ATANASIO
Figlio di Gregorio III e fratello di Sergio II, duchi di Napoli, crebbe alla scuola dello zio, il santo vescovo Atanasio (I) dal quale fu allevato ed amato come figlio. Non siamo in grado di stabilire, per la scarsezza delle informazioni forniteci dalle fonti in nostro possesso, né la data, sia pure approssimativa, della nascita di A., né la misura in cui influirono sulla sua formazione l'educazione ecclesiastica che gli fu certamente impartita e l'ascendente dello zio vescovo che lo allevò. Di A. ci sono rimaste notizie forse in numero maggiore che per qualsiasi altro personaggio eminente della storia napoletana del sec. IX; ma si tratta, generalmente, di notizie che riferiscono un avvenimento senza rivelare uno stato d'animo, una passione. Di grande intelligenza e cultura - "vir altioris ingenii ac mirabifis prudentiae fuit", così dice di lui Pietro suddiacono - venne consacrato vescovo di Napoli nel marzo dell'876 dal papa Giovanni VIII nella chiesa di S. Nazario Martire, "in loco qui dicitur Canzia" nel territorio di Capua, dopo ben quattro anni di vacanza della sede episcopale napoletana.
Non conosciamo il nome di alcun vescovo di Napoli dall'872 - anno della morte di Atanasio (I) - sino al momento in cui A. fu consacrato vescovo da Giovanni VIII. Segno evidente questo che la politica dei duca nei confronti dei musulmani e delle potenze che si contendevano il predominio nell'Italia meridionale non era affatto cambiata da quando egli, nell'870, era salito al potere; segno evidente, altresì, che la Chiesa napoletana era rimasta per ben cinque anni separata dalla comunione della Sede apostolica e che la vacanza cessava per volontà dei pontefice Giovanni VIII, desideroso di un estremo tentativo per svincolare dall'alleanza con gli Arabi proprio Sergio II che, nella pericolosa situazione in cui il ducato napoletano si trovava, premuto da insidiosi vicini e minacciato dagli imperatori franchi, non aveva altra alternativa che quella dell'intesa con i musulmani.
Con quali propositi A. sia salito al soglio episcopale; come abbia giudicato la sua elezione (che per Sergio II sarebbe dovuta essere salvaguardia alla sua politica da ulteriori complicazioni); con quale animo egli abbia accolto la notizia dell'anatema lanciato contro il fratello e della scomunica minacciata da un sinodo riunitosi a Roma il 19 apr. 876 se entro il termine perentorio di quindici giorni non si fosse presentato a giustificarsi, non ci è dato sapere. Se pure cercò di secondare l'azione del papa, A. tuttavia non riuscì a far deflettere il fratello dalla politica intrapresa: il 30 giugno successivo, infatti, in un secondo sinodo riunitosi nella basilica di S. Pietro a Roma, ventinove vescovi confermavano la scomunica minacciata dal sinodo precedente; ed il pontefice, scrivendo ad A. il 9 settembre, gli ricordava le esortazioni fatte, sia da lui sia dai suoi predecessori, al fratello duca perché si staccasse dall'alleanza coi musulmani, e lo scongiurava di evitare la societatem sua, perché, lo avvertiva, avrebbe convocato tutti i vescovi d'Italia per pronunciare contro Sergio II e tutti i suoi fautori la solenne formula di anatema "nunquam deinceps penitus dissolvendum".
Ad un primo riavvicinamento di Sergio II alle tesi di Giovanni VIII, determinato probabilmente dal minacciato intervento militare del papa con contingenti di Carlo il Calvo, seguì una nuova tensione nei rapporti tra Roma e Napoli, in cui A. fu fatalmente coinvolto. Il vescovo di Sorrento, Stefano, fautore della politica antisaracena del papa in Campania e già soccorritore di Atanasio (I), era stato frustato ed espulso dalla diocesi dal prefetto Pietro, senza che Sergio II pensasse ad intervenire. E appunto di inazione A. era accusato dal papa, cui aveva rivolto una lettera in occasione delle festività pasquali dell'877: non solo A. non aveva sottratto ai Saraceni i suoi concittadini, ma non si era neppure separato da loro abbandonando la città, che, caduta in potere del principe delle tenebre, non poteva più accogliere sacerdoti. Gli si ricordava poi che, disobbedendo, sarebbe venuto meno al suo compito, si sarebbe dimostrato indegno dell'autorità ricevuta, incurante del giudizio divino, privo di devozione verso il papa.
Non sappiamo se A., dopo questa lettera, abbia cercato di influire in alcun modo sul fratello; ma forse poté sembrare che le maledizioni lanciate dal papa sul ducato ribelle cominciassero ad avere effetto quando un'invasione di locuste devastò la Campania e distrusse, in particolare, le colture del territorio napoletano.
