsa della stella sacra a Iside sotto il nome di Sothis e i prodromi dell'annua inondazione ha rappresentato per lungo tempo il fatto astronomico-religioso più caratteristico dell'antico Egitto, conducendo a una valutazione dell'anno solare che, come abbiamo detto, è per un caso singolare identica a quella che serve di base al calendario giuliano. Noi ora sappiamo che l'intervallo determinato da due ritorni consecutivi del levare eliaco di Sirio fu, per più di trenta secoli anteriormente all'era cristiana, quasi costantemente ed esattamente uguale a 365 giorni e un quarto; ciò si dovette al combinato effetto del movimento proprio dell'astro (poco diverso da 1′′ all'anno), della precessione dei punti equinoziali e della lenta variazione dell'obliquita dell'eclittica: ma è ragionevole pensare che gli Egizî abbiano riconosciuto l'effetto, senza bisogno di risalire alle cause.
La loro astronomia, dunque, è stata empirica, come quella dei popoli asiatici, benché i monumenti della valle del Nilo attestino in epoche remotissime conoscenze non disprezzabili di geometria, applicata all'arte delle costruzioni. E di una geometria progredita parlano pure, in relazione all'astronomia, le tracce numerose, studiate dal Lockyer, di orientamenti esatti delle piramidi, dei templi e di altri edifizî secondo le direzioni cardinali eclittiche o secondo i punti di culminazione di stelle. Tale pratica rituale fu usata anche fuori d'Egitto, p. es. nei paesi più settentrionali d'Europa (come hanno mostrato, tra altri, il Lockyer e lo Charlier): ma nessuno l'ha applicata più largamente degli Egizî, dai quali l'appresero i Greci (tempio di Tebe in Beozia) e i primi cristiani.
Un altro carattere peculiare dell'astronomia egiziana consiste nell'aver dato particolare importanza alle parti del mezzogiorno, a differenza di quanto abbiamo notato per i popoli asiatici: il quadrante australe era particolarmente venerato, e la regione corrispondente si considerava come sacra. Forse questo accenna a una possibile conferma dell'opinione pressoché generalmente accolta che il paese niliaco sia stato popolato da migrazioni provenienti dall'Etiopia, come anche l'esame antropologico degli avanzi umani lascia supporre.
Lo Schiaparelli afferma che "nulla di quanto sappiamo dell'astronomia degli Egiziani del tempo faraonico accenna a speculazioni teoriche sui corpi celesti"; l'opinione contraria dello Chabas, fondata sull'interpretazione di un papiro antichissimo, è da lui combattuta con argomentazioni convincenti. Vi è tuttavia chi ritiene che i Greci derivassero tutte le loro nozioni astronomiche dagli Egizî, e che i filosofi greci, specialmente i più antichi abbiano appreso non poco da una presunta e misteriosa scienza elaborata nei templi dell'Egitto faraonico. Comunque, certo è che appunto i filosofi della scuola ionica appaiono come gl'iniziatori di una speculazione astronomica, dalla quale si fa datare il nascere dell'astronomia ellenica, non potendosi dare grande peso alle rudimentali nozioni sul cielo e sui fenomeni celesti che troviamo in Omero e in Esiodo. I due poeti concepiscono la terra come un disco piatto, circondato tutt'intorno dall'Oceano e coperto dalla vòlta emisferica del cielo. L'altezza di questa è assegnata indirettamente con riferimento a favole mitologiche: le costellazioni principali sono appena riconosciute (con qualche sviluppo maggiore in Esiodo che in Omero): l'unica costellazione tra le circumpolari cui si accenni è l'Orsa Maggiore, che serve nell'Odissea per guidare la nave dell'eroe. Ma in Esiodo (Opere e giorni) si trova qualche notizia in più, relativa al modo di fissare con le stelle le date delle principali operazioni rustiche, e alla durata del periodo lunare. Ma si è ancora lontani dall'avere raggiunta quella vasta e sicura conoscenza dei fenomeni, alla quale già in quel tempo erano arrivati con lunghe serie di osservazioni regolari gli astronomi dell'Oriente. Più tardi è ancora molto scarso il corredo di cognizioni astronomiche del quale i fondatori della filosofia ionica si valgono per andare alla ricerca di un principio superiore, del quale i fenomeni particolari siano manifestazioni tra loro collegate. Ferecide, amico e coetaneo di Talete di Mileto, è il primo a eseguire osservazioni solstiziali, valendosi di un gnomone o eliotropo eretto nell'isola di Siro ed è a credere che su tali osservazioni si basi la ricerca della lunghezza dell'anno solare che si attribuisce a Talete, fondatore della scuola ionica.
Questi è generalmente riconosciuto come il primo vero astronomo della Grecia, e gli si fa merito anche di aver preveduto l'eclisse solare del 28 maggio 585. Talete avrebbe militato tra i mercenarî greci nel campo di Aliatte re di Lidia, quando tra lui e il persiano Cyaxares fu fissato il patto per cui il fiume Halys divenne il confine tra i due stati. Che si trattasse di "previsione" nel vero senso della parola è tuttavia cosa difficile ad ammettersi, date le insufficienti cognizioni che egli poteva possedere sul movimento dei due astri maggiori. Neppure è credibile che Talete abbia affermato la rotondità della terra. I critici moderni, Martin, Tannery, Schiaparelli, Heath, che pure accordano qualche fondamento alle affermazioni degli scrittori antichi (Plutarco, Teone Smirneo, Eudemo), fanno le più ampie riserve sulle scoperte attribuite a Talete dai doxografi greci. Alcune di queste, come l'essere il diametro angolare del sole e della luna di 1/750 del cerchio descritto, sono quasi certamente di origine egizia o babilonese, e con il pensiero di quelle scuole si accordano talune speculazioni intorno alle acque che circondano, sopra e sotto, la terra. Più probabile sembra che a Talete si possa far merito di aver indotto i Greci a governarsi in mare sull'Orsa Minore anziché sulla Maggiore (come usavano sin dai tempi omerici): ma s'ignora se in ciò sia stato guidato da osservazioni proprie, come vorrebbe Callimaco, oppure dall'esempio dei navigatori fenici. Tutto sommato, si direbbe che la fama di Talete come astronomo sembri appoggiata piuttosto all'alta autorità tradizionale riconosciuta a lui, come fondatore di una scuola tanto augusta e venerata, che non ad effettivi contributi da lui portati alla scienza rudimentale dell'Ellade: né le sue speculazioni cosmologiche si sollevano dalle infantili concezioni di quel tempo.
Un passo più decisivo in materia d'ipotesi astronomiche è compiuto di lì a poco da Anassimandro, ingegno profondo ed originale, al quale dobbiamo l'affermazione che la terra occupa, isolata e senz'alcun sostegno, il centro dell'universo, rimanendo ivi perché non ha motivo di spostarsi da questa anziché da quella parte. Quest'applicazione felice del principio di ragion sufficiente è giudicata dallo Schiaparelli non inferiore, per merito e difficoltà, alle scoperte per cui vanno celebrati i nomi di Copernico e di Newton. È pure merito di Anassimandro l'aver riconosciuto il continuo cambiare del parallelo diurno solare e il moto spirale tra i due tropici come risultato del moto diurno della rotazione celeste, combinato con il moto annuo del sole tra le stelle in un cerchio obliquo. Forse le osservazioni sulle quali egli si è fondato per queste notevoli scoperte sono state eseguite in base a strumenti quali Ferecide ai suoi tempi aveva in uso, provenienti, a detta di Erodoto, da Babilonia; e da ciò è nata la leggenda che attribuisce a lui la scoperta o, almeno, l'introduzione in Grecia del gnomone. Più attendibile è la notizia, che abbiamo da Diogene Laerzio, di una sua carta delle terre abitate, la prima della quale si abbia cenno, dopo le carte o mappe degli Egiziani che si limitavano a regioni poco estese.
Più giovane di Anassimandro di un quarto di secolo è Anassimene, fiorito tra il 585 e il 528 a. C. La sua concezione di una terra piana, appoggiata sull'aria, è un regresso rispetto a quella del precedente: né meglio si avvicinano alla verità le sue congetture sull'origine del sole, della luna e delle stelle dalla terra, sulle sfere cristalline e sulla genesi dei movimenti degli astri. Egli tuttavia merita speciale menzione per avere distinto i pianeti dalle stelle fisse, e posto la sfera di queste assai più lontana del sole, contro l'opinione di Anassimandro. Sembra pure che le sue idee su corpi di natura affine alla terra abbiano preparato la via a spiegazioni attendibili dell'eclissi, pari a quella che poco dopo il suo tempo fu data da Anassagora.
Nato verso il 500 a. C., Anassagora di Clazomene presso Smirne è uno dei maggiori rappresentanti dell'ultimo naturalismo anteriore a Socrate. La celebre frase, che Platone gli attribuisce, di esser nato per lo scopo di "studiare il sole, la luna e il cielo", assegna a lui la priorità tra coloro che fecero della ricerca del vero l'oggetto dell'astronomia, abbandonando o subordinando il fine utilitario che gli orientali e gli Egizî si proponevano nell'indagine dei fenomeni celesti. Dobbiamo a lui la scoperta dell'origine solare della luce riflessa dalla luna, la vera interpretazione dell'eclissi, un sistema cosmogonico, la prima idea della forza centrifuga, e molte altre geniali, se non sicure, intuizioni sulla Via Lattea e su altri fenomeni celesti. L'aver supposto piana la terra come la luna è forse la causa che gl'impedì di spiegare le fasi della luna, alle quali sarebbe certamente giunto in base alla scoperta di Parmenide, che la parte lunare illuminata guarda sempre verso il sole. Con Anassagora la filosofia si trasporta dall'Asia Minore in Atene: ed ivi l'intolleranza dogmatica della democrazia imperante gli procura una gloriosa condanna per empietà, avendo egli affermato che il sole è "una massa incandescente più grande del Peloponneso". Sulle sue relazioni con Pericle abbiamo informazioni contraddittorie: certo è che egli fu amico del grande Ateniese, e che contribuì molto con la sua sapienza a illustrare l'età splendida che da lui prende il nome.
Frattanto si erano sviluppate nuove scuole filosofiche: l'italica, che riunisce i seguaci di Pitagora; l'eleatica, alla quale appartengono o dalla quale derivano Senofane di Colofone, Parmenide, gli atomisti Leucippo e Democrito. Per ciò che si riferisce all'astronomia, le concezioni pitagoriche si risentono dei principî di numero, di armonia, di ordine che dominano tutta la filosofia del maestro di Crotone. A lui, personalmente, si fa risalire la scoperta della sfericità della terra, complemento essenziale alla dottrina dell'isolamento di questa nello spazio, sostenuta, come vedemmo, da Anassimandro. L'una e l'altra nozione erano necessarie per condurre i Greci al primo saggio di un'astronomia teoretica, quale nessun popolo dell'antichità seppe innanzi a loro costruire.
Divulgatore, se non autore, del sistema planetario pitagorico è Filolao, al quale dobbiamo il primo tentativo di costruire i cieli secondo un'ipotesi razionale sulla base dei fatti conosciuti. Egli immagina il luogo centrale occupato non già dalla terra, come si era sempre creduto, bensì dal fuoco centrale, attorno al quale si trovano le dieci sfere delle fisse (esterna), di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio, della Luna, della Terra, dell'Antiterra. L'emisfero abitato era supposto rivolto sempre dalla parte contraria dell'Antiterra e del fuoco centrale. In questo curioso schema le dimensioni delle orbite crescevano in progressione geometrica, a partire dal centro, sicché, triplicando il raggio di una di esse, si otteneva il raggio della consecutiva: progressione certo costruita in base a speculazioni sulle proprietà dei numeri e sulle relazioni loro con gl'intervalli musicali.
Le idee cosmografiche di Senofane e di Eraclito sono egualmente fantastiche, ma non posseggono neppure l'eleganza di struttura geometrica propria dei sistemi pitagorici. A questi si avvicina Parmenide, differendo da loro, in quanto ammette la rotazione dell'universo attorno ad un asse passante per il centro. A lui si attribuisce pure la prima idea dell'abitabilità della zona tropicale terrestre. Una terza differenza di Parmenide dai pitagorici consisterebbe nella conoscenza a lui attribuita dell'identità delle due stelle della sera e del mattino: ma la priorità di tale identificazione non potrebbe negarsi ai pitagorici, qualora si ricordino le relazioni del fondatore della scuola italica con gli orientali, presso i quali Venere era da lungo tempo riconosciuta come un pianeta unico. E di un solo pianeta parla appunto anche Filolao.
Non ci dilungheremo sui contributi astronomici di Empedocle, di Leucippo, di Democrito, di Enopide, pensatori che, pur occupandosi di questioni connesse con la nostra scienza, non aggiunsero nulla di essenziale all'edificio che il genio ellenico andava laboriosamente costruendo. Con essi si chiude il primo periodo, quasi esclusivamente speculativo, dell'astronomia greca: il secondo, ispirato alla scuola platonica, coincide con la fase più splendida della civiltà attica, e ci presenta una mirabile fioritura d'interpretazioni geometriche dei fatti celesti, applicando con insuperata eleganza e con sicuro metodo le dottrine che la scuola stessa andava creando.
La tendenza speculativa che, nella prima astronomia dei Greci, spinge i filosofi della scuola ionica a cercare il principio universale che regge il mondo, prima di possedere le nozioni più elementari sui fenomeni, che applica poi con gli eleatici il metodo dialettico, con i pitagorici i misteriosi rapporti dei suoni e dei numeri, trova in Platone e nei suoi discepoli l'espressione più completa. Il grande filosofo arriva sino al punto di subordinare lo studio dell'astronomia alla contemplazione astratta dei movimenti celesti: il fenomeno ha per lui valore solo come esempio dell'eterna verità. L'astronomia non può accontentarsi di osservare con gli occhi e di descrivere i movimenti degli astri, ma tende a scoprire le combinazioni cinematiche semplici ideate dal Demiugo per produrre le apparenze complicate che vediamo. E questa vera astronomia non dev'essere studiata per sé stessa, ma soltanto quale mezzo per presentare all'anima nostra l'idea del Bene. L'immutabile regolarità del corso degli astri è prova di uno spirito pensante, che l'uomo deve ricercare per giungere alla conoscenza delle gerarchie creatrici che guidano il mondo. Ecco perché l'astronomia è compresa tra le discipline la cui conoscenza è necessaria a colui che vuol rendersi utile alla repubblica.
Il Duhem mostra con opportune citazioni come nella lunga vita di Platone il concetto dell'astronomia come scienza utile allo stato non abbia subìto alcuna modificazione, a differenza del modo di rappresentare in un sistema originale il complesso dei fatti astronomici, il quale variò profondamente dai primi agli ultimi suoi scritti. L'evoluzione del pensiero di Platone intorno alla costituzione dell'universo non potrebbe essere meglio riassunta che con le parole dello Schiaparelli: "Platone, il quale nei primi suoi scritti faceva percorrere agli dei coi loro carri la sommità della vòlta celeste, che nel Fedone si domanda se la terra è piana oppure rotonda, nei libri della Repubblica e del Timeo ha svolto un sistema geocentrico simile a quello che, perfezionato poi dalla scuola d'Alessandria, rimase in onore per tanti secoli. Ma dopo ch'ebbe presa cognizione delle dottrine pitagoriche, Platone si sentì attratto da quelle, e nelle sue idee cominciò a predominare il moto diurno della terra, sia rotatorio, come vuole Aristotele, sia rivolutivo, come appare da Teofrasto. E tanto giunse a convincersi della verità di questo movimento, che dichiarò l'opinione contraria essere ingrata agl'iddii, e appena perdonabile alla debolezza di quegli uomini, che non partecipano alquanto dell'intelligenza divina".
L'influenza del genio di Platone sugli atteggiamenti successivi della speculazione geometrica e filosofica intorno alle cose del cielo, più che nello svolgimento ulteriore dei sistemi cosmici da lui elaborati, si rivela nel metodo seguito dai suoi continuatori. Primo tra questi, e non in ordine cronologico soltanto, è Eudosso di Cnido, nato sul finire del sec. V a. C., discepolo di Platone, poi di Conufo sacerdote di Eliopoli, dal quale apprese i movimenti dei pianeti. La conoscenza dei fenomeni acquistata in Egitto si consocia in lui all'eccezionale perizia nelle matematiche, ammirata dagli antichi, tra i quali lo stesso Platone, Proclo, Eratostene. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto raccogliere l'invito, rivolto da Platone agli astronomi, di "trovare con quali supposizioni di movimenti regolari e ordinati si potessero rappresentare le apparenze osservate nei movimenti dei pianeti".
La soluzione da lui trovata si fonda sulla considerazione di sfere omocentriche alle quali sono fissati i singoli pianeti, in modo che i combinati movimenti delle sfere stesse diano ragione del movimento risultante per l'astro relativo. Non è questo il luogo di esaminare il meccanismo da lui ideato, che troviamo ampiamente descritto nella nota memoria dello Schiaparelli, dov'è pure genialmente ricostruita la teoria geometrica presumibilmente applicata dall'inventore. Con metodo moderno la teoria stessa può venire esposta con maggiore semplicità, come ha mostrato Norberto Herz. Basterebbe questo contributo per dimostrare quanto la scuola platonica abbia giovato ad avviare l'astronomia sul terreno solido della speculazione geometrica, abbandonando le fantasie del naturalismo ionico e del pitagorismo. Perché si possa comprendere la portata delle nuove idee e il valore dell'indirizzo che esse hanno tracciato, ci si consenta ancora una volta di citare lo Schiaparelli, in una delle sue pagine più eloquenti, che riassume tutta l'evoluzione del pensiero astronomico, da Platone a Copernico:
"L'ipotesi pitagorica scompare con gli ultimi rappresentanti di quella scuola, poco dopo Platone: il fuoco centrale e l'Antiterra, di cui nessuno, dal Tago al Gange e da Tule a Taprobana, aveva potuto ottener notizia che fosser visibili in alcun luogo della terra, cominciarono ad esser relegati fra le fantasie, su cui non aveva presa la geometria, nata nella scuola di Platone stesso. E così pure la dottrina semiteologica dei motori celesti nel Timeo non trovò eco ulteriore nella scienza, e appena poté propagarsi nelle speculazioni mistiche di certe sette stravaganti che pullularono nei primi secoli dell'èra volgare in Egitto e in tutto l'Oriente. Al contrario, il meccanismo materiale svolto nel libro X della Repubblica, tolto fuori dalle ginocchia della Necessità e liberato dall'ipotesi delle Parche, fu adottato da Eudosso, discepolo dello stesso Platone e di lui poco più giovane, il quale lo perfezionò e ne trasse la teoria delle sfere omocentriche, uno dei più belli, benché de' meno conosciuti monumenti dell'antica geometria. Completata da Aristotele e da Callippo, questa teoria tenne il campo dell'astronomia fino al tempo in cui, per opera principalmente d'Ipparco, invalse la teoria degli eccentri e degli epicicli, molto meno elegante, quantunque più atta a rappresentar bene i fenomeni. Ma neppur allora le sfere omocentriche furono interamente abbandonate; anzi, combinate alla meglio con gli epicicli, servirono alle dimostrazioni dei peripatetici, e nel Medioevo formarono la base dell'astronomia degli scolastici e l'ossatura dcl Paradiso dantesco. E furono ancora per un'ultima volta adottate a base di un nuovo sistema astronomico nel secolo XVI da Girolamo Fracastoro, sotto la cui ispirazione esalarono il canto del cigno, per non viver più che nella storia. Perché, mentre il Fracastoro sudava invano per adattarle ai fenomeni, in una piccola città della Polonia Copernico preparava inosservato i lavori che dovevano mandarle a fascio per sempre".
I perfezionamenti introdotti nella dottrina di Eudosso da Callippo e da Aristotele, ai quali si allude nel passo ora citato, sono essenziali per adattare il sistema delle sfere omocentriche ai fatti che si andavano scoprendo, e ai concetti concreti mediante i quali il fondatore della filosofia peripatetica intendeva temperare l'astratta metafisica geometrica del platonismo. Risulta dal commentario di Simplicio all'opera di Aristotele sul cielo (περὶ οὐρανοῦ) che Callippo Ciziceno, il quale studiò con Polemarco conoscente di Eudosso, venne con esso Polemarco in Atene per conversare con Aristotele sulle invenzioni di Eudosso, e per rettificarle e completarle col suo concorso. L'aggiunta di nuove sfere al numero già grande di quelle ammesse da Eudosso parve a Callippo necessaria per dar ragione d'ineguaglianze dei movimenti, rivelate da Metone, da Euctemone e da lui medesimo (Callippo era noto come il più abile astronomo osservatore dei suoi tempi): quanto poi ad Aristotele, egli trasformò la teoria geometrica in un sistema meccanico, aggiungendo per ciascuno dei pianeti alle sfere precedenti altrettante sfere reagenti, meno una, destinate a restituire sempre alla prima posizione la prima sfera dell'astro immediatamente inferiore.
La partecipazione alle indagini sulle sfere omocentriche non è il solo contributo dato da Aristotele all'astronomia. Trascurando le sue meditazioni più strettamente filosofiche sui problemi del cielo, alle quali s'informa l'astronomia scolastica nel Medioevo citeremo le dimostrazioni ch'egli diede della forma sferica della terra, alcune delle quali sono ancor oggi ricordate nei testi di cosmografia. Meno felici sono i suoi tentativi di dimostrare essere la terra fissa nel centro dell'universo, di dar ragione delle stelle cadenti, dei meteoriti, delle comete, dei crepuscoli, della Via Lattea: fenomeni tutti dei quali la spiegazione aristotelica, fondata sopra una fisica rudimentale, ricca di tautologie e di affermazioni non dimostrabili, regnò indiscussa sino a Galileo e a Newton.
Contro l'opinione di Aristotele già due pensatori siracusani, Iceta e Ecfanto, modificando il concetto di Filolao di una rivoluzione diurna della terra attorno al fuoco centrale, avevano apertamente affermato che la terra compie una rotazione attorno al centro del mondo, da occidente a oriente, in un periodo di tempo alquanto più breve del giorno solare. Adottando l'idea di questi felici novatori, Eraclide Pontico, fiorito verso la metà del quarto secolo a. C., vi aggiunge di proprio la nozione del movimento di Mercurio e di Venere attorno al sole: idea originale che, respinta da tutte le scuole greche successive, accennata tra i Romani da Terenzio Varrone, da Vitruvio, da Marziano Capella, ricompare nel sistema misto di Tycho Brahe durante il sec. XVI, esteso naturalmente il moto eliocentrico ai pianeti esteriori, come già vivente ancora Eraclide (e forse per opera di lui) era stato fatto. Un passo ancora, e dal sole mobile attorno alla terra, con tutto il suo seguito di pianeti, si arriva al movimento della terra. Questo passo, che Tycho Brahe, pur conoscendo le conclusioni di Copernico, non volle fare, è fatto dai Greci: per la terza volta nella storia di questi progressi, noi c'imbattiamo nel nome di Eraclide Pontico: da un breve frammento, conservatoci da Simplicio, noi apprendiamo da lui come, facendo muovere la terra e star fermo il sole, è possibile spiegare la grande ineguaglianza dei moti planetarî apparenti, che produce le stazioni e le retrogradazioni, e che nel sistema tolemaico si spiega con epicicli, nel sistema copernicano con il moto annuo della terra intorno al sole.
La tesi dello Schiaparelli, che attribuisce ad Eraclide, o, almeno, a un contemporaneo suo, la scoperta del movimento terrestre, è messa in dubbio dal Heath, autore di una storia dell'astronomia greca sino ad Aristarco, e traduttore in inglese del trattato di questo grande astronomo Sulle dimensioni e sulle distanze del sole e della luna. La sua discussione è fondata sopra una congettura del Tannery, il quale attribuisce a un copista l'interpolazion del nome di Eraclide nel frammento di Simplicio.
Certo è che, ispirato da altri, o guidato dal suo criterio personale, Aristarco da Samo è riconosciuto, sull'autorità di Archimede nell'Arenario, come il primo espositore dell'ipotesi eliocentrica, enunziata poi come una verità naturale da Seleuco, astronomo babi lonese fiorito verso la metà del sec. II a. C., e autore di una teoria delle maree, che il Duhem trova concordante con le vedute di Cartesio. Più che a Filolao, considerato sino ai tempi dello Schiaparelli come il precursore di Copernico, il titolo glorioso spetta ad Aristarco, del quale alla sua volta il precursore diretto sembra essere stato Eraclide Pontico.
I procedimenti mediante i quali si è andato risolvendo per gradi il problema dei movimenti planetarî, prima facendo di Mercurio e di Venere due satelliti del sole, poi riconoscendo dalle variazioni di splendore di Marte le corrispondenti variazioni di distanza dalla terra, infine applicando per estensione analogic ai due pianeti più esterni gli stessi metodi, sono fondati sull'uso di eccentri mobili e quindi, come dimostrò essere equivalente Teone Smirneo, di epicicli. Abbiamo qui una prima applicazione, di un artificio matematico meno elegante delle sfere omocentriche, ma meglio di esse adatto a rappresentare geometricamente i movimenti planetarî. L'elaborazione di tale teoria è opera di Apollonio di Perge, il quale con criterio audace abbandonò l'idea di centri materiali come il sole, ritenuti nella scuola pitagorica indispensabili ad ogni rotazione. Più geometra che astronomo, Apollonio non trovava alcuna ripugnanza a far girare i corpi celesti attorno a punti ideali: e neppure si preoccupava troppo di stabilire la precisa corrispondenza dei risultati con i fatti osservati. Occorreva una mente egualmente sicura nelle deduzioni matematiche come nell'indagine dei fenomeni, per perfezionare la teoria renderla del tutto conforme alla realtà concreta: ciò fece a sua volta con insuperata perizia il più grande tra gli astronomi dell'antichità, Ipparco di Nicea.
Il contributo d'Ipparco alla soluzione dei problemi del cielo è di tale importanza, da giustificare le lodi entusiastiche a lui pro digate da Plinio, da Tolomeo, e da quanti dopo di loro scrissero dell'astronomia greca. Egli è realmente il primo astronomo completo, capace così di trattare con metodo matematico le dottrine più elevate, come di eseguire e di discutere esatte misure, sottoponendone al calcolo i risultati. Nessuno tra i cultori dei nostri studî si è nell'antichità meglio di lui avvicinato al tipo di scienziato che l'età nostra si è foggiato. Ciò, almeno in parte, giustifica come il Bailly e il Delambre facciano datare da Ipparco e dalla scuola di Alessandria l'inizio della fase scientifica nell'astronomia; benché le ricerche storiche dell'ultimo secolo dimostrino esagerato siffatto giudizio, e degno di ben diversa valutazione il complesso dei lavori astronomici compiuti nei secoli precedenti da Greci e da Orientali. Nella teoria geometrica Ipparco è preceduto dai creatori delle dottrine relative alle sfere omocentriche, agli eccentri ed epicicli: le osservazioni a gnomoni e ad eliotropî, come quello di Siro, e l'altro eretto nella Pnice di Atene, quelle di Faino ateniese sul Licabetto, di Metone, di Euctemone, di Aristarco, di Cleostrato, di Anassagora bastano a documentare un'attività prealessandrina ammirevole, prima assai che Aristillo e Timocari agli albori del periodo alessandrino forniscano con le proprie misure di posizioni stellari i termini di confronto necessarî per la scoperta della precessione, onde il nome d'Ipparco va famoso. Allo stesso modo Eratostene cirenaico, con la celebre determinazione del raggio terrestre, ottenuta secondo procedimenti non diversi, sostanzialmente, da quelli adottati dalla moderna geodesia, dà all'astronomo di Nicea un elemento indispensabile per valutare in funzione di esso le dimensioni e le distanze del sole e della luna; e le ricerche sulla durata dell'anno e sui cicli che riconducono insieme il periodo solare e quello lunare, nelle quali s'illustrarono e Metone e Callippo, preparano non soltanto il ciclo d'Ipparco, mera curiosità scientifica, ma anche le sue determinazioni sulla durata dell'anno tropico e del mese medio lunare, errata la prima di ben sei minuti e mezzo, ma la seconda approssimata a meno di un secondo al valore moderno.
L'opera d'Ipparco ci è nota per ciò che ne tramandarono Adrasto, Teone Smirneo, Plinio, Tolomeo. Senza esaminarla nei particolari, accenneremo soltanto al grande catalogo delle stelle fisse, primo fondamento della nostra conoscenza del cielo stellato. Dalle posizioni determinate, messe, come dicemmo, a raffronto con quelle di 150 anni circa anteriori, dovute ad Aristillo e a Timocari, Ipparco fu condotto a riconoscere che la durata del periodo dal quale il sole è ricondotto alle medesime stelle era maggiore di 365 giorni e 1/4, mentre l'anno ricavato dal confronto dei solstizî di Archimede e suoi con quelli di Metone e di Eutemone risultava alquanto minore di questo valore. Ne dedusse che i cardini dell'eclittica mutavano la loro posizione rispetto alle stelle fisse. La scoperta è tra le più ammirevoli che la storia della scienza abbia mai registrate.
D'Ipparco non possediamo che una compilazione di minore importanza, dedicata al commento dei Fenomeni di Arato: ma l'insieme dell'opera sua ci è conservato nel monumentale trattato di Claudio Tolomeo, intitolato Μαϑηματική συνταξις. Ivi è raccolta con ordine magnifico e felicemente esposta tutta la dottrina astronomica lasciata dai Greci: conservata dagli Arabi, la Σύνταξις ha potuto sembrare, per tutto il Medioevo e più tardi, ancora il repertorio solo ed esclusivo al quale si dovesse attingere per aver notizia di quanto quel popolo privilegiato ci ha tramandato in materia di astronomia. Ciò almeno fino a quando la critica moderna ha analizzato e messo in evidenza le parti della scienza che la scuola di Alessandria aveva trascurato o dimenticato. Da quanto abbiamo rapidamente detto sopra, appar chiaro che talune di queste parti rappresentavano una nozione più conforme alle dottrine moderne, mentre la dottrina geocentrica, svolta e ammessa come unica spiegazione dei fenomeni, risultava concettualmente una prova d'inferiorità da parte di Tolomeo. Così è avvenuto che l'astronomo alessandrino e l'opera sua divenissero presso i primi intransigenti seguaci dell'ipotesi eliocentrica bersaglio a critiche altrettanto ingiuste quanto erano state le iperboliche ammirazioni degli Arabi e degli astronomi medievali. Fu per lungo tempo costume di contrapporre Tolomeo a Copernico e a Newton, come nella filosofia si contrapponeva San Tommaso ai pensatori moderni. Ma l'immobilità della terra al centro dell'universo non è la sola nozione che noi attingiamo dalla Σύνταξυς, e l'autore non è un semplice compilatore. Claudio Tolomeo desume argomenti filosofici e astronomici, per questa come per ogni altra parte del suo trattato, da Aristotele e da Ipparco, conosce e cita altri scrittori, ma all'insieme imprime un suggello proprio originale, non sempre degno della nostra approvazione di tardi posteri, ma generalmente bastevole per mostrare una personalità di pensatore e di unificatore delle conoscenze ritenute a' suoi tempi più attendibili e sicure nel campo della scienza dei cieli.
Accanto alla poderosa enciclopedia astronomica di Tolomeo, la scuola alessandrina ci ha conservato, grazie alla Συβαγωγή di Pappo, il ricordo di una collezione di trattati che vanno sotto il nome collettivo di Piccola astronomia: tra questi, uno di Autolico, due di Euclide, due di Teodosio, e il già citato di Aristarco sulle dimensioni e le distanze del sole e della luna. Altri continuatori di Tolomeo troviamo, fra la metà del sec. II e la caduta di Alessandria nel 641 d. C.: menzioneremo Teone Alessandrino, e la figlia di lui, Ipazia. Ma già la civiltà classica declina: la gloriosa scuola alessandrina decade con la città e perisce insieme con la celebre biblioteca, nella quale i tesori della sapienza antica erano raccolti; i barbari estinguono nel resto dell'impero ogni luce di scienza. Le ultime scintille si mantengono nei monasteri dell'Occidente, mentre l'espansione arabica dalla Mesopotamia all'Asia Minore, dall'Egitto alla penisola iberica inizia un nuovo periodo storico, ricco di notevoli manifestazioni di cultura.
Dobbiamo alla civiltà araba (in senso lato, comprendendo i Persiani e i Tartari) una vera rinascita dell'astronomia, degna sotto ogni rispetto di studio, se pure non troppo originale. Poco essi aggiunsero all'eredità della Grecia, camminando sulle orme di Tolomeo: ma i loro contributi attestano uno spirito osservatore ed acuto. Né si vuol dimenticare che sino al Rinascimento le opere degli Arabi rimasero l'unico anello di congiunzione tra il pensiero astronomico degli antichi e la curiosità di sapere dei monaci solitarî d'Italia e dei paesi limitrofi. Attraverso la Spagna, dopo il Mille, contatti intellettuali si andarono fissando: manoscritti furono decifrati e tradotti. Lo stesso Tolomeo ci fu conservato dagli Arabi e per mezzo loro pervenne alle nostre scuole medievali, dove occupò per l'astronomia il luogo spettante per la filosofia alle opere di Aristotele e, più tardi, alla Summa Theologica di san Tommaso.
Scritto tra il 142 e il 146 dopo Cristo, il grande trattato di Tolomeo rivive per merito degli Arabi nella traduzione che, all'inizio del nono secolo, ne ordinò il califfo al-Ma'mūn, figlio di Hārūn ar-Rashīd; e il nome Almagestum, che serve tuttora a designare l'opera tolemaica, deriva appunto dal titolo della traduzione araba al-Magisṭī, adattamento arabizzato dell'epiteto ἡ μεϕίστη attribuito alla Σύνταξυς di Tolomeo.
Due scuole principali sorgono lungo il cammino trionfale che porta lo stendardo del profeta dalla nativa penisola sino all'interno dell'Asia, da una parte, lungo l'Africa settentrionale sino alla penisola iberica, dall'altra. La scuola orientale, che ha il suo centro in Baghdād, l'occidentale, che si sviluppa specialmente nell'Andalusia, con centro specialmente in Cordova. L'uno e l'altro di questi focolari di cultura è sede di una specola astronomica.
