ATENE (gr. 'Αϑῆναι; per il nome, che è incerto se sia greco o preellenico, e per le sue relazioni con quello della dea Atena, v. atena; A. T., 82-83)
Capitale della repubblica greca, di cui è anche la città più grande e popolosa. È situata al centro di una pianura limitata ad E., a N. e ad O. da una cerchia di monti: Imetto o Trellovoũni (m. 1026), Pentelico o Mendéli (m. 1109), Parnete (m. 1413), catena del Pecile o Zakharítsa (m. 453), Egialeo (m. 468); a S. e a SO. dal mare (Golfo di Egina).
La pianura è tagliata in due parti, orientale e occidentale, dalle colline del Turkovoũni (m. 338), Licabetto (m. 227), Acropoli (m. 156), ad O. della quale è la collina dell'Areopago (m. 115); dietro, il colle delle Ninfe (m. 148), e a SO., le colline del Filopappo o Mouseion (m. 147) e della Pnice (m. 109). Nella pianura sorgono pure le basse colline dell'Ardetto (m. 133), Colono (m. 56), Sikelia (m. 78) e Kastella (m. 87).
La città, che nel 1834 era una piccola borgata di circa 300 case sul versante N. dell'Acropoli, abitata da Greci e da Albanesi, dopo la costituzione dello stato greco e specialmente in questi ultimi anni ha avuto un grande sviluppo demografico e topografico. Oggi essa giunge ad E. e a SE. fino alle pendici dell'Imetto con i sobborghi di Pankrati, Byron, Elioupoli; a NO. giunge a le pendici del Turkovoũni, col sobborgo di Psykhikó; a N. ha raggiunto la maggiore esténsione col sobborgo di Nuova Ionia; mentre a O. la sua estensione è poco notevole, a SO. tende ad unirsi al Pireo e a S., col sobborgo di Kallithea giunge quasi al Falero. Si calcola che la superficie di Atene sia di circa 44 kmq. L'ampliamento della citta non si è svolto in maniera uniforme. Quando fu stabilita in Atene la capitale della Grecia, si pensò di costruire la città tra il Pireo e l'Acropoli, ma questo progetto fu abbandonato per il prevalere d'interessi diversi, e così pure non ebbe effetto l'altro progetto di lasciar liberi i luoghi dove sorgeva l'antica Atene; invece si costruirono le prime case e i primi edifizî pubblici proprio nei vecchi quartieri, sicché questa parte della città è piena di piccole vie strette e sinuose. Diverso è l'aspetto dei quartieri nuovi. Il piano attuale ha come base, non come centro, l'Acropoli, dalle cui pendici partono verso nord due vie, quella di Eolo (lunga 1000 m. larga 8-10 m.) e la via di Atena (lunga 800 m. larga 20); alla fine di essa è la piazza della Concordia, dove convergono la via del Pireo, la via dello Stadio, con la sua parallela via dell'Università, le due principali arterie della nuova Atene, ed altre minori. All'inizio della via dello Stadio è la piazza della Costituzione. Il numero delle vie è di 1465, con una lunghezza complessiva di 500 km. Le case sono a due o tre piani; di solito sono dipinte in bianco, coperte di tegoli o terrazze e hanno pianta uniformemente quadrata. Negli ultimi anni però, dato l'elevato costo dei terreni, sono sorte costruzioni molto grandi a imitazione di quelle delle altre città europee.
La popolazione, che nel 1853 era di 30.590 abitanti, raggiunse nel 1921 il numero di 305.870; nel 1928, computati gli aumenti naturali di popolazione e i profughi dell'Asia Minore, che sono giunti in Grecia in base al trattato tra la Grecia e la Turchia, la popolazione di Atene risultò di 452.000 ab.; con i sobborghi (Pireo, Nuova Ionia, Kokkinia, Byron, Nuova Smirne ecc.), raggiunge un milione di abitanti.
Poiché la pianura attica è al centro tra il Peloponneso, la Beozia e l'Eubea, Atene, che dista solo 5 km. dal mare, è per la sua posizione geografica al punto di partenza di tre grandi vie commerciali: la via che, per lo stretto dell'Eubea, è diretta all'Egeo settentrionale, alla Tracia e quindi al Bosforo e Mar Nero; quella terrestre di Corinto e, in ultimo, quella che attraversa le Cicladi e le altre isole dell'Egeo e mena all'Asia Minore e alla Siria.
Nell'antichità il porto di Atene fu dapprima la baia del Falero, intorno alla quale sorge ora un grosso villaggio, poi, dall'età temistoclea, il Pireo (v.). Esso è unito alla città da due vie, l'una diretta e l'altra che passa per il Falero, e dalla ferrovia elettrica Atene-Pireo, lunga 10 km. Da Atene partono le due linee ferroviarie principali della Grecia: la linea del Peloponneso e quella di Salonicco, che si raccorda alla grande linea europea Belgrado-Milano-Losanna-Parigi. A queste due linee è da aggiungere quella dell'Attica, che congiunge la città alle miniere del Laurio (scartamento di 1 m.). Oltre che con queste linee ferroviarie, Atene comunica col resto della Grecia per mezzo di arterie naturali: il passo fra l'Imetto e il Pentelico la mette in comunicazione con la pianura di Maratona; per quello tra il Pentelico e il Parnete comunica con la Beozia; per quello tra il Parnete e il Pecile, con la pianura di Eleusi; per quello della gola di Daphní passa la grande via nazionale Atene-Corinto.
La mancanza d'acqua è stata fin dal tempo antico uno dei problemi più gravi per Atene. La città riceve l'acqua per mezzo dell'acquedotto iniziato da Adriano e finito da Antonino Pio, lungo circa 20 km. e per altri minori. Per i bisogni della popolazione enormemente cresciuta è in costruzione nella pianura di Maratona un grande lago artificiale, destinato a raccogliere le acque del Parnete e dei monti circostanti, che serviranno per Atene e per il Pireo.
La mancanza d'acqua, il suolo arido e roccioso (il sottosuolo della città nello strato superiore è formato in genere da roccia calcarea che spesso affiora sul terreno), sono poco favorevoli alla vegetazione; pure negli immediati dintorni della città cresce, oltre alla vigna, l'olivo, e un bosco di olivi circonda Atene nel lato di nord-ovest. Nella città (pendici del Licabetto) e intorno ad essa non mancano boschi di platani, cipressi e in special modo di pini.
Atene, situata alla latitudine di 37° 28′ 13″, 69 N. (Partenone), ha clima mediterraneo, con notevoli escursioni annue. La temperatura media è di 17°,7 (temperatura media del gennaio, 8°,6; del luglio 27°,3). La differenza però tra le temperature medie estreme finora osservate è di circa 40° (+ 38°,1; − 2°,1). Scarse sono l'umidità e le piogge (media annuale 393 mm.) molto inegualmente distribuite; rara e non persistente è la neve (in media 5 0 6 giorni all'anno). La città è molto esposta ai venti: predominano quelli del nord nei mesi da novembre a febbraio e da luglio a settembre; nei mesi di aprile, maggio, giugno predominano quelli del sud; in marzo e ottobre spirano quasi ugualmente gli uni e gli altri.
Bibl.: Neumann e Partsch, Physikalische Geographie von Griechenland, Berlino 1885; Νουκάχης, 'Ελληνικὴ Χωρογραϕία, 3ª ed., Atene 1901; Judeich, Topographie von Athen, Monaco 1905, pp. 40-48; Lhéritier, La nouvelle Athènes, Parigi 1921; Μεγάλη ‛Ελληνικὴ 'Εγκυκλοπαιδεῖα, II, Atene 1926-27, pp. 30-289; Εγκυκλοπαιδικὸν λεξικὸν 'Ελενϑερουδάκη, I, p. 315 segg.; Eginitis, Le climat d'Athènes, in Ann. Obser. d'Athènes, 1897; E. Hönigsberg, Athen, in Mitteil. d. geogr. Gesellschaft in Wien, LXXI (1928), pp. 123-46.
L'età antica. - Sviluppo topografico. - Secondo l'espressione pittoresca usata in un responso delfico (Herod., VII, 140), Atene era πόλις τροχοειδής, cioè aveva l'aspetto di una ruota: infatti ne appariva mozzo l'Acropoli (v.). Tuttavia, intorno a questo stabile punto, costituito dalla roccia del suo maggior santuario, la città si sviluppò a seconda delle epoche in diverse direzioni e con diversa estensione.
O perche gli strati più antichi sono andati distrutti nei rimaneggiamenti delle epoche posteriori, o perché essi sono ancora sfuggiti al casuale ritrovamento e alla sistematica esplorazione, non si può intravvedere se l'abitato eneolitico dell'Acropoli si estendesse al di là della sua pendice meridionale, e avesse riscontro in altri agglomerati umani delle immediate vicinanze, e quanto al di là dell'Acropoli scendesse in età micenea la città aggruppata intorno alla cinta del muro pelasgico. Nell'ultimo periodo miceneo (1100-900 a. C.) questa città doveva essere sufficentemente estesa, a giudicare dalle tombe più profonde e più antiche del suo cimitero, che è stato scoperto là dove in età storica sorse il Dipylon cioè la "porta doppia" della città, a nord-ovest dell'Acropoli, in una contrada che doveva essere già allora uno dei nodi importanti di comunicazione.
Egualmente distesa nella stessa regione della città micenea doveva essere la città del periodo geometrico (900-700 a. C.), perché le sue tombe si erano sovrapposte alle precedenti nella medesima contrada del Dipylon. Dapprima il mutamento del rito funerario, dall'inumazione alla cremazione, poi la coesistenza di ambedue i riti forse provano l'intrusione d'un nuovo elemento etnico o almeno l'influenza d'un nuovo tipo di civiltà: tuttavia è difficile dire sino a qual punto si nasconda un nucleo di verità storica nella tradizione raccolta e rielaborata da Ecateo e conservata da Erodoto (VI, 137), che i Pelasgi, cioè la popolazione pregreca, avessero abitato, nelle immediate vicinanze di Atene, le pendici dell'Imetto.
Con verosimiglianza l'abitato di questa città di tardo periodo miceneo e di periodo geometrico si può pensare sulle colline delle Ninfe, della Pnice, dell'Areopago, del Museo, dove i tagli fatti nella roccia per le fondamenta degli edifici attestano dell'esistenza di un fitto caseggiato. Per quanto la semplicità del lavoro nella roccia per lo più non porti con sé chiara indica2ione dell'età in cui fu compiuto, è tanto più probabile che questo abitato appartenga al tardo periodo miceneo e al periodo geometrico in quanto che in età classica la maggior parte delle pendici di queste colline, anzi le loro pendici più salubri e più solatie, quelle di sud e di ovest, rimasero tagliate fuori dalla cinta della città.
Non soltanto la maggiore salubrità della contrada e la preferenza per la casa sulla collina, che può, salendo più in alto, non vedersi sottratta aria e luce dalla casa del vicino, debbono avere determinato lo sviluppo della più antica Atene in questa direzione, ma deve avervi contribuito in notevole misura la maggiore vicinanza al mare. Infatti di qua era l'accesso più diretto e più breve alla baia del Falero e ai due porti di Munichia e di Zea, che si aprono sulla costa di sud-est dell'Acte, cioè del promontorio del Pireo.
Come la felice posizione e l'adatta struttura hanno determinato la sorte dell'Acropoli, cioè hanno fatto di Atene il demo accentratore e dominatore di tutta la pianura circostante, così analoghe condizioni naturali hanno regolato lo sviluppo della più antica città in questa direzione. Si aggiunga, come una delle non ultime cause determinanti la presenza a SE. dell'Acropoli dell'unica fonte di Atene, della Callirroe. Nonostante ogni tentativo fatto in diverso senso per rintracciarla altrove, a occidente dell'Acropoli, sulla via che conduceva verso l'Agorà, cioè verso il mercato della città, dobbiamo riconoscerla presso l'Ilisso, dove la pongono le notizie letterarie antiche, sull'ultima ondulazione dell'Imetto verso la pianura ateniese, presso la moderna chiesa di santa Phōteine, dove ancor oggi sgorga l'unica fonte di Atene.