Certo è che A., cui erane ricorse le popolazioni rurali terrorizzate dallo spettro d'una carestia, se provvide ad organizzare i soccorsi per gli indigenti, ordinò anche pubbliche cerimonie di riparazione - preghiere, processioni, digiuni - per allontanare la mano di Dio dalla città. Non solo: iniziò la costruzione della basilica votiva di S. Giuliano foris sita. E Sergio II si risolse a promettere la denunzia del trattato di alleanza coi musulmani - forse sotto l'impressione di queste calamità, ma, più probabilmente, spinto da ragioni politiche. Si giunse così all'incontro di Traetto preparato da Giovanni VIII con tutta una serie di lettere ai collaboratori, fedeli o presumibili, della sua politica meridionale: una politica, si diceva a Landolfo di Capua, disposta a grandi concessioni persino nei riguardi di Sergio II, pur di costituire una lega antisaracena. A tal fine, Landolfo di Capua, Sergio II, Guaiferio di Salerno, gli ipati di Gaeta e il prefetto di Amalfi, in cambio di una sovvenzione finanziaria del Pontefice, promisero di sciogliersi dagli impegni che erano stati stretti coi musulmani (giugno 877).
Rientrato in Napoli Sergio II e resi di pubblico dominio i risultati del convegno di Traetto, A. volle sanzionare ufficialmente l'avvenuta pacificazione tra il fratello e la Sede apostolica: la salma di Atanasio (I) che, alla morte del santo, era stata sepolta nei pressi dell'abbazia di Montecassino, venne traslata a Napoli con ogni onore e, il 1° agosto, alla presenza del vescovo attorniato dalle autorità, dal clero e dal popolo tutto, venne inumata solennemente nell'oratorio davanti alla basilica extramuranea di San Lorenzo a Capodimonte.
L'atto aveva un significato che trascendeva quello puramente religioso: non era infatti soltanto l'ultimo, doveroso e commosso, omaggio di A. nei confronti dello zio, suo maestro e predecessore; la cerimonia voluta da A. non poteva non significare che la revoca della condanna dello zio; altro non voleva se non dimostrare che Napoli riabilitava, in tutto, la memoria di Atanasio (I). E l'atteggiamento del duca, che ostentatamente si astenne dal presenziare alla solenne inumazione, conferma tale ipotesi.
Ma A. aveva assunto un atteggiamento ormai autonomo nei confronti del fratello e quando questi, al rientro da Traetto, sembrò orientare nuovamente la sua politica in senso filo-musulmano, meritandosi la scomunica di Giovanni VIII e l'invasione dei Longobardi di Salemo, sarebbe stato addirittura, secondo Erchemperto, la guida e l'anima della rivolta contro Sergio II, preso prigioniero e inviato a Roma. Pure, la rivolta era stata anche sentita ed approvata dalla maggioranza della popolazione. Se, agli inizi dell'878 il papa esalta la pietà, il sacro zelo, lo spirito d'abnegazione del presule, il quale aveva avuto il coraggio di obbedire al precetto evangelico che ordina di strappare dal proprio corpo la mano o l'occhio che diano scandalo; indirizzava anche, contemporaneamente, agli "eximios iudices et universum populum Neapolitaneae civitatis" una lettera in cui li elogiava caldamente per aver rovesciato ed espulso Sergio II, e lodava la loro prudenza che li aveva spinti ad eleggersi come duca il loro stesso pastore.
Nella sua Historia Erchemperto - lasciando da un lato la parte avuta in questi avvenimenti dal clero, dai maggiorenti e dal popolo napoletano, parte indubbiamente notevole come si può dedurre dall'epistolario di Giovanni VIII e dalle parole dell'anonitno autore della Translatio s. Athanasii - tende soprattutto a sottolineare la responsabilità di A. (il quale, secondo lo storico beneventano, si sarebbe impossessato del potere subito dopo la defenestrazione di Sergio II, "se ipsum principem instituit") e del pontefice. Quest'ultimo, favorendo - come già aveva fatto per Capua - la costituzione di una signoria ecclesiastica a Napoli, credeva di poterla avere più fedele alla sua politica. Il risultato della caduta di Sergio II fu, infatti, che, per la prima volta nella storia napoletana, il potere religioso e quello civile (politico e militare insieme) si riunirono in una sola persona. Alla fine del sec. VIII il primo duca indipendente di Napoli, Stefano, era sì giunto all'episcopato, ma in un secondo tempo e rinunciando, almeno forinalmente, alle sue funzioni civili. A. rimase invece, sino alla fine, vescovo e duca.
