Atene in eta arcaica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia di Atene durante l’età arcaica è poco conosciuta: il primo episodio noto risale solamente alla seconda metà del VII secolo a.C. e anche le vicende successive appaiono focalizzate su alcuni personaggi – il legislatore Solone, il tiranno Pisistrato, l’inventore della democrazia Clistene – la cui realtà storica, pur indubitabile, è spesso difficile a rintracciarsi a causa dell’uso che ne viene fatto durante l’età classica, quando si assiste a un continuo processo di rielaborazione e risemantizzazione di esperienze i cui contorni erano ormai sfumati.
Il rapporto con il passato è sempre stato centrale per le comunità del mondo greco. Testimonianze sporadiche ma di grande fascino certificano l’interesse di talune poleis, già in epoca arcaica, per la memorizzazione di documenti riguardanti la vita comunitaria, con la nomina di funzionari incaricati di tale attività: è il caso, noto per via epigrafica, di una piccola polis dell’isola di Creta, che intorno al 500 a.C. nomina un certo Spensithios come scriba e ricordatore degli affari della città, con regolare compenso e una posizione sociale che appare elevata. Ciò non bastava certo a contrastare l’oblio al quale erano condannati gli avvenimenti piccoli e grandi in culture che, in gran parte, erano ancora orali: vale a dire che, per la trasmissione delle conoscenze, non utilizzavano ancora su vasta scala la scrittura.
Atene, destinata a un eccezionale futuro nell’età classica, non era in questo diversa dalle altre città; ma di diverso ebbe appunto il futuro: l’eccezionale concentrazione di intellettuali – poeti, scrittori, storici, filosofi – che le è propria per il V-IV secolo a.C. fece sì che le scarne notizie tramandate fossero – più che altrove – rielaborate, rivisitate e, perché no, inventate di sana pianta, al servizio di un progetto politico o di una idea teorica. È così che, per i tre secoli dell’età arcaica ateniese, abbiamo un maggior numero di notizie che non per le altre città greche: questo non vuol dire che, in realtà, se ne conosca meglio la storia.
Il primo dato da registrare è quello dell’unificazione dell’Attica, in seguito alla quale i numerosi centri della regione, pur mantenendo una loro identità e gran parte dei loro abitanti, perdono autonomia politica a scapito di Atene, che nel frattempo si ingrandisce e diventa l’unica polis di un territorio molto vasto, se rapportato a quello delle altre comunità.
Gli Ateniesi, sorprendentemente, avevano le idee abbastanza chiare sull’autore di tale processo, di enorme importanza per la storia successiva della città: questi era unanimemente indicato in Teseo, figlio di Egeo, personaggio centrale del mito greco, nonché, secondo la tradizione, re della stessa Atene negli anni intorno al 1250 a.C. Un re miceneo, quindi, e un’unificazione che risalirebbe appunto all’età micenea; la documentazione archeologica, in effetti, ci segnala che Atene fu davvero un centro di qualche importanza durante quel periodo. Teseo si appropria del ruolo di “eroe nazionale” di Atene e di contraltare ionico all’eroe dorico per eccellenza, Eracle: la mitopoiesi dell’età classica non esita a farne non solo il fondatore della città (che peraltro esisteva già ai tempi di suo padre!), ma addirittura il fondatore della stessa democrazia, nonostante il suo ruolo di re con poteri più o meno assoluti.
Ora, anche se qualcuno ha creduto di ravvisare nel mito di Teseo l’indizio di un’effettiva unificazione dell’Attica in età micenea, le fonti archeologiche e le scarne indicazioni tratte dalla letteratura ci inducono a ritenere che il processo di unificazione sia molto più tardo: esso si realizza non prima dell’VIII secolo a.C., se non addirittura nel corso del VII, quindi in piena età arcaica.
Quello di Teseo non è altro che un ennesimo caso di “invenzione della tradizione”, il fenomeno per cui le comunità cercano di proiettare in un passato quanto più lontano possibile l’origine di avvenimenti che in realtà risalgono a periodi molto più recenti.
Il primo avvenimento vero e proprio tramandato per la storia ateniese arcaica è datato al 632 a.C. Ci accingiamo a narrarlo non prima di aver notato come, in effetti, manchi qualsivoglia dato per l’VIII e gran parte del VII secolo. Non sono infatti da prendersi seriamente in considerazione le costruzioni erudite degli storici locali attici di età classica che, con notevole senso della geometria, ricostruivano la storia politica ateniese individuando un periodo monarchico, seguito da un periodo in cui a governare la città furono collegi di magistrati, detti arconti, in carica prima a vita, poi per 10 anni, infine (dal 683 a.C.) annualmente.