A queste ragioni naturali e a queste vestigia archeologiche, che indicano la posizione della più antica Atene a ovest e a sud dell'Acropoli, si aggiunge una notizia storica fondata sulla tradizione. Riferendosi al sinecismo di Teseo, che avrebbe disciolto i consigli e le magistrature degli altri demi dell'Attica e avrebbe raccolto tutto il governo in una sola città, costituendo un solo Bouleuterion e un solo Pritaneo (cfr. Plut., Thes., 24), Tucidide ricorda (II, 15, 3 segg.) che prima di Teseo la città era costituita dall'Acropoli e dalla contrada sotto di essa che si estende soprattutto verso mezzogiorno. E ne addita la prova nel fatto che i santuarî sono sull'Acropoli e che quelli che sono fuori di essa si trovano appunto in questa parte della città: ricorda i santuarî di Zeus Olimpio, di Apollo Pizio, di Ge, di Dioniso ἐν Λίμναις. Ora il tempio di Zeus Olimpio è a sud-est dell'Acropoli e nelle sue immediate vicinanze erano i santuarî di Apollo Pizio e di Ge Olimpia; è evidente quindi che Tucidide considerava come parte a sud dell'Acropoli la contrada che in quella direzione si estende a ventaglio fra le sue due estremità di est e di ovest.
Ma il sinecismo di Teseo o, se si vuole, storicamente, la sempre crescente gravitazione verso Atene dei centri minori dell'Attica, dovette ben presto, nei secoli tra il periodo geometrico e il periodo classico (700-500 a. C.), determinare la formazione di un centro di vita, particolarmente di vita civile ed economica, a NO. dell'Acropoli, là dove venivano a convergere, nel punto dove poi fu costruito il Dipylon, le vie di accesso dei tre passi aperti dell'Attica, quello tra l'Imetto e il Pentelico, quello tra il Pentelico e il Parnete e quello che traversava l'Egaleo. Qui meglio che altrove Atene poteva raccogliere le derrate che essa non poteva produrre nella sua limitata pianura e che le venivano portate dal contado, e qui essa poteva offrire al contado i suoi manufatti, in modo particolare la ceramica. Si aggiunga che al commercio cittadino, diversamente che all'abitazione, era più propizia la pianura che la collina: per questo l'Agorà si costituì a NO. dell'Acropoli, nell'ampia pianura che si estende sotto l'ultima bassa collina dove sorse in appresso il tempio di Efesto e, pure tenendo di mira l'Acropoli a cui le vie più brevi giungevano passando o sotto l'Areopago o tra la Pnice e l'Areopago, ebbe tendenza ad ampliarsi e spostarsi sempre in direzione da ovest ad est, cioè lasciando di lato, a sud, l'Acropoli stessa. E siccome la vita cittadina quotidiana gravitava verso l'Agorà i quartieri di abitazione, specialmente i quartieri più poveri, si estesero a nord di essa.
Nel sec. V a. C. un nuovo elemento della vita civile e storica di Atene rafforzò questa posizione del quartiere del mercato: dopo le vittorie sui Persiani la politica navale di Temistocle, per la quale non erano più sufficienti i piccoli porti di Munichia e di Zea, fece del Pireo il maggior porto d'Atene. La sua più diretta via di accesso alla città cadeva appunto sull'Agorà: era così stabilita anche la comunicazione diretta tra il mare e il contado, che invece era rimasta impedita dal diaframma dell'Acropoli fino a che approdo principale per Atene era stata la baia del Falero. Certo in questo periodo si iniziò l'abbandono di quel quartiere delle colline ad ovest e a sud-ovest dell'Acropoli che invece era stato il più antico d'Atene. E lo sviluppo della città rimase stabilmente attratto a nord dell'Acropoli.
Tali rimasero le condizioni di Atene sino al sec. I a. C. Non esiste notizia che sia mai intervenuta nello sviluppo della citta una regolamentazione per il taglio delle strade, per la disposizione delle case, per la prospettiva degli edifici pubblici. Mentre Ippodamo di Mileto segnava il piano della vicina città del Pireo, mentre nella penisola greca e sulle coste dell'Asia Minore le città di nuova fondazione o le ricostruzioni di antiche città si compievano secondo leggi d'arte dettate dall'estetica e dall'igiene, la vecchia Atene, pur con tutta la sontuosità dei suoi monumenti pubblici, continuava a rimanere nei suoi quartieri di abitazione una città mal tagliata e mal costruita. Un frammento di descrizione d'Atene della metà del sec. III a. C., che si crede appartenga all'opera di Eraclide Critico intorno alle città della Grecia, ne ricorda, accanto ai monumenti pubblici insigni, la modestia delle abitazioni private e le strade irregolari e polverose (Frag. Hist. Graec., II, p. 231).
La rinascita monumentale di Atene in età romana, particolarmente per opera di Adriano e, nei decennî seguenti, anche per opera di Erode Attico, continuò a prediligere la contrada a nord dell'Acropoli, ma spostandosi da ovest verso est fuori dei confini dell'Agorà di periodo greco: là infatti Adriano collocò la sua biblioteca e il suo ginnasio. A questa attività edilizia di Adriano si deve la costruzione di un nuovo quartiere così ampio da apparire una città, Hadrianoupolis o la Nuova Atene, ed essa (secondo il costume romano città di case spaziose e di ville), superò nel suo movimento verso oriente anche la linea dell'Acropoli e in direzione di sud-est salì verso le ultime pendici dell'Imetto. Il tempio di Zeus Olimpio portato a compimento da Adriano dovette costituire quasi il centro sacro di questa nuova Atene e la porta di Adriano ne segnava la linea di confine. L'Atene del periodo romano, in cerca d'aria e di luce per le esigenze più moderne dei suoi abitatori, veniva a riaffacciarsi verso quella contrada a mezzogiorno dell'Acropoli, in cui era nata l'Atene più antica di periodo miceneo. E così nel suo sviluppo storico la città realmente si chiude come ruota intorno al mozzo dell'Acropoli, e appare ruota messa in movimento nel tempo dalle condizioni naturali dei luoghi, dalle esigenze della vita civile, dagl'impulsi della vita politica.
Successione storica dei monumenti. - Nello sviluppo monumentale di una città v'è un fattore che spesso supera tutti gli altri: è questo la volontà dei governanti. Naturalmente essa è per lo più espressione della potenza politica della città stessa. Per questo la sorte edilizia di Atene è dominata, al pari di quella dell'Acropoli, dall'opera dei suoi cittadini maggiori, di Pisistrato, di Temistocle, di Cimone, di Pericle, di Licurgo e poi da quella dei principi ellenistici e degl'imperatori romani.
Certo già dal periodo geometrico a tutta l'età di Solone, la costituzione politica della città e la sua vita religiosa richiesero edifici pubblici, templi, altari, ma per la maggior parte di essi conosciamo poco più del nome: questo vale per il Pritaneo, cioè per l'edificio della più alta magistratura della città, dov'era il focolare sacro dello stato, e dove risiedeva l'arconte eponimo, per il Boukoleion, dove pose la sua sede l'arconte basileus, per l'Epilykeion, dove la pose l'arconte polemarchos, per il Bouleuterion, cioè per il luogo di adunanza del consiglio, per la Heliaia, il luogo di adunanza del maggior tribunale, per il recinto del Bouzygion, nel quale sarebbero stati per la prima volta aggiogati i buoi all'aratro, per quello del Leokorion, che era stato forse fondato per una purificazione espiatoria del popolo.
Ma un vero carattere monumentale cominciarono a darlo alla città Pisistrato e i Pisistratidi. Quale coronamento dei grandi lavori idraulici per cui Atene fu provvista di una ricca rete di canalizzazione sotterranea, soprattutto nella parte meridionale della città, fu costruita la mostra della Callirroe, e ne furono distribuite per nove bocche le sue acque, sicché all'edificio fu applicato il nome di Enneakrounos. Anche se l'opera non fu portata a compimento, furono poste le fondamenta del tempio di Zeus Olimpio in proporzioni tali da vincere ogni tempio della città.
Sotto Pisistrato o sotto i suoi figliuoli dev'essere cominciato il lavoro della rete stradale dell'Attica, anche se solo al nipote Pisistrato il giovane toccò in sorte, durante il suo arcontato negli ultimi decennî del sec. VI a. C., di dedicare nell'Agorà l'altare dei dodici dei, che fu adibito a miliario centrale. L'ordinamento delle grandi Dionisie portò con sé certamente la prima costruzione stabile dello spazio per la danza del coro, cioè dell'orchestra, che trovavasi nell'Agorà.
La nuova democrazia ateniese fondata da Clistene mirò pur essa, tra gli ultimi anni del sec. VI a. C. e i primi decennî del V, ad arricchire la città di nuovi monumenti anche al fine politico di vincere il passato ancora evidente nelle sontuose costruzioni dei Pisistratidi. Già di per sé la riforma politica richiedeva nuovi edifici e nuovi impianti: accanto all'antico Bouleuterion fu elevata la Tholos, la sede per il consiglio dei pritani, sulla collina della Pnice fu ordinato il luogo per l'assemblea popolare.
Atene era sulla via di un nuovo sviluppo, specie per i progetti di Temistocle e per le opere da lui iniziate, quando nel 480 e nel 479 a. C., sulla città si abbatté la furia persiana; la parte bassa della città ebbe a soffrirne non meno dell'Acropoli. Con un'immensa rovina si chiudeva così la sorte monumentale della più antica Atene, ma si determinavano le condizioni per una più splendida rinascita: sorgeva dalle fondamenta l'Atene del periodo classico.
Il primo pensiero di Temistocle fu di porre Atene in condizioni di difendersi da un temuto ritomo dei Persiani: tra il 479 e il 478, in gran fretta, fece costruire il nuovo giro di mura della città, traendo il materiale anche da monumenti pubblici e privati caduti in rovina e che venivano a trovarsi presso il tracciato delle mura. Ma per preparare Atene a difendersi, oltre che in terra, per mare, mise in esecuzione un suo progetto precedente (493-492 a. C.), quello di fare del Pireo il porto di Atene, e di chiuderlo quindi in un unico sistema di difesa con la città. L'opera peraltro fu portata a compimento più tardi, nell'età di Pericle.
Questi lavori necessarî di difesa lasciarono a Temistocle scarse possibilità per costruzioni sacre o di abbellimento: si sa di un santuario di Artemide Aristoboule che egli avrebbe fondato presso la sua abitazione nel quartiere di Melite (Plut., Them., 22,1), ma per lo più furono soltanto riattati i templi che non erano andati completamente distrutti nell'incendio e nel saccheggio persiano. E neanche sembra che sia stato preparato un piano organico di ricostruzione della città: gli Ateniesi ritornarono alle loro antiche modeste abitazioni o ne ricostruirono altre egualmente modeste nei luoghi stessi di quelle distrutte.
L'opera di abbellimento della città poté iniziarla Cimone. Dopo la presa di Eione (476 a. C.) egli forse costruì nell'Agorà il portico delle Erme. Un altro ornamento ricevette l'Agorà per opera di Pisianatte, cognato di Cimone: il portico che dalle pitture di Polignoto, Micone e Paneno, fu denominato "Variopinto" (στοὰ ποικίλη). Questi stessi pittori ornarono un recinto che egualmente fu abbellito per opera diretta o indiretta di Cimone, il Theseion. E a Cimone l'Agorà dovette la sua bella piantagione di platani come l'Accademia dovette la sua disposizione a parco.
Ma il compito maggiore toccò felicemente in sorte a Pericle. Questi mirò sia alla difesa sia all'abbellimento della città. Egli condusse a termine il piano di Temistocle di chiudere la città e il Pireo in un'unica grande fortificazione: è vero che col tempo si era spostata la mira di difesa, poiché sparito il pericolo persiano si guardava al pericolo spartano. Già questo riallacciamento era stato iniziato tra il 461 e il 456 a. C. con la costruzione delle prime due lunghe mura. Erano stati allora costruiti il muro settentrionale e quello che era detto Falereo perché giungeva all'angolo della penisola del Pireo volto verso la baia del Falero. Verso il 445 a. C. sotto la direzione dell'architetto Callicrate fu aggiunto il terzo lungo muro, quello mediano, che più tardi fu designato come meridionale, dopa la rapida distruzione di quello Falereo. Pericle completò anche i nuovi impianti portuali del Pireo (banchine, magazzini, ricoveri per le navi, arsenali) che dovevano farne il porto commerciale e il porto militare della città, e quest'opera in parte fu eseguita dall'architetto Ippodamo. Solo i ricoveri per le navi costarono mille talenti corrispondenti a circa 25.000.000 di lire odierne (v. arsenale).
L'opera di abbellimento fu soprattutto rivolta all'Acropoli (v.) che assunse allora col Partenone, con i Propilei, e poco più tardi con l'Eretteo e col tempio di Atena Nike, l'aspetto che l'ha resa gloriosa nei secoli, ma monumenti grandiosi ricevette anche la parte bassa della città. Il Kolonos Agoraios, cioè la collina che sovrasta l'Agorà verso occidente, divenne piedistallo del tempio di Efesto, erratamente ora denominato Theseion. E oltre a una serie di edifici di utilità pubblica (palestre, bagni) a Pericle si attribuisce il primo impianto del Liceo, ginnasio stabilito nel recinto di Apollo Liceo. Atene era considerata allora una delle città più fiorenti e più popolose (Thuc., II. 64,3; Xenoph., Hell., II, 3, 24).