Giovanni VIII, dunque, poteva dirsi soddisfatto. A. ed i Napoletani giurarono solennemente di combattere i Saraceni ed il nuovo duca - forse perché impegnato a fondo dai nuovi doveri, forse perché voleva valutare situazione e possibilità del suo stato prima di iniziare una sua politica indipendente - non fece nulla, almeno per il momento, che potesse scontentare Roma; tanto che il pontefice non esitava a proporlo come esempio di zelo nei confronti della Sede apostolica a due amici provati, Guaiferio di Salemo ed il vescovo e conte di Capua, Landolfo. E di fedeltà e di zelo aveva infatti più che mai bisogno il papa Giovanni VIII in quei primi mesi dell'878 poiché una serie di defezioni degli alleati di Traetto e soprattutto la morte di Carlo il Calvo lo avevano messo in gravi difficoltà, non risolte nemmeno dal viaggio del papa in Francia e dal concilio di Troyes. E ad A. come all'unico, forse, più sicuro alleato, dopo la morte di Landolfo di Capua e la rottura dell'unità politica della contea capuana (Pandenulfo da un lato, i suoi cugini dall'altro, si contendevano il potere), il papa scriveva ai primi dell'879 lodandolo per la sua fedeltà e esortandolo a continuare nella via intrapresa "donec speciali praesentia iuncti, simul loquamur", sino a quando si sarebbero potuti incontrare per uno scambio di vedute sulla situazione generale della Chiesa e su quella dell'Italia meridionale. E sugli stessi argomenti, ma più sull'urgenza di un incontro, tornò il pontefice nelle due successive lettere indirizzate ad A., lettere che il Kehr attribuisce al marzo-aprile dello stesso anno ("Multas gratiaruni actiones" e "Scientes vos"); nella "Scientes vos" Giovanni pregava A. di fargli sapere "sub celeritate" il luogo da lui prescelto per il colloquio, "pro instantis temporis necessitatibus atque utilitatibus".
In questi frangenti A. di Napoli appare pur sempre fedele al pontefice: quando questi scese per la prima volta nell'879 a Capua, ci venne - per quanto ci è dato sapere - da amico dei Napoletani. E se già fin d'allora è da datare - cosa che appare improbabile tuttavia - l'alleanza dei Napoletani con Pandenulfo, i contingenti di truppa che A. inviò in aiuto del conte di Capua, permettendogli di rovesciare in suo favore le sorti della guerra, dovettero apparire inviati più dal papa che dal vescovo e duca di Napoli. A. dunque, entrando da protagonista nell'intricato giuoco politico dell'Italia meridionale, vi appariva ancora una volta come un fiancheggiatore del papa. Eppure, proprio quando a Giovanni VIII più urgeva la fedeltà di Napoli, A. gli si volse contro, appoggiandosi ai suoi avversari.
Quali motivi - se pure vi furono - gli avesse offerto Giovanni VIII, non ci è dato sapere; certo è che il papa non aveva saputo affatto valutare la natura e gli scopi della rivoluzione napoletana dell'876, che rivoluzione non era stata. Altro non avevano fatto i Napoletani se non defenestrare un duca sostituendogliene un altro (il quale doveva sicuramente la sua fama forse più al fatto di appartenere ad una antica famiglia di duchi che a quello di essere il vescovo), senza alterare minimamente né l'organizzazione politica e sociale del ducato né i rapporti che si erano, con l'andare degli anni, stabiliti tra potere civile e potere religioso.
A. dunque, divenuto duca, doveva essere necessariamente portato a subordinare gli interessi della sua chiesa a quelli del ducato che era stato chiamato a dirigere: come duca, la pratica di governo e l'esperienza fatta in quell'anno e mezzo di preparazione, i consigli stessi dei suoi collaboratori dovevano per forza condurlo a giudicare gli avvenimenti da un punto di vista più ampio e spregiudicato, certamente diverso dal metro che era abituato ad usare da semplice vescovo. La realtà stessa delle cose non poteva che riportarlo alla politica tradizionale dei suoi predecessori, se voleva soprattutto l'interesse del ducato. La difesa dell'indipendenza dello stato, l'allargamento dei suoi confini nel disperato tentativo di prevalere sugli avversari e di unificare la Campania e, se possibile, l'Italia meridionale: queste le direttive del principato di A., che avrebbe cercato di attuare senza lasciarsi fermare da riguardi o scrupoli; questa l'intema coerenza, la dialettica della sua febbrile ed intensa politica che, ad un osservatore superficiale, può apparire caotica.
Innanzitutto, messosi in rapporto con gli Arabi, iniziava e portava a termine, nell'estate 879, le trattative per una vera e propria alleanza con loro, "cum Saracenis pacem iniens": ne assoldò un'intera banda che mise a presidio del porto e della quale si servì come di un'ausiliaria a fianco delle sue truppe operanti nei territori di dominio pontificio, in quelli di Gaideris di Benevento e di Lamberto di Spoleto; permise, anzi, ai Saraceni, ricevendo una parte del loro bottino, di mettere al sacco le terre nemiche. Sorse così a Napoli, tra il porto e le mura della città (a quell'epoca il porto era molto arretrato rispetto all'odiemo, iniziando a nord, all'incirca, là dove è l'attuale piazza Municipio e le mura della città correvano parallelamente alla costa), dove A. aveva posto i loro alloggiamenti, un vero e proprio ribât o kayrawân, dal quale uscirono a predare le navi degli Arabi; corsero allora le truppe napoletane ed i loro ausiliari musulmani, "terrani Beneventanani simulque Romanam necnon et partem Spoletii diruentes", come dice Erchemperto. Anche Amalli - che aveva un pericoloso vicino in Gaideris di Benevento - e gli ipati di Gaeta Docibile e Giovanni, che vedevano il loro dominio soffocato tra la contea di Capua e Roma, erano tornati ad allearsi coi musulmani: come A., anche Polcari aveva accolto una banda dei suoi nuovi areati, collocandola in posizione chiave, a Cetara, sulla costa tra Amalfi e Salemo.