Dopo Alfragano (al-Farghānī, v. alfragano), fiorito immediatamente dopo la divulgazione arabica dell'Almagesto, gli annali astronomici ricordano al-Battānīo Albatenio (v.), il più insigne degli Arabi cultori della nostra scienza. Nato nella Mesopotamia verso la metà del sec. IX, attese alle osservazioni dal 264 al 306 dell'ègira, occupandosi pure di ricerche teoretiche. Di lui è stato detto che "nessun musulmano gli fu eguale nell'osservazione esatta degli astri e nell'indagine accurata de' loro movimenti". Trascorse quasi tutta la vita operosissima nella città di ar-Raqqah sull'Eufrate, e morì al ritorno da una missione a Baghdād, nel 307 ègira (929-930 di Cristo). L'opera di lui che è giunta sino a noi ha avuto per iniziativa dello Schiaparelli e per merito di Carlo Alfonso Nallino una traduzione critica, uscita nel 1903 e nel 1907 tra le pubblicazioni dell'Osservatorio di Brera. Come egli stesso dice, usa "del metodo tenuto da Tolomeo nel suo libro dell'Almagesto, camminando sulle sue orme e seguendo i suoi precetti". Ma, al tempo stesso, dice di avere corretto i luoghi e i movimenti degli astri in base alle proprie osservazioni, aggiungendo le tavole per trovare i luoghi degli astri, adattate al meridiano di ar-Raqqah.
Con Albatenio s'inizia pure presso gli Arabi la nuova trigonometria: appartiene a lui l'ingegnosa soluzione del problema di risolvere il triangolo sferico, dati due lati e l'angolo compreso.
Ricordiamo ancora, dopo Albatenio, Abū 'l-Wafā', astronomo persiano del secolo decimo; Ibn Yūnus, fiorito al Cairo alla corte del califfo fāṭimide al-Hākim, verso il Mille, autore di tavole astronomiche assai apprezzate al suo tempo; Naṣīr ad-dīn aṭ-Ṭūsṭ pure autore di tavole, e astronomo alla corte delprincipe mongolo Hūlāgū nel sec. XIII; as-Sūfī, che riosservò le stelle di Tolomeo, compilandone un catalogo fatto conoscere tra noi dallo Schjellerup; Ulūgh Beg, principe tartaro del Quattrocento, grande mecenate dell'astronomia e fondatore di una specola a Samarcanda, dov'egli pure attese alle osservazioni.
Le critiche mosse da Averroè (v.) alle teorie esposte nell'Almagesto aprono a loro volta la via ad una serie di ricerche ispirate dall'aristotelismo e tendenti a scuotere l'universale fiducia che ispiravano i procedimenti tolemaici. Ibn Bāgiah (Avenpace, v.) di Saragozza nel sec. XII propone l'abbandono degli epicicli: dopo di lui Ibn Tufail (v.), a Granata abolisce anche gli eccentri, ritornando all'omocentrismo, che il suo discepolo Alpetragio (al-Bitrūgī, v. alpetragio) sviluppa in un sistema proprio. Più complicato è il sistema misto che in oriente elabora di lì a poco Nasīr ad-dīn, fondendo sfere centrate ed eccentriche. Ma nessuno di questi Arabi arriva sino al punto di costruire tavole e cimentarle con le osservazioni, benché le posizioni elencate da Albatenio risultino dopo più di tre secoli in errore notevole rispetto alle nuove osservazioni. Il grave compito è assunto verso la metà del sec. XIII da Alfonso X, re di Castiglia e di León, che, sovrano dottissimo e appassionato astronomo, raccoglie intorno a sé un gruppo di uomini versati nella scienza, Arabi ed Ebrei, affidando loro l'ufficio di eseguire le necessarie osservazioni, e di fondare sovr'esse i calcoli per le nuove tavole destinate a sostituire quelle di Tolomeo e di Albatenio. Disgraziatamente i suoi collaboratori, diretti da Isacco, cantore della sinagoga di Toledo, si occupano di far rispondere i numeri non ai risultati delle misure sul cielo, bensì a misteriose combinazioni cabbalistiche: e così l'opera riesce tanto inferiore alle nobili intenzioni del suo ideatore, da rendere presto desiderabili nuovi ritocchi. Le tavole alfonsine (toledane) sono fondate sull'Almagesto, e rimangono in uso per un paio di secoli in occidente, dove servono quasi esclusivamente per l'astrologia, non avendosi per due secoli ancora sintomi di risveglio dell'astronomia vera e propria. Nel mondo musulmano, da Baghdād a Granata, la scienza decade.
Le correnti principali di cultura in Europa dopo il Mille e sino agli albori del Rinascímento, fanno capo alla Somma teologica di S. Tommaso, e, per l'astronomia, all'Almagesto. Il libro famoso di Tolomeo è rivelato in Italia da una traduzione latina sul testo arabico, eseguita da Gerardo monaco cremonese intorno al 1175: ed altri manoscritti astronomici portati dai Mori in Spagna sono oggetto di studio nei conventi di questo paese e d'Italia. Nelle università che sorgono a Bologna, a Parigi, a Ferrara, s'incomincia a dettare astrologia: astrologi vivono alle corti dei principi francesi e tedeschi. Ma sin verso la metà del Quattrocento non esiste un vero movimento di cultura astronomica, nel senso di attingere nuove notizie a fonti dirette. Un sistema puramente aristotelico, completo per quanto al suo tempo si potesse desiderare, è svolto nella Commedia di Dante, costituendo l'ossatura del Paradiso, dove l'altissimo volo della poesia non contrasta al rigore dell'esposizione filosofica.
Tra gli astrologi e gli astronomi, dal 1200 al 1450, ricordiamo Brunetto Latini, Cecco d'Ascoli, e l'inglese John Holywood, che tenne cattedra a Parigi nella prima metà del sec. XIII, e lasciò un trattato De Sphaera Mundi, attenendosi strettamente alle idee di Tolomeo: egli è conosciuto specialmente sotto il nome latinizzato di Sacrobosco. Verso la fine di questo periodo l'astrologia è coltivata quasi esclusivamente in Francia, in Italia, in Germania, senza un barlume di originalità: tra i nostri, citiamo un Bonincontri da San Miniato, un Alteini, un Manfredi, professore a Bologna, un Prasio, cremonese, autore di pronostici per Francesco Sforza e per Francesco Foscari.
Ma già s'incomincia a comprendere che l'astronomia non può essere studiata come semplice sussidio all'astrologia, e che l'autorità degli antichi non basta, senza l'indagine diretta sul cielo. Troppo si erano gli studiosi indugiati nella sterile ripetizione degl'insegnamenti tolemaici ed aristotelici, e ormai i tempi erano maturi per un indirizzo scientifico informato allo scopo che l'Aquinate saggiamente proponeva alla filosofia, cioè di sapere non quello che gli uomini hanno pensato, bensì quello che le cose sono. Veramente, l'espressione di san Tommaso appare giustificata soltanto se la si consideri nelle condizioni specialissime di tempo e di cultura nelle quali fu dettata: sarebbe oggi inaccettabile per il peso esclusivo che dà all'esperienza diretta sopra la tradizione e sopra la sapienza delle età passate, accumulata nei libri e pervenuta sino a noi. Ma allora il regno dell'ipse dixit era assoluto, e si preferiva giurare in verba magistri anziché esercitare una critica qualsiasi sulle opinioni attribuite agli autori venerati come infallibili. E diciamo, con intenzione, che le opinioni erano "attribuite", perché il più delle volte esse arrivavano, attraverso gli errori dei copisti e le chiose dei commentatori, svisate e deformate. È di quei secoli l'accusa fatta agli scolastici: dulcis et suavis, sed ab iis scaber factus Aristoteles. Il grande filosofo era infatti noto attraverso traduzioni e per il "gran comento" che un secolo prima di Dante ne aveva fatto Averroè, allo stesso modo come la conoscenza di Tolomeo giungeva di terza mano, dopo la traduzione araba ordinata da al-Ma'mun nel nono secolo e la traduzione di questa in latino per opera di Gerardo. Il costituire un corpo di dottrina, in astronomia come in altri rami dello scibile, non era possibile se non si schiudevano all'occidente i tesori della letteratura ellenica, e se il vecchio metodo di propagare la scienza mediante copie, per lo più scorrette, eseguite da amanuensi poco dotti e meno scrupolosi, non cedeva alle nuove possibilità create dall'invenzione della stampa. In pari tempo, accorreva che le esplorazioni marittime e continentali, determinando la necessità di tavole più esatte dei luoghi e dei movimenti degli astri, per i bisogni della navigazione, facessero in pari tempo conoscere le costellazioni dell'emisfero australe, completando la sfera stellata degli antichi e stimolando le indagini sul cielo visibile alle nostre latitudini.
Tutte le condizioni richieste per un risveglio dell'astronomia secolo XV, al quale con ragione è stato assegnato il glorioso nome di "secolo delle scoperte". Gli storici dell'astronomia sono quasi unanimi nell'affermare che la rinascita dei nostri studî è merito esclusivo della Germania, dove, per opera di Giorgio Purbach e di Giovanni Müller (Regiomontano), verso la metà del Quattrocento essi furono ripresi con ordine e con ardore, così nel campo teoretico, come nel pratico. Che l'asserzione sia eccessiva risulta già da quello che i biografi dei due insigni astronomi tedeschi, incominciando da Pietro Gassendi, ci hanno tramandato della loro preparazione fatta in Italia, e dell'influenza decisiva che la cultura italiana ha avuto sul loro pensiero. Ma da tale dimostrazione indiretta del primato nostro non si poteva desumere alcuna prova concreta di attività da parte degl'Italiani. Si citavano nomi di dotti nati e professanti nel nostro paese: si sapeva che Giovanni Bianchini bolognese era stato maestro del Purbach: che il Regiomontano lo aveva visitato, quand'era in tarda età, con somma reverenza: che Domenico Maria Novara ferrarese aveva avuto tra i suoi uditori nient'altri che Copernico, attratto allo Studio di Bologna dalla rinomanza del maestro: che il Bianchini stesso aveva atteso alla compilazione di tavole astronomiche, mentre altri, sull'esempio di fra' Lionardo Dati (1365-1424), compilavano trattati della Sfera, divulgando le dottrine di Tolomeo. Si accennava pure, in forma vaga, a un maestro Paolo fiorentino, da molti confuso con Paolo Dagomari, fiorito nel Trecento: e si riconosceva in tale personaggio un ispiratore di quanti, dal Regiomontano a Cristoforo Colombo, si erano occupati di cose astronomiche e cosmografiche. Toccava a Gustavo Uzielli l'onore di mettere in luce il movimento gigantesco d'idee del Quattrocento italiano, anche per quel che riguarda l'astronomia e la geografia. Tale movimento si assomma nel nome di Paolo dal Pozzo Toscanelli, mercante fiorentino, e nell'opera sua, tanto mirabile, da far di lui il primo autentico restauratore dell'astronomia. La priorità delle osservazioni sulle comete eseguite dal Toscanelli su quelle del Regiomontano è stata dimostrata dall'Uzielli; la bontà delle osservazioni stesse risulta dai calcoli che, per incarico avuto dallo Schiaparelli, furono eseguiti dal Celoria, determinando le orbite dei detti astri.
Rivendicata così la posizione storica del nostro paese nel rinnovamento dell'astronomia, non ci sarà difficile riconoscere che i due astronomi tedeschi dianzi nominati, il Purbach e il Regiomontano, seppero trarre il massimo profitto dalla scuola italiana alla quale avevano attinto. Il primo diresse la sua attenzione specialmente a ricerche teoretiche, calcolando tavole astronomiche e trigonometriche e semplificando molte parti dell'Almagesto, che ridusse in un compendio, rimasto incompleto per la prematura morte dell'autore, avvenuta a Vienna nel 1461.
Giovanni Müller, noto sotto il nome di Regiomontano, dalla piccola città di Franconia dove nacque nel 1436 (spesso confusa con Königsberg nella Prussia), fu allievo a Vienna del Purbach, dal quale fu avviato agli studî matematici ed astronomici. Era in quel tempo nunzio pontificio presso l'imperatore d'Austria il cardinale Bessarione, da Trebisonda, il cui nome è legato alla storia della diffusione in Italia della cultura greca, avvenuta per opera dei profughi dalle terre invase dai Turchi e dei prelati convenuti a Firenze per il Concilio. Desideroso di far conoscere direttamente in occidente il grande libro di Tolomeo, il Bessarione pensò d'integrare la propria conoscenza del greco con la preparazione matematica e astronomica del Purbach e, morto questo, del Regiomontano, inducendo il giovane astronomo ad accompagnarlo in Italia. Ivi questi attese a ricerche e trascrizioni di manoscritti antichi, all'osservazione di eclissi e di altri fenomeni celesti, infine alla divulgazione accademica dell'astronomia degli Arabi, commentando in pubbliche lezioni a Padova le opere di Alfragano e di Albatenio. Chiamato a Buda dal re Mattia Corvino, per ordinare i codici greci affluiti in Ungheria dopo l'espugnazione di Costantinopoli e di Atene da parte dei Turchi, passò dopo tre anni a Norimberga e infine, per invito di Sisto IV, a Roma, dove morì nel 1476. Insieme con l'attività astronomica contribui moltissimo alla fama del Regiomontano la parte da lui presa alla diffusione della stampa.
Non possiamo chiudere questo rapido accenno al rinascere dell'astronomia in Europa, senza ricordare due altri insigni studiosi fioriti nel Quattrocento, il cardinale Nicolò Cusano e Pietro Apiano (Bienewitz). Il primo non fu astronomo nel vero senso della parola, ma per le sue relazioni scientifiche con il Purbach e con il Regiomontano esercitò notevole influenza sull'indirizzo dei loro studî.
L'altro fu operosissimo osservatore e matematico: è sua la scoperta della direzione contraria al sole che assumono le code delle comete. Benché nato nel sec. XV, l'Apiano si può già considerare come un cinquecentista, ma la sua figura s'inquadra meglio tra i precursori del grande movimento iniziato da Nicolò Copernico e continuato da Tycho Brahe, da Giovanni Keplero, da Galileo Galilei e da Isacco Newton.
Dire in misura adeguata e con la necessaria copia di particolari della "riforma dell'astronomia", nel periodo di cento e cinquantacinque anni compreso tra la comparsa dell'opera di Copernico De revolutionibus orbium coelestium (1532) e quella del trattato di Newton Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), non sembra cosa possibile nei limiti di un articolo, che deve a grand i linee rispecchiare tutta la storia della scienza dei cieli. Questa, che fu definita felicemente "stupenda epopea scientifica", non potrebbe costringersi in poche pagine: né una sommaria esposizione dei punti principali basterebbe a far comprendere la profonda trasformazione arrecata nella nostra scienza dai cinque sommi maestri e dai loro discepoli e contemporanei. Si è osservato con ragione ch'essi si succedettero sulla scena nell'ordine e nel tempo in cui il consenso di ciascuno era più necessario: possiamo aggiungere che, pur nell'avvicinamento creato dalla comune partecipazione a una gigantesca trasformazione d'idee, ciascuno conservò caratteri proprî, non confondibili, e tali da rendere il proprio contributo essenziale alla sintesi generale. Essi s'integrano mutuamente: e la valutazione dei meriti riesce difficile, data l'indole tanto diversa degl'ingegni messi in comparazione. Il giudizio degli storici ha variato nei secoli successivi, a seconda degli elementi nuovi introdotti a suffragio delle diverse opinioni, ed anche dei riflessi che talune conclusioni puramente astronomiche potevano avere in campi affini, nella filosofia in modo speciale. Così è avvenuto, per esempio, che l'importanza della riforma copernicana si considerasse come eccezionale per le conseguenze decisive che essa ebbe in materia cosmologica e perfino teologica: e che per contro l'originalità del concetto eliocentrico, in essa fondamentale, non risultasse più tanto evidente, quando alla vecchia e vaga notizia che si aveva dell'eliocentrismo pitagorico e del movimento attribuito da Filolao alla Terra si sostituirono, per merito dello Schiaparelli, le solide documentate rivendicazioni dei "precursori di Copernico". Oggetto di appassionate discussioni, segnacolo di libertà di pensiero, la dottrina di Copernico è rimasta, sino ai primi decennî del secolo scorso, uno degli argomenti prediletti di lotta tra le diverse scuole filosofiche e religiose, esaltata da taluni che dimenticavano essere stato il trattato De revolutionibus dedicato al pontefice Paolo III, vituperata da altri, che non potevano negarne il fondamento di verità scientifica. Già da un secolo la dottrina era insegnata nelle scuole dei gesuiti, tamquam hypothesis, perché, per un singolare giuoco di natura, meglio adatta a rappresentare i fenomeni, e ancora nel 1822 il famoso libro rimaneva all'indice, insieme con quelli di volgarizzazione del concetto eliocentrico, dovuti a Giordano Bruno e a Galileo. Soltanto nel 1835 il divieto fu tolto, e fu allora possibile a Pellegrino Rossi esclamare: "Anche a Roma, oggi, la Terra gira!".
Bastano queste considerazioni storiche a mostrare come l'apprezzamento dell'opera di Nicolò Copernico sia stato (come poi quello dell'opera galileiana) subordinato a preconcetti estranei affatto all'astronomia: la quale d'altra parte non avrebbe potuto spiccare il suo volo verso la conoscenza del vero sistema dell'universo e verso la rappresentazione più esatta dei fenomeni, se Copernico non avesse dimostrato essere l'ipotesi eliocentrica meglio adatta della geocentrica, sviluppata in Tolomeo, a dar ragione dei movimenti celesti. La maggiore semplicità del sistema non poteva essere messa in piena luce, mancando all'autore gli strumenti matematici atti a sostituire gl'ingranaggi complicati degli eccentri e degli epicicli, ed essendo egli vincolato dalla necessità di tener conto dell'immaginario concetto di trepidazione delle fisse, risalente ad alcuni astrologi alessandrini e penetrato, attraverso alcuni Arabi, nelle Tavole alfonsine. Era necessario che nuove, copiose osservazioni, eseguite con tutta l'esattezza compatibile con i mezzi disponibili prima della scoperta del telescopio, venissero a chiarire questo punto, eliminando ogni incertezza sull'interpretazione del fenomeno di precessione, e permettendo di costruire tavole più esatte di quelle che lo scarso materiale disponibile aveva consentito di compilare sino a quel giorno. Questo fu il compito di Tycho Brahe, prodigioso osservatore, ideatore di strumenti di alta precisione, nato nel 1536, tre anni dopo la morte di Copernico, morto nel 1601. Non ostante il suo forte ingegno e la sua cultura matematica, il patrizio danese non riuscì a districarsi, nella ricerca del vero sistema planetario, dalle sue idee preconcette sull'impossibilità di una distanza delle stelle fisse dai pianeti tanto grande, quanto era necessario immaginare per conciliare i risultati delle sue osservazioni con l'ipotesi copernicana. Costretto a immaginare un sistema misto di eliocentrismo e di geocentrismo (Sole mobile intorno alla Terra fissa, pianeti rotanti intorno al Sole), Tycho non progredisce di un passo rispetto ai contemporanei di Eraclide Pontico, e rimane indietro ad Aristarco e a Copernico. Ma il materiale da lui fornito con assiduo lavoro offrì al discepolo suo Giovanni Keplero la base necessaria per arrivare con una mirabile analisi alla scoperta delle leggi fondamentali dei movimenti planetarî. Sarebbe stato impossibile senza le osservazioni ticoniche andare oltre la precisione delle Tavole pruteniche, compilate da Erasmo Reinhold (1511-1553) con lo scopo di sostituire le insufficienti Tavole alfonsine: allievo di Copernico, il Reinhold credeva bastasse partire dall'ipotesi eliocentrica per conseguire un reale progresso nella nostra conoscenza dei luoghi e delle posizioni, senz'accorgersi che il numero e il peso degli elementi di fatto da lui posseduti erano di gran lunga al disotto del necessario.
Ciò che di più originale notiamo nell'opera di Keplero è l'abbandono di ogni preconcetto geometrico sulla forma delle curve descritte dai pianeti. Nulla di più ardito del rinunziare all'antico dogma dei movimenti circolari e uniformi, imposto dalla scuola platonica all'astronomia, e seguito sino al '500 con unanime consenso. Eccentri ed epicicli, sfere centrate e non centrate, altro non erano se non ingegnose combinazioni tendenti a salvare nell'osservata irregolarità dei movimenti il principio assoluto. Le ellissi kepleriane costituiscono storicamente il frutto di una radicale innovazione, ben più inaspettata che non fosse la stessa dottrina del movimento della Terra.
Contemporanei di Keplero sono alcuni astronomi minori, che non dobbiamo lasciare esclusi da questa rassegna: tra essi l'italiano Gerolamo Fracastoro, Giorgio Retico, il landgravio d'Assia Guglielmo IV, Longomontano, Maestlin, Bürgi, Magini, Rothmann, Fabricius. Ma la fama di tutti costoro è offuscata dal nome di Galileo Galilei. Non è questo il luogo di diffonderci sulla vita e sulle opere di questo sommo italiano, e neppure sulla parte che egli ha avuto nella rinascita dell'astronomia. Dobbiamo a lui se la patria nostra occupa nel nobile movimento un posto d'onore, accanto alla Polonia, patria di Copernico, alla Danimarca, patria di Tycho Brahe, alla Germania, patria di Keplero, all'Inghilterra, patria di Newton.
I contributi essenziali recati da Galileo all'astronomia sono i seguenti:
1. Creazione delle "due nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali";
2. Applicazione del telescopio alle osservazioni e scoperte relative;
3. Difesa e divulgazione del sistema copernicano;
4. Instaurazione del metodo sperimentale, applicato prima di lui da Leonardo da Vinci, e teoricamente implicito nel metodo induttivo astrattamente esposto nel Novum Organum da Francesco Bacone;
5. Interpretazioni di alcuni importanti fenomeni celesti (macchie del Sole, luce cinerea lunare); tavole dei satelliti di Giove; metodi di determinazione delle longitudini terrestri e delle parallassi annue stellari.
Come fondatore della meccanica classica, che a lui dette i suoi principî fondamentali, e come astronomo teorico e pratico, Galileo ben merita l'elogio espresso nei celebri versi dei Sepolcri di Ugo Foscolo: il suo nome è inseparabile, e non per aver sostenuto la dottrina copernicana soltanto, da quello di Isacco Newton. Tra l'uno e l'altro sono però altri astronomi degni di essere ricordati: Simone Mario, che contrastò a Galileo la scoperta dei quattro satelliti di Giove, e scoperse la nebula di Andromeda; Cristoforo Scheiner, altro rivale di Galileo, che si occupò delle macchie solari; Pietro Gassendi, francese, biografo di alcuni insigni astronomi, sottile nelle distinzioni tra l'attendibilità del sistema copernicano e l'opportunità di preferirgli quello di Tycho Brahe; Giovanni Battista Riccioli, ferrarese, dotto compilatore di un trattato tolemaico intitolato Almagestum novum; Giovanni Höwelcke (Hevelius), da Danzica, selenografo, osservatore attivissimo con strumenti non muniti di cannocchiale; Gian Domenico Cassini da Perinaldo, astronomo a Bologna, poi a Parigi, scopritore dei quattro maggiori satelliti di Saturno e di una divisione dell'anello; Olaus Roemer, danese, al quale dobbiamo la capitale scoperta dell'aberrazione planetaria, e quindi della velocità della luce; Cristiano Huygens, olandese, fondatore del calcolo delle probabilità, primo ad applicare agli orologi astronomici la scoperta dell'isocronismo del pendolo, dovuta a Galileo.
Di Isacco Newton, nato a Whoolstorpe nel 1643, morto nel 1727, non è, come dei quattro grandi suoi predecessori nella riforma dell'astronomia, possibile riassumere in brevi cenni l'opera gigantesca: se pur vogliamo rimanere strettamente nel campo dell'astronomia, siamo costretti a ridurre la nostra esposizione a pochi punti, sufficienti tuttavia per far comprendere com'egli sia stato uno dei più nobili ed alti spiriti che abbiano onorato il genere umano. Scopritore della gravitazione universale, egli diede con essa alla scienza dei cieli in primo luogo, e a tutta la filosofia naturale poi, il principio più fecondo e più generale per l'interpretazione dei fenomeni: con prudenza pari alla sagacia, seppe frenare i voli dell'immaginazione, evitando di sconfinare nella metafisica e di dare forma ontologica alle sue dottrine fisiche. Per questo, la sua filosofia naturale non è in contraddizione con le scuole idealistiche e con la ricerca delle cause prime: distinta in ciò dalle tendenze positivistiche e materialistiche dei secoli successivi, che hanno cercato di applicare la scienza alla discussione e alla risoluzione dei problemi trascendenti.
Il sistema astronomico sviluppato nell'opera principale del Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica (edita nel 1687), si fonda sulla meccanica classica, creata da Galileo e da lui perfezionata. Per l'indagine sui fenomeni egli applica largamente i metodi geometrici, e si costruisce il poderoso sussidio analitico del calcolo infinitesimale, inventato pure, indipendentemente e contemporaneamente, dal Leibniz.
Non è esagerazione dire che tutta l'astronomia teoretica nei secoli XVIII e XIX si riduce a svolgimenti e perfezionamenti della dottrina esposta nei Principia: Newton occupa nella scienza moderna un posto superiore a quello di Aristotele presso gli antichi e nel Medioevo, perché sino a questi ultimi anni nessuna concezione teoretica è stata seriamente opposta alle sue. Né si può dire che le novissime idee sulla relatività e sulla meccanica relativistica vengano a scalzare dalle fondamenta l'edificio galileiano e newtoniano, il quale, nella peggiore delle ipotesi, rimarrà ancora lungamente a modello di un'approssimazione largamente sufficiente nel maggior numero de' casi (e certamente in tutti quei casi che l'astronomia studia).
Tra i discepoli e continuatori di Newton nel suo paese merita di essere ricordato particolarmente Edmondo Halley (1656-1742), che perfezionò alcune teorie del maestro e si dedicò anche a ricerche sul magnetismo terrestre, esplorandone l'andamento lungo le coste dell'Africa e dell'America meridionale. Dobbiamo a lui un catalogo di stelle australi, osservate a S. Elena, e il primo saggio di determinazione di un'orbita cometaria basata sulle dottrine newtoniane. La sua previsione del ritorno della grande cometa osservata nel 1682 (fondata sull'identificazione di essa con altre apparse nel 1607, nel 1531, nel 1456 e in epoche anteriori) fu luminosamente confermata nel 1758, e successivamente nel 1835 e nel 1910: l'astro offre il primo esempio di cometa periodica e porta il nome del grande astronomo inglese. A lui è dovuto anche un risultato di somma importanza per l'astronomia: la scoperta del movimento proprio di alcune stelle, che ha avuto per conseguenza l'abbandono della dottrina universalmente accolta su l'immutabilità assoluta del sistema delle fisse.
Il valore intrinseco e la portata speculativa e pratica dei lavori astronomici di Halley meritarono il solenne riconoscimento del governo britannico, che nel 1720 lo chiamò a succedere a John Flamsteed, nella carica di astronomo reale per l'Inghilterra. L'ufficio era stato istituito nel 1675, e primo titolare ne era stato appunto il Flamsteed, osservatore valentissimo, al quale dobbiamo la Historia coelestis Britannica, catalogo di posizioni stellari, e l'Atlas coelestis. La tradizione da lui iniziata si continua ancora nell'osservatorio di Greenwich, del quale è direttore l'astronomo reale. Lo scopo dello storico istituto è esplicitamente fissato nell'ordinanza di fondazione, emanata da re Carlo II: esso deve servire all'astronomo reale per perfezionare le teorie dei movimenti del Sole, della Luna e dei pianeti, e le nostre conoscenze sui luoghi delle stelle fisse, cosa sommamente desiderabile per la navigazione oceanica. Lo spirito essenzialmente pratico del popolo britannico si rivela in questo famoso testo di legge, che tanto ha contribuito a un tempo ai progressi della nostra scienza e allo sviluppo della potenza marittima dell'Inghilterra.
A questo punto ci conviene abbandonare l'ordine rigorosamente cronologico sin qui seguito, per tener dietro separatamente alle singole manifestazioni di un'attività astronomica ormai organizzata presso i principali popoli civili. E, continuando a parlare di Greenwich, massimo centro di tale attività, ne ricorderemo i successivi direttori: Giacomo Bradley (1692-1762), vir incomparabilis (come l'ha chiamato il Bessel), scopritore dell'aberrazione annua delle fisse e della nutazione dell'asse terrestre, autore di un catalogo che, nelle due riduzioni eseguite in Germania durante il secolo XIX, da Bessel e da Auwers, costituisce il saggio più antico della nuova astronomia meridiana; Nevil Maskeline (1732-1811), noto per le sue osservazioni sul monte Shehallien nella Scozia, dalle quali uscì la prima prova dell'attrazione delle montagne. Nell'ultimo secolo illustrarono l'alto ufficio di astronomo reale principalmente George Biddel Airy (v.) a Greenwich e David Gill al Capo di Buona Speranza. Il primo, nato nel 1801 e morto nel 1892, si occupò con risultati felicissimi di ottica matematica, pratica e fisiologica, scoprendo l'astigmatismo dell'occhio umano: pubblicò ricerche importanti di astronomia teoretica e di magnetismo terrestre; promosse le riduzioni d'importanti serie inedite di osservazioni; diede il primo impulso alla fotografia solare. L'altro prese parte a spedizioni astronomiche all'isola Maurizio e all'Ascensione, per osservare il passaggio di Venere sul disco solare (1874) e per determinare la parallasse dell'astro maggiore: osservatore accuratissimo, rimase insuperato per diligenza e abilità tra quanti esplorarono il cielo australe.
Se la Francia, pur tanto ricca di geniali maestri di scienza, non figura nella fulgida "epopea scientifica" della quale abbiamo a sommi capi tessuto la storia, ciò è dovuto forse allo spirito critico del Gassendi nel primo periodo e alle dottrine filosofiche cartesiane nel secondo. L'audacia delle ipotesi proclamate dai predecessori di Newton spaventò il pacifico parroco di Digne, il quale non amava spingere sino agli estremi la sua avversione per Aristotele e la sua ammirazione per i rinnovatori dell'astronomia. Quanto all'autore del Discours sur la méthode, è innegabile che le sue ipotesi fisiche incepparono gravemente l'applicazione della sua filosofia alle indagini sul vero sistema dell'universo. Volendo ricondurre la spiegazione delle cose alle cause prime, egli s'illuse di poter ricavare per via puramente deduttiva da pochi principî tutta la scienza: e con ciò la sua grande autorità diresse il pensiero francese per una via opposta a quella che fu battuta da Galileo e dallo stesso Newton. È singolare il fatto che il cartesianismo, dopo avere per quasi mezzo secolo trattenuto la scuola matematica francese dal prendere in considerazione le dottrine newtoniane, l'abbia poi portata spontaneamente a conquistare il primo posto nell'applicazione, nell'estensione e nel perfezionamento delle dottrine stesse: paradosso che si spiega con la grande portata dei metodi matematici creati o perfezionati dall'insigne pensatore, e con la stessa natura della sintesi raggiunta da Newton, la quale si prestava per il suo carattere di assoluta generalità a servire di fondamento a una vasta elaborazione deduttiva. Certo è che, con Alessio Claudio Clairaut (1713-1763), con Giovanni d'Alembert (1717-1783), con gli svizzeri Bernoulli ed Eulero, con il nostro Giuseppe Lagrange (1736-1813), la scuola francese, derivata direttamente da Cartesio, prese la più superba rivincita della sua assenza dal grande movimento astronomico nel periodo anteriore, collocando su basi granitiche l'edificio newtoniano e fornendo alla sua divulgazione in Francia, in Italia, in Germania, in Russia l'efficace sussidio della sua limpida chiarezza di esposizione, della fecondità e duttilità de' suoi procedimenti analitici, della forza penetrante caratteristica di ogni forma di cultura francese. Coronamento dell'opera, durata per quasi tutto il secolo XVIII, fu la Mécanique céleste di Pierre Simon Laplace (1749-1827): trattato monumentale, che va annoverato tra i libri fondamentali della nostra scienza. Tracce del cartesianismo iniziale conserva l'astronomia teorica dei Francesi durante il sec. XIX e agli albori del presente: e ciò spiega come nel loro paese, prima e più che in ogni altro, si sia accentuata e mantenuta la netta separazione tra astronomia astratta e astronomia pratica, accompagnata da una tendenza abbastanza chiara a stabilire tra questa e quella una graduazione d'importanza, non accettata altrove. Par che rinasca il vecchio concetto platonico nei continuatori del Laplace, tra i quali ricorderemo il Poisson, il Leverrier, il Delaunay, il Radau, il Tisserand, il Callandreau, il Poincaré. Nessuno di questi insigni matematici si è occupato di osservazioni: quando il Leverrier, direttore dell'osservatorio di Parigi, volle confermare sul cielo la scoperta del pianeta Nettuno, fu costretto a ricorrere a Berlino, dove il Galle riuscì ad osservare l'astro.
Meno famosa della tradizione di Greenwich, ma pur sempre onorata e in taluni momenti gloriosa è quella dell'osservatorio di Parigi. Fondato alla vigilia dell'arrivo in Francia del nostro Cassini, eretto su disegni del celebre architetto Perrault, l'Observatoire de Paris è ancor oggi un edificio caratteristico del quartiere del Lussemburgo. Tra i suoi direttori annovera, un dopo l'altro, i tre discendenti diretti di G.B. Cassini e, nel sec. XIX, l'Arago, il Leverrier, il Delaunay, il Tisserand, il Loewy. La maggior parte di questi scienziati si occupò preferibilmente di meccanica celeste: nessuno di essi, tranne l'Arago e il Loewy, attese direttamente ad osservazioni, lasciandone la cura ad astronomi subordinati, non sempre liberi di seguire iniziative proprie e di applicare criterî scientifici personali. Quando questi criterî poterono prevalere, come al tempo dei fratelli Henry, che iniziarono l'applicazione geniale dei procedimenti fotografici alla costruzione di carte celesti, verso il 1885, lo spirito moderno di ricerca scientifica si sostituì vantaggiosamente al sistematico ordinamento dell'astronomia come servizio di stato, caratteristico del secolare istituto.