Sopravvennero poi gli anni sfortunati della guerra del Peloponneso: anche se nei brevi intervalli di calma e dopo le effimere vittorie furono portate a compimento nell'Acropoli e nella restante città, per impulso di Alcibiade, opere che erano state iniziate nell'età di Pericle, e altre ne sorsero per la munificenza di privati cittadini; anche se i monumenti, dentro le salde fortificazioni della città, non ebbero a soffrire per le incursioni spartane che giunsero fin sotto le mura di Atene, si arresta da questo momento per lungo tempo quel fervore di costruzioni che dentro cinquanta anni, dalle vittorie sui Persiani alla guerra del Peloponneso, aveva fatto sorgere sulle rovine dell'Atene antichissima la potente e splendida citta di Temistocle, di Cimone e di Pericle.
O perché realmente per la diminuita popolazione, decimata dalla peste del 430 a. C., fossero rimasti in abbandono alcuni quartieri della città e quindi la sua estensione fosse superflua, o ancor meglio perché quella parte della città meno si prestava alla difesa, nel 425, su proposta di Cleone, con un "muro divisorio" (διατείκισμα), fu tagliata fuori dalla cinta temistoclea la regione occidentale e meridionale delle colline delle Ninfe, della Pnice e del Museo che si protendeva tra le lunghe mura. Verso la fine della guerra fu compiuta ancora una riduzione del sistema fortificatorio di Atene e del Pireo, fu cioè abbandonato il muro Falereo che per la sua posizione troppo a sud e troppo separata era difficile a mantenersi. La pace con Sparta impose come condizione ad Atene la distruzione delle lunghe mura e delle mura del Pireo, e così l'opera di Temistocle e di Pericle, l'unione della città col suo porto, veniva annullata.
Ma dopo pochi anni, tra il 395 e il 390 a. C., risalita Atene in un posto di primato nella guerra corinzia contro Sparta, Conone ricostruiva la cinta del Pireo e iniziava anche la ricostruzione delle lunghe mura. Le vicende alterne del periodo, che va dalla fondazione della seconda lega navale (377 a. C.) alla sconfitta di Atene nella guerra sociale (357-355 a. C.), donarono alla città monumenti onorarî, particolarmente statue e pitture, sia per dedica pubblica, sia per munificenza privata, e così anche il superiore tenore della vita famigliare in questi decennî, come in quelli immediatamente precedenti, portò alla costruzione di case più ricche, di tombe più ornate, ma non si ha notizia in questo tempo di alcuna grande costruzione compiuta dallo stato. Inoperosi passarono anche i decennî tra la guerra sociale e la battaglia di Cheronea (338 a. C.).
Invece l'abile amministrazione finanziaria di Licurgo (338-326 a. C.) segnò per la città una splendida ripresa dell'attività edilizia, e in qualche caso il rapido compimento di opere che erano state progettate o iniziate negli anni precedenti. Oltre a quello che Licurgo fece per l'Acropoli e per il Pireo (Skeuotheke o magazzino delle attrezzature navali, costruito dall'architetto Filone: v. arsenale), sono qui da ricordare la costruzione dello stadio e i lavori nel Liceo. Licurgo trovò imitatori in cittadini privati e a quest'epoca appartengono i monumenti coregici più sontuosi di quella via dei Tripodi che da essi prendeva nome.
Il periodo ellenistico fu per Atene sostanzialmente dipendenza dalla Macedonia, e le guerre che si accesero per la sua liberazione o per la sua riconquista per lo più le apportarono danni. Ogni attività costruttiva dello stato si limitò in generale al riattamento o all'accrescimento delle opere di difesa. Tuttavia il periodo ellenistico procurò ad Atene doni di principi stranieri d'Egitto e di Pergamo. Sono qui ricordate solo alcune delle donazioni e delle distruzioni maggiori. Tolomeo Filadelfo costruiva un ginnasio, il Ptolemaion. A Diogene, il condottiere delle truppe macedoni, che Arato, il capo della lega Achea, guadagnò alla causa ateniese, ottenendone nel 229 a. C. la liberazione della città, fu intitolato un ginnasio, il Diogeneion. Negli ultimi decennî del sec. III a. C. Attalo I di Pergamo impiantava il giardino del Lakydeion dentro l'Accademia. Nel 200 a. C. Filippo V di Macedonia, per punire Atene della sua defezione, devastò sistematicamente tutta la periferia settentrionale e meridionale della città, tra l'altro i due ginnasî del Liceo e del Cinosarge e alla fine dello stesso anno ne devastò tutti i restanti dintorni. Attalo II (159-138 a. C.) costruiva sul lato orientale dell'Agorà un grande edificio a portico, per uso di mercato. Antioco IV Epifane di Siria (175-164 a. C.), riprendeva la costruzione del tempio di Zeus Olimpio lasciato interrotto dai Pisistratidi, ma mori prima di condurlo a temiine. Esiziale fu per molti monumenti la vittoria sillana nella guerra mitridatica in cui Atene si era lasciata trascinare contro i Romani: i parchi dell'Accademia e del Liceo, ripiantati dopo la distruzione di Filippo V, fornirono il legname per le macchine di assedio al Pireo; nell'incendio del Pireo andarono distrutti i ricoveri delle navi, la Skeuotheke di Filone e altri edifici; tutto un tratto della cinta di Atene fu abbattuto. Ma poi cominciarono per Atene i giorni tranquilli della pace romana. Essa continuò a irraggiare nel mondo la potenza allettatrice del suo passato e riebbe anche splendore di nuove costruzioni. Le mura distrutte della città furono rialzate. Verso la metà del sec. I a. C. fu costruito l'Orologio di Andronico Cirreste. Tra il 12 a. C. e il 2 d. C. fu innalzato in onore di Atena Archegetis, con i doni fatti alla città da Cesare e da Augusto, un propilo dorico, che fu poi incorporato nel Ginnasio di Adriano come sua porta occidentale. Ad Agrippa fu intitolato un teatro coperto, l'Agrippeion. Negli anni 114-116 d. C., C. Giulio Antioco Filopappo si fece innalzare un grandioso monumento onorario funerario sulla collina del Museo.
Il più dell'Atene romana si deve per altro all'opera e all'esempio dell'imperatore Adriano, che per tre volte pose dimora in Atene (125-126, 128-129, 132-133 d. C.). Oltre ai monumenti già ricordati, cioè alla biblioteca, al ginnasio, al tempio di Zeus Olimpio, alla porta della Nuova Atene, a lui si devono il tempio di Era, il tempio di Zeus Panellenio, il Pantheon: in quest'ultimo erano state registrate le benemerenze di Adriano. L'acquedotto da lui cominciato, e che portava acqua alla sua nuova città dal sobborgo di Cefissia, fu terminato da Antonino Pio nel 140 d. C.
All'ornamento della città provvide anche durante il governo di Antonino Pio un ricchissimo cittadino ateniese, il filosofo e retore Erode Attico (125-160 d. C.), che coprì, giovane ancora, le più alte magistrature della città. Fondò o ricostruì, dedicandolo ad Antonino Pio, l'Agoranomion, cioè l'edificio dove aveva sede la magistratura del mercato. Rivestì di marmo pentelico lo Stadio: negli anni seguenti elevò un tempio alla Tyche e si preparò la sua tomba presso lo Stadio.
Con le costruzioni di Adriano e di Erode Attico si chiude la storia ascendente dei monumenti di Atene: comincia, dopo, la storia discendente della loro decadenza e della loro distruzione. La sorte ci ha conservato nei capitoli che Pausania ha dedicato ad Atene nella sua descrizione della Grecia (I, 2 segg.), proprio l'aspetto che la città aveva nei decenni tra il 140 e il 160 d. C. A questa descrizione, ad altre notizie sparse in fonti letterarie, ai documenti epigrafici e soprattutto ai monumenti ancora esistenti, si può chiedere un'immagine di Atene quale l'avevano creata i molti secoli della sua esistenza.
La cinta della città. - Per lungo tempo il muro pelasgico intorno all'Acropoli deve essere rimasto l'unica opera di fortificazione d'Atene. Difficile è dire quando sia stata chiusa dentro un cerchio di mura la città bassa e quale estensione essa abbia avuto. Forse ciò avvenne nel sec. VII a. C., al più tardi può essere avvenuto nell'età di Solone (principio del sec. VI a. C.). Queste più antiche mura dovevano essere, secondo il sistema del tempo, con zoccolo in pietra ed elevate in mattoni crudi, ma non ne è conservato nessun sicuro avanzo. Furono queste le mura distrutte dai Persiani nel 480 e nel 479 a. C., e solo congetture si possono fare sulla loro estensione e sul loro percorso. Certo esse chiudevano una città più piccola di quella che chiusero poi le mura di Temistocle.
Di queste invece è possibile acquistare una sufficiente idea sulla traccia degli elementi conservati. Il tratto più lungo e più chiaro è visibile ancora presso il Dipylon, che si trova all'angolo nord-ovest della cinta. In origine questa porta doveva servire solo o principalmente alla comunicazione con la pianura di Eleusi, cioè con la pianura triasica, perché si sa infatti che il suo più antico nome era Θριάσιαι πύλαι (Plut., Per., 30, 3). E difatti era e rimase, con una leggiera curva, sull'asse della strada sacra che conduceva a Eleusi. Il nome di Dipylon lo ebbe più tardi dalla sua grandiosa costruzione a due porte adiacenti, che secondo alcuni si deve riportare all'età di Conone, cioè ai primissimi anni del sec. IV a. C. secondo altri invece all'età di Licurgo, cioè agli anni intorno al 330 a. C. Siccome essa si trovava nel bel mezzo del quartiere dei vasai, cioè tra il Ceramico fuori delle mura e quello dentro le mura, sembra che una denominazione popolare la designasse anche come Κεραμεικαὶ πύλαι (Hesych., s. v. Δημίαισι πύλαις e Κεραμεικός). Alla costruzione di questa duplice porta possono aver indotto l'accresciuto movimento e il bisogno di un più stretto collegamento dell'Agorà con la strada del Pireo.
Del Dipylon rimangono ormai solo dei ruderi: due massicci muri laterali, in blocchi rettangolari di breccia rivestiti di blocchi rettangolari di poros e di spessore diverso (m. 5,50 quello di est, m. 4,50 quello di ovest), correvano in direzione NO-SE. e fiancheggiavano uno spazio rettangolare (lungh. m. 40,00, largh. m. 26,00) che a nord e a sud era chiuso con le due pareti a duplice porta. Presso l'angolo occidentale della parete di nord un robusto torrione quadrato (m. 7,00 di lato) della stessa struttura della porta costituisce il collegamento col muro della città, che in questo punto non è più il muro di Temistocle, ma un tratto di costruzione posteriore da riportarsi forse all'età di Conone. A causa della sua distruzione non si può dire se medesimo fosse l'aspetto dell'angolo di est, ma a una certa simmetria della fabbrica fa pensare lo spessore (m. 7,00) dato alle testate dei due muri della porta nella faccia meridionale. Un pilastro centrale (m. 3,76 × 3,00) divideva sulle due facce le due porte: contro la faccia della parete settentrionale si appoggia una base rettangolare (m. 4,00 × 4,50) destinata forse a una quadriga o ad altro monumento e provvista sul davanti di un sedile in marmo dell'Imetto. Invece dinnanzi al pilastro mediano della parete meridionale v'era un altare dedicato a Zeus Herkeios, a Ermete, ad Acamante (Inscr. Gr., II, 1664). Dietro l'angolo di sud-est del Dipylon, cioè verso la città, era stata collocata una fontana, costruzione necessaria per uomini e animali che venivano dalla campagna, e gli avanzi attestano che doveva essere opera grandiosa in corrispondenza con la ricchezza della porta (lungh. m. 11,00, largh. m. 3,00) di cui era contemporanea. L'acqua sgorgava da più bocche dentro un vano lastricato di marmo dell'Imetto e recinto con balaustra a colonnine.