A., nonostante la minaccia di scomunica se entro il 10 dicembre non avesse denunziato il trattato di alleanza con gli Arabi e le lusinghe - più forti sovvenzioni in danaro, franchiglia per le sue navi nei porti romani -, rimase sordo alle sollecitazioni del pontefice, tanto che questi si decise a venire di persona ancora una volta nell'Italia meridionale, anche per cercare di por fine alle lotte che vi si combattevano. Dopo esser passato per Capua, portando con sé Stefano, zio di A. - cui aveva promesso una chiesa a Roma -, Giovanni VIII andò a Napoli, dove cercò, sia con le promesse sia con la offerta di ampi finanziamenti, di convincere il vescovo e duca a staccarsi dagli Arabi. Sembra che A. s'inducesse ad accettare; certo è che prese il danaro offertogli e che volle trattenere presso di sé lo zio, forse anche per dar soddisfazione, come pensa lo Schipa, al prefetto di Sorrento cui non doveva andar troppo a genio l'idea di una permanenza di Stefano a Roma. Partito da Napoli, Giovanni VIII si fermò per qualche tempo a Capua, dove lo raggiunsero inviati di A. con sue lettere; il pontefice rispose al vescovo e duca di Napoli ringraziandolo per la sua devozione, ma rinnovando anche l'esortazione a dimostrare una volta per tutte la sua buona volontà, denunziando realmente il pactum iniquum che lo legava ai musulmani, come ancora una volta, per bocca dei suoi inviati, aveva promesso di fare. Eppure, ad onta di tante promesse, A. non mutò assolutamente la sua linea di condotta e continuò a tenere i Saraceni al servizio.
Come mai A., dopo aver dimostrato, per quasi due anni, il più grande zelo nei confronti della Sede apostolica, aveva radicalmente cambiato la sua politica? Cosa aveva spinto lui e le altre città marinare a tomare, dopo i solenni impegni di Traetto, alla alleanza coi Saraceni?
Furono proprio le buone relazioni instauratesi tra :il papa e Basilio I e i progressi degli eserciti bizantini nell'Italia meridionale a convincere A. di Napoli, e i reggitori di Amalfì e di Gaeta, ad ostacolare la politica di Giovanni VIII e a ritornare all'alleanza coi musulmani. Compito della flotta, che Basilio aveva inviato nel Tirreno e che cooperò validamente alle operazioni condotte in Italia meridionale dal baiulo Gregorio, era si quello di liberare la costa dai Saraceni, ma di ristabilirvi anche, integralmente, la sovranità imperiale. Ora, dagli inizi del sec. IX, i duchi di Napoli si erano resi di fatto indipendenti. Significativo è lo scontro navale del novembre 879 in cui la squadra bizantina, agli ordini dello stesso baiulo, del turmarco Teofilatto e del conte Diogene, distrusse nel golfo di Napoli una flotta saracena: anche se il papa - il quale aveva minacciato A. di fargli provare ad un tempo la spada invisibile e la spada visibile - aveva promosso o consigliato quell'azione (e non mancò di rallegrarsene con i comandanti vittoríosi), la comparsa degli imperiali davanti a Napoli aveva senza dubbio il significato d'un monito. Perciò A. rintuzzò energicamente, con tutti i mezzi, i tentativi bizantini; è per questo che si alleò nuovamente agli Arabi. Ad A., a Polcari, a Docibile poco importava se i Saraceni devastavano le pianure longobarde e romane: chi ne soffriva erano i vicini e rivali, i principi longobardi, - cui si erano alleati i bizantini, - e il papa. Ciò che interessa a Napoli, a Gaeta, ad Amalfi è di difendere la propria libertà, proteggere il litorale, assicurarsi la prosperità dei commerci: trattando con i Saraceni essi hanno anche diritto ad una parte del loro bottino.
Cosi A., nonostante gli sforzi delpontefice, continuò nella sua politica tenendo ai suoi ordini bande di arabi ed aiutando nella sua lotta il conte Pandenulfo, sì che agli inizi dell'anno successivo (880) il papa ed il vescovo di Napoli ci appaiono nuovamente l'uno contro l'altro, nella guerra di Capua.