La genialità francese ebbe miglior campo di esercitarsi fuori dell'Osservatorio, per merito di astronomi appartenenti al Bureau des Longitudes e alle celebri commissioni che si occuparono delle vaste operazioni geodetiche promosse dall'Accademia delle scienze nel sec. XVII e nei successivi. La storia di tali operazioni è intimamente connessa con quella dell'astronomia francese, ma non potrebbe essere riassunta qui, costituendo ormai la misurazione della Terra una disciplina autonoma. Più precisamente tra gli astronomi vanno ricordati il Lacaille (1713-1762), che studiò il cielo australe, costruendone un catalogo di quasi diecimila stelle, osservate sommariamente al Capo di Buona Speranza tra il 1751 e il 1754: il Messier (1730-1817), indefesso osservatore e scopritore di nebule e di comete: il Lalande, al quale dobbiamo un grande catalogo di ben 47.000 stelle, osservate in maniera speditiva, edito, quarant'anni dopo la morte di lui, dall'Associazione britannica, nel 1847, a cura del Bailly: Jean-Baptiste Delambre (1749-1822), prolisso autore di tavole planetarie, di ricerche di astronomia sferica, e di una storia dell'astronomia, in sei volumi, repertorio copiosissimo, se non sempre informato a serena obiettività e a critica severa: Léon Foucault (1819-1868), fisico valentissimo, ricordato tra gli astronomi per aver trovato il modo di applicare specchi di vetro argentato ai grandi telescopî, e per aver eseguito nel 1862 la prima misura diretta, con metodi fisici, della velocità della luce: Alfred Marie Cornu (1841-1902), altro fisico, che fu tra i primi ad occuparsi in Francia di spettroscopia astronomica, e che ripeté nel 1872 la determinazione del Foucault, tanto importante per il nesso tra la velocità della luce, l'aberrazione e la distanza del sole dalla terra.
In Inghilterra ammiriamo sin dal sec. XVIII, accanto all'opera sistematica degli astronomi di Greenwich, tutti tesi con mirabile disciplina al compito loro ufficialmente prescritto, il sorgere di una pleiade di dilettanti osservatori, alcuni dei quali raggiungono le più alte vette della scienza e della fama. Il più ammirato di questi, Friedrich Wilhelm Herschel (1738-1822), tedesco di nascita, musicista di professione, occupa tra i cultori d'astronomia luogo non inferiore a quello assegnato ai massimi dell'antichità e dell'evo moderno. Costruttore di telescopî a riflessione al tempo suo insuperati, dedicò le sue lunghe vigilie a fruttuose esplorazioni del cielo, così da meritare l'elogio che si legge sulla sua tomba nel cimitero di Upton: Coelorum perrupit claustra. Egli infatti estese non solamente i confini del sistema solare, con la scoperta di Urano, ma anche, e di gran lunga, quelli dello spazio stellato, penetrando mediante i suoi poderosi strumenti sino ad astri estremamente fiochi, disseminati a distanze inconcepibili da noi: iniziò con le indagini sulla struttura della Via lattea, sulla distribuzione delle stelle nel cielo, sulle stelle doppie, sulle nebulose, quel ramo di astronomia che sotto il nome di astronomia siderale si rivela oggi il più affascinante e il più ricco d'inattese rivelazioni. Fu il primo a tentare la sistemazione dei moti proprî delle stelle, deducendone la legge dello spostamento del Sole nello spazio, a riconoscere l'affinità di costituzione di Marte e della Terra, a interpretare le fasce equatoriali di Giove come fenomeno affine alle correnti regolari dei venti alisei nella nostra atmosfera. Continuatore non degenere dell'opera paterna, John Herschel (1792-1871) ne estese il campo nell'emisfero australe, fondando un osservatorio sulla collina della Tavola, presso la Città del Capo.
Con gli "scandagli del cielo" i due Herschel precorsero le ricerche moderne, alle quali è legato il nome del Kapteyn, tendenti a scoprire nell'apparente disordine secondo il quale le stelle sono distribuite sulla vòlta celeste le leggi dei loro aggruppamenti in sistemi. Per questo, e per l'applicazione di metodi esatti nella misura dell'intensità luminosa delle stelle, essi meritano di essere considerati come i fondatori dell'astronomia fisica, benché loro siano mancati quasi affatto i sussidî della tecnica moderna attinometrica, spettroscopica e fotografica. Ai tempi di Wilhelm infatti non erano ancor noti i procedimenti con i quali John affrontò il problema di misurare la radiazione solare; l'analisi della luce mediante prismi era nell'infanzia quando questi suggeriva di sorvegliare giorno per giorno l'attività solare, ottenendone graficamente immagini poi vantaggiosamente sostituite da fotografie.
L'esempio dei due Herschel fu seguito con onore in Inghilterra da William Parson, conte di Ross (1800-1867), dal figlio di lui, Laurence, da William Lassell (1799-1880), scopritore dei satelliti di Nettuno, e, negli ultimi tempi, da William Huggins (1824-1910) e da sua moglie, infaticabili osservatori di spettri stellari, da Isaac Roberts (1829-1904) e dal Common, che rivaleggiarono nell'applicare la fotografia alla riproduzione telescopica di nebule e di eclissi. Esempî ammirabili di uomini che dedicano gli agi e gli ozî della ricchezza a promuovere la scienza, con assiduo lavoro personale, questi astronomi hanno trovato numerosi imitatori non soltanto nel loro paese, ma anche altrove: citeremo l'Engelmann e il barone von Engelhardt in Germania, il Burnham e il Draper agli Stati Uniti, il Dembowski e il compianto Vincenzo Cerulli in Italia. Mecenati senz'esser astronomi furono invece gli americani Lick, Yerkes, Vanderbilt e altri molti, fondatori a proprie spese di osservatorî giganteschi, l'austriaco von Remeis, il francese Bischoffsheim. Né possiamo passar sotto silenzio i patrizî ungheresi Thege di Konkoly e Harkanyi, nei quali il tipo dell'astronomo amatore e quello del munifico donatore di specole si fondono con simpatica geniale signorilità.
Quasi contemporaneamente all'indirizzo estensivo dato alle ricerche astronomiche dalla mente poderosa e dall'operosità infaticabile di Wilhelm Herschel nella sua terra di adozione, il paese d'origine del sommo astronomo si pone risolutamente alla testa del movimento d'indagini teorico-pratiche, dalle quali all'aprirsi del secolo scorso la scienza dei cieli esce felicemente rinnovata e perfezionata. In mirabile fusione di dottrina e di spirito d'osservazione, la scuola tedesca porta a un'altezza insuperabile la perfezione dei metodi, la finezza della tecnica strumentale, la sagacia delle discussioni sui risultati, l'esauriente analisi dei problemi, la deduzione delle leggi. Occupano nella serie gloriosa i posti più elevati Karl Friedrich Gauss (1777-1855), Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846), Friedrich Wilhelm Argelandur (1799-1875), Wilhelm Struve (1793-1864): accanto a loro, e dopo di loro, l'Olbers, lo Schumacher, l'Encke, il Heis, i due Peters, il Hansen, il Galle, Ottone, Ermanno e Lodovico Struve, il Mädler, lo Schönfeld, il Krüger, il Bruns, il Nyren, il Winnecke, il Küstner, il Littrow, il Wolf, l'Oppolzer, l'Auwers, il Gyldèn. Tutta la storia dell'astronomia classica nel sec. XIX si riassume nelle opere e nell'influsso predominante della scuola germanica, ad eccezione dei lavori delle specole anglo-americane e francesi, che conservarono caratteri proprî, conformi alle tradizioni rispettive. Il citarne i frutti più importanti e più fecondi, dalla Theoria motus corporum coelestium del Gauss ai Fundamenta astronomiae del Bessel, dalla Rassegna del cielo stellato boreale di Argelander alle Mensurae micrometricae e alle Positiones mediae delle stelle doppie osservate da Wilhelm Struve, significherebbe uscire dal campo della storia per entrare in quello della pura dottrina astronomica, quale ancor oggi si professa nelle scuole e si applica nelle specole di tutto il mondo civile. Qui non è più questione di ricordare insigni precursori, ma di presentare maestri ancor vivi e operanti in tutti i campi della scienza nostra, uomini dei quali gli ammaestramenti e i risultati troveranno altrove enumerazione, giustificazione e valutazione individuale. La storia dell'astronomia nel sec. XIX non può essere riassunta senza ridursi a una lunga sequela di nomi, di date e di lavori, a un indice schematico privo di ogni valore critico e culturale. Per la stessa ragione ci converrà qui arrestarci sulla soglia di quel maestoso edificio che si va costruendo sotto i nostri occhi, e che porta il nome di astrofisica: la storia di questa si confonde con la storia dell'astronomia propriamente detta, dalla quale si è staccata in forma autonoma al suo nascere, e alla quale si ricongiunge con sempre maggiori legami, quanto più lo scopo comune si riafferma, e l'intreccio dei procedimenti si rende più difficile da snodare. Nata nel sec. XVIII con le ricerche fotometriche del Lambert, sviluppata nel XIX dai Herschel, dall'Argelander, dallo Zöllner, dal Melloni, dal Secchi, dal Huggins, l'astrofisica ha avuto un carattere suo proprio, e un campo d'indagine che parve limitato alla pura analisi spettroscopica e fotometrica, finché gli osservatori di spettri e d'intensità luminose non pensarono ad applicare i nuovi strumenti e le leggi della fisica alla soluzione di problemi di movimento e di distanza, come quelli relativi agli spostamenti delle stelle lungo la visuale e ai metodi di determinazione di grandezze assolute. Basti in questo ramo, che fu divergente, ed ora si riannoda all'astronomia classica, citare i due grandi pionieri, Edward Pickering americano, e Hermann Karl Vogel tedesco. E con essi non lasciamo di ricordare i nomi dei continuatori e discepoli della scuola tedesca in altri paesi: Beniamino Apthorp Gould, che fondò a Cordova un osservatorio, estendendovi con opera gigantesca la Rassegna Boreale dell'Argelander a Bonn; Giovanni Schiaparelli, allievo di Encke e di Struve, nome insigne e caro a tutti gl'Italiani; infine gli altri astronomi italiani che, senza raggiungere la fama dello Schiaparelli, onorarono la nostra stirpe nel secolo ultimo: Barnaba Oriani, Giovanni Plana, Angelo Secchi, Lorenzo Respighi, Giuseppe Lorenzoni, Annibale De Gasperis.
Carattere specifico dell'astronomia nella seconda metà dell'Ottocento e sino al 1914 fu la sempre maggiore estensione del principio di collaborazione internazionale, auspicato già sin dal 1500 da Tycho Brahe, e facilitato al tempo nostro non tanto da sincera e piena comprensione mutua delle diverse scuole nazionali, quanto dal bisogno di distribuire i lavori secondo le condizioni più indicate di luogo e di opportunità, e dall'aumentata facilità di comunicazioni rapide e sicure. Questioni fondamentali per l'astronomia non rimangono più affidate a solitarî indagatori o ad istituti nazionali, esigendo collaboratori collocati dove la latitudine o altri fattori consentano il migliore rendimento, e dove la verificazione di risultati altrove ottenuti sia più facile e sicura. Ciò che si era trovato necessario per le grandi operazioni di geodesia astronomica lo divenne altresì per lavori puramente astronomici di carattere collettivo. I cataloghi stellari, sul modello di quelli famosi, eseguiti nella prima metà dell'Ottocento da Giuseppe Piazzi, dall'Argelander, dal Bessel, dallo Struve, dagli astronomi di Greenwich, di Parigi, di Leida, di Washington, estesi a tutto il cielo, richiesero un'organizzazione mondiale, promossa in Germania dall'Astronomische Gesellschaft: un'organizzazione simile, su basi ancora più larghe, fu creata a Parigi per la carta e il catalogo fotografico del cielo: la Commissione geodetica internazionale istituì una serie di stazioni assai distanti in longitudine, lungo il parallelo di Carloforte, allo scopo di ricavarne le variazioni della latitudine geografica, e quindi gli spostamenti del polo alla superficie del nostro pianeta.
Accordi tra gli astronomi di diverse nazioni sono anche stati presi per consociare in uno sforzo armonico, fatto secondo uno schema prestabilito, le ricerche intorno al pianeta Eros, dalle quali si attende una più grande approssimazione al valore della parallasse solare, e quindi della distanza dell'astro da noi, assunta come unità di misura lineare nello spazio interplanetario: più in generale, si pensa che un'associazione di astronomi dei diversi paesi abbia a riprendere la correzione sistematica dei valori oggi adottati per le costanti fondamentali dell'astronomia, facendo proprio il programma che Wilhelm Strum novant'anni or sono magistralmente dettava per il nuovo osservatorio di Pulkova da lui eretto. Ma tutto ciò, insieme con i servizî di trasmissione rapida delle notizie per via epistolare e telegrafica, insieme con la pubblicazione di riviste modellate sugli esempî ammirevoli delle Astronomische Nachrichten di Kiel e delle Monthly Notices della reale Società astronomica di Londra, appartiene ormai alla cronaca, non alla storia della vita astronomica presso i principali paesi civili. Documenti, ad ogni modo, di una continuità di relazioni e di opere, che si sta cercando ai giorni nostri tra i contemporanei, come si è cercata e trovata nei tempi trascorsi tra le generazioni che si sono succedute, tra le civiltà che si sono tramandate la fiaccola del sapere: argomenti di singolare nobiltà per una scienza che nella tradizione millenaria incontra lo stimolo a una sempre più intima connessione tra uomini di buona volontà, vissuti in tempi e in luoghi diversi, fatti solidali dalla comune aspirazione a conoscere le più alte verità che lo spettacolo del cielo stellato propone alla nostra contemplazione ammirante.
Fonti: Le fonti sono innumerevoli: né altrimenti potrebbe essere per una scienza tanto antica e venerata quale maestra di ogni altra, e tanto intimamente legata con la filosofia, con le credenze e con la cultura di ogni popolo civile. Limitandoci alle opere più importanti, ricorderemo per la storia dell'astronomia in ogni età, sino alla fine del sec. XVIII, le due grandi opere del Bailly e del Delambre, repertorî ricchissimi di notizie, se non modelli di obiettività critica e d'indipendenza da preconcetti. Per le civiltà più antiche, la greca non esclusa, il sec. XIX e il principio del XX hanno portato un contributo di essenziale importanza, con la scoperta dei documenti lasciati da ciascuna, e con l'uso più scientifico dell'interpretazione filologica dei testi. Gli scavi d'Egitto e di Mesopotamia hanno aperto alla nostra indagine un tesoro d'informazione inestimabile: l'archeologia comparata ha illuminato di nuova luce la vita di quei popoli remotissimi, facendone conoscere le relazioni e le influenze reciproche: la ricostruzione dei linguaggi ci ha permesso di decifrare i papiri, le iscrizioni cuneiformi, le figurazioni primitive dell'arte con i loro simboli e con i commenti che ne consentono l'interpretazione. Le opere dei grandi archeologi, quali lo Champollion, il Biot, il Boeckh, il Dümichen, il Lepsius, il Brugsch, il Maspero, il Layard, il Sayce, il Rawlinson, il Jensen, l'Epping, il Kugler, che hanno posto la scienza dell'antichità su nuove basi, e quelle dei loro continuatori, sono guida sicura per coloro che vogliono approfondire la storia dell'astronomia in relazione alla vita politica e religiosa di quei popoli. Una guida preziosissima è data dagli scritti dello Schiaparelli, che comprendono pure studî sull'astronomia ebraica e greca e su qualche punto relativo al calendario dei Cappadoci e all'astronomia degl'Indiani (v. Bibliografia).
Per l'astronòmia degl'Indiani i testi migliori sono le storie letterarie dell'Oldenberg e del Winternitz, il Hankel, il Colebrooke: quella dei Cinesi ci è nota attraverso gli scritti dei padri gesuiti (Souciet, e principalmente Gaubil) e numerose pubblicazioni recenti di viaggiatori inglesi. L'Uranografia cinese dello Schlegel è considerata poco attendibile dalla critica moderna. Poiché dell'astronomia primitiva è parte essenziale e spesso quasi esclusiva la ricerca delle basi del calendario, hanno autorità grandissima non solo per i popoli orientali, ma anche per quelli della Polinesia, dell'America, dell'Europa settentrionale, i trattati monumentali dell'Ideler e del Ginzel.
Tutta la storia dell'astronomia ellenica e alessandrina è stata rifatta con metodo critico durante il sec. XIX, per merito di Giovanni Schiaparelli, di Henry Martin, di Paul Tannery, di Pierre Duhem, di Thomas Heath. Gli Arabi ci sono stati meglio rivelati da Schjellerup, da Nallino, da Golius. Le edizioni critiche di Alfonso il Savio (Libros del Saber de Astronomía, Tavole alfonsine), delle opere di Copernico, di Keplero, di Galileo, le pubblicazioni di speciali articoli critici nel Bullettino Boncompagni e in altre riviste hanno contribuito a rendere più sicura la nostra conoscenza del periodo medievale e del Rinascimento. Sui quattro astronomi, Purbach, Regiomontano, Copernico, Tycho Brahe, abbiamo un'opera assai nota del Gassendi (1654): a Tycho dedicò pure un bel libro, edito nel 1890, il Dreyer. Rivendicò la fama di Paolo Toscanelli con un grosso volume edito nella Raccolta Colombiana Gustavo Uzielli: e Antonio Favaro curò con infinito amore lo studio della vita e dell'opera di Galileo. L'opinione presente della cultura gesuitica sul grande di Arcetri è autorevolmente esposta con somma temperanza e nobiltà dal padre Carlo Bricarelli. A Newton e alla sua scuola sono consacrati moltissimi studî storici e critici: di alcuni, popolari, è assai pregiato il valore letterario: ricordiamo quello dell'Algarotti e parecchi francesi della scuola di Voltaire. Per la storia del secolo decimonono basterà ricordare gli elogi accademici dell'Arago e il bellissimo libro di Agnese Clerke, a cui si deve soltanto osservare la tendenza ad esagerare la parte, pur notevolissima, presa dai suoi compatrioti nel grande sviluppo dell'astronomia contemporanea, e lo squilibrio fra la trattazione degli argomenti puramente astronomici, e quella degli argomenti, più brillanti, ma quando il libro fu scritto (1885) ancora in embrione, dell'astronomia fisica. (V. Tav. XXIV).
Bibl.: E. Soucet, Observations... tirées des anciens livres chinois, ou faites nouvellement aux Indes et à la Chine..., Parigi 1729; J. S. Bailly, Histoire de l'astronomie ancienne, Parigi 1781; J. B. Delambre, Histoire de l'astronomie, Parigi 1817-1827, voll. 6; J. B. Biot, Recherches sur l'année vague des Egyptiens, in Memorie accademiche di Parigi, XIII; id., Recherches sur plusieurs points de l'Astronomie égyptienne, Parigi 1823; A. Boeckh, De Platonico systemate coelestium globorum, Heidelberg 1810; id., Philolaos des pythagoräers Lehren, Berlino 1819; id., Manetho und die Hundssternperiode, Berlino 1850; id., Das kosmische System des Platon, Berlino 1852; id., Gesammelte kleine Schriften, Lipsia 1866; R. Lepsius, Chronologie der alten Ägypter, Berlino 1849; H. Brugsch, Die Ägyptologie, Lipsia 1891; id., Religion und Mythologie der alten Ägypter, Lipsia 1888; G. C. C. Maspero, Histoire ancienne des peuples de l'Orient, Parigi 1894-1899; G. Schiaparelli, Scritti sulla storia dell'astronomia antica, Bologna 1925-1927; M. Winternitz, Geschichte der indischen Litteratur, I, 2ª ed., Lipsia 1909; H. Hankel, Geschichte der Mathematik im Althertum und Mittelalter, Lipsia 1874; H. T. Colebrooke, Algebra with Arithmetic from the Sanscrit, Londra 1817; id., Miscellaneous Essays, Londra 1874, 3 voll; id., Bramegypta and Bhascara; Th. H. Martin, Hypothèse astronomique de Pythagore, Roma 1872; id., Hypothèse astronomique de Philolaüs, Roma 1872; id., La précession des équinoxes, Parigi 1869; id., Études sur le Timée de Platon, Parigi 1841, voll. 2; id., Histoire des hypothèses astronomiques chez les Grecs et les Romains, Parigi 1881; P. Tannery, Recherches sur l'histoire de l'astronomie ancienne, Bordeaux 1893; id., Études de mythologie et d'archéologie égyptiennes, Parigi 1893; A. H. Layard, Niniveh and its Remains, Londra 1849; id., Niniveh and Babylon, Londra 1853; id., Monuments of Niniveh, Londra 1849-1853; id., Inscriptions in the Cuneiform Character from the Assyrian Monuments, Londra 1851; A. H. Sayce, The Astronomy and Astrology of the Babylonias, Londra 1874; H. C. Rawlinson, Cuneiform Inscriptions of Western Asia, Londra 1861-1880; P. Jensen, Kosmologie der Babylonier, Strasburgo 1890; F. X. Kugler, Die Babylonische Mondrechnung, Friburgo in B. 1900; id., Sternkunde und Sterndienst in Babel, Münster 1907 segg.; id., Mémoires scientifiques, Tolosa 1912; E. F. Weidner, Handbuch der babylonischen Astronomie, Lipsia 1915; G. Furlani, La civiltà assira, Roma 1929; P. Duhem, Le Système du monde, Parigi 1913 segg.; Th. Heath, Aristarchus of Samos, Oxford 1913; id., in The Cambridge Ancient History, VII, Cambridge 1928, c. IX, ii-vi; I. L. Heiberg, Geschichte der Mathematik und Naturwissenschaft im Altertum, Monaco 1925; H. F. C. Schjellerup, Abd-el-Rahman-al-Sufi: Description des étoiles fixes, Pietroburgo 1874; C. A. Nallino, Al-Battānī sive Albatenii Opus Astronomicum, Milano 1899-1907, voll. 3; P. Gassendi, Tychonis Brahei Vita - Accessit N. Copernici, G. Perubachii, et J. Regiomontani... Vita, L'Aia 1655; J. L. E. Dreyer, Tycho Brahe, Edimburgo 1890; A. M. Clerke, A popular history of Astronomy during the nineteenth Century, Londra 1902.
Tra le opere di divulgazione, meritano speciale menzione: F. Arago, Astronomie populaire, Parigi-Lipsia 1854-1857, voll. 4; F. H. A. Humboldt, Kosmos, Stoccarda-Tubinga 1845-1862, voll. 5; C. Flammarion, Astronomie populaire, Parigi 1881; id., Dans le ciel et sur la terre, Parigi 1886; id., Les étoiles et les curiosités du ciel, Parigi 1882; id., Les mondes imaginaires et les mondes réels, Parigi 1905; id., Promenades dans les étoiles, Parigi 1910; S. Newcomb, Popular astronomy, New-York 1878-80 (quest'ultima tradotta e rifatta in tedesco: S. Newcomb e R. Engelmann, Populäre Astronomie, curata da H. Ludendorff, 7ª ed., Lipsia 1922); R. A. Proctor, The expanse of heaven, Londra 1897; id., Old and new astronomy, Londra 1892; id., Miths and marvels of astronomy, Londra-Nuova-York 1896; id., The orbs around us, Londra 1894; id., Our place among infinities, Londra 1901; id., Other suns than ours, Londra 1896; id., Other worlds than ours, Londra 1902.
Astronomia Sferica.
Compito dell'astronomia sferica è lo studio dei moti apparenti celesti; suo scopo è la determinazione della posizione di un astro qualsiasi a un dato istante sulla sfera celeste, ossia della direzione secondo cui esso è visibile. E necessario però a tal fine che, nel caso di una stella fissa, l'osservazione ce ne abbia data la posizione rispetto a certi elementi geometrici di riferimento, e, nel caso di un pianeta o di una cometa, oltre l'analoga posizione corrispondente ad altro istante precedente qualsiasi, se ne conosca il moto intorno al Sole nello spazio, determinato sempre fondandosi sui dati di osservazione, come insegna la meccanica celeste.
Nel campo strettamente astronomico, l'astronomia sferica è adunque la base teorica dell'astrometria, cioè della teoria e della pratica delle determinazioni di posizioni celesti e delle grandi e piccole, complessive e individuali variazioni loro, nel mondo siderale e nel mondo solare.
Se, come la sua stessa denominazione esprime, il campo di studio dell'astronomia sferica è essenzialmente quello di una superficie sferica, quando intervenga l'elemento distanza, l'astronomia sferica contribuisce alla risoluzione di problemi a tre dimensioni: così per esempio il problema prospettico, dovuto alla parallasse per oggetti celesti di distanza nota, dell'effetto, pure prospettico, derivante dalle reciproche posizioni dei membri del sistema solare, come eclissi di Sole e di Luna, di satelliti, passaggi di pianeti inferiori (Mercurio e Venere) dinanzi al Sole, occultazioni di stelle dietro la Luna e dietro pianeti, occultazioni e passaggi di satelliti rispettivamente dietro e avanti il pianeta principale, passaggi dell'ombra dei satelliti stessi sul disco di esso pianeta, loro immersioni nel cono d'ombra di questo e successive emersioni.
Pratiche applicazioni poi dell'astronomia sferica sono le determinazioni dell'ora e delle posizioni geografiche e quindi i fondamenti stessi astronomici della navigazione marina ed aerea, e infine il calcolo dei dati comuni del calendario civile.
Se gli elementi e gli sviluppi fondamentali dell'astronomia sferica sono di carattere geometrico, anzi trigonometrico, vedremo più avanti come ulteriori elementi prospettici (come già s'è accennato) e cause cinematiche gravitazionali e fisiche ne complichino l'originale semplicità schematica.
L'astronomia sferica adotta, come finzione geometrica fondamentale conveniente, l'illusione ottica comune che ci fa percepire il cielo stellato come una superficie sferica di raggio grandissimo, e col centro nell'occhio dell'osservatore (punto questo che si può confondere per lo più senza errore col centro della Terra), sulla quale superficie gli astri siano disposti. Finzione, oltre che conveniente, necessaria, in quanto che per l'enorme maggioranza delle stelle, le distanze sono ignote. L'astronomia sferica è adunque lo studio delle posizioni degli astri, delle variazioni di esse e delle relazioni tra di esse su questa ipotetica superficie sferica, di cui un comune globo celeste può essere la sfera rappresentativa.
Se nello spazio la posizione di un punto richiede tre numeri per essere fissata, per esempio, le tre distanze del punto da tre piani fra loro ortogonali (fig. 1), oppure due archi di due circoli massimi (pure ortogonali tra loro, tracciati su una sfera di centro e raggio arbitrariamente scelti e che tosto definiremo) e la distanza del punto dal centro della sfera; su di una superficie sferica a fissare la posizione di un punto basteranno i due archi sopra detti.
Così infatti si fa anche per fissare la posizione di un punto sulla superficie terrestre ammessa sferica, ricorrendo alle due coordinate chiamate longitudine e latitudine. L'analogia con queste coordinate geografiche servirà a chiarire le caratteristiche delle coordinate sferiche in generale.
In ogni sistema di siffatte coordinate occorre anzitutto fissare un circolo massimo fondamentale, dal quale risultano fissati senz'altro i due poli di esso, intersezioni con la sfera del diametro perpendicolare a quel circolo massimo: tra quei poli, secondo criterî di opportunità o altri che non giova qui illustrare, uno se ne sceglie come primo polo o polo superiore. Nel caso delle coordinate geografiche, il circolo massimo fondamentale è l'equatore terrestre e il primo polo il polo boreale della Terra. Tra gl'infiniti semicircoli massimi passanti per i due poli e da essi delimitati, perpendicolari quindi al circolo massimo fondamentale, se ne sceglie opportunamente uno, il quale ci servirà di riferimento per la misura della coordinata che, per analogia con le coordinate geografiche, chiameremo longitudine. Infatti questa è misurata sul circolo fondamentale (equatore sulla Terra) dall'arco avente origine nell'intersezione del semicircolo di riferimento (primo meridiano terrestre) con esso circolo fondamentale e termine nell'analoga intersezione con questo del semicircolo massimo delimitato dai poli e passante per il punto di cui si tratta (meridiano del luogo terrestre). Per completare la definizione della coordinata longitudinale, basterà fissare il senso in cui si deve percorrere il circolo massimo fondamentale per fare la misura dei relativi archi (fig. 2).
Osserviamo subito che, esprimendosi sempre la misura di questi archi in unità angolari (gradi, minuti e secondi d'arco, e talora in tempo: ore, minuti e secondi di tempo, come le longitudini [L] sulla Terra) la stessa coordinata longitudinale può identicamente essere rappresentata, invece che dall'arco sopra detto di circolo massimo fondamentale, dall'angolo diedro dei due semicircoli massimi ad esso perpendicolari che quell'arco delimitano, oppure anche dall'angolo sferico che quei due stessi semicircoli abbiamo scelto come primo. L'altra coordinata, che chiameremo, continuando l'analogia, latitudine, è misurata sul semicircolo massimo delimitato dai poli e passante per il detto punto (meridiano locale sulla Terra) dall'arco avente origine dall'intersezione di esso semicircolo col circolo massimo fondamentale e termine nel detto punto. Questa coordinata (latitudine terrestre [ϕ]) è positiva se il punto è nell'emisfero che contiene il primo polo, negativa se è nell'altro e varia numericamente da 0° a 90°.
I due archi di circolo massimo ora definiti, necessarî e sufficienti a fissare senza ambiguità la posizione di un astro sulla sfera celeste, costituiscono le sue due coordinate sferiche ortogonali.
Senza nulla mutare nel sistema di riferimento, noi possiamo facilmente sostituire a questa coppia di coordinate ortogonali una coppia equivalente di coordinate polari sferiche. Basterà a tal fine per l'una prendere in considerazione l'angolo al polo superiore dei due semicircoli massimi perpendicolari al fondamentale, angolo misurato, come ora s'è visto, dallo stesso numero che misura la coordinata longitudinale; e per l'altra, all'arco di semicircolo massimo perpendicolare al fondamentale, passante per il punto celeste e compreso fra il circolo fondamentale e il punto stesso, basterà sostituire l'arco sullo stesso semicircolo passante per il punto, compreso fra il polo e questo punto. Il detto arco è il complemento della coordinata latitudinale di prima (90° − ϕ), se il punto celeste è nell'emisfero boreale (quello cioè contenente il polo superiore), ed è eguale alla coordinata di prima aumentata di 90° (90° + ϕ), se il punto è nell'emisfero australe. Il detto arco può anche considerarsi come la distanza, misurata sulla sfera, del punto dal polo superiore, e il suo campo di variabilità sarà da 0° a 180°.
L'angolo sferico e l'arco ora definiti costituiscono la coppia cercata di coordinate polari sferiche, le quali appunto si misurano rispettivamente attorno e dal polo superiore del sistema di riferimento, indipendentemente dal circolo massimo di riferimento (equatore sulla Terra).
La scelta del sistema di coordinate sferiche astronomiche dipende dalla natura della questione che si tratta.
Un primo sistema di coordinate astronomiche ha elementi terrestri di riferimento: il piano fondamentale di esso è infatti l'orizzonte del luogo d'osservazione; il corrispondente circolo massimo fondamentale è l'intersezione di esso orizzonte con la sfera celeste. I poli del sistema sono i punti in cui la verticale del luogo incontra la sfera celeste, tra i quali quello visibile sarà il polo superiore e si chiama zenit, quello opposto, sotto l'orizzonte, nadir (fig. 3). I semicircoli massimi perpendicolari al circolo massimo dell'orizzonte passeranno per lo zenit e il nadir e saranno le intersezioni dei piani verticali del luogo con la sfera celeste. Fra questi semicircoli massimi, che si chiamano appunto semicircoli verticali, si sceglie come semicircolo di riferimento quello che giace nel piano meridiano del luogo. A definire il piano meridiano è necessario ricorrere al moto apparente della sfera celeste, di cui diremo tra poco; diremo per ora che il piano meridiano è il piano verticale che contiene l'asse del mondo, passante cioè per i punti nord e sud dell'orizzonte. Si chiama invece primo verticale il piano verticale perpendicolare al meridiano, passante quindi per i punti est e ovest dell'orizzonte.
La prima delle coordinate celesti del primo sistema, denominata azimut (A) (v.), è l'arco di orizzonte contato da 0° a 360° nel senso sud-ovest-nord-est-sud e compreso fra il semicircolo meridiano contenente il punto sud e il semicircolo verticale contenente l'astro. La misura angolare di questo arco avente l'origine nel punto sud e l'estremo nell'intersezione del semicircolo verticale del punto con l'orizzonte, è espressa dallo stesso numero, come s'è visto nel caso generale, dell'angolo diedro fra i due semicircoli verticali che delimitano quell'arco.
L'altra coordinata, chiamata altezza (h), è l'arco di semicircolo verticale contenente l'astro, compreso fra l'orizzonte e l'astro stesso, variabile numericamente da 0° a 90°, positiva sopra e negativa sotto l'orizzonte; quando l'altezza è negativa, l'astro è invisibile, quando è nulla, l'astro è all'orizzonte, cioè nasce o tramonta. È evidente che lungo un semicircolo verticale è costante l'azimut, lungo un circolo minore parallelo all'orizzonte, chiamato con voce araba almucantarat (al-muqanṭarah = la [linea] arcuata), è costante l'altezza.
A questo primo sistema di coordinate sferiche ortogonali, detto sistema altazimutale, corrisponde il sistema di coordinate sferiche polari costituito dall'angolo sferico che i due semicircoli verticali (meridiano e dell'astro) formano tra loro allo zenit (polo superiore del sistema) e misurato dallo stesso numero che misura l'azimut; l'altra è l'arco di semicircolo verticale passante per l'astro e compreso fra lo zenit e l'astro stesso, coordinata che si chiama distanza zenitale (z) e varia da 0° (allo zenit) a 180° (al nadir): distanze zenitali superiori a 90° si riferiscono a punti celesti sotto l'orizzonte, e quindi invisibili.
Il primo sistema di coordinate trova applicazione quando interessi di conoscere o di studiare la posizione di un astro rispetto all'orizzonte, al semicircolo meridiano, allo zenit di un luogo, e in particolare quando, disponendo di un cannocchiale girevole intorno a un asse verticale e ad un asse orizzontale contemporaneamente (teodolite, altazimut), si vogliano conoscere le letture da farsi sui rispettivi circoli di puntata, perpendicolari a quegli assi, per rintracciare un astro di nota posizione fra le stelle del cielo ad un istante dato.
In particolare, quando l'altezza h di un astro ha il valore o° o la sua distanza zenitale z il valore 90°, l'altra coordinata corrispondente sarà l'azimut dell'astro al suo nascere o al suo tramontare, quando l'azimut di un astro ha il valore 0° o 180°, esso passa in meridiano, dalla banda del punto sud o del punto nord rispettivamente, e l'altra coordinata, h, darà l'altezza dell'astro all'uno e all'altro passaggio in meridiano. Quando poi un astro raggiunge un azimut di 90° o 270°, esso si trova nel primo verticale.