A circa 60 m. ad ovest del Dipylon, presso il corso del fiumicello Eridano che qui usciva dalla città, v'è un'altra minore porta, sul cui nome non v'è accordo. Essa si trova meglio allineata sull'asse della strada sacra di Eleusi e su di essa è anche orientato il Pompeion, l'edificio nel quale si conservavano gli arredi e gli oggetti necessarî alle processioni sacre. È quindi ipotesi verosimile che vi si abbia da riconoscere la ‛Ιερὰ πύλη (Plut., Sull., 14), la quale naturalmente perdette d'importanza, quando a così poca distanza da essa fu costruito il Dipylon che raccordava anche le strade di altre direzioni oltre a quella sacra di Eleusi. Altri invece la denomina 'Ηρίαι πύλαι (Etym. Magn., s. v.) cioè porta per la quale i morti erano condotti al sepolcro; è stato già ricordato che in realta fino dal periodo miceneo qui esisteva la più vasta necropoli di Atene e qui essa rimase sino nella più tarda età greca. La ‛Ιερὰ πύλη dovrebbe allora cercarsi altrove e, interpretando la sua denominazione non come quella di "porta sacra" ma di "porta scellerata", dovrebbe trovarsi sullo stesso tratto di muro, ma più a sud, sulla via che dovevano percorrere i condannati a morte per andare al Baratro, cioè al salto di roccia sotto la collina delle Ninfe.
Dal Dipylon e dall'adiacente porta sacra comincia il tratto occidentale delle mura. Esse si volgevano in direzione di sud-ovest, e nel primo tratto di esse si apriva la porta del Pireo, di cui alcuni avanzi sono stati trovati sotto la collina delle Ninfe: in questo punto infatti veniva a cadere la strada più diretta del Pireo.
Le mura poi, rientrando verso sud-est, salivano la collina delle Ninfe e riprendendo subito dopo la direzione di sud-ovest ne percorrevano tutto il ciglio rasente al Baratro. Presso a poco al termine di questo tratto doveva esservi il collegamento del lungo muro settentrionale del Pireo. Il restante tratto del muro occidentale correva, con leggiere rientranze angolari, in direzione nord-sud fino alla porta dell'angolo di sud-ovest, la porta detta di Melite dal demo in cui si trovava. Un po' prima della porta di Melite v'era il collegamento col lungo muro meridionale del Pireo. La porta che si trovava nel tratto fra i due collegamenti viene designata appunto con la denominazione di "porta verso le lunghe mura" (Inscr. Gr., II, 167, 53 s.).
Il muro divisorio già ricordato di Cleone tagliò fuori tutta que- sta parte del muro occidentale e anche un tratto del muro meridionale sino al culmine della collina del Museo: delle due porte che si aprivano in questo sbarramento una è da riconoscersi dopo il cocuzzolo della collina delle Ninfe, l'altra nella sella tra la collina della Pnice e quella del Museo.
Il tratto meridionale delle mura di Temistocle percorreva in direzione ovest-est il ciglio della collina del Museo, discendeva poi nella valle dell'Ilisso, tenendosi dalla parte della sponda destra, e si arrestava presso l'estremità orientale del tempio di Zeus Olimpio. In questo tratto debbono ricercarsi la porta Diomeia, così detta dal quartiere di Diomeia (Alciphr., III, 51, 4), che era quella per la quale nelle grandi Eleusinie uscivano gl'iniziati per andare a fare l'abluzione nella baia del Falero, e la porta Itonia (Ps.-Plat., Axioch., 364 b-365 a), cosi detta forse da un vicino santuario di Atena Itonia.
Dall'angolo orientale del tempio di Zeus Olimpio il tratto orientale delle mura di Temistocle correva in direzione di nord, con tracciato quasi rettilineo, sino ad una porta, la porta di nord-est, nella quale con probabilità si deve riconoscere la porta di Diocare (Strab., IX, 397). possibile che essa traesse il nome da un vicino stabilimento di bagni conosciuto appunto col nome di bagno di Diocare (Inscr. Gr., II, 1056, 6 segg.). Nella regione di questa porta di nord-est, che deve cercarsi nelle vicinanze della moderna Piazza della Costituzione, la presenza della cinta temistoclea è stata confermata dalla scoperta della necropoli che si estendeva fuori delle mura e che si doveva trovare naturalmente in vicinanza d'una porta.
Come lo sbarramento di Cleone aveva tagliato fuori una parte della cinta temistoclea sul lato occidentale, così il muro della nuova città di Adriano ampliò di altrettanto la città dalla parte di oriente. Esso si distaccava dall'angolo di sud-est presso la porta Itonia e si riallacciava all'angolo di nord-est un poco al disopra della porta di Diocare. Il mura di Adriano con molte spezzature angolari correva per tutto il suo tratto di sud-est parallelamente all'Ilisso, col suo tratto orientale correva in direzione di nord nella pianura tra le ultime pendici dell'Imetto e il Licabetto, e col suo tratto settentrionale piegava in direzione est-ovest verso la porta di Diocare. Più porte si aprivano nel perimetro esterno del muro di Adriano, ma ne sono ignoti i nomi e non sempre ne è identificabile la posizione. Invece ben conservata è la porta che Adriano fece innalzare non proprio sulla linea delle mura di Temistocle, ma un po' ad occidente di essa e presso l'angolo di nord-ovest del tempio di Zeus Olimpio, come segno di separazione tra la citta amica e la sua città nuova. La porta (v. Tav. XXXV), innalzata tra il 125 e il 138 d. C. (alt. m. 18,00, largh. m. 13,50), è un caratteristico esempio di unione dell'architettura curvilinea romana con l'architettura rettilinea greca. Infatti la parte superiore presenta la classica disposizione del frontone triangolare su colonne dinnanzi a una parete con architrave su pilastri; la parte inferiore invece presenta il bell'arco romano (largh. m. 6,20); e le colonne, ora mancanti, ai lati di esso, distanti come erano dalla parete, avevano una pura funzione ornamentale. Nella fascia sopra l'arco l'iscrizione da un lato dice: "Questa è l'Atene di Teseo, la città di prima"; dall'altro: "Questa è di Adriano e non la città di Teseo" (Inscr. Gr., III, 401 seg.).
L'ultimo tratto della cinta di Temistocle, quello settentrionale, correva, con tracciato approssimativamente curvo, sino a raggiungere il Dipylon. Press' a poco al mezzo del tratto v'era la porta Acarnese, così detta perché rivolta verso il demo di Acarne che si trovava appunto a nord della città (Hesych., s. v. 'Αχάρνη) al passo tra il Parnete e il Pentelico. In questo stesso tratto forse debbono ricercarsi le ‛Ιππάδες πύλαι (Hesych., s. v. ‛Ιππάδα), che come indica il nome dovevano aprirsi sulla pianura, cioè verso un luogo adatto agli esercizî della cavalleria ateniese.
La diversa distribuzione delle porte sui quattro tratti della cinta temistoclea, cioè il maggior numero di esse sul lato occidentale, è ancora una prova che in quella direzione si orientava il maggior traffico della città e che la politica di Temistocle aveva mirato al mare e soprattutto al porto militare del Pireo.
I quartieri della città. - Il nuovo ordinamento della campagna e della città introdotto da Clistene, che sostituì alle quattro antiche tribù di stirpe le dieci nuove tribù di abitazione, di cui ciascuna comprendeva un certo numero di demi, cioè di quartieri della costa, della città, della campagna, regolò per tutte le età ulteriori, appunto perché poggiata su una distribuzione spaziale, la costituzione topografica della città. Delle pietre iscritte indicavano il confine tra demo e demo.
Qui interessano i demi della città e della sua immediata periferia, ma possono essere ricordati solo quelli la cui ubicazione è sicura o lo è almeno approssimativamente. L'Acropoli, in cui nessuno poteva nascere perché era santuario, doveva essere considerata fuori e al di sopra dei demi. Le sue ultime pendici, che invece erano abitate, dovevano essere state distribuite tra i demi vicini.
A giudicare dall'etimologia del nome, il demo di Kydathenaion, cioè della "gloriosa Atene" doveva essere nelle immediate vicinanze dell'Acropoli, ed è probabile che comprendesse la regione a nord di essa, anche perché là v'era il Pritaneo, l'edificio del focolare sacro della città: più d'ogni altro esso può aver suggerito questo nome che sembra non tratto da una tradizione storica, ma inventato col nuovo ordinamento.
Il demo di Kollytos doveva comprendere, oltre a una vasta zona a sud-ovest, il declivio occidentale sotto l'Acropoli, di fronte alla pendice orientale della Pnice: questa vicinanza al luogo dove faceva grandi chiacchiere l'assemblea popolare è presupposta nella scherzosa tradizione (Tertull., De anim., 20) che i bambini di Kollytos imparassero a parlare un mese prima degli altri.
Sulla pendice occidentale della Pnice si deve invece ricercare il demo di Koile: il significato del nome, "l'incavo", bene si adatta a quella parte della collina che s'infossa presso la porta di Melite.
Tutta la restante collina della Pnice e la collina delle Ninfe erano invece comprese nel demo di Melite. La casa di Temistocle era in questo demo ed era vicina al Baratro, che appunto si trovava sotto il salto della collina delle Ninfe. Per altro il Baratro apparteneva al demo di Keiriadai (Bekker, Anecd. Graec., I, p. 219, 10, s. v. Βάραϑρον), che appunto si deve cercare ad occidente della Pnice e della collina delle Ninfe.
È dubbio che costituisse un demo il Kolonos Agoraios, cioè la collina sormontante l'Agorà, perché una notizia antica lo dà come parte del demo di Melite (Harpocr., s. v. Εὐρυσάκειον, Κολωνέτας).
Alcune pietre di confine iscritte, una delle quali ancora in posto, presso il Dipylon, indicano che il demo di Ceramico si estendeva a oriente del Dipylon fuori e dentro le mura di Temistocle, sicché v'era un Ceramico esterno e uno interno. Dentro questo quartiere si trovava l'Agorà. Si sa che il quartiere giungeva a nord sino all'Accademia, a sud sino alla salita verso l'Acropoli.
Probabilmente confinava a oriente col Ceramico esterno il demo di Colono così denominato da Kolonos Hippios, una collinetta isolata a nord della città che traeva il suo nome dal tempio di Posidone Hippios: l'odierna nudità della sua roccia rievoca per contrasto il boschetto animato dal canto degli usignoli dell'Edipo a Colono di Sofocle.
L'immediato sobborgo nella parte meridionale della città apparteneva a tre demi dei quali si può indicare solo approssimativamente la posizione, procedendo da ovest verso est: essi sono i demi di Diomeia, nel quale si trovava il ginnasio del Cinosarge, di Ankyle che si estendeva verso l'Imetto (Inscr. Gr., III, 61 a, col. II. v. 22), di Agryle, al quale apparteneva la collina dell'Ardetto, cioè quella a cui si appoggiava lo stadio (Harpocr., s. v. 'Αρδηττός).
All'infuori del Ceramico interno, il quale comprendeva l'Agorà, cioè la piazza principale della città, non sembra che i quartieri costituissero unità monumentali sulle quali possa perciò poggiare una descrizione della città. Tale descrizione meglio si distribuisce girando intorno all'Acropoli e partendo dal Dipylon.
L'Agorà. - Una lunga strada, il dromos per eccellenza, che aveva direzione NO.-SE., conduceva dal Dipylon all'Agorà. Siccome l'Agorà si trovava nel quartiere del Ceramico così essa veniva designata anche con questo nome. Dei porticati fiancheggiavano il dromos e dinnanzi a essi erano collocate statue in bronzo di uomini e di donne illustri (Paus., I, 2, 4; cfr. Him., Orat., III, 12).
Di questi portici quello del lato meridionale era detto anche il "lungo portico" (μακρὰ στοά), e al di dietro di esso si elevava la collina dell'Agorà (Sch. in Arist. Av., 997; cfr. Inscr. Gr. II, 421 a, 14). Tra il Kolonos Agoraios e la presumibile posizione del lungo portico sono stati trovati avanzi d'un santuario di Afrodite Egemone, del Demo e delle Cariti (Jos. Flav., Ant. iud., XIV, 8) a cui in età romana era stato associato anche il culto della dea Roma. Il portico del lato settentrionale conteneva alcuni santuarî tra cui uno di Dioniso Melpomeno, in cui v'erano delle statue, donario e opera dello scultore ateniese (sec. II a. C.) Eubulide (Paus., I, 2, 5).
Il dromos sboccava nell'Agorà presso la Stoa Basileios: essa si trovava alla destra dello sbocco, cioè nella metà meridionale e sul lato occidentale della piazza (Paus., I, 3, 1). Come il lungo portico aveva di dietro la pendice settentrionale del Kolonos Agoraios, la Stoa Basileios era sotto la sua pendice orientale (I, 14, 6). Nella Stoa Basileios risiedeva in età storica l'amonte basileus.
Dinnanzi al portico si trovava l'altare in pietra sul quale gli arconti facevano il loro giuramento nell'entrare in carica (Poll., VIII, 86). E dubbio che debba identificarsi con l'altare di Zeus Agoraios (Schol. in Aristoph. Equit., 408). La Stoa Basileios s'è voluta identificare con un edificio rettangolare che è tornato alla luce in uno scavo compiuto sotto la pendice orientale del Kolonos Agoraios, ma l'identificazione non è scevra da ogni dubbio, ed è possibile che questo edificio, e alcuni altri di più tarda età che sono stati scoperti più a sud di esso sempre sotto la pendice della collina, appartenessero non al lato occidentale della piazza ma a qualche strada al di dietro di esso.
