ASTUCCIO (probabilmente dal prov. estuch; fr. étui; sp. estuche; ted. Etui, Besteck; ingl. case)
È qualsiasi scatola destinata a contenere un determinato oggetto, e assume, generalmente, la forma dell'oggetto stesso. Significa anche ogni scatola, cofanetto, scrignetto. Fu assai usato già nell'antichità. Gli scavi di Pompei ci hanno dato, p. es., astucci di bronzo con coperchi fregiati d'oro, destinati a ferri chirurgici e a medicine. Le dame romane avevano degli astucci per gli oggetti di abbigliamento, detti cistae, e per gli unguenti: basti ricordare l'astuccio argenteo per boccette di profumi trovato sull'Esquilino nel 1793 tra i preziosi oggetti appartenenti al corredo nuziale della cristiana Proiecta (Londra, British Museum), sulla fine del sec. IV. Nell'uso cristiano si ebbero astucci per portare addosso reliquie (teca, ϑήκη); si dissero stauroteche quelle contenenti reliquie della Croce; e potevano alla lor volta venir protette da altri astucci, come i preziosi reliquiarî della Croce trovati a Roma nel Sancta Sanctorum (Biblioteca Vaticana). Si fecero, in questo caso, d'argento, d'oro, anche con pareti di cristallo. Encolpî si dissero in genere gli astucci per reliquie da portarsi al collo. Nel Medioevo e nel Rinascimento quasi qualsiasi oggetto venne conservato in astucci: aghi, forbici, coltelli, ventagli, pettini, specchi, libri, fialette odorose, penne e calamai; in astucci si chiusero i bicchieri d'uso personale, le confettiere, le navi da tavola, la saliera, ecc. Molto usato per gli astucci fu nel Medioevo il cuoio, che veniva variamente ornato; ma anche si fecero di legno con ornamenti di metallo prezioso, d'osso, d'avorio, di pastiglia. Nel Seicento e Settecento la moda degli astucci imperversò: vicino ai vecchi tipi di astucci di cuoio sbalzato e con guarnizioni si ebbero astucci fatti di materie preziose, con ornati di niello, musaici, miniature; si ornarono di svolazzi, di fogliami, di volute; si preferirono i soggetti allegorici e mitologici, rispondendo alle tendenze artistiche di quei secoli. (V. Tavv. XXV e XXVI).