Lo stesso sistema altazimutale, salvo il piano verticale origine degli azimut e il senso di misura degli azimut stessi, è usato in geodesia, in quanto appunto lo strumento fondamentale della geodesia, il teodolite, rotando intorno al suo asse verticale, è capace di misurare angoli azimutali (differenze di azimut) e, rotando intorno al suo asse orizzontale, è capace di misurare angoli verticali (differenze di altezze o di distanze zenitali).
Il secondo sistema di coordinate celesti è fondato sulle apparenze, ben presenti a tutti, del movimento di rotazione, come un tutto rigido (almeno per le stelle fisse, che sono l'enorme maggioranza degli astri) della sfera stellata, apparenze che, nella concezione tolemaica, erano ritenute realtà (fig. 4).
A cagione del reale moto uniforme di rotazione della Terra intorno al proprio asse, la quale compie un intero giro da ovest a est nel periodo di poco meno di 24 ore di tempo medio (circa quattro minuti meno), si vedono le stelle tutte rotare sulla sfera celeste nel senso opposto, cioè da est a ovest.
L'asse di questa rotazione apparente è naturalmente lo stesso di quello della reale rotazione terrestre, contiene cioè l'asse della Terra e incontra la sfera celeste nei due poli celesti o poli del mondo, estremi dell'asse del mondo; il circolo massimo perpendicolare all'asse del mondo si chiama equatore celeste, che è nello stesso piano dell'equatore terrestre. Le stelle percorrono, in questa rotazione apparente, chiamata moto diurno, circoli minori (salvo ai poli, che sono fissi, e all'equatore, che è un circolo massimo) perpendicolari all'asse del mondo e aventi i centri su di questo; esse percorrono intero il proprio circolo minore, detto parallelo celeste per essere parallelo all'equatore, nell'intervallo stesso di tempo in cui la Terra compie un'intera rotazione su sé stessa, intervallo che si chiama giorno siderale. Ne deriva che la velocità angolare apparente delle stelle nel loro moto diurno è a mano a mano maggiore procedendo dai poli all'equatore celesti: nulla in quelli, massima su di questo. L'equatore celeste e appunto il circolo massimo fondamentale delle coordinate del secondo sistema; i semicircoli massimi perpendicolari ad esso aventi i loro estremi ai poli si chiamano semicircoli orarî; il semicircolo orario di riferimento è quello che contiene lo zenit del luogo e quindi anche meridiano che contiene anche il semicircolo massimo di riferimento del primo sistema di coordinate. Il semicircolo orario giacente in meridiano taglia l'equatore in un punto detto mezzocielo. Dal mezzocielo lungo l'equatore, nello stesso senso destrorso, per noi dell'emisfero boreale, secondo cui si misurano gli azimut (cioè verso ovest) sino all'analogo punto d'incontro con l'equatore del semicircolo orario contenente l'astro, si misura la prima coordinata del secondo sistema, chiamata angolo orario (H), variabile da 0° a 360°, costante evidentemente per tutte le stelle poste sullo stesso semicircolo orario. L'altra coordinata, al solito, è l'arco del semicircolo orario della stella compreso fra l'equatore e la stella stessa, e si chiama declinazione (δ), variabile numericamente fra 0° (sull'equatore) e 90° (ai poli), positiva nell'emisfero boreale celeste, negativa nell'altro, costante per le stelle situate sullo stesso parallelo celeste. Gli angoli orarî si esprimono anche in tempo (ore, minuti e secondi); il campo loro di variazione è allora di 24 ore siderali, quant'è cioè la durata dell'intera rotazione (360°) di una stella qualunque. Si noti, per ben fissare le idee, che il meridiano può essere considerato sia come il piano di quel circolo verticale che passa per l'asse del mondo, sia come il piano di quel circolo orario che passa per la verticale del luogo.
Anche in questo secondo sistema, alle coordinate sferiche ortogonali ora definite corrisponderà una coppia di coordinate sferiche polari; l'una, misurata dallo stesso numero che misura l'angolo orario, è l'angolo al polo nord (primo polo) fra il semimeridiano passante per il mezzocielo e il semicircolo orario passante per l'astro; l'altra è l'arco di quest'ultimo semicircolo compreso fra il polo nord e l'astro stesso: essa si chiama distanza polare ed è variabile da 0° (al polo nord) a 180° (polo sud).
Con la conoscenza dei due primi sistemi di coordinate celesti possiamo darci facilmente ragione dei fenomeni e degli aspetti del moto diurno delle stelle, osservato da un punto fisso della Terra, o spostandoci sulla superficie di essa.
Notiamo anzitutto che, se l'orizzonte e il meridiano variano al variare del luogo terrestre di osservazione, non varia invece l'equatore celeste: le declinazioni delle stelle, che da quello si misurano, sono adunque indipendenti dalla posizione geografica dell'osservatore e dal moto diurno, cioè dall'ora di osservazione; ne dipendono invece l'altra coordinata del secondo sistema, l'angolo orario e ambedue quelle del primo (azimut e altezza).
Se l'osservatore si sposta mano a mano da uno dei due poli verso l'equatore terrestre, il suo orizzonte coinciderà dapprima col piano dell'equatore celeste, e andrà poi via via inclinandosi rispetto all'asse terrestre, sino a divenirgli parallelo, quando l'osservatore sia giunto all'equatore della Terra. Corrispondentemente il suo zenit ai poli coinciderà col corrispondente polo celeste, all'equatore della Terra cadrà in un punto dell'equatore celeste. Sopra il suo capo, cioè per il suo zenit, passeranno, nella loro rotazione diurna, le stelle di declinazione dall'equatore celeste quant'egli dall'equatore terrestre; sicché, quand'egli sia al polo nord, avrà press'a poco la stella polare al suo zenit, quasi immobile; scendendo egli verso latitudini minori, culmineranno al suo zenit stelle di velocità angolare sempre maggiore, poiché la massima velocità angolare del moto diurno si ha per le stelle disposte sull'equatore celeste, il quale, essendo un circolo massimo, è maggiore di tutti i circoli minori (paralleli celesti) percorsi dalle altre stelle.
Nel passare da uno dei poli all'equatore terrestre, l'osservatore vedrà corrispondentemente il polo celeste visibile abbassarsi via via dallo zenit all'orizzonte. È facile vedere che altezza del polo celeste visibile da un luogo e latitudine del luogo stesso sono angolarmente misurate dallo stesso numero.
Al polo nord, dunque, della Terra, teoricamente (astraendo cioè dalla rifrazione e dalla depressione dell'orizzonte con l'altitudine) si vedrà tutto e solo l'emisfero boreale celeste rotante intorno alla verticale; all'equatore terrestre si vedranno le stelle rotare intorno alla direzione orizzontale nord-sud; e tutte le stelle nel corso di un giorno siderale sarebbero visibili se durante il giorno chiaro esse lo fossero (fig. 5). Alle latitudini terrestri intermedie, essendo l'asse del mondo inclinato sull'orizzonte, la rotazione diurna del cielo stellato avverrà obliquamente rispetto al detto orizzonte, e si vede che vi saranno allora stelle che non tramontano mai e stelle che non nascono mai, cioè o sempre (teoricamente) o non mai visibili per quel dato orizzonte (fig. 6). Per un luogo di latitudine boreale qualsiasi non tramonteranno mai infatti le stelle distanti angolarmente dal polo nord meno di quel che ne disti il punto nord dell'orizzonte, le stelle cioè di distanza polare minore della latitudine del luogo, cioè a dire di declinazione maggiore del complemento della latitudine (δ >; 90° − ϕ); analogamente non nasceranno mai le stelle dell'emisfero celeste australe di declinazione maggiore del complemento della latitudine del luogo (ϕ negativo, numericamente superiore a 90° − ϕ).
Tutte le altre stelle, all'infuori di queste due calotte di stelle circumpolari, saranno, alle nostre latitudini, visibili durante il loro moto diurno lungo un arco maggiore di 180°, cioè per un tempo maggiore di 12 ore, se dell'emisfero boreale; lungo un arco minore di 180°. cioè per un tempo minore di 12 ore, se stelle dell'emisfero australe; viceversa per i luoghi di latitudine australe. Questo, che si chiama arco diurno, sarà tanto più prossimo a 360°, o a 24 ore in tempo, quanto più la declinazioae (positiva) della stella è prossima alla declinazione limite 90° − ϕ della calotta circumpolare, tanto più prossimo a 0°, cioè a 0 ore, quanto più la declinazione negativa della stella s'approssima allo stesso valore limite dell'altra calotta circumpolare. Le stelle disposte lungo l'equatore celeste (δ = 0) per qualsiasi luogo terrestre, fuori che ai poli, hanno un arco semidiurno di 180°, cioè di 12 ore. I punti dell'orizzonte, simmetrici rispetto al meridiano, ai quali nasce e tramonta una stella, saranno a nord dei punti est e ovest per le stelle boreali, alle nostre latitudini, e tanto più a nord quanto più alta è la declinazione: le stelle del parallelo celeste di declinazione boreale 90° − ϕ toccheranno l'orizzonte nel punto nord stesso. Gli analoghi punti di nascita e di tramonto per una stella australe, pure simmetrici rispetto al meridiano, saranno a sud dei punti est e ovest, e tanto più a sud quanto più la stella è australe; i due punti coincideranno in un unico punto, il punto sud stesso per le stelle del parallelo celeste australe di declinazione eguale al complemento della latitudine (90° − ϕ).
Si chiama amplitudine ortiva e amplitudine occasa l'arco di orizzonte compreso fra il punto est e il luogo del nascere, e l'arco compreso fra il punto ovest e il luogo del tramontare di un astro, rispettivamente, cioè la differenza fra l'azimut ortivo e l'azimut occaso, rispettivamente, e i 90°.
Si chiama culminazione superiore il passaggio di un astro per il semicerchio meridiano limitato dai poli e contenente lo zenit del luogo, culminazione inferiore il passaggio per l'altro semicircolo: le denominazioni sono giustificate dal fatto che, come facilmente si deduce da quanto precede, a quei passaggi corrispondono la massima e la minima altezza dell'astro sull'orizzonte.
Nell'astronomia sferica si dimostrano altre interessanti particolarità del moto diurno: ogni stella di declinazione numericamente minore della latitudine del luogo, ma dalla stessa parte del suo zenit rispetto all'equatore celeste, traversa con altezze ed angoli orarî eguali il primo verticale del luogo; ogni stella, pure di declinazione dello stesso segno della latitudine del luogo, ma maggiore di questa, presenta in due dati istanti l'aspetto della massima digressione, per cui il circolo orario e il verticale della stella sono tra loro normali: si avrà una massima digressione orientale e una occidentale, in punti simmetrici rispetto al meridiano, cioè di eguale altezza e di angolo orario e di azimut eguali e di segno opposto. Si chiamano, poi, massime digressioni queste particolari posizioni delle stelle culminanti a nord dello zenit, perché in esse le stelle stesse raggiungono il massimo azimut positivo e negativo raggiungibile. È anche facile vedere che, se a due posizioni di una stessa stella fissa corrispondono o altezze eguali o azimut eguali e di segno opposto, o angoli orarî eguali e di segno opposto, anche le altre due di queste relazioni sono verificate.
Quanto si è detto ora per le stelle può applicarsi anche al Sole, non però con altrettanto rigore, in quanto la sua posizione fra le stelle varia, sia pure lievemente, durante il suo arco diurno.
È evidente l'utilità di stabilire anche un sistema di coordinate celesti, il quale sia affatto indipendente sia dal luogo di osservazione sulla Terra, sia dal moto diurno, talché gli stessi due numeri individuino una stella sulla sfera celeste per qualsiasi istante e per qualsiasi luogo. Tali sono appunto le caratteristiche del terzo sistema. Il piano fondamentale e quindi i poli di esso sistema sono gli stessi che per il secondo, cioè l'equatore e i poli celesti: la coordinata declinazione (δ) è comune ai due sistemi; anche l'altra è misurata, come gli angoli orarî (H), con archi equatoriali o angoli sferici al polo superiore (polo nord celeste), ma assumeremo per essa sull'equatore un'origine fissa con le stelle e perciò mobile solidalmente con esse nella loro rotazione diurna. Questo punto fisso (o meglio lentissimamente mobile, come vedremo), che definiremo meglio avanti, è vicino alla posizione in cui vediamo il Sole verso il 21 di marzo, e si chiama punto equinoziale di primavera o punto γ; il senso secondo cui si misura questa coordinata, detta ascensione retta (α), è opposto a quello secondo cui crescono gli angoli orarî, cioè è sinistrorso nel nostro emisfero: tale senso si chiama diretto in astronomia, mentre si chiama retrogrado il senso contrario.
Per la costanza assoluta della velocità (recentemente è stata messa in dubbio questa costanza nel senso matematicamente esatto della parola) della loro apparente rotazione intorno all'asse del mondo e per la quasi assoluta fissità delle posizioni reciproche delle stelle, l'osservazione di queste serve anzitutto alla determinazione del cosiddetta tempo siderale, dal quale si deduce poi facilmente il tempo medio civile. S'intende per tempo siderale di un dato luogo a un dato istante l'angolo orario del punto γ. Saranno allora nel meridiano di quel luogo e precisamente in culminazione superiore le stelle di ascensione retta eguale a quell'angolo orario, vale a dire che il tempo siderale di quel luogo a quell'istante sarà misurato dall'ascensione retta delle stelle che allora ivi sono in culminazione superiore.
È evidente l'importanza per gli astronomi del tempo siderale, conoscendo il quale, con una semplice sottrazione, si calcolerà l'angolo orario di una stella di ascensione retta nota. Molto facile anche, note le coordinate geografiche del luogo e quindi le posizioni reciproche dell'equatore celeste, dell'orizzonte, del polo celeste visibile e dello zenit, dedurre i tempi e i punti dell'orizzonte del nascere e del tramontare, i tempi e il punto del meridiano delle culminazioni e, più in generale, il luogo di una stella di ascensione retta e di declinazione note a un dato istante e per un dato punto terrestre di osservazione, espressa la posizione di questo luogo celeste in coordinate del primo sistema (altezza e azimut).
Il quarto e ultimo sistema di coordinate celesti è riferito alla traiettoria apparente del Sole fra le stelle. Il Sole non partecipa soltanto alla rotazione diurna comune a tutti gli astri, dovuta alla rotazione della Terra intorno ai poli; se fosse possibile vedere le stelle circostanti al Sole (come accade per le più fulgide durante le eclissi solari totali), ci si persuaderebbe subito che il Sole cambia continuamente e periodicamente di posto rispetto alle stelle fisse, movendosi da ovest verso est (moto diretto) in ragione di circa un grado al giorno, percorrendo apparentemente un circolo massimo celeste, inclinato sull'equatore celeste di 23°27′ circa. Accade quindi che il Sole ritarda sulle stelle il suo passaggio in meridiano di circa un grado, cioè di quasi quattro minuti in media ogni giorno (il ritardo non è costante), per modo che nel periodo di 365 giorni e un quarto appaia aver percorso tutto quel circolo ed aver perduto quindi una rotazione intiera rispetto alle stelle. Reciprocamente, nello stesso periodo le stelle avranno percorso una rotazione intiera più del Sole, avendo guadagnato ogni giorno circa 4 minuti sul Sole; visto sotto questo secondo aspetto, il fenomeno si chiama accelerazione delle stelle fisse.
Come l'intervallo di tempo fra due passaggi di una stella per un dato semimeridiano dà la misura di un giorno siderale, l'intervallo fra due analoghi passaggi del Sole dà la misura del giorno solare vero. Il moto apparente del Sole fra le stelle lungo il circolo massimo ora detto, che si chiama eclittica, è dovuto al moto reale di rivoluzione della Terra intorno al Sole; poiché l'orbita percorsa dalla Terra nello spazio (e chiamata anch'essa eclittica, essendo nello stesso piano di quel circolo massimo) non è circolare, ma ellittica, di piccolissima eccentricità (quasi circolare), giusta le leggi di Keplero non potrà la velocità angolare della Terra vista dal Sole, e reciprocamente la velocità angolare del Sole sul cerchio massimo dell'eclittica, quale ci appare dalla Terra, essere costante; e tanto meno apparirci costante la velocità di questo moto riferito ai meridiani, cioè rapportato sull'equatore celeste: vale a dire non potranno i giorni solari veri essere fra loro eguali.
Appare naturale allora l'immaginare un sole fittizio, detto sole medio equatoriale, il quale si muova uniformemente sull'equatore celeste, così da percorrere tutto questo cerchio massimo nello stesso intervallo di tempo in cui quello vero percorre l'eclittica. Il tempo medio allora sarà quello regolato sul moto di questo sole fittizio. Un orologio siderale sarà un orologio che, d'accordo col moto diurno di rotazione delle stelle, guadagna di circa 4 minuti al giorno sull'orologio a tempo medio, il quale invece cammina d'accordo col moto del Sole equatoriale medio, risultante del moto di rotazione comune alle stelle e del suo moto annuo fra di esse. Più precisamente un giorno solare medio è eguale a 24 ore, 3 minuti, 56, 55 secondi di tempo siderale, e un giorno siderale conseguentemente vale 23 ore, 56 minuti, 4,09 secondi di tempo medio.
Le altre conseguenze del moto del Sole fra le stelle sono: il variare delle sue coordinate (ascensione retta e declinazione) lungo l'anno e quindi dell'altezza sua sull'orizzonte di un dato luogo e a una data ora e in particolare al suo passaggio in meridiano, e quindi il variare del suo arco diurno, maggiore d'estate (declinazione positiva del Sole), minore d'inverno (declinazione negativa), e lo spostarsi dei punti d'orizzonte del suo nascere e del suo tramontare, punti i quali non saranno nemmeno rigorosamente simmetrici rispetto al meridiano, in quanto che fra il nascere e il tramonto la declinazione del Sole, seppure di poco, varia.
I due cerchi massimi celesti dell'eclittica e dell'equatore si taglieranno in due punti diametralmente opposti per entrambi: essi sono i punti equinoziali di primavera e d'autunno, in cui si trova il Sole verso il 21 marzo e il 21 settembre, punti detti anche nodi dell'eclittica, ascendente il primo, discendente il secondo, perché, passando il Sole in ambedue per il valore zero della declinazione, nell'uno la declinazione stessa passa da valori negativi a positivi, nell'altro passa da valori positivi a negativi, o, più chiaramente, il Sole in primavera dall'emisfero australe celeste sale al boreale e in autunno scende da questo a quello. Nei giorni d'equinozio il Sole rimarrà dodici ore sopra l'orizzonte di qualsiasi punto della Terra (fuorché ai poli). I due punti dell'eclittica a 90° dagli equinozî sono i solstizi, nei quali il Sole tocca la declinazione massima (+ 23°27′ a quello d'estate) e la minima (− 23°27′ al solstizio d'inverno) rispettivameme. Si chiama coluro dei solstizi il circolo orario passante per questi punti, coluro degli equinozî il circolo orario perpendicolare al precedente. È evidente che fra l'equinozio di primavera e quello d'autunno l'emisfero boreale sarà il più illuminato dal Sole, il quale rimarrà sopra l'orizzonte oltre 12 ore al giorno; negli altri sei mesi sarà più soleggiato l'emisfero terrestre australe.
Il Sole impiega 365,2422 giorni solari medî per tornare ad un equinozio: questo intervallo si chiama anno tropico; mentre impiega 365,2564 giorni solari medî a compiere un completo giro fra le stelle: questo intervallo si chiama anno siderale. Le due durate coinciderebbero, se gli equinozî fossero fissi, se cioè i due circoli massimi dell'eclittica e dell'equatore celeste conservassero una posizione reciproca immutabile; ma ciò non è, e lo spostamento degli equinozî lungo l'equatore celeste, chiamato precessione degli equinozî, è cagione della differenza fra le due durate suddette.
Quello dell'eclittica è appunto il circolo massimo celeste fondamentale delle coordinate del quarto sistema: il polo boreale di essa (cioè posto nell'emisfero celeste boreale) è il primo polo o polo superiore di esso sistema. Una delle coordinate, detta longitudine eclittica, si misura in senso diretto (rispetto al polo nord dell'eclittica) lungo l'eclittica stessa a partire dall'equinozio di primavera (punto γ); la stessa coordinata può al solito considerarsi misurata dall'angolo corrispondente al polo nord dell'eclittica. L'altra coordinata si chiama latitudine eclittica, e si misura lungo il semicircolo massimo passante per i poli dell'eclittica, e per l'astro a partire dall'eclittica è positiva se contata verso il suo polo boreale, negativa se verso il polo australe. Le coordinate del quarto sistema si usano specialmente nei calcoli di orbite.
Un ultimo sistema di coordinate celesti è stato recentemente introdotto in astronomia per lo studio della struttura dell'universo siderale e quindi della distribuzione in esso delle stelle in generale e di quelle dei varî tipi spettrali in particolare, delle nebulose e degli ammassi. È noto che il nostro sistema siderale ha una forma lenticolare, col piano di simmetria secondo la Via Lattea; il Sole (e la Terra con esso) non è, relativamente parlando, lontano dal centro e quindi anche dal piano dì simmetria di questa enorme lente, chiamata sistema galattico secondario o locale. Le coordinate celesti galattiche sono appunta riferite a quel piano di simmetria come piano fondamentale.
Conosciuti i varî sistemi di coordinate celesti e in particolare i primi tre, più notevoli per l'astronomia sferica, accenniamo schematicamente ad alcuni dei principali problemi che essa risolve.
Anzitutto la determinazione del meridiano: se sappiamo fissare la posizione delpolo celeste visibile, il piano verticale del luogo passante per esso polo sarà il meridiano cercato.
Una posizione grossolanamente approssimata del meridiano per i luoghi del nostro emisfero boreale sarà quella del piano passante per la verticale e per la stella polare: approssimata in quanto questa percorre nelle 24 ore un circoletto di poco più di un grado intorno al polo. Il tracciamento risulterà più rigoroso, se, avendo modo di conoscere esattamente il tempo locale siderale o medio, ricaveremo da un annuario astronomico l'uno o l'altro o ambedue gl'istanti in cui la stella polare è in meridiano, o gli azimut della polare stessa corrispondenti agl'istanti di osservazione. Il ricorrere alla polare per il tracciamento del meridiano è tanto meno consigliabile quanto più il luogo terrestre è vicino al polo nord, dove la stella polare è quasì zenitale. Altro metodo approssimato per lo stesso tracciamento è quello di segnare una o più coppie di punti corrispondenti all'identica lunghezza d'ombra solare di uno stilo verticale su un piano orizzontale, avanti e dopo il passaggio in meridiano del Sole. La bisettrice dell'angolo, col vertice nel piede dello stilo, formato da una coppia d'ombre di egual lunghezza, darà la direzione del meridiano. Anche per il Sole, quando si conosca l'ora locale siderale o media, più semplicemente potremmo ricavare dalle effemeridi astronomiche l'istante in cui la visuale del centro del Sole è nella direzione del meridiano, direzione praticamente visibile dall'ombra di uno stilo o di un'antenna verticale. Una stella di ascensione retta nota darà pure la direzione del meridiano di un luogo all'ora siderale locale, espressa dallo stesso numero che ne esprime l'ascensione retta.
Sapendo tracciare il meridiano, sapremo disporvi per le osservazioni il cosiddetto cannocchiale dei passaggi in meridiano, che è un cannocchiale girevole intorno a un asse perpendicolare al suo asse ottico; il suo asse di rotazione evidentemente si dovrà disporre orizzontale e diretto esattamente da est a ovest: con siffatto strumento sarà possibile determinare la correzione di un orologio siderale, osservando i passaggi (in meridiano) di stelle di nota ascensione retta (determinazione del tempo), oppure, noto invece lo stato dell'orologio, sarà possibile determinare l'ascensione retta di un astro qualsiasi, stella fissa, pianeta o cometa e, infine, determinare la differenza di longitudine fra il luogo d'osservazione e un altro luogo qualsiasi della Terra, misurando l'intervallo di tempo fra i due istanti in cui una stessa stella passa in meridiano (nella stessa culminazione, superiore o inferiore) nei due luoghi. Occorre a tal fine che la registrazione del passaggio da uno dei luoghi sia istantaneamente trasmessa all'altro, per rendere possibile il confronto dei due tempi di passaggio; o meglio ancora che la trasmissione sia reciproca.
Nota viceversa la differenza di longitudine fra due punti della Terra, cioè l'angolo fra i rispettivi meridiani, per semplice somma o sottrazione potremo dedurre l'ora siderale o media di un luogo, corrispondente all'ora, comunque nota, dell'altro luogo; basterà all'ora di questo aggiungere o togliere la differenza di longitudine fra i due luoghi, espressa in tempo, a seconda che il primo di quei luoghi sia a levante o a ponente del secondo.
In particolare, essendo l'ora media civile italiana quella locale del meridiano dell'Europa centrale (di Termoli o dell'Etna), posto a 15°, cioè un'ora ad est di Greenwich, conoscendo la differenza di longitudine del proprio luogo da quel meridiano, si potrà subito dall'ora media civile italiana, esattamente conosciuta, dedurre l'ora media locale; e viceversa, da questa, astronomicamente determinata, dedurre quella del meridiano centrale del fuso italiano e da questo quella di qualsiasi altro fuso, e quindi anche l'ora di Greenwich o, come anche si chiama, l'ora universale. Il passaggio dal tempo medio al tempo siderale, e viceversa, richiede la conoscenza dell'ora siderale a mezzanotte media e del rapporto costante, accennato più sopra, fra tempo siderale e tempo medio.
Se aggiungiamo al nostro strumento di passaggi in meridiano un cerchio graduato finemente, pure perpendicolare al suo asse di rotazione, e col centro su questo asse, potremo, con questo, che si chiama allora cannocchiale o circolo meridiano, puntando a stelle di declinazione nota, determinare la lettura sul cerchio corrispondente alla puntata del cannocchiale al mezzocielo (sull'equatore). Dalla differenza fra questa lettura e quella corrispondente alla posizione verticale del cannocchiale diretto allo zenit (facile a fissarsi con una superficie riflettente di mercurio) si potrà dedurre la latitudine del luogo di osservazione.
Allo stesso scopo si possono misurare con lo stesso strumento parecchie distanze zenitali (differenze fra la lettura di puntata allo zenit e quelle alle varie stelle in meridiano) di stelle di declinazione nota; tali distanze zenitali (z), aggiunte o tolte alle rispettive declinazioni a seconda che la stella è a sud o a nord dello zenit, forniranno altrettanti valori della latitudine, dei quali faremo la media. La stessa latitudine si può determinare misurando le due distanze zenitali di una stessa stella circumpolare in culminazione superiore e inferiore: la media delle due distanze zenitali darà la distanza zenitale del polo, cioè il complemento della latitudine cercata (90° − ϕ). Ma tutte le distanze zenitali misurate debbono essere corrette per la rifrazione, come vedremo più avanti.
Determinata bene la lettura di mezzo cielo o quella di zenit d'un luogo di latitudine nota, il cerchio meridiano, oltre che le ascensioni rette, servirà a determinare le declinazioni degli astri.
Altri metodi offre l'astronomia per la determinazione della latitudine e della longitudine di un luogo, ma essi, o esulano dal campo dell'astronomia sferica, o richiederebbero considerazioni geometriche più o meno semplici per essere spiegati.
Dobbiamo per l'esattezza aggiungere che in questi cenni abbiamo fatto astrazione da ogni considerazione d'indole geodetica e perciò dalla forma ellissoidica della Terra e dalle anomalie della verticale; in particolare quindi per latitudine di un luogo abbiamo inteso quella astronomica, cioè l'angolo fra la direzione del filo a piombo e il piano dell'equatore.
Se il circolo meridiano bene si presta alla determinazione delle ascensioni rette e delle declinazioni degli astri, il cannocchiale o telescopio equatoriale, che schematicamente è un cannocchiale girevole contemporaneamente intorno a due assi, l'uno parallelo all'asse del mondo, l'altro perpendicolare a questo e a sua volta intorno ad esso girevole (due cerchi graduati perpendicolari ai due assi e coi centri su di essi permettono di misurare gli angoli di cui si roti il cannocchiale intorno agli assi stessi), ci darà il mezzo, con la semplice puntata ad un astro, di ottenere immediatamente le coordinate del secondo sistema, cioè angolo orario e declinazione e, con l'aiuto di un orologio siderale, l'ascensione retta dall'angolo orario. L'equatoriale - che però preferibilmente si usa per misure differenziali di queste coordinate (differenze di angolo orario e quindi di ascensione retta, e differenze di declinazione di due astri vicini) - realizza dunque strumentalmente gli orientamenti geometrici del secondo e, se si vuole, anche del terzo sistema di coordinate; donde il suo nome di equatoriale.
Esso è atto a riprodurre, rotando intorno al suo asse polare, il moto diurno e quindi a seguire lungo il suo arco diurno un astro di declinazione costante.
Le cognizioni fondamentali dell'astronomia sferica si potrebbero dire interamente riassunte, se i piani fondamentali di riferimento, e quindi i poli corrispondenti dei varî sistemi, fossero assolutamente fissi; se dagli spostamenti dell'osservatore nello spazio, anzitutto rotando con la Terra intorno al suo asse e ancor più ampiamente e velocemente girando con la Terra intorno al Sole, non derivassero effetti prospettici di parallasse; se la luce proveniente dagli astri si trasmettesse istantaneamente in modo da non dare origine al fenomeno dell'aberrazione (v.); se infine non esistesse l'atmosfera terrestre, che, flettendo i raggi provenienti dagli astri, ne devia le visuali dalle direzioni geometricamente prevedibili dalle loro reali posizioni. Se il fenomeno del moto diurno fa ampiamente e regolarmente variare, come abbiamo visto, le coordinate del primo sistema e l'angolo orario (secondo sistema) di un astro visto da un dato punto della Terra, le cause ora enumerate in generale alterano in guisa diversa (alcune periodicamente, alcune progressivamente), in misura pure diversa, piccola per lo più, salvo quelle di effetto progressivo dopo un lungo periodo di tempo, le coordinate celesti di tutti e quattro i sistemi, anche del terzo e del quarto, indipendenti dal moto diurno.
Siffatte piccole variazioni delle coordinate celesti complicano la semplicità geometrica dei riferimenti di posizione in cielo; ognuna delle teorie di quelle variazioni, fatta in relazione con la causa che le produce, costituisce uno speciale problema dell'astronomia sferica: a tali problemi possiamo qui soltanto accennare.
Incominciamo dalle variazioni dei piani fondamentali e conseguentemente degli assi fondamentali a loro perpendicolari: i piani fondamentali dei nostri sistemi di coordinate sono: l'orizzonte l'equatore celeste, l'eclittica; gli assi corrispondenti: la verticale, l'asse del mondo, l'asse dell'eclittica.
Può variare la verticale del luogo: fenomeno questo locale ed eccezionale (che porterebbe a una variazione di latitudine) di carattere geodetico, dal quale faremo astrazione.
Varia, nel cosiddetto fenomeno della migrazione dei poli o della variazione delle latitudini, l'asse istantaneo di rotazione della Terra, il quale si sposta bensì rispetto ai punti della Terra stessa, alterando la distanza dei rispettivi zenit dai poli a seconda della loro longitudine, cioè alterandone le latitudini, ma senza mutare la sua direzione nello spazio, vale a dire rispetto alla vòlta stellata. Tali variazioni, che sono piccolissime, non hanno evidentemente effetto sulle coordinate del terzo e del quarto sistema, indipendenti dal luogo di osservazione; ma quelle determinazioni astronomiche che si fondano sul dato locale della latitudine, come per esempio alcune determinazioni di declinazione, debbono tener conto della variazione di quel dato di partenza.
Più importante è la variazione della direzione dell'asse del mondo rispetto alla sfera celeste e in particolare rispetto all'asse dell'eclittica; quello ruota intorno a questo, conservando, salvo le variazioni od oscillazioni periodiche di cui diremo poi, l'inclinazione sua di circa 23° 27 rispetto ad esso, in un periodo di quasi 26 mila anni, cioè in ragione d'un poco più di 50 secondi d'arco all'anno. Ne deriva evidentemente uno spostamento continuo dell'intersezione dei due grandi cerchi equatore ed eclittica, cioè, in particolare, uno spostamento progressivo del punto γ su ciascuno di essi; dal senso di esso spostamento viene a questo fenomeno il nome di precessione o retrogradazione degli equinozî, a cui già si è fuggevolmente accennato. Le conseguenze di questo fenomeno sono un aumento annuo costante dell'importo dei 50 secondi d'arco sopraddetti, della longitudine eclittica delle stelle fisse (mentre le latitudini eclittiche loro non mutano), e variazioni diverse, a seconda della posizione loro sulla sfera celeste, delle ascensioni rette e delle declinazioni.
Né questa è l'unica variazione di posizione reciproca fra equatore ed eclittica: il movimento progressivo (tale lo possiamo concepire, data la lunghezza del suo periodo) precessionale, ora descritto, dell'asse del mondo intorno a quello dell'eclittica, che chiameremo medio, è complicato da oscillazioni periodiche continue, diverse d'ampiezza e di periodo, dell'asse stesso del mondo intorno alla sua posizione media, quale risulterebbe dal puro moto precessionale medio. Queste oscillazioni si traducono, parte in piccole alterazioni dell'effetto precessionale, parte in alterazioni dell'obliquità dell'eclittica, con conseguente duplice effetto sulle coordinate stellari, e si chiamano nutazioni.
Dobbiamo aggiungere infine un piccolissimo, progressivo spostamento del piano dell'eclittica nel senso di una diminuzione della sua obliquità sull'equatore, che, di per sé stesso e per un conseguente spostamento del punto γ, apporterà nuove lievi alterazioni delle coordinate celesti; è questo il fenomeno detto della precessione planetaria, perché dovuto all'influenza gravitazionale perturbatrice degli altri pianeti sull'orbita terrestre.
Il fenomeno della precessione è stato scoperto da Ipparco quello delle nutazioni dal Bradley.