Sul lato occidentale della piazza, sulla stessa linea della Stoa Basileios e a sud di essa, v'era la stoa di Zeus Eleutherios.
Il nome al portico l'aveva dato la statua di Zeus Eleutherios che si trovava dinnanzi a esso, e che sarebbe stata innalzata dagli Ateniesi dopo il 479 come segno di gratitudine per la liberazione dal pericolo persiano. Per altro sembra che la statua, che era preesistente al portico, avesse nell'iscrizione l'epiteto di Soter (Salvatore) e che nell'uso avesse assunto quello di Eleutherios (Liberatore; v. Harpocr., s. v. 'Ελευϑέριος Ζεύς). Dati questi epiteti si comprende come accanto ad essa fosse stata innalzata in periodo romano una statua dell'imperatore Adriano, che appunto dagli Ateniesi era onorato come Soter.
Non si sa con precisione l'età in cui la stoa di Zeus Eleutherios fu costruita, ma doveva già esistere al principio del sec. IV a. C. (Xenoph., Oecon., VII, 1); subito con la sua costruzione, se essa risale al sec. IV, o più tardi se essa è più antica, il portico fu decorato di pitture da Eufranore (Paus., I, 3, 3 seg.; Plin., XXXV, 129): in una parete v'erano i dodici dei, nella parete contrapposta Teseo tra la Democrazia e il Demo, e nella parete di fondo la battaglia di Mantinea (362). Nel portico erano appesi gli scudi dei cittadini ateniesi morti per la libertà o per la difesa della patria: la consuetudine ne è attestata almeno dal periodo ellenistico.
Sulla stessa linea della stoa di Zeus Eleutherios v'era a sud il tempio di Apollo Patroos: esso aveva così la fronte di oriente rivolta verso la piazza. Il simulacro del dio, che traeva il suo epiteto dall'essere il padre mitico di Ione, cioè del capostipite di tutti gli Ionî, e quindi degli Attici, era opera dello scalpello di Eufranore (Paus., I, 3, 4): probabilmente gran parte della statua sin sotto il petto si è conservata in un marmo colossale, che è tornato alla luce in uno scavo nella zona dell'Agorà.
Dinnanzi al tempio di Apollo Patroos v'erano altre due statue del dio, l'una del sec. IV, opera di Leocare (v.), l'altra del sec. V, opera di Calamide (v.).
L'angolo di sud-ovest dell'Agorà era occupato da un gruppo di edifici che costituivano gli archivî (τὰ ἀρχεῖα), perché destinati alle magistrature della città. Il primo che si doveva incontrare dopo il tempio di Apollo Patroos era il Metroon o tempio della Madre degli dei (Paus., I, 3, 5). In questo tempio, che sembra fosse stato in origine della Demetra di Eleusi, si trovava l'archivio di stato ateniese, almeno dal principio del sec. V a. C. La statua del culto secondo alcuni era opera di Fidia, ma più probabilmente era opera di Agoracrito (Plin., XXXVI, 17).
Vicino al Metroon era il Bouleuterion (Paus., I, 3, 5; cfr. Ps.-Plut., Vita X orat., 842; Schol. in Aesch. contra Ctesiph., 187), cioè la sala di adunanza del consiglio (βουλή). All'ingresso del Bouleuterion, forse nel suo vestibolo, si trovava un luogo di culto, altare o focolare (βουλαία ἑστία; Xenoph., Hell., II, 52 seg.; Diod., XIV, 5). V'era inoltre una statua in legno (ξόανον) di Zeus Bulaios, una di Apollo, opera di Pisia e una figurazione del Demo, opera di Lisone. V'erano anche delle pitture di Protogene: le immagini degli arconti tesmoteti (Paus., I, 3, 5), salvo il caso che esse decorassero un edificio che si vuole in queste vicinanze, il Thesmothesion, cioè la sede particolare dei tesmoteti. Due altri edifici o uffici si cercano qui: lo Strategion, la sede degli strateghi (Aeschin., II, 85 seg.) e il Kleroterion, l'aula in cui si faceva l'estrazione a sorte dei giurati (Schol. in Aristoph. Plut., 277).
Presso il Bouleuterion v'era la Tholos, cioè l'edificio circolare che era anche chiamato Skias: il suo tetto, che era non in legno ma in costruzione, ombreggiava largamente e rassomigliava alla ϑολία, un cappello femminile a larga falda (Harpocr., s. v. Θόλος). Nei documenti epigrafici del buon periodo il nome adoperato è appunto Skias e non Tholos. Un altro nome si desume dalla tradizione epigrafica ed è Prytanikon, sia che esso indicasse proprio la Tholos, sia che designasse il gruppo degli edifici degli "archivî", compresa la Tholos. Nella Tholos sacrificavano e prendevano i loro pasti i Pritani. Ma nessuna notizia antica ci dice che qui sia stato trasportato il focolare sacro dello stato, anzi fonti epigrafiche ci attestano che, anche in periodo ellenistico e oltre, esso era nel Pritaneo (Inscr. Gr., II, 467 segg.).
Più su della Tholos, cioè in luogo elevato al di dietro dell'edificio (Paus., I, 5, 1, cfr. Schol. in Aristoph. Pac., 1183, dove a Πρυτανεῖον va sostituito Πρυτανικόν), sotto la pendice settentrionale dell'Areopago, e vicino egualmente al Bouleuterion (Aristot., Ath. pol., 53, 4) v'erano le statue degli eroi eponimi delle tribù ateniesi. Dopo di esse v'erano altre statue, tra cui quella di Irene con Pluto bambino (la Pace con la Ricchezza; Paus., I, 8, 2; cfr. IX, 6, 2), opera di Cefisodoto il Vecchio (v.), che probabilmente gli Ateniesi alzarono qui per la pace del 371, dopo le vittorie della seconda lega navale (375).
A questo gruppo di statue apparteneva anche quella di Demostene (Paus., I, 8, 2 seg.) che era opera di Polieucto (Ps.-Plut., Vita X orat., 847 a) e che era stata innalzata nel 280 a. C. Una sua copia quasi completa si conserva nel Museo Vaticano.
La statua di Demostene si trovava presso un tratto dell'Agorà che era detto Perischoinisma, che cioè all'occasione veniva cinto con una fune, ed è possibile che fosse il luogo dove veniva compiuta la votazione di ostracismo (Poll., VIII, 20). E vicino alla statua di Demostene v'era anche l'altare dei dodici dei, che, come s'è detto, fu dedicato da Pisistrato il Giovane (Thuc., VI, 54) e adibito all'uso di miliario centrale (Herod., II, 7; Inscr. Gr., II, 1078).
Tutto questo gruppo di statue doveva già occupare parte del lato meridionale dell'Agorà. E in questo stesso lato si deve cercare il santuario di Ares che appunto stava vicino alla statua di Demostene (Paus., I, 8, 4). Naturalmente in nessun luogo meglio che sotto la pendice dell'Areopago poteva trovarsi il santuario di Ares, una volta che gli Ateniesi, secondo una delle spiegazioni mitologiche del nome, mettevano in rapporto Ares con l'Areopago: infatti per il primo Ares sarebbe stato là giudicato per l'uccisione di Alirrozio, figlio di Posidone, che aveva fatto oltraggio a sua figlia Alcippe (Paus., I, 28, 5; cfr. I, 21, 4). Nel santuario v'erano una statua di Ares, opera di Alcamene (v.) di cui s'è additata, con poco fondamento, una copia nell'Ares Borghese (Museo del Louvre), una statua di Atena, che era opera di un artista pario di nome Locro, e una statua di Enyo, cioè della personificazione del tumulto nella battaglia, che era opera dei figli di Prassitele. Intorno al tempio v'erano altre statue, tra cui una di Pindaro, alla quale invece una fonte meno attendibile (Ps.-Aeschin., Epist., 4) dà forse erratamente un'altra ubicazione, dinnanzi alla Stoa Basileios. Pindaro v'era rappresentato seduto, con manto e con lira; si è voluto riconoscerle in una copia romana della collezione Borghese, ora nella Gliptoteca Ny-Carlsberg di Copenaghen.
Non lontano da queste statue stava il gruppo dei Tirannicidi, (Paus., I, 8, 5). Una più precisa indicazione (Arrian., Anab., III, 16, 7) fa sapere che questo gruppo si trovava nel punto dove cominciava la strada che saliva all'Acropoli, e che era di fronte al Metroon, che si trovava cioè all'angolo sud-est della piazza, anzi precisamente all'estremità meridionale del lato orientale: per questo faceva fronte al Metroon che invece stava all'estremità meridionale del lato occidentale. Le statue dei Tirannicidi (v. armodio) dovevano costituire un gruppo isolato, perché v'era il divieto di innalzarne altre presso di esse (Inscr. Gr., II, 300, 410). A questo divieto si venne meno solo per Antigono e per Demetrio Poliorcete che, onorati come salvatori, ricevettero qui nel 307 a. C. statue di bronzo dorato su carro (Diod., XX, 46, 2), e per i due nuovi tirannicidi, Bruto e Cassio (Cass. Dio, XLVII, 20, 4) le cui statue per altro rimasero qui breve tempo.
Il luogo nel quale si trovavano le statue dei Tirannicidi si chiamava Orchestra (Tim., Lex Plat., s. v. ὀρχήστρα) e forse il nome era rimasto a designare l'orchestra nella quale si facevano le rappresentazioni drammatiche prima che fosse costruito il teatro stabile nel santuario di Dioniso sulla pendice meridionale dell'Acropoli (Eust., Ad Odyss., XX, 350, p. 1472, 4, s. v. ἰκρία). Intorno all'Orchestra al tempo della recitazione venivano alzate delle impalcature in legno, e si ricorda che v'era un pioppo sul quale si arrampicavano per godersi lo spettacolo coloro che non avevano posto nel recinto (Hesych., Suid., s. v. αἰγείρου ϑέα).
Non lontano dalle statue dei Tirannicidi si trovava l'altare degli Heudanemoi (Arrian., Anab., III, 16, 8) forse banditori che avevano rapporto col culto eleusinio (cfr. Hesych., s. v. Εὑδάνεμος). Dato tale rapporto, nella vicinanza di questo altare si colloca il Pherrephattion, cioè un tempio o un santuario di Persefone, il cui nome attico era Pherrephatta, per quanto l'unico luogo in cui esso è menzionato (Dem., LIV, 7 seg.; da questo passo deriva la glossa di Hesych., s. v. Φερρεϕάττιον) non obblighi proprio alla collocazione nell'Agorà.
Uno degli edifici lungo il lato orientale dell'Agorà dopo l'Orchestra è conservato ed è la stoa di Attalo (v. tav. XXXVI). Nella tradizione letteraria (cfr. Inscr. Gr., II, 482 v. 68 seg.), è ricordata una sola volta incidentalmente (Athen., V, 212 f) perché innanzi a essa era stata in appresso innalzata la tribuna per il pretore romano. L'iscrizione, che era incisa a grandi lettere sull'epistilio dorico (Inscr. Gr., II, 1170), fa sapere che era stata dedicata da Attalo II (159-138 a. C.). Siccome la stoa fa fronte a occidente è chiaro che chiudeva l'Agorà a oriente: tuttavia non dobbiamo pensarla sulla linea dei monumenti più antichi dell'Agorà, ma un po' più arretrata e forse dinnanzi a essa esisteva una piccola piazza. La stoa infatti era anche molto elevata nella sua parte settentrionale al di sopra del piano dell'Agorà, e si accedeva a essa per una rampa, parallela al suo basamento, che saliva da nord verso sud.
Su fondamenta in blocchi rettangolari di breccia, la stoa è costruita con poros, con marmo pentelico e con marmo dell'Imetto. Essa misura in lunghezza 116 metri, in profondità 20. Il piano terreno era costituito da un porticato anteriore diviso in due navate (prof. m. 13,28) e d'una fila interna di botteghe (prof. m. 4,90, lungh. m. 4,61). Le botteghe erano in origine diciotto; per un ampliamento del piano, avvenuto durante la costruzione, ne furono aggiunte all'estremità settentrionale altre tre insieme a un'esedra rettangolare. Ogni bottega aveva una porta (larghezza m. 1,70) sulla parete anteriore e una feritoia per la luce e per la ventilazione nella parete posteriore. I muri delle botteghe erano in blocchi rettangolari di poros rivestiti di lastre di marmo pentelico. Il porticato aveva sulla fronte 45 colonne doriche con scanalatura ionica limitata solo alla loro parte inferiore (intercolumnio m. 2, 42). L'epistilio dorico era piuttosto basso, con triglifi a due incavi. Il colonnato interno aveva 22 colonne (intercolumnio m. 4,84), lisce, con base attica e capitello a foglie d'acqua. Il piano superiore aveva un prospetto formato da una balaustra tra mezze colonne ioniche applicate a pilastri. Al disopra poggiavano un epistilio dorico, ancora più basso dell'inferiore, con triglifi a tre incavi, e una sima con colatoi a testa leonina. Forse la stoa più che a mercato di derrate doveva essere stata destinata alla vendita di merci fini e il commercio doveva svolgersi nel porticato, perché i vani retrostanti più che botteghe erano depositi e mancavano del banco di vendita.