Resasi più difficile la situazione Campania, per la morte di Guaiferio Salemo ed il rovesciamento del princi e di Benevento Gaideris, nel marzo 881 Giovanni VIII scrisse due lettere ad A. per indurlo a non combattere più i cugini di Pandenulfo e a non continuare a mandare più aiuti a quest'ultimo; nella seconda lettera ("lam quia te", del 14 marzo), Giovanni VIII, oltre a ricordare al vescovo di Napoli la promessa fattagli, prima a Napoli personabnente, poi a Gaeta attraverso i suoi legati, di essersi deciso ad abbandonare l'alleanza con gli Arabi, aggiungeva: "Sotto pena di scomunica vietiamo che tu provochi alcun conflitto, alcuna agitazione, alcuna situazione pericolosa per quanti stanno in Berolais (S. Maria Capuavetere), e che tu concordi in tutto con coloro che le provocano: noi stiamo per recarci costì e rinnoveremo la pace tra voi". Era la minaccia della scomunica, ma A., sordo alle sollecitazioni del papa, mandò in aiuto del conte Pandenulfo altri rinforzi di truppa napoletana e di mercenari arabi, con i quali il conte investì S. Maria Capuavetere e l'antico anfiteatro romano, che era roccaforte dei suoi cugini; quindi perdurando qui l'assedio e bloccato l'anfiteatro, scatenò l'offensiva nella Liburia (oggi Terra di Lavoro), riuscendo a strapparla ai figli di Landone, suoi cugini; assicuratosi le spalle, si volse poi contro gli altri cugini, i figli di Landonulfo (aprile 881).
La risposta di Giovanni VIII non tardava a venire: riunito a Roma un sinodo di vescovi nella basilica di S. Pietro, era lanciato solennemente l'anatema che "privava A. e tutti i suoi aderenti da ogni comunione ecclesiastica e lo malediva, quale nemico della cristianità tutta", fino a quando fosse rimasto legato agli infedeli. Con lettera circolare indirizzata "Omnibus episcopis Caietam, Neapolim, Capuam, Berolassim et Amalfim, Beneventurn et Salernum incolentibus, a paribus" il papa annunziava a tutti i vescovi dell'Italia meridionale che il presule di Napoli era stato privato della comunione con la Sede apostolica. Ma neanche la scomunica valse a piegare A.: spostati i suoi contingenti, li portava ad investire, per la seconda volta, il castrum Pilense, che veniva espugnato il 23 ag. 881; tra i prigionieri fu catturato anche il futuro storico dei Longobardi di Benevento, Erchemperto.
Ma la conquista da parte di Pandenulfo della Liburia, territorio su cui da secoli si appuntavano le aspirazioni dei Napoletani, soffocati dalle potenze limitrofe nell'immediato entroterra, provocò la rottura tra A. ed il conte di Capua; quest'ultimo si trovò all'improvviso isolato perché il vescovo e duca di Napoli lo abbandonò, passando dalla parte degli avversari. Dalla situazione, divenuta caotica, trassero vantaggio soprattutto gli Arabi, i quali, nei loro saccheggi, non fecero troppe distinzioni tra alleati e nemici. Nell'autunno dell'881 A., per presentarsi evidentemente in una posizione di forza nei confronti dei nuovi alleati, per combattere Pandenulfo e sostenersi contro il pontefice, fece venire dalla Sicilia al suo soldo il capo musulmano "Suchaimo" - da identificarsi probabilmente, come pensa l'Amari, col famoso Suḥaym - con una grossa banda di Arabi, assegnando loro, come quartiere, le falde occidentali del Vesuvio. Ma se ne dovette pentire perché i nuovi mercenari assunsero ben presto un contegno minaccioso nei confronti della città di Napoli, devastando, saccheggiando e facendo violenza ai beni ed alle persone stesse dei Napoletani: "Sed iusto Dei iudicio primo omnium contra eum insurgens, coepit Neapolim graviter affligere et devorare omnia exterium ac puellas equos et arma vi expetere", scrive di Suḥaym Erchemperto.
Un simile aiuto costrinse A. a chiedere il soccorso delle altre città marinare, dei Salernitani e dei Capuani già suoi nemici; lo indusse anche ad un riavvicinamento alla Sede apostolica, implorando dal papa che lo sciogliesse dalla scomunica. I Saraceni furono espulsi da Napoli grazie ai rinforzi tempestivamente inviati dal principe di Salemo, dai Capuani, dalle città marinare - che l'imminenza del pericolo aveva riunito in un blocco solo - tra la fine dell'881 e gli inizi dell'anno successivo. Quanto al pontefice, questi, "ispirandosi all'esempio dei Buon Pastore" - come scrisse ad A. -, si dichiarò assai lieto di riaccoglierlo nella comunione della Chiesa; nella primavera dell'882 giunsero a Napoli il vescovo Marino di Cere, sanctae sedis archarius, e l'egregius vir Sicone, legati pontifici, latori di una lettera di Giovanni VIII. In essa il papa prometteva di sciogliere A: dalla scomunica, a condizione che egli si impegnasse a non rinnovare la lega coi musulmani e che, fra i prigionieri arabi, alla presenza dei legati, scegliesse i capi da inviare a Roma dopo aver messo a morte quanti più gregari avesse potuto. Il che A., con ogni probabilità, fece, guadagnandosi il perdono del pontefice, dato che Giovanni VIII, nelle lettere successive, non torna più sull'argomento di Napoli e del suo vescovo.