Un altro gruppo di variazioni delle coordinate celesti è costituito dalle variazioni di carattere prospettico, epperò dipendenti dalla distanza dell'astro osservato, cioè quelle cosiddette di parallasse; esse consistono nel mutare della posizione apparente di un astro sulla sfera celeste per il mutare della posizione dell'osservatore sulla Terra, a cagione della rotazione della Terra (parallasse diurna) o con la Terra sull'orbita sua (parallasse annua). Basti il dire che per la Luna, vicinissima fra tutti gli astri, le coordinate variano sensibilmente cambiando punto terrestre d'osservazione; sulle coordinate dei pianeti l'influenza del variare sulla Terra il luogo di osservazione è assai più piccola e tanto più piccola quanto più lontani sono i pianeti. Per tutte le stelle è affatto insensibile lo spostamento dell'osservatore sulla superficie della Terra, cioè trascurabile il diametro terrestre in confronto alle distanze stellari; non solo, ma per la maggioranza delle stelle è praticamente indifferente la posizione che la Terra, e con essa l'osservatore, occupa sull'orbita terrestre al momento dell'osservazione, cioè trascurabile il diametro di quest'orbita in rapporto alle distanze stellari.
Per eliminare l'effetto parallattico, cioè per rendere comparabili le misure fatte a questo riguardo, in diverse condizioni, per gli astri vicini, rispetto alla distanza dei quali non sono trascurabili le dimensioni della Terra, sostituiremo alle coordinate apparenti, date dall'osservazione, le coordinate geocentriche, cioè quelle che si otterrebbero facendo le stesse osservazioni dal centro della Terra. Per le stelle più vicine, di distanza approssimativamente nota, rispetto alla distanza delle quali non sono trascurabili le dimensioni dell'orbita terrestre, sostituiremo alle coordinate geocentriche apparenti, fornite dall'osservazione, quelle eliocentriche, quali si sarebbero avute osservandole dal Sole.
Una causa di natura fisica, che pure altera le coordinate celesti, per le quali bisogna quindi far distinzione fra coordinate apparenti e coordinate vere, è la cosiddetta aberrazione della luce, scoperta dal Bradley. Si tratta della composizione della velocità della luce proveniente da un astro con quella del moto dell osservatore. L'alterazione che ne deriva, dipende dal rapporto di quelle due velocità e dall'angolo che la visuale all'astro fa con la direzione del moto dell'osservatore, e non dipende dalla distanza dell'astro. Dipenderà da questa, e precisamente sarà ad essa proporzionale, il ritardo con cui si percepisce la luce di un astro e quindi la retrodatazione da darsi alla posizione o al fenomeno osservato.
Si avrà una correzione di aberrazione diurna per la rotazione dell'osservatore intorno all'asse terrestre, variabile con la latitudine, oltre che con la posizione dell'astro rispetto a quell'asse; si avrà una correzione di aberrazione annua, cioè di periodo annuo, a cagione del trasporto dell'osservatore lungo l'orbita terrestre, correzione questa di più notevole importo, in generale, per la maggior velocità di questo moto; si avrà infine un fenomeno, chiamato di aberrazione secolare, per il trasporto della Terra col Sole attraverso lo spazio. L'alterazione conseguente delle coordinate non può per quest'ultima esser messa in luce dalle osservazioni, perché, trattandosi di una traslazione di velocità costante, quell'alterazione è pure costante per una data stella.
Tanto a cagione della parallasse per le stelle più vicine, quanto a cagione dell'aberrazione annua per tutte le stelle, le immagini loro appaiono descrivere un'ellisse sulla sfera celeste, nel corso di un anno, ellisse sempre piccolissima, evanescente col crescere della distanza delle stelle quella parallattica, di asse maggiore costante per tutte le stelle quella di aberrazione, con l'asse stesso parallelo al piano dell'eclittica in ambedue e per ambedue di forma dipendente dalla posizione della stella rispetto all'eclittica, talché è un cerchio ai poli dell'eclittica e degenera in un archetto di eclittica sull'eclittica stessa; infine l'immagine stellare appare percorrere la rispettiva ellissi per modo che su quella di aberrazione si trovi in ritardo di 90° rispetto a quella di parallasse, ove naturalmente si riferiscano le rotazioni, compiute a un dato istante dall'immagine stellare sulle rispettive ellisse, ai loro assi maggiori, aventi, come s'è detto, direzione comune (v. aberrazione, I, p. 65 seg).
Di un'ultima alterazione delle coordinate celesti, anche questa di origine fisica, deve tener conto l'astronomia sferica, ed è quella dovuta alla rifrazione, al curvarsi via via del raggio proveniente da un astro, a mano a mano che incontrata l'atmosfera ne attraversa i successivi strati sempre più densi, nel senso di avvicinarsi sempre più alla verticale del luogo d'osservazione. La deviazione avviene adunque nel piano verticale dell'astro e si riduce ad un aumento della sua altezza, nullo allo zenit, via via più sensibile quanto più l'astro è basso sull'orizzonte, per il maggiore spessore di atmosfera attraversato dal raggio. La teoria del fenomeno urta nella difficoltà d'indole fisica di conoscere la legge di decrescenza della densità atmosferica con l'altitudine: le formule che quella ci offre perdono di applicabilità alle piccolissime altezze, non per loro intrinseco difetto, ma per i turbamenti irregolari dell'atmosfera e per la sua umidità variabile presso la superficie della Terra.
L'effetto della rifrazione si fa dunque sentire solo su una delle coordinate del primo sistema, l'altezza; si fa invece sentire in generale su ambedue quelle degli altri sistemi.
Bibl.: A. Cagnoli, Trigonometria piana e sferica, Bologna 1894; G. Santini, Elementi di astronomia, Padova 1819; G. Lorenzoni, Sulla determinazione delle coordinate angolari, Venezia 1878; G. V. Schiaparelli, Elementi di astronomia sferica, Firenze 1896; F. Porro, Astronomia sferica, Roma 1894; id., Trattato di astronomia, I, Bologna 1923.
Astronomia geodetica.
Compito dell'astronomia geodetica è la determinazione delle coordinate geografiche (latitudine e longitudine) dei luoghi terrestri e dell'orientazione rispetto al meridiano (azimut) di particolari direzioni.
Queste determinazioni, fatte per via astronomica fin da tempo antico, associate all'ipotesi della forma sferica della Terra, hanno permesso di determinare la posizione sul globo terrestre dei continenti, delle isole, e dei loro particolari geografici, e concorrono tuttora, nelle esplorazioni in regioni polari o desertiche, alla conoscenza geografica di queste. Sempre nell'ipotesi della forma sferica della Terra, esse hanno servito, anche in tempi lontani, a misurare l'amplitudine di un arco di cerchio massimo della sfera terrestre e, con l'analoga misura della sua lunghezza, a determinare il raggio di questa sfera.
In epoche più recenti, dalle osservazioni di longitudine e di latitudine si sono ottenute le amplitudini di archi rispettivamente di parallelo e di meridiano, mentre dalle osservazioni di azimut sono state determinate le orientazioni delle reti geodetiche che servirono a misurare le lunghezze di quegli archi, e dall'associazione di più misure di questo genere è stata messa in evidenza la forma leggermente schiacciata della Terra e sono stati determinati i valori esatti dello schiacciamento e delle dimensioni terrestri.
Le determinazioni delle coordinate geografiche e dell'azimut in molteplici punti d'una regione terrestre sono poi necessarie per la rappresentazione cartografica minuta e precisa di tale regione. È noto infatti che per tali rappresentazioni cartografiche s'immaginano proiettati i varî punti della superficie fisica della Terra su una supericie matematica ideale, continuazione della superficie del mare al disotto dei continenti. Essendo questa superficie dappertutto convessa verso l'interno, ad ogni punto di essa corrisponde una determinata direzione della normale, e reciprocamente; sicché la posizione di ciascun punto rimane accertata dalle due coordinate geografiche che determinano la corrispondente direzione della normale. Basta allora stabilire in modo opportuno, sulla carta geografica, il reticolato dei meridiani e dei paralleli per poter segnare su di essa la posizione di tutti i punti dei quali si conoscono le coordinate geografiche.
La definizione di queste e dell'azimut può essere data o nel senso astronomico o nel senso geodetico.
Longitudine, latitudine ed azimut astronomici. - Nel primo caso le due coordinate si riferiscono alla verticale del luogo, e la superficie matematica, che è una superficie ideale di livello del mare a cui la verticale è perpendicolare in ogni punto, dicesi geoide. Il piano che contiene la verticale ed è parallelo all'asse di rotazione terrestre (o in particolare contiene quest'asse, se la verticale lo incontra), è il meridiano astronomico del punto terrestre che si considera. L'angolo di questo piano con un meridiano origine è la longitudine astronomica del punto stesso; l'angolo che la verticale forma con un piano normale all'asse di rotazione terrestre è la sua latitudine astronomica. L'angolo diedro, che il piano contenente la verticale del punto M e la visuale diretta da M a un altro punto N forma con il meridiano di M, è l'azimut astronomico di N visto da M. E precisamente quest'angolo si conta da 0° a 360° in senso contrario agl'indici di un orologio, a partire dalla faccia meridiana del diedro rivolta al sud fino alla faccia del diedro contenente il punto N.
Coordinate geografiche ed azimut geodetici. - Le determinazioni astronomiche delle coordinate geografiche e dell'azimut, che costituiscono il compito dell'astronomia geodetica propriamente detta, richiedono tempo e lavoro ingentissimi; sicché per lo scopo della rappresentazione cartografica di un paese, che richiede la conoscenza di quelle coordinate per moltissimi punti, si preferisce ammettere la superficie matematica della Terra come nota e assimilabile ad un ellissoide di rotazione di forma e dimensioni determinate; e si dispone idealmente questo ellissoide in posizione tale che:
1. il proprio asse di rotazione sia parallelo all'asse di rotazione terrestre;
2. la verticale in un punto centrale M0 della regione terrestre da rappresentare riesca normale alla superficie dell'ellissoide e formi con il piano equatoriale di questo lo stesso angolo ϕ0 che misura la latitudine astronomica di M0.
3. la superficie dell'ellissoide si trovi in un qualche punto, al disotto della regione terrestre che si considera, al livello del mare.
Si suppone allora che questa coincidenza abbia luogo dappertutto, e in ogni punto terrestre M si assume come direzione della verticale la direzione della normale all'ellissoide. Rispetto a questa si possono ripetere identicamente le stesse definizioni date prima rispetto alla verticale, e si hanno allora le coordinaie geografiche e l'azimut geodetici o ellissoidici.
La normale, condotta da un punto M della superficie fisica della Terra all'ellissoide, incontra questo in un punto M′; il piano meridiano ellissoidico di M, che contiene sempre l'asse di rotazione dell'ellissoide, taglia questo secondo l'ellisse meridiana passante per M′. Il piano contenente la normale M M′, e la visuale condotta da M ad un altro punto N della superficie fisica della Terra taglia l'ellissoide secondo una sua sezione normale in M′. La tangente all'ellisse meridiana (diretta verso sud) e la tangente a quest'altra sezione normale (diretta dalla parte di N) formano un angolo che è una sezione retta del diedro formato dai due piani dianzi considerati, e quell'angolo o questo diedro sono per definizione l'azimut geodetico o ellissoidico di N visto da M (o da M′). Talora, in luogo della sezione normale ora detta, si considera la sezione ancora normale in M′, ma passante per il punto N′ dell'ellissoide che si trova con N su una stessa normale all'ellissoide medesimo, o anche si considera la linea geodetica che su questa superficie congiunge M′ con N′. Le tangenti a queste due altre linee e la tangente all'ellisse meridiana determinano l'azimut ellissoidico di N′ visto da M′ e relativo, rispettivamente, alla sezione normale o alla geodetica.
Determinazione astronomica delle coordinate geografiche e dell'azimut. - Per la determinazione astronomica delle coordinate geografiche di un luogo terrestre M e dell'azimut in M di un altro luogo N, conviene riferire la direzione della verticale agli astri e quindi alla sfera celeste, ossia ad una sfera con centro nel luogo M e di raggio arbitrariamente grande. La verticale diretta verso l'alto incontra la superficie Σ della detta sfera nello zenit Z di M; la parallela per M all'asse di rotazione terrestre incontra Σ nei due poli P (boreale) e P′ (australe), e il semicerchio massimo P Z P′ rappresenta il meridiano astronomico di M, o più precisamente la metà di questo, limitata dall'asse PP′ e orientata verso l'alto di M (fig. 1).
Sia similmente MZ0 la parallela, condotta per M, alla verticale di un altro luogo terrestre M0. Il semipiano passante per P P′ e parallelo al meridiano di M0 incontrerà la superficie sferica Σ secondo il semicerchio massimo PZ0 P. L'angolo sferico Z0 P Z ha la stessa misura ddl'angolo diedro fra i due piani meridiani, ed è quindi la differenza di longitudine fra M ed M′, o addirittura la longitudine L del luogo M, se il meridiano di M0 si assume come origine, e si dirà longitudine est o longitudine ovest secondo Che Z è ad est o (come nel caso della figura) ad ovest di Z0.
L'arco di cerchio massimo P Z misura l'angolo fra la verticale MZ e l'asse MP; esso è quindi il supplemento della latitudine astronomica ϕ di M; vale cioè 90° − Z0.
La visuale diretta da M al punto terrestre N incontri la superficie sferica Σ in Q. Il piano verticale per M contenente la detta visuale determina il cerchio massimo Z Q, e l'azimut An, che esso forma con il meridiano Z P′ (orientato verso sud), è misurato dall'angolo sferico P′ Z Q. Esso viene contato, come si è detto, dal sud verso ovest.
Similmente sia S il punto di Σ determinato dalla visuale diretta da M ad un astro, o, immaginando situati gli astri sulla stessa sfera Σ, come si può fare quando si prescinde dalla loro distanza, sia S l'astro stesso. Sarà P′Z S l'azimut A dell'astro, e quindi nel triangolo sferico P Z S l'angolo in Z vale 180° − A, mentre i lati P S e Z S sono le distanze polare e zenitale dell'astro, ossia i supplementi 90° − δ e 90° − h della declinazione δ e dell'altezza h dell'astro medesimo. Infine i due angoli al polo Z P S e Z0 P S sono gli angoli orarî H, H0 dell'astro.
Mentre L, ϕ, An sono costanti, H, h, A sono variabili per effetto del moto diurno, ma si ha sempre L = H0 − H. In particolare, se la direzione M S fosse quella opposta al Sole vero, o quella opposta al Sole medio, o quella dell'equinozio di primavera, H0 ed H coinciderebbero rispettivamente con l'ora solare vera, o con l'ora solare media, o con l'ora siderale dei due luoghi M0 ed M al momento considerato; quindi la differenza di longitudine fra due luoghi si avrà facendo la differenza fra l'ora (solare o siderale) dell'uno e quella dell'altro luogo, relative allo stesso istante. Opportuni segnali, in particolare segnali telegrafici o radiotelegrafici, oppure altri procedimenti, permettono d'identificare uno stesso istante nei due luoghi, mentre per la determinazione dell'ora (o tempo) locale si fanno opportune osservazioni di un astro S così da determinarne l'angolo orario H. Se S è il Sole, il tempo solare vero tv. in M è l'angolo orario H aumentato o diminuito di 12 ore, cioè
e il tempo solare medio è questo tempo vero corretto per l'equazione del tempo. Se S è una stella, il tempo siderale ta. in M è l'angolo H aumentato della nota ascensione retta α della stella (v. Astronomia sferica); cioè
Per conoscere l'azimut An di un punto N, si misura con un strumento universale la differenza A − An. fra gli azimut dell astro S e del punto N; An sarà conosciuto quando lo sia l'azimut A dell'astro al momento dell'osservazione.
I problemi dell'astronomia geodetica propriamente detta si riconducono dunque alla determinazione dell'uno o dell'altro degli elementi incogniti H, 90° − ϕ, 180° − A del triangolo sferico polo-zenit-astro, nel quale il lato P S = 90° − δ è sempre noto, giacché la declinazione dell'astro che si osserva è sempre data dalle effemeridi astronomiche, e nel quale di volta in volta due altri elementi devono essere noti o misurati. Quando si adoperi uno strumento universale o altro strumento da questo derivato, come lo strumento dei passaggi o il telescopio zenitale, si dispone il cannocchiale o in un azimut A determinato o a una determinata altezza h, e A e h determinano il secondo elemento noto del triangolo P Z S. Come terzo elemento si suppone noto, a seconda dei casi, o il lato 90° − ϕ o l'angolo H determinato per mezzo della (1) o della (2).
Le formule seguenti che la trigonometria sferica dà per il triangolo P Z S
permettono allora di risolvere i seguenti problemi:
1. determinare il tempo (t o ts per il tramite di H), conoscendo la latitudine del luogo, con osservazioni di astri in un azimut determinato A o a una determinata altezza h;
2. determinare la latitudine del luogo, conoscendo il tempo (e quindi H) con osservazioni di astri o in un azimut determinato A o ad una determinata altezza h;
3. determinare l'azimut A, conoscendo la latitudine del luogo, con osservazioni in tempo noto (e quindi in angolo orario H noto).
Naturalmente l'ascensione retta α della (2) e la declinazione δ della (3) e della (4) si devono intendere quali appariscono all'osservatore. Si dovrà quindi tener conto, di volta in volta, di quei fenomeni di precessione, nutazione, aberrazione, rifrazione e parallasse che influiscono su quelle coordinate.
Le osservazioni ripetute su più stelle, o più volte sullo stesso astro, permettono di rendere più sicuro e più preciso il valore dell'elemento che si vuol determinare, ma le osservazioni possono anche essere moltiplicate per determinare contemporaneamente due o più elementi incogniti, e molteplici sono i problemi particolari che allora si possono presentare. Il più importante fra essi è quello delle determinazioni contemporanee del tempo e della latitudine, con osservazioni di più stelle ad una medesima altezza, che può essere essa stessa incognita. Lo strumento che serve in tal caso può essere privo di cerchi graduati, e le migliori condizioni di osservazione si ottengono con uno strumento moderno, detto delle altezze eguali o astrolabio a prisma (v.).
Determinazione del tempo per mezzo dell'osservazione dell'azimut di una stella. - Per determinare il tempo con l'osservazione di una stella in un azimut dato A, si dispone il cannocchiale di uno strumento universale nel piano verticale di azimut A, mediante la lettura del cerchio graduato orizzontale, e si osserva il tempo t segnato dall orologio all istante ; n cui la stella attraversa il detto verticale, cioè al momento in cui la sua immagine si trova sotto il filo verticale (centrale) del reticolo. La correzione incognita Δt dell'orologio, che applicata a t dà il tempo siderale esatto, si ha allora dalla relazione:
essendo α l'ascensione retta nota della stella e H il suo angolo orario al momento dell'osservazione. Questo si può calcolare mediante la formula (4), introducendovi i valori supposti noti della latitudine ϕ del luogo, della declinazione ϕ della stella e dell'azimut A dello strumento. Differenziando quella formula, si può riconoscere l'influenza di piccoli errori d ϕ, d δ, d A degli elementi noti nella determinazione dell'elemento incognito H, e si trova che quella influenza è minima quando l'osservazione si faccia in meridiano (A = 0° oppure A = 180°, nel qual caso H = o, se la stella si osserva in culminazione superiore, oppure H = 12h, se la stella si osserva in culminazione inferiore.
Questo metodo di osservazione è d'uso corrente negli osservatorî astronomici, e si fa con un apposito strumento, detto dei passaggi, mantenuto nel meridiano. Praticamente sussiste un piccolo errore strumentale, il quale teoricamente dovrebbe essere zero. Esso si assume, insieme con Δt, quale seconda incognita, e le due incognite si determinano con l'osservazione di due o più stelle. Di altri due errori strumentali, l'inclinazione dell'asse e la collimazione, si può calcolare o eliminare a priori l'effetto.
Sono pure in uso, specialmente in stazioni di campagna, le osservazioni di stelle orarie nell'azimut della stella polare (metodo di Döllen) e quindi sempre in prossimità del meridiano; la combinazione delle osservazioni della polare e di una stella oraria permette di eliminare facilmente l'azimut strumentale incognito in cui l'osservazione è stata fatta.
Determinazione del tempo per mezzo dell'osservazione dell'altezza di un astro. - Per determinare il tempo si può altresì disporre il cannocchiale di uno strumento universale a una determinata altezza h, mediante la lettura del cerchio graduato verticale, e osservare il tempo t segnato dall'orologio al momento in cui una data stella giunge a quell'altezza, cioe all'istante in cui la sua immagine si trova sotto il filo orizzontale (centrale) del reticolo. L'angolo orario H della stella che permette di ricavare la correzione incognita Δt, può essere allora calcolato mediante la (3). Differenziandola, si trova che le condizioni più favorevoli d'osservazione, perché gli errori degli elementi supposti noti abbiano la minima influenza sul risultato, si hanno quando la stella è in prossimità del primo verticale. Questi metodo è utilmente seguito in stazioni di campagna e in navigazione. In mare, l'osservazione del Sole al mattino o alla sera, quando esso è alla massima distanza dal meridiano, permette di determinare nel modo più comodo il tempo, e quindi la longitudine: era questo il solo metodo astronomico adoperato fino a pochi decenni fa.
Determinazioni di longitudine. - Per fissare un medesimo istante fisico in due luoghi distinti, così che, conoscendo i tempi dei due luoghi ad esso corrispondenti, si abbia subito, nella loro differenza, la differenza di longitudine, si possono seguire varî procedimenti.
Il metodo più semplice usato in navigazione era quello di trasportare con la nave, per mezzo di buoni cronometri (dei quali si conosceva al momento della partenza la correzione rispetto al tempo del meridiano origine e l'andamento), l'ora del detto meridiano origine, da confrontare con l'ora locale, ogni volta che questa veniva determinata con apposita osservazione astronomica.
Il procedimento è lo stesso anche oggi, ma i segnali trasmessi radiotelegraficamente da varie stazioni, ad ore determinate del meridiano fondamentale di Greenwich, permettono di avere costantemente ed esattamente sulla nave il tempo universale (di questo meridiano) anche senza i controlli dei cronometri nei porti di partenza.
Lo stesso trasporto dei cronometri, fatto con molti di questi e con cura, ha servito in passato per determinazioni esatte di differenze di longitudine anche fra luoghi terrestri.
Particolari fenomeni astronomici, come eclissi di Luna, sparizioni dei satelliti di Giove, dietro il disco del pianeta o nel suo cono d'ombra, e successive riapparizioni, osservazioni di stelle cadenti, ecc., hanno talvolta potuto servire da segnali per fissare in due luoghi diversi uno stesso istante fisico; ma questi segnali o si osservano con troppa incertezza, o, non essendo prevedibili, non sono d'uso pratico.
Altri fenomeni astronomici, dovuti al moto dei pianeti fra le stelle, e specialmente quelli dovuti al moto della Luna, possono servire a determinare una distanza di longitudine. Per esempio, gl'istanti in cui la Luna appare a una determinata distanza da stelle vicine, o gl'istanti in cui avvengono le occultazioni di queste dietro il disco lunare, dipendono, in causa del fenomeno di parallasse, dal luogo d'osservazione; ed essendo note e date dalle effemeridi astronomiche, in funzione del tempo di un meridiano origine, le posizioni della Luna rispetto al centro della Terra, è possibile calcolare la longitudine di un luogo (di latitudine nota) dalle predette osservazioni di distanze lunari e di occultazioni.
Ma il mezzo più pratico e più preciso, che serve nelle determinazioni di differenze di longitudine tra due luoghi, sta nei segnali artificiali che in questi possono essere contemporaneamente percepiti. Di questo tipo sono le antiche accensioni di polvere pirica in punti elevati intermedî, o i più recenti segnali elettrici scambiati telegraficamente fra i due luoghi, o i moderni segnali radiotelegrafici, in particolare i segnali radiotelegrafici orarî, che permettono determinazioni di longitudine anche fra luoghi lontanissimi.
Determinazioni di latitudine. - I due metodi indicati per determinare il tempo, supposta nota la latitudine del luogo d'osservazione, servono altresì a determinare questa, supposto noto il tempo, e quindi l'angolo orario H dell'astro osservato. Ma le condizioni più favorevoli per la precisione del risultato che si cerca sono, per la latitudine, invertite rispetto a quelle valevoli per il tempo. E precisamente, differenziando le equazioni (4) e (3) che permettono di calcolare la latitudine, quando siano noti l'angolo orario H e la declinazione δ dell'astro, e, rispettivamente, la sua altezza h o il suo azimut A, si trova che, facendo le osservazioni in azimut dato, conviene che questo sia di 90° o di 270°, cioè che le osservazioni stesse siano fatte in primo verticale e con stelle culminanti in grande prossimità dello zenit; facendo invece le osservazioni ad altezza data, conviene che queste siano fatte in prossimità del meridiano.
Se in questo secondo caso si pone lo strumento in meridiano (metodo di Sterneck), la (3) dà, secondo i casi:
Osservando in meridiano successivamente due stelle, una culminante al sud dello zenit e una fra lo zenit e il polo, le due prime delle precedenti formule, ove si distinguano i due casi con gl'indici s ed n, dànno
Basta dunque conoscere la differenza d'altezza delle due stelle. Se queste culminano pressoché ad eguale distanza dallo zenit, si possono eseguire le due osservazioni, l'una tenendo il cerchio graduato verticale dello strumento dalla parte di est, l'altra ad ovest, e dirigendo il cannocchiale ad una medesima distanza zenitale, intermedia tra le due. Le due immagini stellari seguiranno, nel campo dell'oculare, due diversi cammini e la loro distanza, misurata con un micrometro e tradotta in angolo, darà la differenza hn − hs. Le letture a una o due livelle, rigidamente collegate al cannocchiale ad ogni osservazione d'una coppia di stelle, assicurano l'eguaglianza delle distanze zenitali di esso nelle due giaciture, o, meglio, permettono di correggere le osservazioni per le piccole diseguaglianze che si presentano nella pratica.
Questo metodo (di Horrebow-Talcott) e quello Sterneck sono quelli più usati oggidì. Essi richiedono, per una buona determinazione di latitudine, l'uso di parecchie stelle. Per l'addietro, essendo molto più limitato il numero delle stelle di declinazione ben nota, si usava osservare l'altezza d'una stella più volte in prossimità del meridiano. Questo metodo delle osservazioni circummeridiane richiede si tenga conto del tempo dell'osservazione per conoscere il valore dell'angolo orario in cui la stella è osservata, e il calcolo del risultato è molto più complesso che nei casi precedenti. Generalmente, tuttavia, l'angolo orario è piccolo, o piccola è la distanza della stella dal polo, e da opportuni sviluppi in serie il calcolo è reso più facile.
In tutti i casi si accoppiano stelle culminanti da una parte e dall'altra dello zenit per eliminare, o almeno attenuare, gli effetti delle anomalie della rifrazione astronomica.
In navigazione, l'osservazione dell'altezza del Sole intorno al mezzodì locale costituisce il metodo più pratico e più anticamente usato per determinare la latitudine della nave.
Determinazioni di azimut. - Osservando ad uno strumento universale il tempo siderale (e quindi l'angolo orario) in cui una stella passa attraverso al piano verticale del cannocchiale, e conoscendo la latidudine del luogo e la declinazione della stella, si ha l'azimut di quel verticale. Dalla corrispondente lettura del cerchio orizzontale è possibile allora dedurre la lettura che corrisponde alla posizione meridiana del cannocchiale, e dalla lettura analoga, fatta di poi collimando ad un oggetto terrestre, si ricava senz'altro l'azimut di questo.
L'azimut astronomico A della stella si può ricavare dalla formula (4), differenziando la quale si riconosce che le condizioni più favorevoli per la precisione del risultato si hanno ricorrendo a stelle prossime al polo. Nell'applicazione di questo metodo la stella più usata è effettivamente la polare. Se poi la stella si osserva al momento della sua massima digressione, il calcolo dell'azimut non richiede che la conoscenza della latitudine del luogo e della declinazione della stella.
Determinazione geodetica delle coordinate geografiche e dell'azimut. - Per la determinazione geodetica delle coordinate geografiche e dell'azimut ellissoidici di molteplici punti d'una regione terrestre si assume come superficie matematica della Terra un ellissoide di riferimento, orientato, come già si è detto, rispetto alla verticale di un punto fondamentale M0 della regione; s'immagina distesa su questa una rete di triangoli costituenti una superficie poliedrica che avvolge la regione stessa e che ha per vertici i punti più salienti della superficie fisica (punti trigonometrici di primo ordine), e si considera l'analoga rete geodetica di triangoli ellissoidici, i cui vertici sono le proiezioni su quell'ellissoide dei punti trigonometrici di primo ordine, e i cui lati sono le geodetiche dell'ellissoide che li congiungono.
Fra i detti punti è naturalmente compreso M0 anzi il suo meridiano astronomico (che coincide evidentemente con il meridiano ellissoidico) è il meridiano origine delle longitudini, e l'azimut astronomico di uno dei lati uscenti da M0 si assume come azimut ellissoidico della corrispondente sezione normale e determina quindi l'orientazione sull'ellissoide della rete geodetica.
Con le operazioni di triangolazione e con i relativi calcoli si determinano le lunghezze dei lati e le ampiezze degli angoli di questi triangoli, dopo di che è possibile precisare la posizione sull'ellissoide dei varî punti trigonometrici di primo ordine, determinare la direzione della normale all'ellissoide in ciascuno di essi e calcolare quindi le coordinate geodetiche o ellissoidiche di un qualsiasi punto trigonometrico M, come pure gli azimut ellissoidici in M dei varî punti trigonometrici circostanti.
Deviazioni della verticale. - Quando in un punto M siano state osservate le coordinate astronomiche La, ϕa e siano stati calcolati per via geodetica le sue coordinate ellissoidiche Lc, ϕe, resta determinata in M sia la direzione della normale al geoide (verticale), sia la direzione della normale all'ellissoide, e l'angolo di esse si tlice deviazione della verticale.
I valori numerici che si ottengono nella pratica per questo angolo sono sempre piccoli; tuttavia il loro valore medio è sensibilmente superiore a quello che sarebbe da attendersi in causa degli errori d'osservazione. Ciò dimostra che esistono delle effettive deviazioni fra il geoide e l'ellissoide di riferimento, e la conoscenza degli angoli sopraddeiti permette o di perfezionare la scelta di questo ellissoide, così che esso sia più prossimo al geoide e le deviazioni della verticale in un secondo calcolo risultino, in media, più piccole; o di determinare le effettive deviazioni del geoide dall'ellissoide in corrispondenza alla regione considerata.
Ricorriamo ancora alla sfera Σ centro nel punto M, e sia Zα lo zenit vero, determinato dall'incontro con la superficie sferica della verticale, e Ze lo zenit ellissoidico, determinato dall'incontro con la sfera della normale all'ellissoide. La deviazione totale ε della verticale è misurata dall'arco Z Za, e l'orientazione in cui essa avviene può essere definita dall'angolo sferico P′ZeZa = γ, che è l'azimut (ellissoidico) del piano di deviazione lfig. 2).
Condotto l'arco di parallelo Za R, il triangolo Ze Za R può considerarsi come piano e rettangolo in R, e la deviazione totale ε può scomporsi secondo il meridiano e il parallelo nelle due componenti:
mentre si dicono deviazioni della verticale in latitudine e in longitudine rispettivamente le differenze
La deviazione della veriicale conduce altresì a una deviazione in azimut AA − A in una generica visuale che esca da M. Così per quella visuale, diretta al punto N già considerato nella figura precedente, che incontra la superficie sferica - in Q, la detta deviazione è eguale alla differenza dei due angoli P′ Za Q, P′ Z Q, e si dimostra che, quando N è un punto terrestre prossimo all'orizzonte, si ha, a meno di quantità trascurabili,
Questa dimostra che la deviazione in azimut rimane la stessa qualunque sia la direzione del punto N, sicchè le differenze fra due azimut astronomici, cioè gli angoli orizzontali che si misurano con uno strumento universale nelle operazioni di triangolazione, praticamente coincidono con le differenze fra i due corrispondenti azimut ellissoidici che s'introducono nei calcoli geodetici.
Punti di Laplace. - Le due ultime relazioni scritte conducono, entro lo stesso ordine di approssimazione, all'importante relazione dovuta al Laplace
dove ϕ rappresenta indifferentemente la latitudine astronomica o la latitudine geodetica. Quei vertici di una triangolazione nei quali, oltre ad essere noti gli elementi geodetici Ae, Le, ϕe,. siano stati determinati astronominamente l'azimut Aa e la longitudine La, si dicono punti di Laplace, e hanno particolare importanza, perché permettono di riconoscere l'esattezza delle operazioni e dei calcoli geodetici. Mentre infatti le differenze Ae, − Aa, La − ϕa − ϕe, dipendono essenzialmente dalla non perfetta coincidenza del geoide con l'ellissoide considerato, e in minore misura dagli errori di osservazione, il primo membro della relazione precedente dev'essere zero solo a meno di questi errori, sicché il maggiore o minore importo che esso acquista nei punti di Laplace di una triangolazione è indice della maggiore o minore precisione delle operazioni eseguite.
Astronomia nautica.
L'astronomia nautica studia i mezzi per determinare la posizione della nave (punto-nave) in mare con osservazioni di astri.
Notizie storiche. - Poco o nulla si trova nella storia antica che interessi propriameme l'astronomia nautica. Le navigazioni, che negli antichi tempi si compievano, erano di piccolo cabotaggio, e perciò non era impellente il bisogno di ricorrere all'osservazione degli astri, né alle conoscenze di astronomia pura, che, nei popoli orientali, dediti alla vita contemplativa, erano notevoli, tenuto conto della povertà dei mezzi. Solo qualche notizia imprecisa si ha sulle conoscenze nautico-astronomiche degli antichi Cinesi e Polinesiani, che sembra provato si spingessero a lunghe navigazioni fuori vista di terra.
In un'epoca non ben determinata (v. bussola nautica), intorno al set. XIII, appare nella navigazione del Mediterraneo la bussola e con essa la carta marina; questi fattori mutarono l'aspetto dell'arte nautica, che ricorrerà ben presto agli astri. La prima notizia di vero interesse per l'astronomia nautica si trova in una relazione del viaggio di Nicolò de' Conti (1448). Egli c'informa che i naviganti dell'India "si governano colle stelle del Polo Antartico, che è la parte di mezzodì, perché rare volte vedono la nostra tramontana e non navigano col bussolo, ma si reggono secondoché trovano le dette stelle o alte o basse, e queste fanno con certe lor misure che adoperano; e similmente misurano il cammino che fanno di giorno e di notte, e la distanza che è da un luogo all'altro, e così sempre sanno in che luogo si ritrovano essendo in mare". Queste notizie sono sufficienti per stabilire che gl'Indiani si trovavano, per quanto riguarda l'astronomia nautica, ad un livello che i naviganti dei nostri mari raggiunsero solo un paio di secoli dopo il tempo in cui viene fornita questa relazione. In Europa i primi passi dell'astronomia nautica si fanno nella Penisola Iberica, donde salparono i più grandi navigatori che noveri la storia.