A nord della stoa di Attalo, sempre sul lato orientale della piazza, doveva trovarsi la Stoa Poikile (il Pecile), che era stata fatta costruire da Pisianatte (Plut., Cim., 4; Diog. Laert., VII, 5; Schol. in Aeschin., III, 184; Dem., XX, 112), e ornata di pitture da Polignoto e dai suoi compagni. Fu la stoa in cui insegnò Zenone e da cui la sua dottrina prese il nome di stoica. Nulla è noto della forma e delle dimensioni di essa. In una parete di lato Polignoto aveva dipinto Ilio distrutta, cioè la calma triste e solenne della vittoria raggiunta, e forse al centro della composizione aveva posto il gruppo degli eroi achei radunati per giudicare del misfatto di Aiace di Oileo contro Cassandra (Paus., I, 15, 2). Nella parete di mezzo Micone aveva dipinto l'amazonomachia di Teseo (Aristoph., Lysistr., 678 seg.). Nell'altra parete di lato la battaglia di Maratona era stata dipinta da Paneno (Plin., XXXVI 57; Paus., I, 15, 3; V, 11, 6) o forse da Paneno e da Micone insieme (Aelian., Hist. anim., VII, 38). Non si sa con precisione in quale parte della stoa si trovasse la pittura della battaglia di Enoe (Paus., I, 15, 1; V, 11, 6), una battaglia vinta dagli Ateniesi sui Lacedemoni forse durante la guerra corinzia cioè verso il 390 a. C. La pittura doveva quindi essere stata aggiunta più tardi, giacché quelle di Polignoto e dei suoi compagni debbono porsi tra il 470 e il 450 a. C. Le pitture polignotee erano ancora al loro posto verso la metà del sec. IV d. C. (Him., Orat., X, 3), ma una testimonianza dei primissimi anni del sec. V d. C. (Synes., Epist., 54, 135) afferma che le tavole su cui si trovavano le pitture erano state tolte dal proconsole romano: se la notizia fosse attendibile se ne dovrebbe dedurre che non erano pitture a fresco, ma a tempera su tavola.
Nella Stoa Poikile erano appesi degli scudi di bronzo, bottino di guerra tolto ai Lacedemoni (425) e ai Sicionî (423-421), e dinnanzi ad essa v'erano due statue in bronzo, una di Solone e l'altra del re Seleuco (Paus., I, 16, 1; cfr. Dem., XXVI, 23; Aelian., Var. hist., VIII, 16). È dubbio invece che vi fosse anche una statua di Crisippo (Cic., De fin., I, 11, 39), che da altri (Paus., I, 17, 2) è menzionata nel ginnasio detto Ptolemaion.
Forse tra la stoa di Attalo e quella Poikile, oppure al nord di quest'ultima, si trovava una porta sulla quale v'era un trofeo degli Ateniesi che avevano vinto Plistarco, fratello di Cassandro, in una battaglia equestre forse del 320-319 a. C. (Paus., I, 15, 1). Questa porta doveva costituire un accesso alla piazza per il quartiere di oriente. Presso la porta v'era un Ermete in bronzo, detto Agoraios: è quell'Ermete che altrove (Lucian., Iupp. trag., 33) è ricordato scherzosamente perché i formatori, per riprodurne il bel corpo, gli facevano costantemente una corazza ridicola, impeciandone il petto e la schiena. Era un Ermete di arte ancora arcaica, forse dedicato tra il 500 e il 480 a. C. (Hesych., s. v. 'Αγοραῖος ‛Ερμῆς), quindi sfuggito alla distruzione persiana o rinnovato dopo di essa.
Dalla Stoa Poikile e dalla Stoa Basileios si stendevano delle erme (Harpocr., s. v. ‛Ερμαῖ) forse in due file verso nord facendosi fronte, oppure sufficientemente spazieggiate, su di una sola fila traversante l'Agorà tra i due portici contrapposti. Forse in favore della prima ipotesi sta il fatto che esisteva una Stoa delle Erme (Schol. in Dem., XX, 112), cioè un portico che si deve immaginare dietro a esse e che quindi non poteva stare nel mezzo dell'Agorà, ma doveva trovarsi o sul lato orientale, a nord della Stoa Poikile, o sul lato occidentale, a nord del punto in cui sboccava il dromos del Dipylon. È questa la stoa che, come fu già ricordato, fu forse costruita da Cimone. e nella quale egli ottenne di dedicare le sue erme commemorative della vittoria per la presa di Eione nel 476 a. C. (Aeschin., III, 183 segg.). A ogni modo le erme dovevano costituire il confine settentrionale della parte dell'Agorà che si estendeva a sud, e che era riservata ai templi e agli edifici pubblici, e il confine meridionale della parte che si estendeva a nord e che era riservata al commercio. Difatti Senofonte (Hipparch., III, 2) consigliava nelle parate di cavalleria, di partire dalle Erme per fare il giro dell'Agorà e poi, ritornati alle Erme, di percorrerla al galoppo avviandosi verso l'Eleusinio che era sulla pendice occidentale dell'Acropoli. Anche altrove (Athen., IX, 402 f) è ricordato lo spazio presso le Erme come destinato a questi esercizî equestri. Non si sa se nelle vicinanze delle Erme debba cercarsi anche l'Hipparcheion, che si conosce da una sola iscrizione ('Εϕημ. ἀρχ., 1911, p. 234 segg.): era il luogo nel quale si radunavano i comandanti della cavalleria. Non è da escludere che l'edificio o il recinto stesse vicino allo Strategion che già fu ricordato nel gruppo degli Archivî, nella parte meridionale dell'Agorà.
In questa parte settentrionale dell'Agorà al di là delle Erme doveva trovarsi il Leokorion (Harpocr., s. v. Λεωκόριον) cioè il santuario delle tre figlie di Leo, che in una grande carestia si erano sacrificate spontaneamente per la patria in obbedienza all'oracolo. Ma che fosse la parte meno nobile dell'Agorà lo si desume dal fatto che vi si esercitava il commercio all'aperto sotto tenda o in baracca (Harpocr., s. v. Σκηνίτης) e che vi si davano convegno le meretrici (Alciphr., III, 5, 1; Theophylact., Epist., 12).
Di altri monumenti si sa o si presuppone l'esistenza nell'Agorà, ma di essi non si conosce l'ubicazione neanche approssimativa. Questo si dica dell'Aiakeion, cioè del santuario dell'eroe eginetico Eaco (Herod., V, 89), e dell'altare di Eleos, cioè della Compassione (Paus., I, 17, 1), al quale era legato un diritto d'asilo e che, secondo alcuni, è da identificarsi con l'altare di Zeus Agoraios. Nell'Agorà si cerca anche la prigione di stato, quella che con eufemismo era detta la "casa" (οἴκημα; Plut., Sol., 15), ma nessuna notizia antica ce ne dà conferma. Probabilmente invece nella parte settentrionale dell'Agorà deve cercarsi la sua Alphitopolis, cioè quella in cui si vendevano le granaglie (Aristoph., Eccles., 668), salvo il caso che essa debba identificarsi con il lungo portico che fu ricordato sul dromos che dal Dipylon conduceva all'Agorà.
Nell'Agorà esisteva ed esiste un monumento che nessuna fonte antica ricorda: la stoa detta dei Giganti.
Essa si trova nel mezzo della piazza e ha la fronte rivolta a nord (lungh. m. 41,00). È un edificio di tardi tempi imperiali, messo insieme con materiale diverso, poros e mattoni, e nel quale sono stati riadoperati pilastri scolpiti d'età adrianea. La parte centrale della fronte è una specie di propilo formato da due pilastri isolati, che si trovavano sulla linea di due ante: al pilastro occidentale e alle due ante sono appoggiati tre Atlanti in marmo a figura di giganti, di cui due hanno le gambe a corpo serpentino, il terzo le ha a corpo pisciforme. Ai lati di questo ingresso a tre aperture (largh. della mediana m. 6,00, delle laterali m. 4,25), a est e a ovst, sono due strette stanze, in cui erano disposte delle fontane e, negli angoli, delle scale che portavano al piano superiore; dietro queste stanze si prolungano due gallerie laterali (largh. m. 7,00). Questo edificio fu forse creato per uso di fontana, non si sa bene in quale età.
Come parte dell'Agorà si deve considerare il Kolonos Agoraios, che si trova dietro il lato occidentale della piazza. Su questa collina facevano stazione i braccianti che cercavano lavoro giornaliero, e che venivano appunto detti Kolonetai (Harpocr., s. v. Κολωνέτας), mentre alla loro volta avevano procurato alla collina un secondo epiteto, quello di Misthios (Schol. in Aristoph., Av. 997). Inoltre sulla collina si estendevano le botteghe dei calderai (Andoc., I, 40; Bekker, Anecd. Graec., I, 316, 23) e si comprende che si fossero posti sotto la protezione di Efesto, il cui tempio appunto era sulla cima della collina.
È questo il tempio assai ben conservato, che si conosce sotto la denominazione errata di Theseion. È un periptero dorico in marmo pentelico (lungh. m. 31,77, largh. m. 13,72) con 6 colonne sulle fronti e 13 sui lati (alt. m. 5,88, diam. inf. m. 1,00). Le forme architettoniche lo indicano presso a poco contemporaneo del Partenone, ma deve essere stato forse iniziato prima e terminato dopo (450-430 a. C.). Lo stesso è indicato dalla decorazione scultoria, che ha forme ancora arcaiche nelle metope e forme derivate dal Partenone nei fregi. Delle metope sono ornate a rilievo solo 18: dieci sulla fronte orientale presentano le fatiche di Eracle, otto, quelle immediatamente vicine sui lati nord e sud, presentano le fatiche di Teseo. Nel fregio del pronao dinnanzi a due gruppi di divinità, Zeus, Era, Atena, Urano, Ge, Efesto, viene combattuta una battaglia contro i tre Ciclopi armati di massi; nel fregio del vestibolo occidentale si ha una Centauromachia. Le sculture dei frontoni sono sparite. I due simulacri del tempio, Efesto e Atena (Paus., I, 14, 6), sembra fossero opera di Alcamene (Cic., Nat. deor., I, 30).
Sulla stessa collina dell'Agorà vi era il santuario di Afrodite Urania (Paus., I, 14, 7 segg.), il cui simulacro in marmo pario era opera di Fidia.
Tra la collina dell'Agorà e il prossimo quartiere di Melite doveva estendersi l'Eurysakeion o santuario di Eurisace, figlio di Aiace Telamonio (Harpocr., s. v. Κολωνέτας; Poll., VIII, 132; Soph., Oedip. Col., arg. II; cfr. Harpocr., s. v. Εὐρυσάκειον).
Di altri monumenti si conosce l'esistenza nelle immediate vicinanze dell'Agorà, per quanto di essi non possa ormai più additarsi alcun avanzo. Non molto lontano dall'Agorà sulla parte di oriente (Paus., I, 17, 2) si trovava il ginnasio detto Ptolemaion (Cic., De fin., V,1) che si vuole fosse stato fondato da Tolomeo Filadelfo (285-247 a. C.). Alcune iscrizioni del sec. I a. C. (Inscr. Gr., II, 468, v. 25; 482, v. 50) ne menzionano la biblioteca che veniva accresciuta con doni degli efebi. Nel Ptolemaion v'era una statua in bronzo di Tolomeo, e vi era anche una statua di Giuba II di Mauretania che scrisse di storia (fine del sec. I a. C.). Si è creduto di poter riconoscere il ritratto di Giuba in una bella testa giovanile con una specie di turbante che si conserva nel Museo Nazionale di Atene, ma lo stile straordinariamente delicato ne fa un'opera del sec. IV-III a. C. V'era anche la statua di Crisippo di Soli che altra fonte, come s'è già detto, ricorda invece sull'Agorà, salvo il caso che di questo filosofo stoico, le cui immagini nell'antichità erano molte diffuse, non esistesse in Atene più di una statua. Nel Ptolemaion vi erano anche delle erme in marmo, probabilmente le erme dei cosmeti del Ginnasio di cui molte, appartenenti al sec. I e al II d. C., sono state ritrovate presso il luogo presumibile del Ptolemaion in un tratto del muro medievale degli Acciaiuoli.