Fonti assai autorevoli, dunque – Erodoto, Tucidide, la fondamentale Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, per nominare solo le più importanti –, ci informano che un certo Cilone, giovane aristocratico ateniese di belle speranze, recente vincitore nei giochi olimpici del 640 a.C., effettua un tentativo di prendere il potere in città, instaurando la tirannide. Nonostante l’aiuto del tiranno Teagene di Megara, del quale aveva sposato la figlia, il colpo fallisce miseramente. Cilone e i suoi riescono a occupare l’acropoli, ma vengono subito circondati e assediati. Cilone trova scampo nella fuga, mentre i suoi seguaci si rifugiano presso gli altari degli dèi; subito dopo vengono però trucidati, nonostante la protezione sacra venisse accordata ai supplici.
L’aspetto più interessante di tutta la vicenda è il suo carattere sostanzialmente privato: come Cilone conta sull’appoggio di alcune famiglie aristocratiche ateniesi e, soprattutto, del suocero, tiranno di Megara, così il tentativo viene sventato da un esercito che non è – come potremmo attenderci – quello ateniese, ma una milizia privata raccolta dagli Alcmeonidi, la più famosa e potente tra le famiglie ateniesi, tra i contadini delle loro terre, e guidata dai principali esponenti della famiglia, di cui conosciamo il nome di Megacle.
E la lotta tra famiglie continua anche dopo: gli Alcmeonidi sono infatti accusati, e condannati all’esilio, per il sacrilegio perpetrato uccidendo dei supplici. Il motivo ritornerà in continuazione, fino ad essere evocato persino due secoli dopo dagli Spartani: nell’imminenza dello scoppio della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), infatti, questi “inviarono ambasciatori che esigevano dagli Ateniesi che cacciassero le persone macchiatesi nei confronti della dea” (Tucidide, I 126.2): il riferimento – ovvio – era a Pericle, alcmeonide per parte di madre.
Qualche anno dopo le turbolenze dell’affaire di Cilone (l’anno tradizionalmente indicato è il 624 a.C.), e probabilmente in diretta relazione con quest’ultimo, un certo Dracone, della cui personalità non sappiamo nulla, emana un codice di leggi, destinato a rimanere celebre, del tutto ingiustamente, per la sua severità.
La codificazione scritta delle leggi, per secoli tramandate oralmente all’interno della ristretta cerchia dei capifamiglia aristocratici, è un tema di grande importanza nella società greca arcaica. Più o meno parallelamente a Dracone, città di ambito coloniale come Locri Epizefiri e Catania, con le figure rispettivamente di Zaleuco e Caronda, sperimentano codificazioni non dissimili.
Del codice di Dracone conosciamo solo la legge sull’omicidio, riprodotta su pietra alla fine del V secolo a.C. e giunta per questa via fino a noi. È una legge di grande interesse, che mostra livelli di maturità e di riflessione molto elevati. Per esempio, contiene una articolata distinzione tra l’omicidio volontario e quello che noi chiameremmo preterintenzionale. È plausibile che tale riflessione sia maturata proprio in seguito al livello eccessivo di violenza che le faide tra le famiglie aristocratiche avevano raggiunto nella lotta per il potere.
La società ateniese fra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C. – probabilmente non molto differente da quella di molte altre poleis – è una comunità polarizzata. Poche famiglie detengono gran parte della proprietà fondiaria dell’Attica: non ne conosciamo il numero, ma tutte insieme non devono raggiungere il 20 percento della popolazione, mentre il rimanente 80 percento e oltre è composto di persone costrette a vivere come salariati o affittuari di terre delle quali non detengono la proprietà.
È plausibile che nel corso del VII secolo la situazione sia notevolmente peggiorata: molti piccoli proprietari, obbligati a cedere i loro appezzamenti, vengono addirittura ridotti in schiavitù e venduti all’estero, avendo contratto debiti sulla persona; quelli che resistono conducono una vita precaria, costretti a cedere addirittura i cinque sesti della produzione ai loro padroni. Beneficiari di tale stato di cose sono, in larga misura, i cosiddetti eupatridi (“bennati”), la crème delle famiglie nobili di Atene, poche centinaia di persone riconoscibili da uno stile di vita lussuoso e in possesso ormai di porzioni di terra di enormi dimensioni (tutto è relativo: è stato calcolato che, per appartenere alla ristretta cerchia dei pentacosiomedimni fosse sufficiente possedere un terreno di circa 40 ettari, non propriamente un grande latifondo).