Fino al principio del sec. XVI tutta la scienza astronomico nautica si riduce alla determinazione di latitudine con altezza meridiana di Sole o con altezza della Polare.
Ecco, p. es., una regola che si ricava dall'Arte del navegar di P. Medina, tradotta a Venezia nel 1554, mentre l'opera spagnola è del 1545: "Regola. Quando il sol è alla parte del ostro, e le ombre cadono, inuerso la tramontana et l'altezia con la declination non fanno gradi XC. Essendo il sole alla parte del ostro, sel fa l'ombra alla tramontana, se agiungendo l'alteza con la declination non fa gradi XC quanti mancano fin XC tanti voi siete discosti da la equinotial alla parte di tramontana. Et la equinotal sarà tra voi et il sole". Leggi: quando δ è sud, ϕ = 90° − (h + δ). Fino al detto secolo gli strumenti astronomici usati dal navigante sono l'astrolabio e il quadrante. L'uno e l'altro usò Colombo.
Meglio di qualsiasi dissertazione storica, una nota degli strumenti nautici, che imbarcò Magellano per il suo viaggio di circumnavigazione, mette in evidenza le condizioni in cui era l'astronomia nautica pratica in quei tempi, in pieno secolo XVI. Tale è la nota: l'astrolabio, 6 astrolabî di metallo, 1 mappamondo, 21 quadranti di legno, pergamena per disegnare carte geografiche, 24 carte idrografiche, 1 compasso a doratura, 33 aghi magnetici, 12 orologi a sabbia, altri 6 orologi, 3 bussole, 6 paia di compassi. Questo è quanto. Il primo astrolabio della nota era un grande astrolabio di legno che veniva usato a terra (essendo di tali dimensioni da renderlo poco pratico a bordo) per ricavare la latitudine con maggiore precisione. Gli altri astrolabî eran quelli di uso corrente a bordo, costituiti da un cerchio graduato sostenuto da un anello A e da una alidada DE rotante a sfregamento sul cerchio intorno al centro. L'alidada portava due pinnule CC. Si teneva lo strumento per l'anello A, così lo strumento per il proprio peso si manteneva verticale; attraverso le pinnule C si traguardava l'astro, la cui altezza si leggeva sul cerchio graduato a partire da un'origine come B (v. fig. schematica 1).
Il quadrante era com'è indicato schematicamente in fig. 2. Il settore AB era graduato. Il filo a piombo OP, mettendosi verticale, serviva da indice dell'altezza quando attraverso le pinnule CC si traguardava l'astro. L'astrolabio grande era di legno, di costruzione analoga a quella dei piccoli. Essendo di maggiori dimensioni, la graduazione del cerchio permetteva letture migliori. Era sostenuto da un tripode. Ne parla De Barros nel suo libro sull'Asia, descrivendo il viaggio di Vasco de Gama. Egli dice che Gama, dopo 5 mesi dalla partenza da Lisbona, "dismontò per fornirsi di acqua e per pigliare l'altezza del Sole. Perciò come dell'uso dell'astrolabio che per quel mestiere della navigatione era poco tempo che i naviganti di questo regno si servivano, e i navili erano piccoli, non si fidava troppo di pigliarla dentro di essi per cagion del loro movimento. Principalmente era un astrolabio di tre palmi di diametro...".
Verso la fine del sec. XV appaiono delle Effemeridi rudimentali che servono per i tre anni ordinarî e per il bisestile di un gruppo di quattro anni. Esse dànno la declinazione del Sole giorno per giorno in gradi e primi. Tali sono le Effemeridi calcolate dal Regiomontano per gli anni 1475-1506.
I primi annuarî astronomici del sec. XVI sono quelli del Perlach (1529), Schoner (1532), Apiano (1538-1578), Pilatus (1544-1562) e Retico (1551).
È sicuro che Colombo misurasse l'altezza della Polare per ottenere la latitudine. Ai suoi tempi, astrolabio e quadrante davano la latitudine, la bussola dava la rotta (è noto che, primo, Colombo mise in evidenza la variazione della declinazione magnetica), il cammino si determinava ad occhio. Di determinazione di longitudine nemmeno l'ombra. In principio del sec. XVI si comincia a trattare teoricamente della longitudine. La priorità dell'idea della determinazione della longitudine col trasporto del tempo va attribuita a Fernando Colombo (figlio di Cristoforo Colombo), che ne tratta in una proposta ch'egli fa nel 1524 al re di Spagna Filippo II di un "istrumento fluente" (leggi orologio) che conservi il più a lungo possibile il tempo di un meridiano di partenza. Egli, nello stesso documento, parla anche di equazione del tempo (excentricidad del excentrico) e di variazione di declinazione del Sole (obliquidad del zodiaco). Si parla a quei tempi anche di orologi meccanici, ma questi erano usati negli osservatorî dagli astronomi, non a bordo, ove gli orologi eran clessidre.
Pigafetta, compagno di Magellano, nel suo trattato di navigazione, scrive: "Oggidì i piloti contentansi di conoscere la latitudine e son sì superbi che non vogliono udir parlar di longitudine. Ai tempi di Magellano si conosceva approssimativamente la differenza fra l'altezza del Polo e quella della Polare. Nel sec. XVI fa progressi la navigazione stimata e la cartografica, particolarmente per opera di Nonio e di Mercatore; ma ciò non riguarda direttamente l'astronomia nautica.
Anche nel sec. XVI s'iniziano studî sulla determinazione della longitudine con le distanze lunari, a cui non s'è accennato nel sunto di astronomia nautica offerto in queste pagine, perché metodo oramai sorpassato e di risultato poco preciso. In brevi cenni: si trattava di misurare col sestante, in un determinato istante tc del cronometro, la distanza angolare fra la Luna e un altro astro: ridurre tale distanza in geocentrica. Le Effemeridi davano in funzione di Tm tali distanze, in modo che si poteva avere un valore di Tm corrispondente all'istante tc ed ottenere K.
Ma gli studî iniziati fin dal principio del sec. XVI ebbero applicazione pratica molto più tardi, cioè nel sec. XVIII, dopo la invenzione del sestante e del cronometro.
A Nonio è dovuta una suffientemente precisa correzione da applicarsi all'altezza della Polare per avere la latitudine. Egli trattò pure dell'altezza meridiana di Sole con idee più moderne e di una determinazione di latitudine mediante altezze di uno stesso astro misurate con intervallo di tempo, e di una determinazione di latitudine con osservazioni simultanee di due astri diversi. Nonio adoperava per la risoluzione dei suoi problemi una sfera armillare.
Ai tempi di Nonio comincia ad usarsi praticamente in mare la ballestriglia, della quale però Nonio parla come di strumento che non lo soddisfa; della ballestriglia si ha la più antica nozione in un trattato geometrico del secolo XIV dell'ebreo Levi ben Gerson. Si trattava di un'asta graduata con due pinnule AA, BB simmetriche rispetto all'asta su cui scorrevano (v. figura schematica 3). Da O si traguardava secondo le direzioni OS′ e OS″, si leggevano le distanze OC e OD sull'asta e, AC e BD essendo costanti, si ricavava il valore dell'angolo in O dalla relazione (non conoscendo l'uso delle tangenti):
Più tardi, la ballestriglia ebbe una sola pinnula che aveva l'aspetto di un disco "traversa", e l'asta divenne un bastone parallelepipedo: si aggiunse poi un traguardo e un dischetto d'avorio per riparare l'occhio quando il Sole offendeva troppo la vista. Visse questo strumento fino alla metà del sec. XVIII.
In The Navigator Supply (Londra 1597) si trova descritto uno strumento, composto di una bussola, di un cerchio azimutale e di un quadrante, denominato Traveilors juvell, che permetteva di ricavare, oltre alla declinazione magnetica, anche il tempo vero del Sole, conoscendo la latitudine. Però non appare che questo strumento, inventato da Barlow, sia stato usato dai naviganti.
In principio del sec. XVII qualche miglioramento si ha negli strumenti per la misura dell'altezza. J. Davis (1600) ideò uno strumento che ha della ballestriglia e del quadrante, conosciuto sotto il nome di "quadrante di Davis".
Alcuni miglioramenti furono apportati a questo strumento da Flamsteed e Halley. Si comincia con i nuovi strumenti a utilizzare l'orizzonte marino; ma in molti testi non si parla nemmeno della depressione di questo.
In questo secolo XVII, oltre un grande aumento nel corredo matematico del navigante riguardo alla lossodromia e al "radunamento delle rotte", si ha un progresso per opera del Riccioli nella trattazione della navigazione per circolo massimo; però i lavori del Riccioli non trovano nei naviganti del tempo applicazione pratica, come non trovarono a quei tempi pratica applicazione i consigli del Leibniz di ricorrere alla proiezione gnomonica per la navigazione ortodromica.
Cominciano, intanto, ad entrare nella risoluzione dei problemi nautici i logaritmi, con quella lentezza, però, che è tutta propria del marinaio nell'accettar metodi nuovi, e appaiono le prime tavole della rifrazione atmosferica per opera di Cassini.
Si devono al Riccioli anche le risoluzioni teoriche di problemi di astronomia nautica, applicando la trigonometrica al triangolo sferico di posizione; ma ancora in tutto il sec. XVII le sole determinazioni astronomiche in mare sono quelle di latitudine con il Sole e con la Polare. Filippo III, re di Spagna, propone un premio grandissimo a chi risolva il problema di ricavare praticamente in mare la longitudine con osservazioni astronomiche. Ciò mette in evidenza l'importanza che già s'annetteva al problema.
Ne risultò un approfondimento nello studio delle distanze lunari, e l'inizio di tentativi di risoluzione del problema delle longitudini con altre osservazioni lunari, quali quella del tempo della culminazione, quella del tempo del passaggio simultaneo di una stella e della Luna al meridiano, allo stesso verticale. Intanto nel 1679 appaiono le Effemeridi Connaissance des tems, per cura dell'Accademia delle scienze: in esse si hanno i tempi delle occultazioni dei satelliti di Giove, da utilizzarsi per le longitudini, metodo attribuito al nostro Galileo. Le prime tavole delle eclissi dei satelliti di Giove sono del 1650, per opera del Cassini e del danese Romer. Però anche questo metodo è molto raramente usato dai naviganti.
Fino alla metà del sec. XVIII erano, dunque, ben grossolani gli strumenti dei naviganti: a mala pena si poteva osservare un'altezza con l'approssimazione di un terzo di grado. Non fa meraviglia che il Huyghens consigliasse nel 1672 di trovare l'ora a bordo per mezzo del levare e tramontare del Sole.
Verso la fine del sec. XVII, per opera di marinai e scienziati inglesi, cominciano a far capolino strumenti per misurare angoli in mare basandosi sulla riflessione. Primo parrebbe essere uno strumento del Hooke, con un solo specchio (1666). Altro strumento avrebbe presentato il Hooke nel 1694, ma non più basato sulla riflessione, mentre più tardi ne avrebbe fornito altro a riflessione, inviandolo a Berlino; questo è menzionato nelle memorie dell'Accademia di Berlino (1749). Il primo strumento a doppia riflessione si deve a Hadley (1730), che in seguito perfezionò il suo strumento a bordo del yacht Chatham, messo a sua disposizione dall'ammiragliato inglese. Gli Americani attribuiscono l'invenzione del sestante a Godfrey (1732). In questi tempi altri si attribuiscono l'onore dell'invenzione. Sembra assodato che la prima idea della doppia riflessione si debba attribuire al genio di Newton (1700).
Quasi contemporaneamente al sestante fa la sua comparsa nel mondo l'altro rivoluzionario dell'astronomia nautica: il cronometro marino. Esso fu presentato al Board of Longitude nel 1736 (ufficio istituito nel 1714, formato da eminenti cultori di scienza astronomica e da uomini di mare) da Harrison. Diede risultati soddisfacenti in un primo viaggio. Lo strumento, perfezionato e provato in altri più lunghi viaggi (1761 e 1772), ottenne il premio di 20.000 sterline decretato dall'ufficio predetto.
Il cronometro del Harrison, macchina d'eccezione, era difficilmente perfezionabile o imitabile: l'onore di aver reso pratici i cronometri marini spetta al francese Le Roy, allo svizzero Berthoud e agl'inglesi Arnold e Earnshaw.
Il fondamento della scoperta del cronometro si deve al matematico olandese Huyghens, che, per il primo, ideò l'applicazione della spirale al bilanciere (1675).
Con l'invenzione del sestante e del cronometro, l'astronomia nautica fa un salto prodigioso, sia nel campo di metodi nuovi per la risoluzione del problema del punto astronomico in alto mare, sia nella precisione dei risultati.
Da allora il problema che risolve l'astronomia nautica, appoggiandosi alla trigonometria sferica, ha il seguente aspetto: data una delle coordinate, latitudine o longitudine, risolvere il triangolo di posizione in modo da ottenere l'altra coordinata: la longitudine o la latitudine. Tale aspetto ha conservato il problema, si può dire, fino a questi ultimi anni. Essendo poi noto che le circostanze favorevoli per il calcolo del tempo del Sole per ottenere la longitudine avvenivano al passaggio dell'astro al 1° verticale, e che quelle per il calcolo della latitudine avvenivano al passaggio del Sole al meridiano, i naviganti s'erano cristallizzati nella pratica di fare un'osservazione di Sole al mattino, mettendo a calcolo la latitudine stimata, ottenendo così la longitudine; di osservare l'altezza del Sole al mezzodì vero, calcolando la latitudine; trasportare la longitudine, con la stima, all'istante dell'osservazione meridiana e avere il cosiddetto "punto a mezzodì". Con l'invenzione del sestante e del cronometro l'arte nautica diventa una vera scienza. Rimandiamo il lettore ai testi indicati in bibliografia, nel ramo storico, per avere notizie sugli uomini che contribuirono allo sviluppo dell'astronomia nautica nel periodo, per essa fiorentissimo, che va dalla metà del sec. XVIII alla metà del sec. XIX, non essendo possibile dare in forma, sia pure molto concisa, una notizia storica senza gravi lacune. Citeremo qui solo i nomi più illustri, quali il Lalande, il Borda, il Littrow, il Caspari, il Pagel, il Fournier.
Il sec. XVIII è caratterizzato da un grande sviluppo della scienza teorica e da un'altrettanto grande resistenza da parte dei naviganti ad accettare le teorie stesse. Questa resistenza è da attribuirsi in parte al misoneismo, in parte alla poca precisione offerta dai primi esemplari dei sestanti e dei cronometri. I perfezionamenti dei sestanti, specialmente per quanto si riferisce alla divisione del lembo, e dei cronometri appartengono al principio del sec. XIX. Per il sestante vanno ricordati Troughton, Negretti e Zamba in Inghilterra, Eichenbach, Ertel, Pistor e Martins in Germania e, dal punto di vista teorico, insuperato, il nostro Magnaghi. I perfezionamenti del cronometro sono dovuti, per lo scappamento, a Arnold e quindi ad Earnshaw, per il bilanciere compensato, per la temperatura al Deut, e, per studî completi, al Caspari e al Philipps: quest'ultimo fondatore della teoria matematica della spirale.
Con tali perfezionamenti l'astronomia nautica prende l'aspetto or ora accennato, passando attraverso un periodo in cui, specialmente dal punto di vista teorico, sono molto in onore i metodi delle distanze lunari che produssero una enorme bibliografia, ma ebbero scarsissima ripercussione nel mondo navigante.
L'aspetto dell'astronomia nautica cambiò totalmente con l'invenzione della retta d'altezza: ai dì nostri, si può, in ogni istante nel quale sia visibile l'orizzonte del mare e un astro, avere una retta di posizione della nave e sempre in eguali condizioni di precisione (metodo Marq de Saint-Hilairel).
L'invenzione della retta d'altezza avvenne per puro caso. L'Amencano cap. Sumner proveniva da Charleston diretto a Greenock e s'avvicinava al mare d'Irlanda, dopo un lungo percorso compiuto senza poter fare osservazioni. Finalmente poté prendere un'altezza di Sole e fece un calcolo di longitudine con una latitudine stimata molto incerta. Data questa incertezza, fece altri due calcoli con due latitudini, una superiore di 10′ e l'altra di 20′: i tre punti ottenuti dai tre calcoli si trovavano allineati sopra una retta, e questa retta passava per il battello fanale di Small. Egli intuì, allora, che tale retta era il luogo di posizione di tutti i punti donde si poteva misurare la stessa altezza da lui misurata, in quello stesso istante: diresse perciò secondo la retta e avvistò, in breve, Small. Tale fatto avveniva nel 1837, e nel '43 Sumner pubblicava un opuscolo al riguardo (v. Bibl.). Nella 3ª edizione di questo lavoro egli nota già che il luogo di posizione da lui scoperto è normale all'azimut di osservazione dell'astro.
Basterà quindi calcolare un punto e tracciare una retta normale a tale direzione azimutale. Così venne il metodo Johnson e più tardi (1874) il metodo del capitano di fregata Francesco Marq de Saint Hilaire, che si è imposto ed è generalmente usato. Questi metodi, nati nella prima metà del secolo scorso, al principio del nostro secolo si chiamavano ancora i nuovi metodi; ma incontrarono molto tardi il favore dei naviganti, misoneisti per eccellenza; e si può dire che solo in questi ultimi anni il loro uso si è generalizzato. Perciò, allo stato presente, l'astronomia nautica fornisce al navigante i seguenti principali mezzi pratici: calcolo di un punto-nave ai crepuscoli con osservazioni stellari; controllo della posizione con rette d'altezza isolate di Sole durante il giorno ed eventuale calcolo d'un punto con altezze simultanee diurne di Sole, Luna, Venere o Giove; controllo della direzione con azimut di astri.
Vista d'insieme degli scopi dell'astronomia nautica. - Supponga il lettore di essere al centro della Terra e che questa abbia forma sferica (ciò non è esatto, ma si accetta nella pratica); supponga di essere in piedi e di avere direttamente sulla sua testa (allo zenit) la nave di cui si vuole determinare la posizione; supponga infine che dei due emisferi in cui è divisa la Terra dal piano orizzontale sul quale poggiano i suoi piedi, quello superiore sia trasparente (fig. 4). Siano inoltre: O centro della Terra; Z, punto-nave; PP′, poli geografici della Terra; EQWQ′, equatore terrestre; PZQSP′, meridiano passante per Z, nave; G, Greenwich; PGG0P′, meridiano di Greenwich; G0, punto in cui il meridiano di Greenwich incontra l'equatore, o piede del meridiano di Greenwich; ZQ, latitudine di Z; G0Q, longitudine di Z; Emisfero tratteggiato = emisfero opaco; Emisfero bianco, al disopra del piano orizzontale NWS, su cui poggiano i piedi dell'uomo ch'è al centro della Terra = emisfero trasparente.
È notte, brillano nel cielo le stelle; supponga il lettore di poter vedere proiettato in mezzo agli astri un faro acceso sulla nave ferma: egli si accorgerebbe che gli astri si spostano rispetto al caro-nave, avrebbe l'impressione che la volta celeste ruoti intorno a sé ed al faro che con lui è fisso alla Terra.
Si tratta di determinare la posizione istantanea della nave apparentemente fissa, rispetto agli astri, apparentemente mobili, cioè di mettere a posto il faro-nave. Vedremo subito che è come fissarne la posizione sulla sfera terrestre.
Nella fig. 5 la sferetta interna è la sfera della fig. 4, la Terra. La sfera esterna è la volta del cielo che ci avvolge: la sfera celeste. O è il centro della Terra ove supponiamo il nostro occhio; Z il punto ov'è la nave, che si proietta nel cielo in Z′ (zenit); QeQe′. l'equatore celeste, proiezione dell'equatore terrestre QQ′; Pn il polo celeste nord, proiezione del polo terrestre ed A, A′ le poslzioni dì due astri nell'istante che si considera.
Il navigante riceve annualmente dei cataloghì stellari (Effemeridi) che gli forniscono, per ogni istante, la posizione sulla sfera releste di tutti gli astri principali.
Da queste Effemeridi si ricava, p. es., per l'astro A: l'arco A0, che si chiama "declinazione dell'astro" e corrisponde alla latitudine dell'astro, e l'arco d'equatore γA0, che corrisponde alla longitudine dell'astro, si chiama "ascensione retta dell'astro" ed è misurata a partire da un punto fisso γ sull'equatore celeste, punto convenzionale, com'è convenzionale per noi il piede del meridiano di Greenwich sull'equatore terrestre, come origine delle longitudini.
Così di A′ conosciamo A′A0′ declinazione, e γA0′ ascensione retta. Allora, se possediamo una sfera, un globo, su cui sia tracciato l'equatore e un reticolato di meridiani e di paralleli, fissando in un punto qualunque dell'equatore il punto ϕ, sappiamo mettere a posto i due astri A ed A′, leggendo sulle Effemeridi le loro declinazioni ed ascensioni rette.
Se, trovandoci in O, misuriamo con uno strumento misuratore d'angoli (sestante) l'angolo ZOA fra le visuali al faro-nave ed all'astro A, veniamo a conoscere l'ampiezza dell'arco di cerchio massimo Z′A, e, se misuriamo contemporaneamente l'angolo ZOA′, ricaviamo l'ampiezza dell'arco Z′A′. Prendiamo il nostro globo su cui abbiamo già fissato À ed A′ e con un compasso sferico, facendo centro in A e con raggio Z′A tracciamo un cerchio, poi con centro A′ e raggio Z′A′ tracciamo un altro cerchio: questi due cerchi s'intersecheranno in due punti, in uno dei quali si trova Z′, zenit dell'osservatore o della nave. In generale i due punti sono così distanti l'uno dall'altro che, conoscendosi sempre approssimativamente la posizione geografica della nave, si può subito scegliere quello, dei due punti, che fa per il nostro caso.
Così abbiamo fissata la posizione della nave sulla sfera celeste. Il lettore ha già intuito che, avendo collocato il faro-nave sulla sfera celeste gli è come se l'avesse fissato sulla sfera terrestre. L'occhio, posto al centro della Terra, proietta sulla sfera celeste tutti i punti e i cerchi di riferimento della Terra; così, se il lettore considera la fig. 5, s'avvede che sulla sfera esterna sono proiettati l'equatore, i poli, la nave, nelle identiche posizioni che hanno sulla Terra.
Perciò possiamo assumere il globo, impiegato per tracciarvi le posizioni dei due astri e dello zenit e di γ sia come sfera celeste, sia anche come globo terracqueo.
E allora abbiamo subito la latitudine del punto-nave: sul globo, per il punto Z′, d'incontro dei due cerchi, facciamo passare il meridiano PnZ′Qc; l'arco z′Q. è la latitudine della nave, eguale all'arco ZQ sulla terra.
Più delicato è avere la longitudine, ché, sul nostro globo, non abbiamo ancora tracciato il meridiano di Greenwich, origine delle longitudini. Ivi abbiamo solo il punto γ, che si muove insieme con gli astri rispetto alla Terra, supposta fissa.
Si tratta, dunque, di tracciare sulla sfera celeste il meridiano di Greenwich nell'istante in cui abbiamo fatto la misura dei due angoli ZOA, ZOA′.
All'uopo l'osservatore è fornito di un buon orologio (cronometro marino) che gli dà in ogni istante l'ora di Greenwich.
Avere l'ora di Greenwich significa sapere da quanto tempo è passato il Sole medio (Sole fittizio, immaginario, che cammina sull'equatore a velocità costante, nei pressi del vero Sole e se ne distacca, al massimo, di circa 17 minuti) da Greenwich; così, se dico sono le 15h di Greenwich o le 3h pomeridiane, intendo che il Sole medio è passato da tre ore (o 45°; 1h = 15°) dal meridiano di Greenwich.
Se possediamo un ottimo orologio regolato sul tempo medio di Greenwich possiamo sapere, dunque, da quanto tempo è passato il Sole medio da Greenwich, cioè da G0, e conoscere il valore dell'arco G0M (fig. 5: M è il Sole medio). D'altro lato le Effemeridi ci dicono qual'è l'ascensione retta di M nello stesso istante in cui abbiamo misurato gli angoli e abbiamo letto il cronometro; cioè ne dànno l'arco γM. Togliendo da G0M l'arco cM (fig. 5) ricaviamo l'arco γG0, cioè siamo in grado di fissare sul nostro globo il piede del meridiano di Greenwich rispetto a γ. Fissato G0 fissato il meridiano di Z′, conosceremo l'arco QeG0 che è la longitudine della nave rispetto a Greenwich.
Ecco in poche righe tutta l'essenza dell'astronomia nautica.
Rimangono a togliersi due principali difficoltà che si saranno presentate al lettore: l'ipotesi del trovarsi al centro della Terra fu fatta perché si afferrasse come si collochi, in un determinato istante il punto-nave - supposto immobile fra le stelle roteanti - sulla sfera celeste, mediante due misure d'angoli fra lo zenit e le visuali a due stelle. Ma la distanza delle stelle è tanto grande che possiamo considerarla infinita e allora l'angolo, che si misura dalla nave fra lo zenit e l'astro, coincide con l'angolo che si misurerebbe dal centro della Terra, poiché se si considera infinita la distanza di A, le due visuali OA e ZA (fig. 5) son parallele.
L'altra difficoltà è: come si misura l'angolo fra lo zenit e la stella? Si obietterà: l'astro si vede, ma lo zenit, punto immaginario sulla nostra verticale, no. In mare noi vediamo la linea dell'orizzonte, che ci definisce, con qualche correzione (che dipende principalmente dall'altezza dell'osservatore sul mare) un piano orizzontale: col sestante il marinaio misura l'angolo fra la linea dell'orizzonte e l'astro, cioè (v. figura 6) l'angolo ONA dal quale si ottiene subito l'angolo ZNA, desiderato, che è il complemento di ONA.
Il lettore è ora in grado di comprendere come si determina il cosiddetto punto-nave sopra un globo. Ma la risoluzione dei problemi di astronomia nautica su di un globo non sarebbe pratica: questo dovrebbe avere dimensioni proibitive. S'impiegano, invece, le carte nautiche, che sono carte geografiche, proiezioni piane di Mercatore di limitate zone della superficie terrestre. Su queste si tracciano brevi tratti di quei cerchi, a cui s'è fatto cenno, nel punto d'incontro dei quali si trova la nave. Come ciò si faccia apparirà nelle seguenti colonne.
Effemeridi. Elementi più necessarî. - I soli astri utilizzabili per la navigazione sono il Sole &mis3;???, la Luna &mis3;p, i quattro pianeti &mis3;o Venere, Marte, Giove, Saturno e le stelle &mis3;n principali di grandezza superiore alla 3ª. I dati astronomici più importanti di un determinato anno vengono raccolti nelle Effemeridi astronomiche (v. Bibl.) che vedono la luce alcuni anni prima di quello in cui si usano.
Le Effemeridi dànno, in funzione dell'ora civile del meridiano di Greenwich, tali elementi variabili. Di questi le Effemeridi stesse dànno le spiegazioni necessarie. Per una migliore comprensione è utile osservare le figure 7 e 8 e le seguenti delucidazioni. In fig. 7: P,P′ poli della sfera celeste; QQ′ equatore; γ punto vernale, d'Ariete o equinoziale di primavera, origine delle ascensioni rette; γ′ punto equinoziale d'autunno; A,A′ astri; cerchi PAP′, PγP′, PA′P′ cerchi di declinazione o circoli orarî. Arco AoA declinazione dell'astro A, arco Ao′A′ declinazione dell'astro A′; la declinazione si conta da 0° a 90° dall'equatore verso i poli, e si distingue, a seconda del polo verso cui è contata, coi nomi nord e sud; così AoA è nord, Ao′A′ è sud. Arco γAo ascensione retta dell'astro A, arco γQγ′Q′Ao′ ascensione retta dell'astro A′; la ascensione retta si conta a partire da γ nel senso della freccia (fig. 7: senso diretto) da γAo. I simboli che useremo per la declinazione e l'ascensione retta saranno rispettivamente δ e α . In fig. 8: cerchio PZQP′Q′P meridiano dell'osservatore in cui Z indica lo zenit; PZQP′ meridiano superiore, PNQ′P′ meridiano inferiore, arco QAo angolo orario dell'astro A, contato a partire dal piede del meridiano superiore dell'osservatore, nel senso della freccia (fig. 8: senso retrogrado), arco QWQ′Ao′ angolo orario dell'astro A′. Nei calcoli nautici conviene, per semplicità, contare gli angoli orarî degli astri a partire dal meridiano inferiore; allora sarà Q′EQAo l'angolo orario dell'astro A e Q′Ao′. l'angolo orario dell'astro A′. Di qui in avanti così considereremo gli angoli orarî in armonia con gli ultimi dettami della R. Marina. In astronomia nautica occorre considerare, in luogo dell'angolo orario, che indicheremo col simbolo t, l'angolo al polo, che indicheremo con P ossia l'angolo sferico 〈;12h formato dal meridiano superiore col cerchio orario dell'astro; così ZPA, ZPA′ sono gli angoli al polo di A, A′. Con la convenzione ora fatta, se si vuol ottenere l'angolo al polo conoscendo l'angolo orario, valga la regola: se l'astro è a est dell'osservatore: P = 12h-t; se l'astro è a ovest: P = t-12h. Talvolta in luogo della declinazione si usa considerare la distanza polare d'un astro dal polo elevato dell'osservatore: così la distanza polare di A è PA e di A′ è PA′ (per l'osservatore Z); questa si conta da 0° a 180° e l'indicheremo con p.
L'angolo orario del punto vernale o punto γ si chiama tempo sidereo od ora siderea; l'indicheremo con ts. Esiste sempre la relazione, a meno di 24h : ts = t + α. Infatti (v. fig. 8) Q′EQγ = Q′QAo + A0γ, ma Q′EQγ = ts, Q′QAo = t, Aoγ (o γAo = α, quindi: tsd = t + α.
Cerchio NESW orizzonte; N, E, S, W punti cardinali nord, est, sud, ovest; cerchio ZAH verticale dell'astro A, ZA′H′ verticale dell'astro A′; il verticale passante per i punti cardinali W, E dicesi primo verticale; arco NESH, azimut dell'astro A, NESH′ azimut dell'astro A′, cioè l'arco contato sull'orizzonte da 0° a 360° a partire dal punto cardinale N, simbolo a. Si considera spesso in astronomia nautica l'angolo azimutale Z, cioè l'angolo sferico 〈; 180° fra il verticale ZP contenente il polo elevato e il verticale dell'astro; così Z di A è l'angolo PZA, Z di A′ è l'angolo PZA′. Esistono le seguenti relazioni fra Z e a:
Talvolta anche si considera l'amplitudine di un astro, cioè l'arco d'orizzonte 〈; 90° compreso fra il piede del verticale dell'astro e il punto E o W; così l'amplitudine di A (fig. 8) è HW e di A′ è H′E.
In fig. 8: HA, H′A′ sono le altezze degli astri A e A′ contate sui verticali a partire dall'orizzonte da 0°a 90°; il complemento ZA o ZA′ si chiama distanza zenitale; simbolo di altezza h, di distanza zenitale z; l'altezza di un oggetto situato sotto l'orizzonte (negativa) si dice depressione.
Per le stelle si è detto che, potendosi considerare la loro distanza come infinita, le visuali ad esse condotte a partire dalla superficie terrestre e dal centro della Terra possono ritenersi parallele; ciò non è più lecito per gli astri del sistema solare; allora l'angolo formato dalle dette visuali è sensibile, e rilevante nel caso della Luna: esso si dice parallasse; il massimo valore di quest'angolo è quello relativo ad un osservatore che si trova sull'equatore terrestre e vede l'astro all'orizzonte: questo si chiama parallasse orizzontale equatoriale e s'indicherà con π, mentre indicheremo con p il valore della parallasse riferita ad un osservatore in posizione qualsiasi e per un astro a qualsiasi altezza. La parallasse in altezza è quella di cui si tiene conto in astronomia nautica.
Le stelle possono ritenersi ridotte ad un punto: per gli astri del sistema solare le coordinate δ, t, h, ecc., si riferiscono al centro dell'astro; la grandezza di questi astri è misurata dall'angolo secondo il quale dal centro della Terra si vedrebbe il raggio di essi: questo si chiama semidiametro e lo indicheremo con σ.
Conversione di tempi simultanei. - Il problema da risolvere è questo: dato l'angolo orario d'un astro in un luogo di longitudine λ, si vuole l'angolo orario simultaneo di un altro astro in altro luogo di longitudine A′. Dividiamo il problema in due parti: 1. cambiamento di luogo; 2. cambiamento d'astro.
1. È dato l'angolo orario tA dell'astro A per un luogo di longitudine λ, si vuole tA′ i′ dello stesso astro in luogo di longitudine λ′. A meno di 24h si verifica la relazione algebrica:
tA′ = tA + λ − λ′ (per convenzione λ est è +, e λ ovest è −)
donde si ricava la relazione di importanza fondamentale
La differenza di longitudine fra due luoghi si ha conoscendo la differenza degli angoli orarî simultanei di uno stesso astro.
Se uno degli angoli orarî è riferito a Greenwich (indicheremo con T tale angolo orario), si avrà:
Esempio:
Nella risoluzione di queste formule, vere a meno di 24h, bisognerà fare attenzione alla data del giorno a cui si riferisce l'osservazione, aggiungendo o togliendo una unità alla data dell'altro luogo a cui è riferito l'altro angolo orario dell'astro. Tenere presente che quando s'inizia una data a Greenwich tutti i meridiani ad est hanno questa data, mentre quelli ad ovest hanno la data precedente.
Passando per l'antimeridiano di Greenwich (λ =12h), se il passaggio ha luogo verso l'ovest si ha un salto della data, se il passaggio ha luogo verso l'est si ha un raddoppiamento di data. Esempio: andando verso ovest, al traversare l'antimeridiano di Greenwich, l'istante 7h 15m del 4 aprile diventa 7h r5m del 5 aprile dando verso est l'effetto è inverso: l'indomani del 5 aprile è anccira il 5 aprile e vi è raddoppiamento di data.
L'origine del giorno civile per una data località è l'istante del passaggio del Sole medio al meridiano inferiore (mezzanotte).
2. Per un determinato luogo è dato t di un astro, si vuole t di un altro astro per lo stesso istante.
Applicheremo la formula già veduta t. = t + a, che è vera a meno di 241..
Dal tempo o dall'ora del Sole medio (tm) al tempo o all'ora siderea (ts): si fa: tm − λ = Tm; in funzione di Tm, si ricava αm (ascensione retta del Sole medio) dalle Effemeridi e si calcola: ts = tm + αm.