Fuori dell'Agorà, non lontano dal Ptolemaion, forse nell'avvallamento tra la pendice dell'Areopago e la pendice dell'Acropoli, è da cercare il luogo della Heliaia. Realmente a questa collocazione inducono solo la notizia che si trovava in un luogo incavato e il fatto che essa, come "tribunale di basso", veniva contrapposta al "tribunale di alto" che era l'Areopago (Bekker, Anecd. Graec., I, p. 253, 26). Ma se v'è luogo che non sembra legittimare il nome di Heliaia - è vero che se ne dànno altre etimologie - è proprio questo che guarda verso nord e a cui tolgono il sole le colline retrostanti. E nessun aiuto porge l'unica indicazione di vicinanza che è fornita dalle fonti antiche; presso la Heliaia v'era un luogo che si chiamava l'agorà dei Cercopi, dove i ricettatori vendevano roba rubata (Hesych., s. v. 'Αγορὰ Κερκώτων; Eustath., Ad Il., II, 7 seg.; X, 152). I Cercopi, ladruncoli del mito di Eracle, avevano suggerito questa denominazione scherzosa che era entrata poi nell'uso comune.
Infine se non proprio nell'Agorà, nelle sue immediate vicinanze o, in termini più lati, nel quartiere del Ceramico, doveva trovarsi un teatro, fondato da Agrippa o a lui dedicato, che era detto Agrippeion (Philostr., Vita soph., II, 5, 8).
Questa ricostruzione topografica dell'Agorà e delle sue immediate vicinanze è il paziente e ingegnoso lavoro di più generazioni di filologi, di storici, di archeologi, combinato su scarse rovine e su poche notizie letterarie, spesso imprecise, non di rado contraddittorie: quanto di essa poggi sulla realtà potranno dirlo presto o tardi gli scavi con i quali la Scuola archeologica americana si propone di riporre alla luce tutta la contrada a nord dell'Acropoli.
La regione a ovest dell'Acropoli. - È questo il quartiere collinoso che costituiva nello stesso tempo il confine dell'Agorà a sud e a sud-ovest. Ed è quello che, mentre doveva essere fittamente abitato nel periodo miceneo e nel periodo geometrico, fu invece abbandonato in periodo classico, anzi fu tagliato fuori delle mura temistoclee dallo sbarramento di Cleone. Per questo vi sono poche menzioni di monumenti e i più si conoscono solo da iscrizioni.
La più settentrionale delle colline, quella delle Ninfe, trae il suo nome appunto da un'iscrizione incisa sulla roccia (Inscriptiones Gr., I, 503), la quale indica che là esisteva un santuario delle Ninfe e del Demo. E una pietra di confine iscritta del sec. VI a. C. (Inscr. Gr., I, 504) dà testimonianza che sulla pendice orientale v'era un santuario di Zeus. Sulla pendice occidentale invece v'è quella che si chiama la "piccola Pnice". Da due pareti tagliate nella roccia che s'incontrano a leggiero angolo ottuso (lungh. complessiva m. 23,00), sporge un dado a gradini, cioè la tribuna o bema (lungh. m. 3,00) che guarda verso occidente. Manca la traccia sicura della recinzione dello spazio destinato all'adunanza e s'ignora il nome del luogo: forse serviva per l'assemblea di qualche tribù o di qualche demo o anche era il luogo di qualcuno dei minori tribunali ateniesi.
La vasta e pianeggiante collina a sud di quella delle Ninfe è chiamata la collina della Pnice, dal nome del luogo dove si teneva l'assemblea ateniese (v. tav. XXXVII).
Due lunghi tagli verticali nella roccia, che s'incontrano a leggiero angolo ottuso e che si estendono in direzione NO.-SE., costituiscono la parete di fondo. Al loro punto di incontro su un ripiano a tre gradini (lungh. della fronte m. 9,67, del lato nord m. 5,60, del lato sud m. 6,37) si alza (m. 3,00), la tribuna a cui si accedeva con minori gradini laterali. Al di dietro della tribuna si estendono sui lati di essa alcuni gradini, anch'essi scavati nella roccia, che dovevano essere dei sedili riservati.
Sulla parete di sud, sotto questi gradini, sono incavate nella faccia della roccia delle piccole nicchie per rilievi votivi, che circondano una nicchia di culto la quale, come si apprende dalle iscrizioni qui ritrovate, doveva essere dedicata a Zeus Hypsistos (Inscr. Gr., III, 148 segg.). Sulla parete di nord invece sono tagliati dei gradini che costituivano l'accesso allo spazio destinato all'assemblea. Dietro questo ingresso, alla distanza di m. 4, gli avanzi di un muro in parte cavato dalla roccia (spessore m. 2) possono appartenere a un'ulteriore parete di chiusura che forse si prolungava lungo tutta la parete della tribuna. In questo muro, più che su quello di recinzione, può immaginarsi esistente la meridiana che l'astronomo Metone (433 a. C.) aveva collocato sulla Pnice (Sch. in Aristoph. Av., 997). Lo spazio destinato all'assemblea si estende a segmento di ellissi (lungh. degli assi m. 70,00 e 120,00) in direzione di SO.-NE., ed è recinto per lungo tratto da un potente muro a biocchi di calcare (spessore m. 2,00). Tutto lo spazio così delimitato ha un'estensione di 6000 mq. e, contrariamente allo stato presente, doveva in origine, con un grande riempimento di terra, costituire come una cavea di teatro, discendente verso la parete della tribuna. La lavorazione di questo muro, che ha esternamente una specie di bugnatura rustica, indica che l'opera può al massimo risalire al sec. V a. C.
Tutto ciò che dalla tradizione antica si sa sulla Pnice: che era di fronte al Licabetto (Plat., Crit., 112 a), che era rivolta verso l'Areopago (Luc., Bis accus., 9), che da essa si potevano vedere egualmente l'Agorà e i Propilei (Aristoph., Acharn., 20 segg.; Harpocr., s. v. Προπύλαια ταῦτα), che era alta sulla roccia (Dem., XVIII, 169), corrisponde perfettamente a questo luogo: gli occhi contemplano ancora l'immutato paesaggio, per gli orecchi invece si è spenta ogni eco della molta eloquenza che fu là dentro creata dalla passione politica.
A sud-ovest della Pnice delle accurate lavorazioni nella roccia, particolarmente un lungo intaglio rettilineo (lungh. circa m. 50.00, alt. sopra i m. 2,50) e un dado isolato (circa 6 m. di lato), indicano che doveva esservi là un santuario o un tempio: si è voluto riconoscervi il santuario di Eracle Alexikakos in Melite (Zenob., V, 22; Hesych., s. v. ἐκ Μελίτης μαστιγίας), la cui statua del culto era opera di Agelada, e aveva ricevuto tale epiteto perché, al pari dell'Apollo di Calamide nell'Agorà, aveva aiutato gli Ateniesi durante la peste del 430 (Schol. in Aristoph. Ran., 501).
L'angusta strada che passa tra la pendice orientale della collina della Pnice, la pendice occidentale dell'Areopago e il declivio occidentale sotto l'Acropoli, costituiva una delle due vie naturali di accesso dall'Agorà all'Acropoli, mentre l'altra rasentava l'Areopago nella sua pendice settentrionale: si vuole che questa via sia la "stretta di Kollytos" (στενωπὸς Κολλυτὸς). Il demo di Kollytos infatti comprendeva il declivio occidentale sotto l'Acropoli. La via è stata rimessa alla luce con tutto il quartiere adiacente, dagli scavi dell'Istituto archeologico germanico. Si è voluto qua riconoscere il quartiere di Dioniso ἐν Λίμναις cioè "nelle paludi", per quanto la sua estensione sulla pendice rocciosa e l'abbondante numero di cisterne per raccogliere l'acqua piovana, facciano apparire il meno adatto possibile questo nome. Inoltre è da osservare che il santuario di Dioniso ἐν Λίμναις, nel quale si celebravano le più antiche feste dionisiache, si trovava, a testimonianza di Tucidide (II, 15, 4), a sud dell'Acropoli.
A ogni modo gli scavi qui compiuti hanno restituito l'immagine di quello che doveva essere un quartiere popolare di Atene, con le modeste case di abitazione privata, e hanno fatto conoscere monumenti di cui non v'erano notizie nella tradizione letteraria. Una stretta via leggermente serpeggiante percorre il quartiere in direzione nord-sud. Su di essa si allineano le case e i recinti: molte di queste case, ricostruite o rielevate in tarda età romana, conservano parte delle loro mura più antiche, in blocchi poligonali di calcare dell'Acropoli, del sec. VI-V a. C. Solo uno spazio sotto la pendice della Pnice non presenta tracce di costruzioni così antiche e sembra costituire un vasto spiazzato sulla via principale, a cui affluivano strade minori in direzione est-ovest. Impianti idråulici, tra l'altro bacini scavati sotto la roccia della Pnice, hanno mostrato che doveva esservi qui una piazza a fontana, ma è impossibile riconoscere in essa, come si è voluto, l'Enneakrounos dei Pisistratidi, non solo perché manca qualsiasi traccia dell'esistenza di una fonte sorgiva, ma anche perché essa è lontanissima dall'Ilisso, dove la tradizione letteraria concorde vuol collocata la fonte Callirroe.
Dinnanzi a questa piazza della fontana, sulla quale in tempi romani (secoli I-II d. C.) era stata costruita una casa con peristilio (il che è un altro dato di fatto che esclude qui l'esistenza dell'Enneakrounos), è stato trovato sull'altro lato della strada principale un santuario dell'eroe Amynos. Un piccolo propilo (largh. m. 2,75, prof. m. 0,80), aggiunto in seguito, dà accesso al recinto che ha una irregolare forma di trapezio, i cui due lati maggiori hanno una lunghezza di circa m. 17. Il punto centrale del recinto è costituito da un pozzo: si è creduto di poter additare anche la piccola edicola dell'eroe e l'avanzo di una tavola per le offerte. Al culto dell'eroe Amynos furono associati in appresso e successivamente Asclepio e Igiea, il che conferma, come del resto indica l'etimologia del nome, che era un nume della salute. Si vuole che il culto di Asclepio vi sia stato introdotto per opera di Sofocle, il quale poi sarebbe stato onorato vicino all'Amyneion con l'epiteto di Dexion (Etym. Magn., s. v. Δεξίων).
Più a nord dell'Amyneion, sempre sul lato orientale della strada, si è scoperto un altro recinto, nel quale appunto si è voluto riconoscere il santuario di Dioniso ἐν Λίμναις. Veramente su questo recinto in tarda età greca o al principio dell'età romana si era venuta a collocare la sede d'una corporazione di Iobakchoi, cioè di cultori di Dioniso, di cui si è ritrovato il regolamento in una trascrizione del sec. II d. C. Nella più tarda età romana la parte principale di questo Bakcheion era costituito da una sala rettangolare divisa in tre navate da due file di quattro colonne (lunghezza m. 18,80, larghezza m. 11,25) con una specie di altare rettangolare presso il lato orientale (m. 3,40 × 1,95) e con un'abside rettangolare al di là di questa parete. Una stanza adiacente a questa abside dalla parte di nord era destinata al culto di Artemide, e da un altare iscritto sembra che a quello di Artemide fosse associato il culto d'una divinità κουροτρόϕος.
Quando la sede degli Iobakchoi fu qui stabilita, il sottostante e più antico recinto doveva essere caduto in abbandono e tutto il luogo doveva aver subito una trasformazione, perché la sala degli Iobakchoi era venuta a collocarsi sulla via che fiancheggiava il recinto a oriente.
Il recinto più antico occupava un vasto spazio triangolare tra la via principale, questa via a oriente e un'altra a nord. Il muro di recinzione è in blocchi di calcare dell'Acropoli, ma è stato restaurato o rinnovato in più tempi, come indica la diversa forma dei blocchi poligonali e rettangolari.
Il lato più lungo del muro di recinzione, quello sulla strada principale, si estende per circa 45 m. Il recinto è diviso in due parti, una minore a sud, in cui si conservano gli avanzi di un piccolo tempio con vestibolo (lungh. m. 5,20, largh. m. 3,96), e una maggiore che ha quasi nel centro il basamento quadrato (m. 3,10) di un altare a quattro colonne, a cui doveva essere appoggiata una stele, e che ha nell'angolo di nord-ovest un impianto per la fabbricazione del vino, col torchio e la vasca.