Viene il momento in cui gli stessi ricchi, riuniti nei loro simposi, si rendono conto che la situazione rischia di degenerare; decidono dunque, mostrando notevole intelligenza, di scegliere uno di loro, capace di analizzare lo stato delle cose e in possesso di quello che chiameremmo un programma, perché cerchi di far ritornare la comunità ateniese a un livello accettabile di conflittualità. La scelta cade su Solone, aristocratico tra i più in vista (i successivi aneddoti che lo dipingono come dedito al commercio sono falsi, costruiti come sono in ossequio al mito di una inesistente classe media, alla quale Solone sarebbe dovuto appartenere): noi lo conosciamo – e, in larga misura, conosciamo tutta la storia, che abbiamo cercato di riassumere – grazie alle sue composizioni poetiche, mezzo di comunicazione centrale nella società dell’epoca, che fonti più tarde ci hanno trasmesso, sia pure in forma molto frammentaria.
Solone viene dunque eletto arconte con pieni poteri per l’anno 594 a.C.: la sua è una sorta di tirannide elettiva, conosciuta anche in altre poleis, un ruolo di enorme potere, che non di rado può trasformarsi in una vera e propria tirannide. Ma non è questa la strada che egli vuole percorrere.
Solone, profondamente convinto che la giustizia sociale non passi attraverso l’egualitarismo, ritiene che le differenze sociali debbano rimanere e i ricchi abbiano il diritto di godere dei loro beni, stante la loro superiorità. Solamente, chi ha tali privilegi non deve approfittare della sua posizione comportandosi con arroganza (hybris) e violenza; anzi, proprio perché fortunato, deve avere ben presente la sua responsabilità nei confronti della polis. Solo così può essere preservata l’eunomia, il buon ordine e l’equilibrio della comunità.
Da queste considerazioni discendono alcuni principi rimasti basilari nell’esperienza politica occidentale: il rapporto stretto di causa/effetto tra il comportamento del singolo individuo e la comunità nel suo complesso, la possibilità per gli uomini di risolvere i problemi senza l’intervento divino ma grazie alla correttezza del comportamento dei singoli. Con queste idee, Solone pone mano alla riforma della cosa pubblica. Naturalmente, come accade a molti mediatori, finirà per scontentare sia i suoi pari, sia il demos, che sperava in provvedimenti ben più radicali, quali, soprattutto, la redistribuzione delle terre.
Il principale campo d’intervento di Solone riguarda, com’era logico aspettarsi, il regime della proprietà fondiaria. Vengono aboliti i prestiti sulla persona, e quindi la possibilità per un cittadino ateniese di essere ridotto in schiavitù.
Sono aboliti i debiti di molti cittadini, che possono così recuperare le loro terre non più gravate dai cippi ipotecari: è questo il provvedimento che gli antichi chiamarono seisachteia, “scuotimento dei pesi”, una metafora che bene rappresenta la durezza dei debiti che gravavano sulle spalle di molti ateniesi.
Di altri provvedimenti non è facile dare conto. Tra i più importanti, ma anche tra i più discussi, contiamo un nuovo, completo codice di leggi, la cui lunghezza sembra si dipanasse per non meno di 45 mila caratteri (il calcolo è stato fatto in base alle notizie circostanziate che abbiamo sui supporti lignei sui quali le leggi erano pubblicate ed esposte alla lettura pubblica). Tale corpus riguardava una grande quantità di aspetti del vivere comune: una delle prime leggi – e delle più importanti – afferma che ciascun cittadino che lo desideri (ho boulomenos) può intraprendere un’azione giudiziaria contro chiunque, anche se il procedimento non lo riguarda direttamente.
Solone divide inoltre la popolazione ateniese in quattro classi censitarie, basate non già sulla moneta, che non era ancora apparsa in Grecia, e ad Atene non verrà utilizzata prima di un paio di generazioni, bensì sulla produzione agricola. Pentacosiomedimni, cavalieri, zeugiti e teti sono i nomi delle quattro classi cui corrisponde una produzione di 500, 300, 200 medimni di cereali (1 medimno = 52,5 litri), mentre nell’ultima classe sono inseriti tutti coloro la cui produzione si trovi sotto questa cifra, oltre, ovviamente, a tutti i non possidenti.