Da ts, a tm. - Se è noto un valore approssimato di tm, per tale istante si ricava αm dalle Effemeridi e si fa: ts − αm = tm; se il tm così ricavato è troppo discosto dal valore approssimato noto, si ricava un nuovo valore di αm in funzione del tm, calcolato, e così via per successive approssimazioni. Se non è noto un valore sufficientemente approssimato di tm, si ricava dalle Effemeridi il valore particolare τs = αm del Sole medio per tm = o del giorno considerato, cioè quando ha inizio il giorno considerato, poi si fa: ts − τs = Is (intervallo di tempo sidereo). Si trasforma con l'apposita tavola delle Effemeridi questo intervallo sidereo in medio. Il valore di questo intervallo di tempo medio è il tm richiesto.
Se ts 〈; τs, aggiungere 24h a ts. Se Is 〈; 3m 56s, 56, può esservi dubbio circa il tm da scegliere; per togliere il dubbio bisogna conoscere se il ts appartiene all'inizio o alla fine del giorno considerato.
Da tm a t di un astro qualsiasi. - Si fa: ts = tm, + am, quindi: t = ts − α. Per il Sole si può fare a meno di passare attraverso ts perché le Effemeridi dànno in una tabella la quantità αm − aν, (αν ascensione retta del Sole vero). Questa quantità αm − αν si chiama equazione del tempo medio (εm), per analogia con l'equazione del tempo vero (εν = αν − αm) impiegata in astronomia.
Caso del Sole. - Da tm a tν: si fa tm − λ = Tm, con questo Tm, dalle Effemeridi si ricava εm, quindi si calcola te = tm + εm.
Caso d'un altro astro qualsiasi. - Da tm a t: si fa: tm − λ = Tm, con questo Tm si ricava αm e α, quindi t = tm + αm − α.
Da t di un astro qualsiasi a tm. - Si passa da t a ts, con la formula ts = t + α, quindi si passa da ts a tm con uno dei metodi anzi esposti.
Sole: da tv a tm. - È inutile passare attraverso ts; a bordo è sempre noto Tm con approssimazione sufficiente per avere un buon valore di εm dalle Effemeridi. Allora si fa: tm, -= tr − εm.
Luna: da t&mis3;p a tm. - Si fa: ts = t&mis3;p +a&mis3;p (a&mis3;p si ricava dalle Effemeridi con un valore approssimato di Tm). Quindi si passa da ts a tm, con questo valore di tm e con λ si ha un valore più preciso di Tm per ottenere un valore più preciso di a&mis3;p e così via fino ad ottenere un valore di Tm sufficientemente preciso.
Identico è il procedimento per un pianeta.
Per le stelle basta la conoscenza della data del giorno per avere un valore preciso di α.
Ora media del passaggio d'un astro in meridiano. - Quando un astro passa al meridiano superiore il suo angolo orario è, con la Convenzione dianzi fissata, 12h. Il problema è quindi ricondotto ad uno dei casi precedenti.
Per la Luna e per i pianeti le Effemeridi semplificano il calcolo offrendo un'approssimazione sufficiente per i bisogni della navigazione. Luna: le Effemeridi dànno per ogni giorno l'ora media di Greenwich del passaggio della Luna al meridiano di Greenwich (Tmps&mis3;p) e la differenza (Δ) fra due passaggi successiví. Per ottenere l'ora media locale del passaggio in un luogo di longitudine λ (+ se E, − se W), si userà la formula seguente:
Se λ è E, si prende Δ precedente la data occorrente, se λ è W, Δ seguente;
significa λ espresso in ore e decimi d'ora. Essendo
poco diverso da 2m si può impiegare la seguente formula approssimata:
Poiché un giorno lunare ha la durata di circa 24h 50m ore medie, accade in generale che in un giorno medio del mese o talvolta in due giorni la Luna non passa al meridiano.
Pianeti. - Le Effemeridi dànno l'ora Tmps&mis3;o del passaggio a Greenwich (T&mis3;o = 12h) dei pianeti principali. Se da un giorno all'altro vi è ritardo nei passaggi s'impiegherà la stessa formula che per la Luna:
se invece i valori di Tmps&mis3;o decrescono:
In qualche giorno, per qualche pianeta non v'è passaggio al meridiano, o vi possono essere due passaggi.
Problema generale. - Ora è facile calcolare t′λ′ di un astro per un luogo di longitudine λ′ conoscendo tλ di altro astro per un luogo di longitudine λ, poiché si sa passare da tλ a tλ′ per solo cambiamento di λ e da tλ′ a t′λ′ per solo cambiamento d'astro. Quindi il problema è interamente risolto.
Divisione de"a Terra in fusi orarî. - L'ora locale tm è uguale per tutti i luoghi situati sullo stesso meridiano di longitudine λ, varia per ogni meridiano. Ad evitare l'inconveniente di ore infinitamente diverse per gli infiniti meridiani, i popoli civili regolano, per legge, gli orologi sopra l'ora d'un meridiano centrale della regione in cui vivono. All'uopo la Terra è stata divisa in 24 fusi di ih o 15° di λ essendo 0h Greenwich, 1h λ 15° E (Europa centrale), 2h λ 30° (Europa orientale), ecc. fino a 23h. La zona in cui gli orologi son regolati su Greenw. va da λ 7° 30′ W a λ 7° 30′ E (fuso 0), da λ 7° 30′ E a λ 22° 30′ E per l'Europa centrale (fuso 1), ecc., fino al fuso 23 fra 22° 30′ W e 7° 30′ W. Gli orologi, così, segnano tutti lo stesso numero di minuti e di secondi e differiscono di un numero intero di ore. Così quando a Roma sono le 18h 30m 10s del 20 Agosto, a Mosca, in cui la longitudine del meridiano centrale del fuso (λf) è 2h E, saranno le 20h 30m 10s del 20 Agosto, a Melbourne, λf = 10h E, tmf = 4h 30m 10s del 21 agosto, e così via.
Anche le navi regolano gli orologi sul meridiano centrale del fuso in cui si trovano a navigare.
È da notarsi che gli Americani e gl'Inglesi numerano i fusi da 0 a 12 verso E e verso W.
Il planisfero dei fusi è riprodotto nell'Elenco dei fari e segnalamenti marittimi italiano, in apposita carta, e nel Manuale dell'ufficiale di rotta (v. Bibl.).
Conservazione dell'ora a bordo. - Come si è accennato in principio, a bordo si conserva l'ora del 1° meridiano (Greenwich) mediante uno o più ottimi orologi (cronometri). Per quanto sieno questi diligentemente costruiti e tenuti, il movimento delle loro lancette non è perfettamente sincrono col movimento del Sole medio sull'equatore; perciò bisogna apportare sempre una correzione (K) positiva o negativa per avere Tm. Essendo tc l'ora cronometrica, sarà:
Il valore di K si ricava con frequenti confronti fra l'ora segnata dal cronometro e l'ora fornita da una stazione radiotelegrafica (R. T.).
La correzione K si può avere anche da osservazioni di astri e da calcoli che vedremo: a questi si ricorreva prima dell'applicazione dei segnali R.T. - I cronometri a tempo medio comunemente usati a bordo sono graduati, come gli ordinarî orologi da tasca, da 0h a 12h0 per cui ci dànno il valore di Tm con l'ambiguità di 12h. Ma l'errore di 12h non è possibile perché l'orologio comune ci dà sempre il tm approssimato del fuso, si conosce la data e si ha sempre un valore, sia pure approssimato, di λ. Con tali dati si ricava sempre un valore di Tm e della data di Greenwich tale da togliere l'ambiguità ora accennata.
Misura delle altezze degli astri. Il sestante (fig. 9). Questo è formato, schematicamente, da un settore circolare metallico AB e da un'alidada SD girevole intorno a C nel piano del settore. Il lembo AB porta una graduazione da 0° a circa 150° con lo 0° verso B. Una vite di pressione, completata da una vite di richiamo, fissa momentaneamente l'alidada al lembo. Un microscopio permette di fare la lettura corrispondente all'indice portato dall'alidada, zero d'un verniero a
Le divisioni del lembo sono di 10′ in 10′, perciò l'approssimazione data dal verniero è di 10″. In C è, fissato all'alidada, uno specchio grande S; in s è uno specchio piccolo fisso al settore. L'amalgama dello specchio piccolo ricopre solo la metà di questo: talché l'asse ottico del cannocchiale LL′ fissato pure al settore, sull'altro raggio CB, può ricevere i raggi riflessi da s e altri raggi traversanti la parte non amalgamata. Lo strumento è munito d'un'impugnatura applicata all'armatura del settore.
Principio ottico del sestante. - Quando lo strumento è rettificato, il piano del lembo è parallelo all'asse ottico del cannocchiale e perpendicolare ai piani degli specchi. L'asse ottico è sempre diretto sulla mediana dello specchio s, e la normale a questo biseca l'angolo CsL; ne risulta che se l'oggetto F (fig. 9) è nella direzione Ls e l'oggetto G manda un raggio che si riflette secondo Cs, le immagini di questi oggetti si sovrappongono nel campo di L. In fig. 10 un raggio proveniente da A, posto nel piano del settore, che è quello della figura, subendo la doppia riflessione ASsD nei due specchi S e s, ha, come ultima direzione, la BD; ADB è l'angolo formato fra la prima e l'ultima direzione del raggio considerato. DB è anche la visuale inviata al punto B, pure nel piano del settore. Dimostriamo che ADs = 2 SFs.
In fig. 10
dal triangolo SFs si ha: α = β SFs
dal triangolo SDs si ha: 2α = 2β + ADs
ossia
Quando l'alidada portante lo specchio S e ruotante intorno al centro C è a zero, i due specchi S e s sono paralleli, perciò l'angolo SFs è l'angolo di cui son rotati i due specchi per portare l'immagine di A a sovrapporsi a quella del punto B; moltiplicando per due quest'angolo formato dagli specchi si ha l'angolo formato fra gli oggetti. Perciò le letture degli angoli sul lembo sono raddoppiate: all'ampiezza effettiva di 1° corrisponde la variazione di 2° nelle letture della scala.
Errore strumentale. - Collimando un oggetto molto lontano gli specchi si possono ritenere paralleli: la lettura che si fa sulla scala dovrebbe essere zero, ma ciò in pratica non succede: si farà lettura di un piccolo angolo γ vicino allo zero che è l'entità dell'errore istrumentale. Perciò, se si fa la lettura l al sestante, corrispondente all'angolo fra due oggetti, l'angolo esatto sarà l - γ.
Rettifiche dello strumento. - Rendere gli specchi perpendicolari al lembo. Rendere l'asse ottico parallelo al piano del lembo.
Verifiche. - Non dev'esservi prismatismo né degli specchi, né dei vetri colorati che servono ad attenuare lo splendore dei raggi raccolti dal cannocchiale. Dev'essere nullo o piccolissimo l'errore di eccentricità e quello della graduazione: questi due ultimi errori, se esistono e sono piccoli, si determineranno e formeranno una correzione strumentale c da applicarsi alla lettura insieme con γ, talché:
Determinazione di γ. - In mare il sistema migliore per ottenere γ è quello di portare a tangenziare successivamente i due lembi dell'immagine diretta e riflessa del Sole; essendo l ed l′ le due letture fatte al sestante, sarà:
La precisione di queste osservazioni si verifica facendo la somma dei valori assoluti di l e di l′; somma questa che dovrà risultare molto vicina a 4 σ⊙ (σ⊙ si ricava dalle Effemeridi).
Misura delle altezze degli astri. - Si fa portando l'immagine dell'astro sull'orizzonte marino, nel verticale dell'astro. Per il Sole e per la Luna si porta a tangenziare sull'orizzonte marino uno dei lembi delle immagini di detti astri.
Orizzonti artificiali. - In terra, per calcoli di maggior precisione che in mare (determinazione di K), s'impiega un orizzonte costituito da una bacinella con uno strato libero di mercurio, ricoperta da un tetto di vetro. L'angolo che si legge al sestante (corretto), fra l'immagine di un astro riflessa dal mercurio e quella doppiamente riflessa dagli specchi, è il doppio dell'altezza cosiddetta rifratta (hr) dell'astro: hr = (l + c − γ)/2.
Altri orizzonti artificiali di raro impiego in mare sono: quello giroscopico dell'ammiraglio Fleurais e quelli a bolla d'aria di vario tipo impiegati invece nell'aeronautica.
Correzione delle altezze osservate. - Depressione media apparente dell'orizzonte marino (i). - Assumendo il valore 0,125 come media del coefficiente di refrazione terrestre, è data dalla formula:
(i′ significa i in primi d'arco, e = elevazione dell'occhio dell'osservatore in metri).
Rifrazione astronomica:
ove hr è l'altezza rifratta dell'astro, β e τ dipendono rispettivamente dalla pressione barometrica e dalla temperatura μ e ν sono costanti che hanno per valore: μ = 58″, 32, ν = 0″,06. Il termine in parentesi è la rifrazione media rm per pressione = 760 mm. e temperatura = 10° C.
Per le stelle osservate in mare le correzioni da applicarsi alle altezze sono quelle di i e di r o rm. Sicché per le stelle l'altezza vera sarà:
(hi è l'altezza letta al sestante o altezza istrumentale). Vi è una tabella nelle raccolte nautiche e nelle Effemeridi che dà la correzione totale (−i −rm) in funzione dell'altezza dell'occhio dell'osservatore.
Per il Sole e per la Luna, e in qualche caso per i pianeti, occorre tener conto anche di altri termini correttivi e cioè:
Parallasse in altezza. - Se n'è già fatto cenno. Per il Sole e per i pianeti è p = π cos ha (ha è l'altezza apparente = hi + c − γ − i − r; π per il Sole = 8″,8; per i pianeti il valore di π è dato dalle Effemeridi). Nei calcoli nautici correnti la correzione di p per il Sole e per i pianeti si trascura. Non così per la Luna in cui oltre al termine cos ha, si dovrebbe tener conto anche di un secondo termine correttivo (− O′, 19 sen2 ϕ cos ha); questo però si trascura abitualmente in mare.
Semidiametro in altezza. - Le Effemeridi dànno il valore di σ geocentrico a cui s'è già accennato. Il semidiametro da introdursi nella formula per la correzione delle altezze è dato da quello delle Effemeridi più una correzione cσ, sempre positiva:
ove Rm e r sono rispettivamente il raggio medio terrestre e il raggio dell'astro. Per il Sole questa cσ si trascura; per la Luna, invece, per ha = 90° può raggiungere il valore di 18″. La correzione cσ è data, per la Luna, da una tavola delle raccolte. Per i pianeti si trascura anche la correzione di σ. Sicché le formule di correzione di altezze di Sole e Luna sono:
Se si è osservato il lembo superiore &mis3;r &mis3;u basta cambiare il segno alla correzione di σ.
Per i pianeti, in mare si usa la stessa formula che per le stelle e sarà:
Tavole apposite delle raccolte e delle Effemeridi dànno la correzione complessiva:
Basta entrare nella tavola con π perché π e σ sono legati dalla relazione (approssimata): π = 3,66 σ.
Correzione delle altezze prese all'orizzonte artificiale a mercurio. - Si terrà presente che:
e quindi, per il Sole:
Si deve tener conto della pressione barometrica e della temperatura per r; vi sono all'uopo tabelle nelle raccolte.
La Luna non si usa per osservazioni all'orizzonte artificiale.
Per i pianeti si fa σ = 0 avendo cura, nell'osservazione, di mettere a contatto i centri dei dischi, quando il diametro apparente è apprezzabile; ma si deve tener conto di p, almeno per Venere, Marte e Giove. Per le stelle:
Nota. - L'ordine delle operazioni nella correzione delle altezze non è arbitrario: bisogna seguire quello dato dalle formule ora esposte.
Altezza osservata del Sole e della Luna nell'istante in cui l'altezza vera del loro centro è zero (al loro levare o al loro tramonto vero). - Per il Sole. - Per un osservatore elevato metri 5 sul mare il levare o il tramonto vero accadono quando il lembo inferiore del Sole dista dalla linea apparente dell'orizzonte
del diametro del disco.
Per la Luna. - Per un osservatore elevato metri 12 sul mare il sorgere o il tramonto vero hanno luogo contemporaneamente al sorgere o tramonto apparenti del lembo superiore dell'astro.
Per un osservatore elevato metri 5 sul mare l'altezza vera del centro del Sole, quando sorge o tramonta all'orizzonte apparente il lembo superiore, è - 55′circa.
Nota generale. - Per attenuare l'effetto degli errori, conviene osservare una serie di altezze e farne la media.
Triangolo di posizione. - Nella fig. 11 consideriamo il triangolo sferico PZA, che in astronomia nautica si denomina triangolo di posizione o astronomico.
Gli elementi che lo compongono ci sono, ora, quasi tutti noti: l'angolo in P, angolo al polo; l'angolo in Z, angolo azimutale; l'angolo in A, angolo all'astro o angolo parallattico; il lato PZ = 90° − ϕ, colatitudine; il lato ZA = 90° − h = p, distanza zenitale; il lato PA = 90° − δ = p, distanza polare.
Raccogliamo qui le relazioni esistenti fra i detti elementi, applicate nei nostri problemi. Quanto ai segni valga la seguente regola che rispetteremo sempre:
ϕ è sempre positiva; σ è positiva se ha lo stesso nome di ϕ, negativa nel caso contrario; h è positiva se l'astro è sopra l'orizzonte, negativa, se l'astro è sotto l'orizzonte:
Equazioni differenziali di uso più frequente:
Dalle relazioni su esposte derivano le seguenti d'impiego pure frequente in astronomia nautica (M è un angolo ausiliario):
Determinazione della posizione della nave. - Cerchi d'altezza. Nella rappresentazione sferica in fig. 12 il piano della figura è il piano del meridiano di Greenwich, Z è l'immagine dello zenit dell'osservatore, A quella di un astro.
L'arco ZH è la ϕ di Z, QH è la longitudine
L'arco QB = TA − 12h è la longitudine dell'astro, AB è la δ dell'astro. D'altra parte, nell'istante che consideriamo:
Quindi abbiamo δA e λA. i, perciò, con ragionamento analogo a quello che facemmo da principio nel mostrare lo scopo dell'astronomia nautica, noi possiamo fissare la posizione di A sopra un globo sul quale sia già fissata l'origine delle longitudini e l'equatore. Supponiamo d'aver misurato l'altezza di A annotando l'ora corrispondente del cronometro. Correggendo l'altezza e riducendola al centro della Terra rappresentato in C nella figura, si ricaverà: z = 90° − h. Descrivendo un cerchio di centro A e raggio sferico z si ottiene un luogo del punto Z all'istante dell'osservazione; questo luogo è un cerchio minore che si chiama cerchio d'altezza, del quale il cronometro determina il polo e il sestante il raggio sferico. Questo cerchio si potrebbe definire come il luogo di tutti gli osservatori che nel medesimo istante misurano la stessa altezza di A.
Abbiamo già accennato come non sia pratico l'uso di un globo a bordo e che ivi si ricorre all'impiego di carte geografiche: basandosi sul fatto che la posizione approssimata della nave è sempre conosciuta con i metodi della navigazione stimata, si possono calcolare gli elementi necessarî per tracciare sopra una carta, rappresentante una porzione ristretta della Terra, un tratto del cerchio d'altezza. Poiché questo tratto si riduce a un segmento di retta, basterà calcolare di questa un punto e la sua direzione.
Retta d'altezza. - Il raggio di curvatura della curva, proiezione del cerchio d'altezza sopra una carta di Mercatore, è in generale molto grande, perciò si determina un punto della curva prossimo alla posizione stimata della nave, e la direzione della tangente in questo punto; questa tangente sostituisce la curva per un tratto di una sessantina di miglia senza errore apprezzabile in pratica. Solo quando l'altezza dell'astro è molto grande si tiene conto, nei trattati, dello scarto della retta d'altezza dalla curva.
Z nella fig. 13 è il punto stimato sulla sfera geocentrica, A l'astro. Il cerchio in figura è quello d'altezza con raggio eguale alla distanza zenitale AZ′ misurata. Il verticale ZA taglia normalmente il cerchio d'altezza in Z′. È questo punto del cerchio che si sceglie come punto determinativo. Per conoscerlo basterà calcolare la distanza ZZ′ e l'angolo azimutale in Z; AZ′ = z è noto. Nel triangolo PAZ è noto PA − p, PZ = 90 − ϕs. e l'angolo in P è pure noto, ché si ha l'istante cronometrico dell'osservazione Tm, e la longitudine stimata dell'osservatore, i λs.
Allora:
e
Con la 1ª delle (α): sen h = sen z sen δ + cos ϕ cos δ cos P, si calcola h che indicheremo con hs da questo si passa a z, e facendo zs − z si ha il tratto ZZ′. Si può anche fare h − hs ché è eguale a z, - z. Se il punto Z fosse all'interno del cerchio, la differenza h - h,. sarebbe negativa e allora il tratto ZZ′ dovrebbe essere preso in senso inverso alla direzione azimutale. Il valore dell'azimut si può calcolare o con la 1ª delle (ª) o con la 2ª delle (γ) o dalla 2ª delle (ζ) che dànno anche h: esistono tavole in tutte le raccolte che dànno l'angolo azimutale in funzione di ϕ, S e P: le più adatte sono le cosiddette tavole ABC. Sulla carta di Mercatore si procederà nel seguente modo indicato nella parte di destra della fig. 13. Si fissa sulla carta il punto Zs (ϕs, λs), da questo punto si porta un tratto ZZ′ = h − hs nella direzione azimutale se hs è + o in senso inverso, se h − hs + −. All'estremo del tratto ZZ′ si traccia un segmento di retta normale alla direzione ZZ′. Questo è un segmento della retta d'altezza. Ciò facendo, si opera per approssimazione, ché si sostituiscono dei tratti di lossodromia a tratti di cerchio massimo e di cerchio minore: di più si è tacitamente ammesso che l'angolo azimutale in Z sia eguale all'angolo azimutale in Z′; ma queste approssimazioni sono lecite. Può usarsi anche una qualsiasi carta quadrettata.
Il metodo ora esposto è dovuto a Marq de St. Hilaire, da cui prende il nome: esso è generale; può, cioè, essere impiegato per qualsiasi punto del globo per qualsiasi astro visibile.
Accenniamo ad altri due metodi, che non sono, però, generali.
1° Il punto determinativo è dato dall'incontro di un meridiano calcolato col parallelo stimato.
Quando l'astro è nelle vicinanze del 1° verticale un errore in ϕ ha poca influenza sul calcolo di P (v. pag. 142) e quindi di λ. Allora si opera nel seguente modo: si prende l'altezza di un astro quando è presso il 1° verticale e con la 1ª delle (η) si calcola P, da P si passa a tm, d'altro lato si ha Tm dal cronometro all'istante dell'osservazione e si fa:
Si ha così un meridiano calcolato: il punto Z (ϕs, λ) si trova sull'incontro di questo meridiano con il parallelo ϕs stimato. Per questo punto si traccia un segmento di retta (retta d'altezza) in direzione normale a quella dell'azimut che si calcola o si ricava dalle tavole.
2°. Il punto determinativo è dato dall'incontro di un parallelo calcolato col meridiano stimato.
Quando l'astro è nelle vicinanze del meridiano un errore in λ ha poca influenza sul calcolo di ϕ.
Allora: si prende l'altezza d'un astro quando non è molto distante dal meridiano e con le formule seguenti in cui M è un angolo ausiliario:
si calcola ϕ. Da ϕ e λs, si ha il punto determinativo Z (ϕ, λs) per il quale si fa passare il segmento di retta d'altezza tracciato normalmente alla direzione dell'azimut che si calcola o si ricava dalle tavole.
Cast particolari che semplificano i calcoli. - Polare. - Con l'osservazione di questo astro (eseguibile nel solo emisfero terrestre nord) prossimo al Polo, si ricava la ϕ molto semplicemente con la seguente formula:
Questa formula è risolta in 3 tabelle nelle raccolte e nelle Effemeridi; in modo che il risultato si ha con molta sollecitudine. Altra tabella dà l'azimut della Polare. Per il punto determinativo Z (ϕ, λs) si fa passare la retta d'altezza normalmente all'azimut.
Osservazioni circummeridiane. - Quando un astro è in prossimità del meridiano, ϕ si ottiene con una formula molto semplice.
Osservata un'altezza circummeridiana h, entro limiti di tempo dal transito dell'astro in meridiano che sono fissati in funzione di ϕ e di δ da una tavola delle raccolte, si passa all'altezza meridiana hm con la relazione
ove a (pure dato da tabella in funzione di ϕ e di δ) è dato dalla espressione:
Ottenuto hm, si ha ϕ dalla relazione
ove zm = 90° − hm. Circa i segni v. più avanti: Osservazione al passaggio del meridiano superiore. Vi sono delle tabelle particolari per le circummeridiane per ricavare l'azimut; oppure questo si calcola o si ricava dalle consuete tavole.
Ottenuto ϕ si fa passare la retta d'altezza per il punto Z (ϕ, λs) normalmente all'azimut.
Utilizzazione della retta d'altezza. - Si può combinare una retta d'altezza o col rilevamento d'un oggetto terrestre o con una linea di scandagli. Si possono osservare due altezze di uno stesso astro (Sole) e trasportare, mediante la stima del percorso fatto dalla nave, una retta d'altezza sulla seconda e ottenere un punto nave, affetto naturalmente dagli errori della stima. Il risultato è tanto migliore quanto è maggiore la differenza d'azimut dell'astro nell'intervallo e quanto minore è questo intervallo. Sono, all'uopo, condizioni fortunate quelle delle osservazioni del Sole in basse latitudini, ove, passando il sole in prossimità dello zenit, l'azimut dell'astro varia rapidamente al passaggio da levante a ponente del meridiano.
Il punto nave ottenuto con più rette d'altezza simultanee. - Osservando due astri simultaneamente o a breve intervallo di tempo l'uno dall'altro in modo che si possano ridurre le due rette di altezza al medesimo istante col breve trasporto di una di esse, si ottiene un punto dalla intersezione delle due rette d'altezza. Essendosi fatte le osservazioni nelle stesse condizioni meteorologiche si può ritenere che le due rette siano affette dallo stesso errore (il più temibile) della depressione dell'orizzonte. Si dice bisettrice d'altezza la retta che biseca l'angolo 180° − Δa (v. fig. 14) e che è indipendente da questo errore. Nella figura L1L2, L1L2 rette d'altezza, A1, A2 direzioni azimutali dei due astri, Δa la differenza fra gli azimut. Bisettrice ottima si dimostra essere quella fra due rette derivanti da due astri osservati a 180° di Δa.
Due rette d'altezza forniscono, più che un punto nave, una buona retta di posizione che è la detta bisettrice. Tre rette d'altezza dànno un punto: quello d'incontro di due fra le tre bisettrici formate fra esse.
Punto ottimo è quello formato fra due bisettrici - normali fra loro - di quattro rette, due a due con direzioni azimutali differenti di 180°, e cioè di quattro rette risultanti da osservazioni di astri in azimut differenti l'uno dall'altro di 90°.
Nota. - Un errore εsc nel cronometro trasporta la retta d'altezza parallelamente a sé stessa di
(miglia). Nella moderna navigazione, potendosi il cronometro tenere continuamente sotto controllo RT, questo errore non è temibile.
Determinazioni di latitudine. - Circostanze favorevoli. - L'esame della 3ª equazione differenziale delle (ε) ci suggerisce - per la presenza di cos Z al denominatore di tutti i termini - che le circostanze, in cui errori in h e in P hanno la minore influenza su ϕ, avvengono quando Z = 0° = 180°, cioè quando l'astro osservato è nel meridiano. In particolare, l'esame del 3° termine del 2° membro - per la presenza di sen Z al numeratore - pone in evidenza che con l'astro nel meridiano l'influenza di un errore in P è nulla. In tale caso si può ottenere ϕ senza bisogno di conoscere l'ora, ossia senza bisogno di cronometro. È il caso della latitudine meridiana. Osservazione al passaggio al meridiano superiore:
Per questo calcolo basta un'ora approssimata di Greenwich per ricavare dalle Effemeridi l'elemento δ.
Osservazione al passaggio al meridiano inferiore:
δ e z sempre positive, al passaggio inferiore ϕ e δ sono necessariamente omonime.
Esistono tabelle che dànno in funzione di ϕ e δ i limiti di tempo in cui un astro può essere considerato come in meridiano senza sorpassare un determinato errore nel calcolo di ϕ.
Ora dell'orologio nell'istante del passaggio del Sole al meridiano mobile della nave. - Per predisporsi all'osservazione meridiana del Sole può essere utile precalcolare quest'ora.
Intanto che la nave si sposta di Δλ° all'ora verso E (o W) il Sole si sposta verso W di 15° all'ora. Conosco l'ora dell'orologio corrispondente ad un certo P⊙: divido questo P (in gradi) per la velocità risultante: sarà
se la rotta è verso W e avrò l'intervallo di tempo in ore e parti decimali di ora occorrente perché il meridiano mobile della nave e il cerchio di declinazione del Sole s'incontrino. Tale intervallo di tempo aggiungo all'ora dell'orologio corrispondente a P.
Latitudine con h circummeridiana e con h di Polare (v. più sopra casi particolari di rette d'altezza).
Altezza massima. - Se l'osservatore ha un rilevante spostamento per meridiano e se l'astro osservato ha un rilevante spostamento in declinazione (Luna, e in minore entità Sole) l'altezza meridiana differisce sensibilmente dalla massima, o dalla minima se si tratta di passaggio al meridiano inferiore. In questi casi o si determina l'ora del passaggio dell'astro in meridiano e si fa in quell'istante l'osservazione della meridiana, o si osserva l'altezza massima e si considera come circummeridiana: in questo caso si deve conoscere P dell'astro all'istante della sua massima altezza per calcolare la riduzione che sarà negativa al passaggio superiore.
Tale angolo al polo è dato da
ove Δϕ e Δδ sono le variazioni espresse in secondi d'arco di ϕ e di δ in un minuto e
Per esempio, con una velocità di 15 miglia all'ora per meridiano e con massime variazioni di δ (intorno a δ = 0) per il Sole e per la Luna, si ha una differenza fra l'altezza massima e meridiana rispettivamente di circa 1′1/2 e 5′1/2.
Latitudine con altezze di astri fuori dei limiti delle circummeridiane, o extrameridiana. - Vi abbiamo già accennato nella retta d'altezza: punto determinativo Z (ϕ, λs). È un calcolo che non conviene, non presentando alcun vantaggio sul metodo St. Hilaire.
Determinazioni di longitudine. - Circostanze favorevoli. - L'esame della 4ª equazione differenziale delle (ε) ci suggerisce che - per la presenza di sen Z al denominatore di tutti i termini del 2° membro - gli errori in h, ϕ, δ hanno minima influenza sul risultato di P allorquando l'astro osservato è in Z = 90° = 270° cioè in primo verticale; un errore sulla latitudine non ha alcuna influenza sulla determinazione di P.
Abbiamo già accennato al metodo per ottenere λ da un'osservazione d'altezza, trattando delle rette d'altezza. Essa si ricava dalla relazione
calcolando t e ricavando T dall'ora cronometrica.
Nelle raccolte nautiche una tavola dà P e h nell'istante favorevole per il calcolo in parola, in funzione di ϕ e di δ.
Nella vecchia navigazione si faceva un calcolo di λ col Sole al mattino, a mezzogiorno si calcolava la ϕ meridiana di Sole, si trasportava con la stima la longitudine del mattino sulla latitudine del mezzodì e si ricavava il punto a mezzodì.
Si scorge a primo esame il vantaggio dei metodi attuali di astronomia nautica, ché essi dànno il mezzo di avere in qualunque momento una linea di posizione, senza attendere speciali circostanze favorevoli. Nella vecchia navigazione astronomica possono trovarsi varî altri metodi per ricavare la longitudine, metodi dal più al meno tutti laboriosi, e che non è il caso di menzionare. Ricorderemo solo quello dovuto all'ammiraglio Magnaghi e riportato nelle tavole di questo autore.
Egli ricava contemporaneamente P e Z combinando le due formule 3ª delle (η) e 3ª delle (ϑ), che si possono scrivere:
Si avrà allora:
essendo:
Oltre le tavole Magnaghi sono specialmente adatte per la risoluzione delle formule del Borda [ (η) e (ϑ)] le Tablas Náuticas del Graiño, impiegate nella Marina spagnola.
Regolazione dei cronometri. Determinazione del tempo. Segnali R. T. - Il sistema migliore, più semplice e più perfetto, è quello del confronto con un'ora segnalata da una stazione R. T. I tipi di segnali sono riportati nelle Effemeridi.
Oltre questi segnali le stazioni R. T. emettono segnali ritmici: il confronto si fa col metodo delle coincidenze (v. Réception des signaux de la Tour Eiffel in Annuaire du Bureau des Longitudes pour l'an 1913).
Questo metodo delle coincidenze è superfluo per gli usi comuni del navigante.
Segnali ottici, acustici. - In molti porti si fa un segnale ottico: accensione e spegnimento di una potente sorgente luminosa; alzata e ammainata di un pallone; oppure un segnale acustico con lo sparo di un cannone. Quest'ultimo sistema è meno perfetto, dovendosi tener conto del ritardo nella ricezione dovuto alla distanza dell'osservatore dalla sorgente sonora. Si può ammettere, per temperatura centigrada dell'aria, che la velocità del suono nell'aria sia (333 + 0.6 τ) metri al secondo.
Confronto con altro cronometro. - Può farsi da solo, a occhio e ad orecchio, cioè fissando uno dei quadranti e ascoltando le battute dell'altro cronometro; oppure in due persone, una delle quali dà lo stop in un determinato istante (in generale al minuto intero) all'altra persona che registra il numero di secondi e frazioni che il suo cronometro segna in quel momento.
Il confronto può essere preso fra un cronometro a tempo medio e un altro a tempo sidereo, che battono all'unisono ogni 3 minuti circa. Si utilizza così il metodo delle coincidenze con vantaggio di precisione. Possedendo varî cronometri, come accade a navi scientifiche, o a navi che eseguono campagne di circumnavigazione, si confrontano i varî cronometri medî col sidereo: ciò permette grande precisione.
Per riportarsi a uno stesso istante di confronto si dovrà commutare un intervallo sidereo in intervallo medio (v. apposita tabella nelle raccolte nautiche e nelle Effemeridi).