Sia lo Schipa (Il Mezzogiorno, p. 96) che l'Amari (Storia, I, p. 599) pongono questa legazione prima della cacciata dei Saraceni da Napoli, cacciata della quale sarebbe stata la necessaria premessa: per eseguire gli ordini dei papa -argomentano gli autori - A. ebbe bisogno dell'aiuto delle potenze limitrofe.
Ristabilita così la situazione interna, A. continuò nella sua politica di espansione in Campania. Atteggiandosi a vindice dei cugini di Pandenulfo, inviò a questi ultimi, impegnati nell'assedio di Capua, rinforzi di truppa; accanto al conte rimase, unico areato, il solo Radelchi II di Benevento, che gli mandò in soccorso il fratello Aione. A Pandenulfo non restò che tentare un riavvicinamento alla Sede apostolica. Ma riuscì soltanto a provocare danni peggiori per il suo nuovo alleato, poiché gli ipati di Gaeta, Docibile e Giovanni, chiamarono in loro soccarso gli Arabi di Agropoli, i quali si attestarono sui colli di Itri e, occupata la stessa Fondi, sottoposero a continue devastazioni - con facilità anche maggiore di quando erano a Napoli - le terre di dominio pontificio. A questo punto, A. ebbe buon giuoco a presentarsi a Pandenulfo ed ai suoi cugini come mediatore: a pace fatta, al vescovo e duca di Napoli rimase in S. Maria Capuavetere un'importante testa di ponte, l'antico anfiteatro romano trasformato in fortezza, dove A. si affrettò ad inviare una guarnigione comandata "ad perpetuum Capuanorum iurgium" - commenta Erchemperto - da un ufficiale longobardo, Guaiferio. Ai primi di dicembre dell'882 tuttavia Pandenulfo venne rovesciato da una congiura ordita dai suoi cugini ed imprigionato insieme alla sua famiglia ed ai suoi sostenitori: al suo posto fu innalzato, come nuovo conte di Capua, Landone II (dicembre 882).
Si riaccese in tal modo, nella già tanto travagliata Campania, un nuovo periodo di guerre. Scomparso un avversario, se ne profilava un altro ancor più terribile per il ducato di Napoli, perché il potere del nuovo conte di Capua non appariva, almeno per il momento, minato da dissidi interni. Dopo aver spinto in attacco contro Capua la guarnigione dell'anfiteatro, dopo aver tentato di suscitare la discordia tra i fratelli e i cugini di Landone II, A. riprendeva le armi contro di loro, sia nella Liburia sia, facendo perno su Berolais, nella pianura di Capua, che pure tornò a bloccare; quindi, con rinnovato vigore, continuava la lotta contro Guaimario I di Salerno, parente e sostenitore di Landone II, sollevandogli contro gli Arabi di Agropoli, che per poco non soggiogarono l'intero principato. E contingenti saraceni combatterono accanto ai reparti napoletani sia nella pianura del Volturno e sotto Capua, sia contro il principe di Salemo, il quale, ridotto allo stremo, "cum nimium affligeretur ab Athanasio episcopo cum Saracenis, essetque ex toto depopulata tellus ipsius", si risolse a chiedere, in cambio del riconoscimento dell'alta autorità di Bisanzio sul suo principato, aiuto ai Greci, che gli concessero prontamente soldati, oro e grano.
Anche A., seguendo l'esempio di Guaimario, si rivolse ai Bizantini: ottenne un corpo scelto di trecento uomini comandati da Chasan - con ogni probabilità un turmarco od un ufficiale in sottordine - del quale si servi per investire ripetutamente, con violenza, Capua, con l'appoggio della guarnigione di Berolais e di contingenti arabi. Ma tutti gli sforzi compiuti tra l'883 e l'884 e che culminarono nella quaresima dell'884, quando i soldati napoletani riuscirono a superare le mura della città e qui vennero trucidati, erano destinati a fallire; perciò A., pur continuando a mantenere stretta Capua da un ferreo blocco, lanciò il grosso delle sue truppe in azioni instancabili di guerriglia nella piana del Volturno e nella Terra di Lavoro, azioni che durarono sin quasi alla sua morte: "Ab illo igitur tempore omnia circumquaque devastans, Liguriam vindicabat sibi".