Nonostante la fama della riforma, che introduce un regime basato sulla ricchezza e non sulla nascita come elemento discriminante della popolazione ateniese, e nonostante l’indubbio successo del provvedimento, per cui le classi soloniane saranno ancora formalmente esistenti ben due secoli e mezzo dopo, sul declinare dell’età classica, i dubbi sul suo reale significato non mancano. In particolare, sorprende come le prime tre classi indichino tutte e tre (e non solo le prime due, come a volte si è affermato) livelli di ricchezza notevole, tanto che, insieme, non sarebbero riuscite a coprire più del 15-20 percento della popolazione, costringendo il restante 80 percento fra i teti.
Dopo aver messo in pratica il suo complesso e articolato progetto, di cui molti aspetti sollevano pesanti dubbi sulla loro storicità, Solone, applicando un topos comune ai legislatori di ogni tempo, si allontana da Atene, perché i suoi compatrioti possano applicare i suoi provvedimenti senza alcuna interferenza.
Apparentemente, Solone non ottiene alcun successo: le lotte riprendono più virulente di prima, e in capo a una generazione, Atene si afferma la tirannide.
Può quindi, in qualche misura, sorprendere il successo postumo del legislatore, che diviene in età classica, specie a partire dal IV secolo, il vero e proprio padre fondatore della democrazia ateniese, oggetto di indiscussa e indiscutibile venerazione presso ogni uomo politico di qualsiasi fazione e presso il demos nel suo complesso. Solone diviene, in effetti, un mito.
E di un mito, lo si sa, è difficile se non impossibile discernere il vero dal falso. Anche di Solone è problematico distinguere i provvedimenti storicamente attribuibili alla sua opera e quelli che si aggiungono in seguito per un processo irresistibile di attrazione, giustificato dal fatto che qualsiasi disposizione emanata a suo nome godeva di una autorità e di una rispettabilità altrimenti impossibile a raggiungersi.
Dopo una serie di turbolenze che impediscono a lungo il regolare funzionamento della macchina politico-amministrativa di Atene, Pisistrato, un giovane e ambizioso aristocratico, già messosi in luce in precedenza nella guerra che la città aveva intrapreso contro Megara per il possesso dell’isola di Salamina, instaura la tirannide nel 560 a.C. La reazione delle grandi famiglie ateniesi, gli Alcmeonidi in testa, rende il suo potere instabile per vari anni, spesi tra alleanze (Pisistrato sposò la figlia di Megacle, capo del clan alcmeonide) e fughe da Atene. Il trionfale e definitivo rientro, a capo di un esercito privato cui gli Ateniesi oppongono una debole resistenza, avviene nel 546 a.C.; da allora, fino alla morte nel 528 a.C., Pisistrato manterrà stabilmente il potere.
Il giudizio delle fonti sugli anni della tirannide è, sorprendentemente, assai positivo e si pone in armonia con lo sviluppo economico e monumentale dell’Atene del VI secolo a.C., decisamente avviata a diventare una grande potenza nel mondo mediterraneo.
Pisistrato riserva molta attenzione alle esigenze dei contadini attici – si ricorda in particolare l’istituzione di giudici itineranti, che permettevano la risoluzione delle controversie senza che i contadini dovessero recarsi in città – e non sembra alimentare alcuna grave frizione con i cittadini; ci sono persino indizi di rinnovate alleanze con le principali famiglie ateniesi, esponenti delle quali seguitano a ricoprire le principali cariche pubbliche, rimaste anche quelle immutate.
Una sorta di età dell’oro, insomma, che la morte di Pisistrato e l’ascesa al potere, senza alcuna apparente resistenza, del figlio Ippia, coadiuvato dal fratello Ipparco, non sembrano interrompere: il potere della famiglia del tiranno appare tanto poco definito nella forma, quanto solido nella sostanza. L’idillio si interrompe nel 514 a.C., quando Ipparco viene ucciso per motivazioni private e casuali dai giovani aristocratici Armodio e Aristogitone, che la bizzarria della storia esalterà poi come i tirannicidi per eccellenza. Ippia continua a governare ancora per tre anni, resistendo ai sempre più convinti tentativi di deporlo, guidati dai soliti Alcmeonidi. Nel 511 a.C., finalmente, l’intervento del re spartano Cleomene in persona decide le sorti di Ippia che, dopo una ulteriore, breve resistenza, lascia la città: il suo esilio definitivo sarà in Persia, alla corte del Gran Re.
Seguono anni convulsi. Il contesto, di fatto, è di guerra civile, anche se, alla fine, se ne eviteranno le conseguenze più terribili. Schematizzando una situazione assai confusa, troviamo da una parte Isagora, aristocratico amico personale del re spartano Cleomene, convinto di poter dare alla città un assetto oligarchico, inserendola nell’orbita spartana; dall’altra emerge invece la figura di Clistene, alcmeonide, grande aristocratico, ben provvisto di legami con l’oracolo di Delfi e con molti suoi pari in altre poleis.