Con osservazioni di altezze di astri. - Metodo dell'angolo orario. - In un luogo a terra, di cui son note le coordinate esatte (ϕ, λ) si osserva con tutta la possibile precisione, all'orizzonte artificiale, una o più serie di altezze di uno o più astri.
Non si osserveranno Pianeti e la Luna. Da ognuno dei gruppi di osservazioni si ricaverà mediante il calcolo della 1ª delle (η) un valore di P di un determinato astro. In generale si possiede sempre un valore sufficientemente preciso di Tm per ricavare δ dalle Effemeridi.
Da P si passa a t: da t, se si tratta di Sole, si ha tm, da:
da cui
Se si tratta di una stella
e
Noto Tm, si ricava la correzione assoluta del cronometro (K) da
Se non si possiede un valore sufficientemente preciso di Tm, per ottenere valori precisi di ε, δ, αm, si utilizza il Tm calcolato per fare una nuova ricerca sulle effemeridi e rifare il calcolo.
Ciò potrà accadere per il Sole. Per le stelle anche un'imperfetta conoscenza di Tm fornisce un buon valore di δ e α; noto t si passa a tm con la formula ts = ts = t + α; da ts, si passa a tm col metodo del τs riportato più sopra nella conversione dei tempi.
Circostanze favorevoli per il calcolo di K. Le stesse che per la determinazione di longitudine (v. più sopra): cioè l'astro deve essere in 1° verticale o quanto è possibile vicino ad esso, tenendo presente, però, che con l'orizzonte artificiale è malagevole osservare un astro d'altezza inferiore ai 15° e che, d'altra parte, a causa di anomalie della rifrazione, non è conveniente osservare astri bassi sull'orizzonte.
All'orizzonte artificiale si rende malagevole anche osservare altezze superiori ai 60° perché col sestante si misurano male angoli superiori ai 120°. La formola differenziale
permette di fissare dei limiti pratici, nelle circostanze possibili di osservazioni di astri, per il calcolo dell'ora per la correzione del cronometro. Da essa si ha
Il primo termine rappresenta una velocità in altezza dell'astro: tale velocità, per una data ϕ, è tanto maggiore quanto più Z è prossimo a 90° e, per un dato Z, quanto è ϕ più vicina a 0°.
Stabilendo che un movimento di altezza di 5′ in 35s sia sufficiente per una determinazione di tempo, sostituendo questi dati nell'equazione differenziale, passando a differenze finite, si ha (riducendo i primi d'arco in secondi di tempo):
donde (in valore assoluto) con il limite di velocità fissato, dovrà essere
Di qui si ricava che la ϕ massima, perché Z = 90°, è 55°: in latitudini maggiori di 55° la determinazione d'ora con osservazioni d'altezza non dà risultati precisi.
Per ϕ 〈; 55° si hanno dalla sovrariportata formula dei limiti di Z entro i quali è possibile avere risultati precisi: tali limiti sono riuniti in una tavola nelle raccolte, in funzione di ϕ.
Ora e altezza di un astro al passaggio al 1° verticale o alla massima digressione. - Se ϕ e δ sono dello stesso nome e δ >; ϕ l'astro non passa al 1° verticale. Le posizioni in cui l'astro nel suo moto diurno maggiormente si avvicina al 1° verticale sono quelle di massima digressione (A − 90°).
La 2ª e la 3ª delle (α) per Z = 90° e per A = 90° dànno:
e la 2ª e la 3ª delle (γ)
(formule che si possono avere anche con la regola mnemonica di Nepero considerando il triangolo di posizione rettangolo in Z e in A).
Queste formule ci forniscono l'angolo al polo e l'altezza degli astri nell'istante favorevole per il calcolo dell'ora: sotto questa denominazione v'è in tutte le raccolte una tavola all'uopo.
È conveniente fare osservazioni in azimut simmetrici, o press'a poco, rispetto al meridiano, perché supponendo di commettere nell'altezza errori della stessa entità (in grandezza e segno) nelle due osservazioni, gli errori si eliminano, facendo la media dei risultati ottenuti.
Da questa considerazione scaturisce il metodo delle altezze corrispondenti. - Con questo metodo si determinano, in uno stesso luogo di coordinate ben note, le ore del cronometro corrispondenti a due altezze rigorosamente eguali di uno stesso astro a levante e a ponente del meridiano.
Ottenuti i due istanti cronometrici t′c e t″c, con l'osservazione di una stella, si ha che all'istante
corrisponde t* = 12h e cioè ts = 12h + α*. Si converte ts in tm, e, con λ, si ha Tm; donde
Nel caso del Sole, all'istante
non corrisponde tv = 12h in causa del movimento in declinazione del Sole; ma l'istante del cronometro al passaggio del sole al meridiano superiore (tv = 12h) sarà:
ove e è una piccola correzione, data da
essendo dp″ la variazione oraria media della distanza polare nell'intervallo I, intervallo di tempo fra l'osservazione antimeridiana e pomeridiana,ϕ la latitudine dell'osservatore, δ la declinazione a mezzodì vero locale.
Quanto ai segni: ϕ è sempre +; δ + 0 − se omonima o eteronima con ϕ; dp è + se il Sole si allontana dal Polo elevato, − se si avvicina; I è sempre +.
Le circostanze favorevoli sono le stesse che per il calcolo dell'angolo orario.
Metodo delle rette d'altezza. - Se si misura nelle circostanze favorevoli per il calcolo dell'ora un'altezza di un astro, in un luogo di coordinate note, e si fa il calcolo secondo il metodo St. Hilaire, introducendo nel calcolo una correzione assoluta Kα approssimata del cronometro, si ottiene un valore hs.
L'errore Δts di cui è affetta K è dato (considerando la formula differenziale dh = dP cos ϕ sen Z) da
(Il fattore 4 parifica i primi d'arco ai secondi di tempo).
Di qui: se h − hs è +
se h − hs è −
Misurando due altezze h1 e h2 a E e a W del meridiano, facendo il grafico delle rette e prendendo la bisettrice, le formule diventano:
Correzione diurna o andamento del cronometro. - Ottenuti due valori di K, K1 e K2 con intervallo di n giorni e parti di giorno, si ha la correzione diurna k della formula
Noto K2 (il più recente valore ottenuto di K), il valore di K da porre a calcolo m giorni e parti di giorno dopo, sarà
Determinazione di azimut. - Come si può ottenere un luogo di posizione con misura di un'altezza d'un astro, così se ne potrebbe avere uno con misura di un azimut d'un astro. Si otterrebbe cioè il luogo di tutti gli osservatori che misurano lo stesso azimut dell'astro. L'astronomia nautica ha già risolto teoricamente il problema del tracciamento di una retta di azimut, con metodi analoghi a quelli per il tracciamento della retta d'altezza, risoluzione che gia trova qualche attuazione nella navigazione radiogoniometrica, ma che non trova applicazione nella navigazione astronomica perché non esiste ancora uno strumento sufficientemente preciso per le determinazioni di posizione in mare. La bussola marina dà l'approssimazione del grado, né, per ora, approssimazione maggiore si ha dalla bussola giroscopica.
Perciò i calcoli d'azimut che si fanno in mare servono solo a scopo d'orientamento, cioè a controllare le indicazioni della bussola. All'uopo si determina l'azimut astronomico d'un astro con i metodi che ora vedremo e contemporaneamente si misura direttamente l'azimut dello stesso astro alla bussola. La differenza fra l'azimut astronomico e l'azimut alla bussola o deviato dà la cosidetta variazione della bussola.
Azimut in funzione dell'ora. - Circostanze favorevoli. - L'esame della 6ª equazione differenziale delle (ε) pone in evidenza che la minima influenza di errori in P, δ, e ϕ si ha osservando astri all'orizzonte, poiché al 2° membro appare cos h ai denominatori di tutti i termini. In astronomia nautica si fissa come limite d'altezza 30° per avere un buon risultato in una determinazione d'azimut. Si misura un azimut alla bussola e si prende uno stop al cronometro. Alle formule abbiamo già accennato in Rette d'altezza. Sono o la 1ª delle (β), o la 2ª delle (γ), o la 1ª e 2ª delle (ζ).
Caso particolare. - Azimut della Polare. - La distanza angolare di questo astro dal polo Nord e quindi dal punto cardinale Nord è piccola. In latitudini nord non superiori a 40° esso offre un mezzo comodo e semplice per misura d'azimut. Tabelle nelle raccolte dànno l'azimut o l'angolo azimutale della Polare in funzione o di ts o di P della polare, che, dato il lentissimo moto in azimut dell'astro, si possono ricavare da un comune orologio. La Polare è prossima al meridiano (Z = o) quando Mizar (ζ Ursae maioris) è nel verticale della Polare.
Azimut in funzione dell'altezza. - Si calcola Z con una delle (ϑ); più conveniente la 2ª.
Circostanze favorevoli. - L'esame della 5ª delle (ε) permette di fissare i seguenti limiti per questo calcolo: P compreso fra 3h e 9h, ϕ ≤ 55° e h 〈; 30°.
Queste limitazioni mostrano il vantaggio del metodo dell'azimut con l'ora, che è quello correntemente impiegato in navigazione.
Sorgere e tramonto degli astri. - Determinazione dell'ora del sorgere e del tramonto vero. - Dalla 1ª delle (α), ponendo h = o, si ha
Col calcolo di questa formula o da tavola apposita delle raccolte in cui questo P è chiamato talvolta arco semidiurno, ed è dato in funzione di ϕ e di δ, noto P si passa a tm. Per gli usi di bordo questo calcolo non impone molta precisione; sicché basterà avere per δ, anche nel caso del Sole, un valore largamente approssimato, e tale anche per εγ.
Nel caso della Luna, però, in cui δ varia troppo rapidamente, si deve ricorrere al seguente sistema.
Si ricava dalle Effemeridi l'ora media locale Tmps del passaggio superiore della Luna al meridiano locale con la regola data trattando di passaggi in meridiano (v.) e precisamente: pel sorgere, il transito che segue; pel tramonto il transito che precede.
A occhio, si toglie (sorgere) o si aggiunge (tramonto) 6h al Tmps si ricava un Tm approssimato e con questo dalle Effemeridi una δ&mis3;p approssimata. Con questa e con ϕ si ricava un P approssimato dalla tavola dell'arco semidiurno. Si aggiunge a questo P, che è un intervallo di tempo lunare,
e il valore
si toglie (sorgere) o si aggiunge (tramonto) al tmps.
Si ha così un valore dell'ora media locale approssimata a sufficienza per ottenere un Tm preciso per ricavare un buon valore di Tm dalle Effemeridi. Con questo valore di δ&mis3;p e con ϕ, dal calcolo o dalla tavola, si ricava P&mis3;p, intervallo lunare che si converte in medio con la formula
in cui Δ è la differenza fra le ore dei transiti fra i quali è compreso il sorgere o il tramonto in esame. Si fa allora:
Dal tm locale si passa all'ora del fuso su cui è regolato il proprio orologio.
Ora del sorgere o del tramonto all'orizzonte apparente. - Occorre talvolta a bordo conoscere l'ora del sorgere o del tramonto del lembo superiore del Sole (eccezionalmente della Luna) all'orizzonte apparente.
Per la Luna già sappiamo che il sorgere o il tramonto del lembo superiore all'orizzonte apparente coincide con il sorgere o il tramonto veri del centro per un osservatore alto metri 12 sul mare; perciò il problema ricade nel precedente. Per il Sole, invece, sappiamo che quando accade il tramonto o il sorgere del lembo superiore all'orizzonte apparente, il centro del Sole si trova 55′ sotto l'orizzonte vero (e = metri 5).
Per ottenere l'ora corrispondente a questo istante basta risolvere rispetto a P la 1ª delle (α) in cui a h si sostituisce (- 55′) oppure rispetto a dP la formula differenziale (usata per differenze finite) già molte volte veduta per dh = 55′
Oppure, se in questa si sostituisce a Z il valore che quest'ultimo assume per h = o, si ottiene
Questa formula permette di calcolare dP corrispondente a dh, oppure di costruire una tabella che in funzione di δ e di ϕ dà la correzione dP da applicarsi a P del sorgere o del tramonto vero, per dh = 55′.
Tabelle di tal genere si trovano nelle raccolte. Tale ora del tramonto del lembo superiore del Sole serve per il segnale dell'"ammaina bandiera".
Il segno da darsi alla correzione è ovvio.
Azimut al sorgere e al tramonto degli astri. - Dalla seconda delle (α), per h = o si ha:
Col calcolo di questa formula, o con tavole speciali che dànno in funzione di ϕ e di δ questo particolare valore di Z o l'amplitudine, si passa all'azimut dell'astro al suo sorgere o al suo tramonto veri. Se si vuole conoscere l'azimut del Sole o della Luna al sorgere o al tramonto del lembo superiore all'orizzonte apparente: per la Luna esso coincide sensibilmente con quello del sorgere o del tramonto veri del centro; per il Sole basta risolvere la seconda delle (α) rispetto a Z per h = − 55′. O si osservi che la formula differenziale
per h = o diventa
Questa (usata per differenze finite) può darci, col calcolo, dZ corrispondente a dh. oppure permette di costruire una tabella, che in funzione di ϕ e di δ, da dZ corrispondente a dh = − 55′. Tale tabella si trova nelle raccolte sotto il titolo, in generale, di Correzione dell'azimut del Sole.
Il segno della correzione è ovvio.
Costruzione di un diagramma degli azimut del Sole per i giri di bussola. - Quando si debbano fare i giri di bussola in alto mare utilizzando gli azimut del Sole è conveniente costruire un diagramma degli azimut precalcolati del Sole durante l'intervallo di tempo in cui si prevede che si faranno i giri.
Sopra un foglio di carta quadrettata si assume un asse orizzontale come asse dei tempi (ore dell'orologio) e uno verticale come asse degli azimut. Si calcolano gli azimut, p. es. di 20m in 20m con ϕ del luogo e con δ⊙ medio durante l'intervallo, si segnano i corrispondenti punti sul foglio, avendo prestabilito le relative scale dei tempi e degli azimut, e si uniscono questi punti con una linea continua che in generale è una retta. Così, con una semplice interpolazione grafica, si ottengono gli azimut corrispondenti agl'istanti di osservazione.
Riconoscimento delle stelle. - L'osservazione delle stelle si fa durante i crepuscoli, ché allora l'orizzonte del mare è visibile. Ma in queste circostanze si vede solo qualche stella isolata di cui non è sempre facile il riconoscimento.
Per tali identificazioni vale soprattutto la pratica diuturna. Un osservatore studierà, man mano che si svolge la navigazione, il cielo nelle zone che attraversa. All'uopo gli saranno di grande utilità le carte celesti, rappresentazioni piane della sfera celeste, in cui sono fissate le varie costellazioni; da queste, mediante allineamenti con altri astri da lui riconosciuti, o seguendo regole pratiche riportate dai trattati (v. p. es. il Manuale dell'ufficiale di rotta), non gli sarà difficile identificare quelle poche stelle di 1ª e di 2ª grandezza che si possono utilizzare per le osservazioni al sestante; i pianeti osservabili gli saranno pure noti, o gli sarà facile riconoscerli con l'aiuto delle indicazioni delle Effemeridi.
Pur tuttavia, si può essere talvolta in dubbio, ed allora occorre misurare oltre che l'altezza dell'astro anche il suo azimut. Si misura l'azimut alla bussola e si passa dall'azimut deviato all'azimut vero. Allora nel triangolo di posizione sono noti h, ϕ e Z e dalla seconda delle (α) si può calcolare δ, e dalla prima delle (γ), o con formule da questa derivate, P. Da P si ha t. Dal cronometro si ha Tm e quindi ts. Perciò si avrà:
Noti α e δ le Effemeridi ci diranno quale sia la stella osservata. A evitare il calcolo vale egregiamente la navisphère dell'ammiraglio Perrin o quella modificata dal De Magnac. Si tratta di un globo sul quale sono fissate le principali stelle e che, con la conoscenza di ts, e di ϕ, può essere orientata in modo da farci vedere il nostro cielo nell'istante ts. Perciò, avendo misurato h e a della stella, è facile identificarla sul globo.
Valgono all'uopo anche degli speciali diagrammi altazimutali come quello dell'Alessio e lo sferoscopio del Del Pino e anche le tavole d'azimut, come le ABC.
Navigazione per circolo massimo o ortodromica. - Supponendo la Terra sferica, il più breve cammino fra due punti della sua superficie è dato da un arco di circolo massimo. Traversando gli oceani, non conviene seguire la lossodromia, cioè la curva - a cui obbliga il governo alla bussola - che taglia i meridiani sotto un angolo fisso: il cammino lungo essa è in generale maggiore di quello per circolo massimo, cioè lungo l'ortodromia; ma, se la nave volesse percorrere esattamente l'ortodromia, dovrebbe cambiare rotta continuamente. In pratica si cambia rotta ogni ventiquattro ore, percorrendo così dei tratti di lossodromia.
La differenza di percorso fra il cammino lossodromico e ortodromico è piccola quando la distanza fra i due punti è di poche centinaia di miglia o quando i punti, pur molto distanti, si trovano press'a poco sullo stesso meridiano o presso l'equatore; è grande quando i punti si trovano ad alta latitudine nello stesso emisfero.
Calcolo della distanza ortodromica fra due punti. - È la prima questione da risolversi per decidere se la differenza fra la lossodromia e l'ortodromia giustifica l'impiego di quest'ultima. Siano (fig. 15) A′ (ϕ′ λ′), A″ (ϕ″, λ″) due punti della Terra, A′A″ l'arco di circolo massimo che li congiunge. Si tratta di risolvere il triangolo sferico PA′A″ rispetto al lato A′A″. In esso l'angolo in P è la differenza di longitudine Δλ fra i due punti, PA′ è 90° − ϕ′; PA″ è 90° − ϕ″. Sono perciò noti tre e] ementi e la prima delle (α) cambiando i simboli ci dà, essendo d la distanza, in gradi e parti di grado, fra i due punti:
Per Δλ si prenderà il valore assoluto inferiore a 180°.
Azimut iniziale dell'ortodromia. - l'angolo in A′, prendendo A′ come punto di partenza, del precedente triangolo. Dalla seconda delle (v), applicando le precedenti notazioni, abbiamo:
che, risolta rispetto a z, offre la rotta o l'azimut iniziale dell'ortodromia. Se si osserva che Z è inferiore o superiore a 180° secondo che Δλ è +o −, questa formula, che è generale, fa conoscere Z senza ambiguità.
Questa formula permetterà di avere la rotta in qualsiasi punto (ϕn λn), sostituendo in essa ϕa, al posto di ϕ′ e il nuovo Δλ.
In luogo della formula ora offerta possono essere impiegate le (ζ). con analoga sostituzione dei simboli.
Latitudine del vertice del circolo massimo. - Prima di darsi al calcolo per tracciare sulla carta i tratti d'ortodromia è bene assicurarsi che l'ortodromia non giunga in latitudine troppo elevata. La latitudine ϕv del vertice si ha dalla relazione
e la longitudine da
Navigazione mista. - Se si stabilisce di non sorpassare una certa latitudine ϕ si procederà lungo l'ortodromia che ha ϕv = ϕ, quindi si seguirà il parallelo ϕ, e, infine, l'ortodromia che passa per il punto d'arrivo Aa (ϕa, λa) e che ha pure zv = ϕ.
Le longitudini dei due p11nti del parallelo saranno date da:
Tutte queste operazioni sono semplificate con l'impiego delle carte gnomoniche (v. Bibl.), in una leggenda delle quali sono date tutte le indicazioni occorrenti per il loro impiego. Il modo più razionale d'impiegarle è il seguente. Tracciare su esse il circolo massimo fra i punti di partenza e d'arrivo (su esse la proiezione del circolo massimo è una retta) e prendere a determinati intervalli le coordinate di punti lungo il cerchio stesso e riportare questi punti sulla carta di Mercatore.
Bibl.: È vastissima. La più ricca e la più pratica è l'inglese. La nostra è pure al corrente, specie per opera dei nostri ufficiali della marina da guerra, appassionati cultori di questa materia. La più dotta è la francese, che ha portato il massimo contributo scientifico. In questi ultimi tempi enorme impulso vi hanno dato gli Stati Uniti, grazie a una dovizia di mezzi che i paesi d'Europa non hanno mai messo a disposizione della scienza della navigazione. Notevole è pure la tedesca e quella dei paesi di lingua spagnola e portoghese.
Testi, trattati e manuali. - Praticissimo, ricco di notizie, completo è il Manuale dell'ufficiale di rotta, edito nel 1927 dal nostro Istituto idrografico, compilato dall'amm. E. Burzagli e dal capitano di corvetta A. Grillo. Ottimo testo è quello del Tonta, capitano di vascello, Elementi di navigazione astronomica, Livorno 1922, e ottimi pure il Corso di nautica astronomica del prof. Guarrera, ult. edizione, Palermo 1921, e quello del prof. E. Ippolito, ult. ed., Palermo 1927. Gli altri trattati completi italiani sono rimasti arretrati, compreso quello dell'ammiraglio Cattolica, Trattato di navigazione, 1ª ed., Livorno 1893, 2ª ed., 1910-16. Utilissimo quale testo d'introduzione allo studio dell'astronomia nautica è il volumetto del capitano di fregata G. Romagna-Manoia, Elementi di cosmografia, Firenze 1924; la ricchezza di figure lo rende particolarmente chiaro.
Tra gli studî particolari sono classici: amm. G. B. Magnaghi, Gli strumenti a riflessione, Milano 1875; A. Alessio, Sulla teoria e la pratica della nuova navigazione astronomica, in appendice alla Rivista Marittima, 1908: opera che ha dato un impulso grandissimo alla diffusione di norme razionali, scientifiche e pratiche nella navigazione in alto mare, specialmente nella marina mercantile non solo nostra, ma anche in quella delle altre nazioni.
Numerosissimi articoli si trovano pubblicati nella Rivista Marittima. Da consultarsi in aiuto all'astronomia nautica gli Annali idrografici, editi per cura dell'Istituto idrografico della R. Marina.
Testi elevati sono: F. Marguet, Cours de navigation et des compas, Parigi 1921; E. Perret, La navigation, Parigi 1908; Villarceau e Magnac, Nouvelle navigation astronomique, Parigi 1887.
Seguono: Cornet, Cosmographie et navigation, Parigi 1926, con un volume di esempî di calcoli; È Caspari, Les chronomètres de marine, Parigi 1894, classico.
Classico è pure il Cours d'astronomie nautique di H. Faye, Parigi 1880. Praticissimi e originali sono i lavori del com. É Guyot, appassionato cultore delle scienze nautiche. V. anche M. D'Ocagne, Calcul graphique et nomographie, Parigi 1907; Schwéret, Étude sur l'emploi du sextant pour les observations de précision, Parigi 1911. Molto completo è il trattato moderno del Massenet, Cours d'astronomie et de navigation, Parigi 1924; v. pure Bertin, Carnet pour le réglage rapide et précis de la montre, Parigi 1922; id., Marins et aviateurs faites comme moi, Parigi 1924; A. Ledieu, Nouvelles méthodes de navigation, Parigi 1877. Per la storia è da citare anche il classico Lalande, Abrégé d'astron., Parigi 1793; v. anche Callet, Supplément à la trigonométrie et à la navigat., Parigi 1798. Lavori interessantissimi si trovano in Annales Hydr., nella Revue maritime, e in Annales du Bureau des longitudes.
Classico è il trattato inglese di H. Raper, Practice of Navigation, ecc., Londra, ultima edizione del 1914. E tale è pure l'Admiralty manual of navigation, molto aumentato nell'ultima edizione, Londra 1921.
Molto popolari, ora alquanto vecchi ma letti sempre con molto interesse, Wrinkles in practical navigation del cap. Lecky (21ª ed., del 1925). Seguono: Admiralty, manual of scientific enquiries, Londra 1886; Williamson, Text book of Navigation and Naut. Astr., Glasgow 1906; Goodwin, A Companion to azimuth tables, Glasgow 1925; W. Hall, Appendice to Raper's practice of Navig., Londra 1913. Molti articoli di carattere generalmente pratico si trovano in Nautical Magazine.
Altro trattato classico è quello di N. Bowditch, American practical navigator (1ª edizione del 1801, ultima del 1928, aggiornata dall'Ufficio idrografico di Washington).
La bibliografia degli Stati Uniti possiede inoltre: Muir, A treatise on Navitation and Naut. Astr. U. S. Nav. Institute, Annapolis 1918; Navigation. A text book for Midshipmen, ecc., Annapolis 1922; Dutton-Celo, Navigation, Annapolis 1924; Dutton, Navigation and Nautical Astronomy, Annapolis 1926; Chauvenet, Manual of spher. and practical Astr., Philadelphia 1864 e 1890; Sumner, New method of finding a ship's position at sea, Boston 1843; Littlehales, Modern Naut. Astr., Washington 1904.
Completo è il Lehrbuch der Navigation, pubbl. a cura del Reichs-Marine Amt, Berlino 1906; elevato il Lehrbuch d. sphärischen astron. del Brünnow, tradotto in francese da Lucas e André. Parigi 1869-72; e in inglese dall'Autore, Berlino 1865; classico è pure il testo di navigazione di Albrecht e Vierow, Berlino 1854.
Effemeridi e cataloghi stellari di uso più comune in astronomia nautica. - Effemeridi nautiche ad uso dei naviganti (a partire dal 1916), Istit. idrografico della R. Marina, Genova, La Connaissance des temps, Parigi (1ª ed. 1679), e le Éphémérides nautiques (à l'usage des Marins); The Nautical Almanac di Greenwich (1ª ed. 1769) e ad uso dei naviganti: The Nautical Almanac abridged for the use of Seamen; Das Astronomische Jahrbuch (1ª ed. 1776) di Berlino; The American Ephemeris and Nautical Almanac di Washington, e l'edizione ridotta per i naviganti: The American Naut. Almanac. Tra le Effemeridi private va per la maggiore: Brown's Nautical Almanac (Glasgow).
Tavole logaritmiche e nautiche. - Sono innumerevoli. S'indicano quelle più diffuse e note: Tavole logaritmiche a 5 cifre decimali, R. Istit. idrogr., Genova 1916; Tavole logaritmiche e nautiche dello stesso Istituto, 1916; Magnaghi, Tavole e formole nautiche, Genova 1895; Alessio, Istruzioni e tavole nautiche, Genova 1909; Pes, Nuova navig. astron.; le rette di posizione, Genova 1911, con ampie istruzioni annesse sulle rette d'altezza.
Da noi erano molto usate in passato le Tavole logaritmiche e nautiche dello Scarpati; ora sono dimenticate. Pure molto usate in Italia erano e sono in parte tuttora le pregiate tavole logaritmiche e nautiche francesi di V.-M. Caillet e di G. Friocuort. Molto chiare e pratiche sono pure le Nautische Tafeln del K. und K. Hydr. Amt., edite a Pola nel 1913. Aggiungiamo: Davis, Altit. Azimut tables, Londra 1905; Inman, Nautical Tables, Glasgow 1913; Goodwin, Position line Star Tables, Londra 1914. Da aggiungersi le tavole di mezzosenoversi del maggiore Hannington, Haversines natural and logaritmic, pubblicate a Londra nel 1876.
Tavole edite negli Stati Uniti sono le segg., pubblicate per cura dell'Hydr. Office: Aquino's "Newest" Sea and air navigation tables, Annapolis 1927. È una nuova edizione delle ben note tavole dell'ufficiale brasileno, tavole che hanno incontrato molta fortuna; The Sumner Line of Position, Washington 1925, tavole monumentali, curano più la rapidità della soluzione del principale problema nautico che la precisione. Non devono essere dimenticate le famose tavole di J. Mendoza Rios, Madrid 1873.
Indichiamo qui le tavole d'azimut, sempre le più note, poiché ve n'ha una quantità immensa: Albini, Gli azimut del sole, ult. ed., Genova 1922; le tavole inglesi di Burdwood e Davis, e le tedesche di Ebsen. Le Brown's completed Burdwood, ultima ed., Glasgow 1926; Davis, High latitude azimuths, Londra 1921; Goodwin, Azimuth tables, Glasgow 1917, e dello stesso autore: An equatorial azimuth table, Londra 1919; Bolte, Tavole ABC, riportate in molte raccolte; Littlehales, The azimuths of celestial bodies, Washington 1902.
Altre pubblicazioni. - Diagramma altazimutale del com.te Alessio, Genova 1911, e Piani celesti dello stesso, Genova 1911; Harvey, What star is it?, Londra 1909; Position plotting sheet (12 fogli) H. O. degli S. U. Dello stesso H. O.: Star identification tables; Ocean passage for the World, Hydr., Dept., Londra; id., Admiralty distance tables (voll. 5); id., Tables of distance, e sopra il medesimo argomento si confrontino i francesi Tableaux de distance de port à port (voll. 2).
D'interesse grandissimo e di grande diffusione: le Pilot Charts dell'H. O. degli S. U. Un tempo venivano pubblicate anche dal Meteorological Office inglese. Dal gennaio 1924 è cessata la pubblicazione.
Inghilterra, Stati Uniti e Francia pubblicano delle carte gnomoniche per la navigazione e per circolo massimo.
Riviste e periodici. - Dal 1921 funziona, con sede a Monaco (Princip.), l'Ufficio idrografico internazionale che pubblica una Rivista idrografica in inglese e francese.
Ricordiamo in ordine alfabetico le altre riviste o periodici che si occupano o si occuparono di argomenti di astronomia nautica o ad essa attinenti: Anais do Club militar naval (Portogallo); Annales hydrographiques (Service Hyr. de la Marine); Annalen der Hydrographie und maritimen Meteorologie (Deutsche Seewarte); Annales du Bureau des longitudes; Annali idrografici (R. Istit. idrografico, Genova); Annuaire de la navigation, de la pêche, etc. (testo franc. e inglese); Army and Navy Journal; Atti della Reale Accademia dei Lincei; Boletim do Club Naval Brazileiro; Boletin del Centro Naval (Argentina); Bollettino dell'Osservatorio marittimo italiano; La Géographie; Rivista di geografia didattica; L'Idea marinara; L'Italia marinara; Journal of United Service Institution; Marine Rundschau (Germania); La Marina italiana; Mittheilungen aus dem Gebiete des Seewesens (del passato governo austriaco); Morskoi Sbornik (Russia); Nautical Magazine (Ingl.); Naval and Military Record (inglese); Norsk Tidsskrift for Sjövoesen (Norvegia); Notiziario Tecnico (Minist. aeronautica); Periodico di Matematica; Phylosophical Transactions; Rassegna marittima e aeronautica; Revista de Marina (Cile); Revista del Ejercito e de la Marina (Messico); Revista de Marina (Perù); Revista Maritima (Uguruay); Revue de l'aéronautique militaire; Revue maritime et coloniale; Rivista Marittima; Rivista Nautica; Revista Militar y Naval (Uruguay); Revista de Marina (Avana); Revista Maritima Brazileira; The Rudder; Scientia; Revista General de Marinia (Spagna); Tidsskrift for Sjövoesen (Dan.); U. S. Naval Instit. Proceedings; Le Yacht (Journal de la Marine); Die Yacht; Yachting; Zeitschrift für Instrumenten Kunde (Berlino).
Per la storia dell'astronomia nautica si veda: A. Alessio, L'evoluzione dell'astronomia nautica, Torino 1911; oltre agli interessanti articoli del Gelgich, in Rivista marittima, del 1892, 1894 e 1901, e alla citata opera del Magnaghi, Gli strumenti a riflessione.
I Tedeschi hanno: Die nautischen Instrumente bis zur Erfindung des Spiegelsextanten, Brema 1890, ed i Francesi: Marguet, Histoire de la longitude à la mer, Parigi 1917.
Da consultarsi per ricerche storiche: P. da Medina, L'arte de navegar, Venezia 1554 (l'originale spagnolo è del 1545); R. Gemma Frisio, Principii di astronomia e cosmografia, 1536; P. Apiano, Astronomia Caesarea, 1532; Opera Petri Nonii Salaciensis, Basilia 1548; Geometrie vom künstlichen Messen, Magonza 1535; Navarrete, Dissertación sobre la historia de la náutica, Madrid 1846; M. Rico e Sinobas, Libros de saber de astronomía del rey don Alfonso X compilados, anotados y comentados, Madrid 1863-67; Geschichte des Seefahrers Ritters Martin Beheim nach den ältesten vorhandenen Urkunde bearbeit, Norimberga 1853; Zur Geschichte der Cartographie, in Zeitschrift der Berliner Gesellschaft für Erdkunde, 1873; G. B. Riccioli, Almagestum novum astronomiam veterem novamque continens, Bologna 1651; id., Astronomia reformata, Bologna 1665; M. Cortés, Breve compendio de la sphera y de arte de navegar con nuevos instrumentos y reglas, Siviglia 1551; R. Faleiro, Tratado de la esphera y del arte del marear, ecc., Siviglia 1535 (rarissimo); B. Crescenzio, Nautica Mediterranea, Roma 1602; G. F. Gauss, Methodum peculiarem elevationem poli determinandi explicat, Gottinga 1808; Joan. Bapt. Benedictis, De gnomonum umbrarumque solarium usu, Torino 1574; Bouguer, Nouveau traité de navigation, Parigi 1753 (altra edizione nel 1698); Radonay, Remarque sur la navigation, Parigi 1727; Roberto Dudleo, duca di Nortumbria e conte di Warwich, Arcano del mare, Firenze, 2ª ed., 1661 (con molte ill. e carte); Aubert, Abrégé du Pilotage, Parigi 1766; Dionisio Macarte e Diaz, Lecciones de navegación, Palma 1813; per un'idea concreta sullo stato della scienza nautica alla fine del sec. XVII, v. Bouguer Brunacci, Nuovo Trattato di Navigazione, Livorno 1795; Robertson, Elements of navigation, 4ª ed.; Bezout, Abrégé du Pilotage, Parigi 1760; I. H. Moore, The new practical navigator, Londra 1798; Dulague, Leçons de navigation, 3ª edizione, Rouen 1784; Bohnenberger, Anleitung zur geogr. Ortsbestimmung, Gottinga 1795; J. C. Borda, Description et usage du cercle de réflexion, Parigi 1787. Sul cronometro: una storia completa in E. Gelgich, Geschichte der Uhrmacherkunst, 4ª edizione, 1896. Per la storia della nomografia, v.: Über nautische Diagramm-Instrumente und Rechnen-Apparate, in Central Zeitung für Optik und Mechanik, Berlino 1884, e alcuni articoli nella nostra Rivista Marittima.