Nell'884 un nuovo protagonista si imponeva sulla scena politica campana, sino allora dominata dalla figura del vescovo e duca di Napoli: profittando dell'anarchia che sconvolgeva la Campania, il duca Guido III di Spoleto intervenne, molto probabilmente d'accordo coi Bizantini, nelle contese capuane. Atteggiadosi a protettore di Landone II, marciò con un corpo d'esercito sul Garigliano, contro gli Arabi, quindi puntò su Capua e, dopo una serie di combattimenti, riuscì a rompere il blocco che la serrava e a rifornirla di viveri: il conte Landone II riconobbe, in segno di gratitudine, la sovranità di Guido III sulla contea. Ma A. riprese l'iniziativa; ancora una volta bande di Saraceni da lui inviate misero al sacco i domini del principe di Salemo, e gli ipati di Gaeta, stretti a lui da un'alleanza, entrarono in campagna, dal nord, contro il suo avversario Landone II, iniziando la sistematica devastazione della piana del Volturno e servendosi di mercenari arabi arruolati nella colonia del Garigliano, fino a quando non furono fermati da un grave scacco inflitto loro dallo stesso Landone II sotto Teano (886). Ed è in quest'anno che lo stratego di Bari, Teofilatto - forse uno dei primi, se non il primo degli strateghi ordinari in carica -, mandò, per preparare il terreno alla sua campagna dell'anno seguente, rinforzi di truppa al contingente bizantino che operava nel settore di Capua accanto ai reparti napoletani; insieme ai rinforzi era il candidato Ioannicio, che doveva sostituire nel comando Chasan richiamato a Costantinopoli. A. si servì di questi rinforzi di truppa fresca per scatenare contro Capua una nuova offensiva nel corso della quale fu occupata Suessa e venne liberato dalla prigionia, in cui lo tenevano i cugini, l'antico conte di Capua, Pandenulfo; quindi, attestatisi sul monte Tifata presso Sicopoli, i Napoletani e gli alleati corsero devastando la Campania sino a Teano.
I maneggi di A. per fomentare in Capua dissidi interni avevano intanto cominciato a dare i loro frutti. Fallitagli una congiura per diventare unico signore della contea con l'aiuto militare del gastaldo spoletino dei Marsi (886), Atenolfo, uno dei fratelli del conte Landone II, intavolò trattative con A., per avere da lui appoggio e protezione; il vescovo e duca la concesse ed Atenolfo si impegnò con giuramento a riconoscere, quando si fosse impadronito del potere, l'alta savranità del duca su Capua ed il suo possesso sulla Liburia. Atenolfo promise anche di adoperarsi presso Guido III di Spoleto perché facesse pace e stringesse alleanza con A., cui dette un figliolo in ostaggio. Così tra la fine dell'886 e gli inizi dell'887, Atenolfo sbalzò dal trono ed espulse dalla contea, con l'aiuto delle armi napoletane, Landone II insieme ai fratelli e cugini, che ripararono a Salerno. A. trattenne l'ostaggio sino a quando il nuovo conte riconosciuto tale il 7 genn. 887 non ebbe accettato il "trattato gallica": non sappiamo di che si tratti, forse come pensa lo Schipa, è l'accordo stipulato da A. con Guido III di Spoleto. Per un anno e tre mesi A. rimase in pace con Atenolfo tenendolo sotto la sua tutela e approfittandone per riprendere con nuovo vigore la guerra contro Salerno; la piazzaforte di Avella cadde in sua mano e così pure Suessula.
Ma Atenolfo si affrettava ad inviare un'ambasceria al papa Stefano V, il quale rivendicava sulla Campania gli stessi diritti di Giovanni VIII, per dichiarargli che riconosceva la sovranità della Chiesa di Roma sul suo stato e per promettergli che avrebbe liberato i soldati gaetani da lui tenuti prigionieri, contro il diritto, e che avrebbe prestato il proprio aiuto contro gli Arabi del Garigliano (lo Hartmann, Geschichte, III, 2, p. 152, pone tale ambasceria prima dell'atto di sottomissione di Atenolfo al vescovo e duca di Napoli).
Se questa legazione al pontefice fu la causa, dopo poco più di un anno, della rottura fra Capua e Napoli, non sappiamo; come non sappiamo se lo furono le trattative segrete, che certamente dovettero intercorrere tra Aione di Benevento ed Atenolfo, per tutto questo tempo. Certo è che Atenolfo nei primi mesi dell'888 dovette reprimere un tentativo di rivolta compiuto dai suoi congiunti, e nello stesso tempo si vide costretto a fronteggiare A., il quale, rotto l'accordo nell'aprile, aveva lanciato ancora una volta il suo esercito in selvagge devastazioni contro il territorio capuano, non solo, ma, allargando il suo raggio d'azione, anche contro le terre beneventane.
A., però, era sconfitto sotto S. Carzio, in territorio di Aversa, e perdeva, nel giugno dell'888 anche la fortezza di S. Maria Capuavetere.
Poco sappiamo degli ultimi anni di A.: la parte da lui avuta nella congiura che avrebbe dovuto rovesciare Guaimario I ed il suo figlio e correggente Guaimario II, e che fu soffocata nel sangue; il matrimonio di sua figlia Gemma col conte di Capua, Atenolfo, matrimonio che avrebbe dovuto consacrare la pace tra i due stati (primi mesi dell'898); la notizia di una guerriglia continua, solo interrotta da brevissime tregue, subito violate dall'una o dall'altra parte, del ducato di Napoli contro i limitrofi stati longobardi. Certo il bisogno di pace era grande quando morì il duca e vescovo di Napoli, nel marzo o nell'aprile dell'898.