In un’espressione memorabile, Erodoto (V 66.2) ci informa che Clistene, per bilanciare l’appoggio spartano di cui gode Isagora, “prosetairizetai ton demon”, letteralmente “aggiunse il popolo alla sua eteria”, espressione curiosa (le eterie sono piccole strutture organizzate di aristocratici) ma carica di significato: nella pratica, dovrebbe voler dire che egli porta direttamente in assemblea la proposta di un nuovo assetto politico-istituzionale, che viene approvato dal popolo saltando il consenso dell’élite dirigente, in primo luogo dello stesso Isagora, che era stato eletto arconte per l’anno 508 a.C.
La reazione di Isagora è dura: chiamato Cleomene, procede a una vera e propria “pulizia” della città, esiliando ben 700 famiglie (un numero impressionante, che ha pochi paragoni con altre liste di proscrizione), tra le quali, ovviamente, quella di Clistene. La reazione popolare è però rapida, violenta ed efficace: Isagora e lo stesso Cleomene si trovano, come Ippia tre anni prima, asserragliati sull’acropoli, e preferiscono arrendersi pur di potersi allontanare dalla città. Segue l’immediato ritorno di Clistene e, nel corso dell’anno successivo, il 508 a.C. (ma è probabile che il tutto abbia richiesto più tempo), il varo della tanto celebre riforma costituzionale.
L’Atene di Clistene, in primo luogo, esalta il continuum tra città e campagna, tra il grande centro abitato, Atene, e i numerosissimi villaggi e insediamenti dell’Attica (chiamati demi; lo stesso nome valeva per le divisioni della stessa Atene, equivalenti più o meno a quartieri), abolendo qualsiasi differenza e qualsiasi privilegio degli abitanti della città, se non quello, ineludibile, di vivere più vicino ai luoghi di riunione degli organi politici. Clistene realizza questo scopo valorizzando i 139 demi dell’Attica, dotandoli di una sorta di autogoverno e, soprattutto, di una rappresentanza nel nuovo Consiglio dei Cinquecento, organo fondamentale della neonata costituzione. Tale rappresentanza è proporzionale alle dimensioni demografiche del demo: così, mentre un quarto circa dei demi invia un solo rappresentante, il demo di Acarne – più grande di tante poleis indipendenti ne invia ben 22. Fatto forse ancora più importante, i cittadini sono destinati da allora in poi a essere ufficialmente designati con il proprio nome e il demotico, vale a dire il nome del demo in cui sono iscritti come cittadini (che non corrisponde necessariamente al demo di residenza).
I demi, certamente preesistenti alla riforma (anche se qualche aggiustamento viene sicuramente fatto), sono poi inseriti in una vecchia struttura, profondamente rinnovata: la tribù. Vengono istituite non più quattro, come in precedenza, ma 10 tribù; ciascuna tribù è costituita da tre parti non contigue: una parte del centro abitato di Atene e degli immediati dintorni, una parte della costa dell’Attica, una parte dell’interno. Ciascuna di queste parti, chiamata trittia, è un’entità di fatto astratta, utile solo a mescolare i membri di ciascuna tribù, un risultato che non sarebbe stato possibile dividendo semplicemente l’Attica in 10 zone e individuando per ciascuna zona una tribù. Le tribù mantengono un’importanza fondamentale come divisioni amministrative (per esempio ciascuna funzione pubblica sarà affidata a un collegio di 10 membri, uno per ciascuna tribù) e come strutture organizzative dell’esercito.
Clistene innova, certo, ma non distrugge le strutture preesistenti; da una parte tali strutture sono embrionali, dall’altra egli tende a mantenerle e a integrarle nella nuova struttura. Abbiamo già visto i demi; potremmo citare, per esempio, anche le antiche fratrie, gruppi a carattere religioso che mantengono la funzione di organizzare i momenti fondamentali – nascita, matrimonio e morte – di ciascun cittadino. Clistene – è stato detto – “si inserisce in una tradizione di continuo cambiamento e adattamento dell’ordine politico che è in un certo senso tipica della polis greca, nella quale gli equilibri dati sono rielaborati e rifunzionalizzati con frequenza e il vecchio diventa ingrediente del nuovo. Tradizione e storia non frenano l’evoluzione, e non ne vengono obliterate. Risiede in questo particolare intreccio un tratto caratteristico del mondo greco arcaico-classico, audacemente innovativo e profondamente tradizionale al tempo stesso” (Maurizio Giangiulio).