Innalzato dalla violenza alla potestà ducale, A. aveva messo fine all'intemo del ducato napoletano ai continui conflitti del potere civile con quello religioso: signore assoluto, suprema autorità spirituale e temporale della città, il suo lungo governo aveva dato al ducato di Napoli una nuova potenza. Alleato dei musulmani, in apparenza indifferente alle scomuniche della Sede apostolica, non si accontentò di tener testa ai Longobardi di Capua, rivali secolari, ma li tenne sotto la continua minaccia delle sue armi cercando di inglobarne il territorio; ma estese il suo raggio d'azione sino a Benevento, a Salerno, in Calabria, sino a divenire una delle maggiori potenze del meridione. Avvicinatosi ai Bizantini quando le circostanze lo vollero, non cercò di legarsi più strettamente all'Impero di Oriente: non inviò ambascerie a Costantinopoli; non sollecitò, come i principi longobardi, dignità bizantine. Egli seguì sempre una sua linea politica particolare, che spesso era in contrasto con quella dell'Impero. La colonna della difesa dell'indipendenza da Bisanzio, da Roma, dai Franchi rimase sempre l'alleanza coi musulmani: morto Giovanni VIII (15 dic. 882), tra le lettere dei suoi successori non troviamo accenni ad A., altro che, nell'886, in una lettera di Stefano V ("De Petro etiam"); e da essa si deduce come il vescovo e duca, nonostante le promesse fatte a Giovanni VIII e gli anatemi di quest'ultimo, fosse tomato, dopo l'882, a far alleanza con gli Arabi.
Ma A. non fu soltanto un uomo politico; fu anche uomo di lettere. Sotto il suo ducato si produsse nella Chiesa di Napoli una vera e propria rinascita letteraria che fu soprattutto una rinascita latina. Colto ed istruito nelle lettere greche e latine, tradusse personalmente in un latino elegante gli "Atti della Passione di Sant'Areta e dei suoi compagni"; incoraggiò il principale storico della Chiesa napoletana, Giovanni diacono, a continuare il Liber pontificalis dei vescovi di Napoli, dopo l'avvento di Sergio I sino al suo pontificato. Fece anche scrivere - e l'autore ci è ignoto - una vita del suo zio e predecessore santo Atanasio (I), composta con una cura particolare e con preoccupazioni letterarie; al monaco Guarimpoto fece tradurre, sempre dal greco, le vite di s. Eustratio e dei suoi compagni.
Fonti e Bibl.: Acta Sanctorum, Oct., X, Bruxellis 1861, pp. 715 e 761; Auxilii Libellus in defensione Stephani episcopi, in E. Dümmler, Auxilius und Vulgarius - Quellen und Forschungen zur Geschichte des Papstthums, Leipzig 1866; Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, pp. 249 ss.; Petri Subdiaconi Gesta episcoporum Neapolitanorum, a cura di G. Waitz, ibid., p. 436; Translatio S. Athanasii episcopi Neapolitani, a cura di G. Waitz, ibid., pp. 497 ss.; Chronica S. Benedicti Casinensis, a cura di G. Waitz, ibid., p. 477; Iohannis papae VIII Registrum epistolarum, a cura di E. Caspar, in Mon. Germ. Hist., Epistolarum VII (Karolini aevi V), Berolini 1912, numeri: 34 p. 33, 37 p. 36, 39 p. 38, 41 p. 39, 42 p. 39, 51 p. 48, 76 p. 72 , 77 p. 73, 79 p. 75, 86 p. 81, 167 p. 136, 169 p. 137, 172 p. 139, 176 p. 141, 123-217 pp. 191-194, 222 p. 197, 223 p. 198, 230 p. 204, 246 p. 214, 249 p. 217, 250 p. 218, 256 p. 224, 273 p. 241, 279 p. 246, 305 p. 264; Fragmenta registri Iohannis VIII papae num. 53, a cura di E. Caspar, ibid., p. 306; Chronicon Salernitanum,a cura di U. Westerberg, Stockholm [s.d., ma 1956], pp. 139 ss.; A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli della Mezzana Età, IV, Napoli 1798, pp. 337 ss.; V, ibid. 1797, pp. 1-109 (a p. 109 e s. l'autore dice esser morto A. nel novembre 902); P. Fedele, Il Catalogo dei duchi di Napoli, in Arch. stor. per le prov. napol., XXVIII(1903), pp. 564 s.; J. Gay, L'Italie méridionale et l'empire byzantin..., Paris 1904, pp. 107-148, 238-244; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, III, 2, Gotha 1911, p. 22-152; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia, Bari 1923, passim; M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, seconda edizione... pubblicata con note a cura di C. A. Nallino, Catania 1933, pp. 598 ss.; E. Amann, L'époque carolingienne, Paris 1937, passim; G. Romano-A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia (395-888), Milano [1940], pp. 625-674; C. G. Mor, L'età feudale, I, Milano [s.d., ma 19521, pp. 236 ss.; N. Cilento, I Saraceni nell'Italia meridionale nei secoli IX e X, in Arch. stor. per le prov. napolet., n.s., XXXVIII (1958), pp. 109 ss.; A. Pertusi, Contributi alla storia dei "temi" bizantini dell'Italia meridionale, in Atti del III Congresso Internaz. di studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 1959, pp. 495 ss.