Precisamente questo impianto (il torchio in greco è ληνός) non solo ha fatto pensare che questo sia il santuario di Dioniso ἐν Λίμναις nel quale appunto v'erano il tempio del dio e una casa (Schol. in Aristoph. Ran., 126), e v'era inoltre presso l'altare una stele in pietra in cui era scritta la legge che indicava i requisiti che doveva possedere la moglie dell'arconte basileus la quale celebrava le nozze con Dioniso (Ps.-Dem., LIX, 74 segg.), ma ha fatto anche congetturare che in questo recinto si celebrassero le feste Lenee, come del resto è attestato da una notizia antica (Hesych., s. v. Λίμναι). Da questa medesima fonte (Hesych., s. v. ἐπὶ Ληναίῳ ἀγών) risulterebbe che il recinto era detto Lenaion, e che Dioniso riceveva l'epiteto di Lenaios. Tuttavia, a parte l'identificazione del Lenaion col santuario di Dioniso ἐν Λίμναις, rimane sempre assai poco probabile che questo recinto, su cui era venuta a piantarsi la corporazione degli Iobakchoi, possa essere il santuario di Dioniso ἐν Λίμναις. Più opportunamente esso deve cercarsi presso il tempio di Zeus Olimpio e presso l'Ilisso, come suggeriscono le notizie di Tucidide e il possibile carattere paludoso del luogo, cioè non nel bel mezzo del quartiere più abitato della città, ma quasi alla periferia di essa, vicino alla campagna. E con questo nel caso andrebbe d'accordo non soltanto il carattere campestre che si può riconoscere alle Lenee in contrapposto alle grandi Dionisie, che erano le Dionisie di città, ma anche l'indicazione che Limnai, che da alcuni viene dato come un luogo di Atene, secondo altri era una contrada dell'Attica (Callim., presso Steph. Byz., s. v. Λίμναι, e Sch. in Aristoph. Ran., 216). A tale ubicazione, cioè a un isolamento del santuario fuori dell'abitato, meglio si addice anche il fatto che esso si apriva una sola volta all'anno, il 12 del mese di Antesterione.
Le case che si sono cosi conservate nel fondovalle tra la Pnice e l'Areopago salivano anche su tutta la pendice occidentale dell'Areopago, a giudicare dai numerosi tagli nella roccia fatti per le loro fondamenta. È probabile che su questa pendice fossero la caserma degli arcieri Sciti, che costituivano il corpo di polizia della città (Suid., s. v. τοξότοαι), il santuario che indicava il punto in cui, secondo una delle tradizioni, Borea aveva rapito Orizia (Plat., Phaedr., 229 d) e una capanna fatta con argilla che ancora in età romana si additava come esempio di antico sistema di costruzione (Vitr., II, 1, 5).
Sul punto più alto della collina, che è il più orientale e che è nello stesso tempo scosceso all'intorno, si deve cercare il famoso tribunale antico che giudicava dei delitti di sangue: si sa infatti che esso stava in alto (Plut., Sol., XIX, 2) e l'espressione che si adoperava per adire a questo tribunale era appunto "salire all'Areopago" (Arist., Ath. pol., 40, 3). In questo punto infatti, che costituisce una specie di terrazza, vi sono i tagli sulla roccia per una piccola costruzione a esedra rettangolare, aperta sul lato di sud e con tre gradini sugli altri tre lati. A essa si giunge per una ripida scala scavata nella roccia. Più in alto, su una seconda terrazza maggiore, v'è un cubo isolato di roccia nel quale si è voluto riconoscere l'altare di Atena Areia (Paus., I, 28, 5). Qui v'erano anche le due pietre bianche, quella dell'oltraggio (ὕβρις), sulla quale sedeva l'accusato, e quella del risentimento (ἀναίδεια), sulla quale sedeva l'accusatore.
Sotto l'angolo di nord-est dell'Areopago, dove la roccia scoscesa e gli enormi massi caduti per i terremoti costituiscono una specie di orrido ingresso, deve collocarsi il santuario delle Semnai, cioè delle Erinni (Paus., I, 28, 6; cfr. Eurip., Electr., 1270 seg.). Delle tre immagini quella di mezzo era opera di Calamide, le altre due in marmo pario erano opera di Scopa (Clem. Alex., Protr., 47). Là vi erano inoltre le statue di Plutone, di Ermete e di Ge, e là sacrificavano quanti avevano ottenuto l'assoluzione dall'Areopago. Dentro il recinto si additava anche la tomba di Edipo (Valer. Max., V, 3, ext. 3).
La regione a nord dell'Acropoli. - Di questa regione è stato già ricordato qualche monumento, sia descrivendo le pendici settentrionali dell'Acropoli, sia trattando delle immediate vicinanze dell'Agorà. Tuttavia molti altri se ne conoscono dalla tradizione letteraria, ma di essi non rimangono avanzi e difficile è precisarne l'ubicazione. Il maggiore era l'Eleusinio, cioè il santuario delle divinità di Eleusi, che, appunto per distinguerlo dall'altro, veniva detto l'Eleusinio "in città". Per la sua ubicazione si sa soltanto che stava sotto l'Acropoli (Inscr. Gr., III, 5 v. 11 seg.; Clem. Alex., Protr., 13) e che si trovava a una svolta della strada che percorreva il corteo delle grandi Panatenee prima di rasentare il Pelasgico (Philostr., Vita X Soph., II, 1, 5). È probabile che esso si trovasse là dove finiva il pendio e cominciava l'aspra ascesa della roccia dell'Acropoli perché, come fu già accennato, l'Eleusinio era il termine estremo per una bella parata di cavalleria. E siccome questa parata veniva direttamente dall'Agorà, percorrendo la via più breve, cioè non girando tra l'Areopago e la Pnice, ma puntando verso l'estremità orientale dell'Areopago, è sotto la sella tra l'Areopago e l'Acropoli che con maggiore probabilità deve cercarsi l'Eleusinio. Con questo va anche d'accordo il fatto che il Pelasgico, che il corteo panatenaico rasentava dopo aver passato l'Eleusinio, si trovava sotto l'angolo di nord-ovest dell'Acropoli, e che il santuario di Apollo Pizio, verso cui si dirigeva il carro in forma di nave a cui era attaccato il peplo della dea, era a sud dell'Acropoli. Una collocazione diversa dell'Eleusinio, a sud-ovest anzichê a nord-est dell'Acropoli, contraddirebbe, per il movimento del corteo, a queste due posizioni certe del Pelasgico e del Pythion.
Fuorì del Pelasgico o per meglio dire delle nove porte di esso (Enneapylai), in questa medesima sella a nord-ovest dell'Acropoli, deve cercarsi il Kyloneion (Schol. in Soph. Oed. Col., 489), che fu dedicato per espiare l'uccisione dei compagni di Cilone (verso il 630 a. C.), uccisione compiuta dinnanzi alla porta dell'Acropoli contro il patto della resa con cui era stata loro promessa salva la vita.
Più in basso e un po' più verso nord debbono collocarsi alcuni altri santuarî o edifici, per i quali due punti di riferimento sono dati dall'Aglaurion, cioè dal santuario di Aglauro che stava sotto la pendice settentrionale dell'Acropoli, e dal ginnasio già ricordato, il Ptolemaion, non lontano dall'Agorà verso oriente.
Vicino al Ptolemaion v'era il santuario di Teseo (Paus., I, 17, 2), nel quale erano state deposte le ossa di questo eroe, che Cimone (Plut., Cim., 8, 5 seg.) aveva trovato in Sciro (475 a. C.). Tuttavia il santuario doveva essere anche vicino a un altro ginnasio, il Diogeneion (Plut., Thes., 36, 1 seg.; cfr. Quaest. conv., IX, 1, 1).
L'episodio del modo con cui Pisistrato disarmò i suoi concittadini impadronendosi del governo di Atene, cioè invitandoli a porre le armi nel Theseion dov'erano radunati, e ad avvicinarsi al propilo dell'Acropoli, e facendo poi portare via le armi dai suoi seguaci (Aristot., Ath. pol., 15, 4) pone un rapporto di direzione tra i due edifici, ma non ne stabilisce la distanza. Un'altra redazione dell'avvenimento (Polyaen., I, 21, 2) fa radunare i cittadini nell'Anakeion, cioè nel santuario dei Dioscuri, e portare le armi nell'Aglaurion, cioè colloca la scena sempre sotto la pendice settentrionale dell'Acropoli. Combinando due passi di Demostene (di cui l'uno parla del luogo dove teneva scuola colui presso il quale il padre di Eschine era bidello, XVIII, 129, cioè presso il Theseion, e l'altro del luogo presso il quale il padre di Eschine tenne scuola per suo conto, XIX, 249, cioè presso il santuario dell'Eroe medico) già una fonte antica (Apollon., Vita Aeschin., 10, 13) poneva un rapporto di vicinanza tra i due santuarî, ma il ritrovamento di due iscrizioni (Inscr. Gr., II, 403 seg.) del santuario dell'Eroe medico fanno collocare questo molto lontano dall'Acropoli, nella regione settentrionale della città presso la chiesa di S. Mavra. Così egualmente non aiutano a una più precisa ubicazione alcune epigrafi che dovevano stare nel Theseion (Inscr. Gr., II, 444 segg.) e che sono state trovate presso la chiesa di S. Demetrio Catifori, perehé provengono dal muro degli Acciaiuoli che fu costruito con materiale tratto da ogni parte dell'Agorà.
Se merita fede la redazione dell'episodio di Pisistrato nella tradizione raccolta da Aristotele, il Theseion doveva già esistere nel sec. VI; per altro esso ricevette la sua bella decorazione al tempo di Cimone. Le mura erano state dipinte da Micone e i tre soggetti erano l'Amazonomachia di Teseo, la Centauromachia, alla quale egualmente aveva partecipato Teseo come amico di Piritoo, e il riconoscimento di Teseo come figlio di Posidone, quando egli riporta dal fondo del mare l'anello gettatovi per sfida da Minosse (Paus., I, 17, 2 seg.).
Non lontano dal Theseion v'era l'Anakeion. Si sa infatti che esso era sotto l'Acropoli (Lucian., Pisc., 42) e che, più precisamente ancora, si trovava al disotto del santuario di Aglauro (Paus., I, 18, 2). Non doveva per altro essere sul pendio, una volta che poteva servire come luogo di riunione della cavalleria in caso di allarme (Andoc., I, 45). Il santuario era assai antico e in esso vi erano le statue dei Dioscuri a piedi e dei loro figlioli a cavallo (Paus., I, 18, 1). Anche questo santuario era decorato di pitture: Polignoto vi aveva dipinto le nozze delle Leucippidi, Micone il ritorno degli Argonauti, alla cui impresa i Dioscuri avevano partecipato.
Come il santuario dei Dioscuri era presso quello di Aglauro, così vicino a questo v'era il Pritaneo (Paus., I, 18, 3), ed esso doveva stare non nella pianura sotto l'Acropoli ma sulla sua pendice (I, 18, 4). Tuttavia doveva avere al di dietro uno spiazzato al quale era dato il nome di "pianura della fame" (Λιμοῦ πεδίον; Zenob., IV, 93). Nessun appoggio di fonti antiche ha l'ipotesi moderna che il Pritaneo sia stato qua trasferito in età tarda, e che in origine fosse nell'Agorà e ancor prima sull'Acropoli. Il Pritaneo era l'edificio nel quale si trovava il focolare sacro della città e nel quale prendevano i loro pasti gli ospiti dello stato; in periodo più antico aveva avuta là la sua sede l'arconte eponimo (Arist., Ath. pol., 3, 5). Inoltre vi teneva le sue adunanze il tribunale dei Phylobasileis, cioè dei quattro rappresentanti delle antiche tribù, che sotto la direzione dell'arconte basileus giudicavano tra l'altro dei delitti commessi dagli animali e dalle cose inanimate (Arist., Athen. pol., 8, 57; cfr. Andoc., I, 78; Plut., Sol., 19; Paus., I, 28, 10; Poll., VIII, 120). Solo un errore letterario antico ha creato per i Phylobasileis una sede speciale, il Basileion, che si sarebbe trovato presso il Boukoleion (Poll., VIII, 111). Presso il Boukoleion, del quale, come è stato già accennato, si sa soltanto che era il luogo in cui avvenivano le nozze di Dioniso e della moglie dell'arconte basileus, si trovava il Pritaneo, che appunto era la sede di questo tribunale.
Nel Pritaneo si conservava anche una parte delle leggi di Solone (Paus., I, 18, 3), che Efialte aveva trasferito dall'Acropoli dove erano in origine (Poll., VIII, 128; Harpocr., s. v. ὁ κάτωϑεν νόμος): vi si conservavano le leggi iscritte sugli axones, cioè su ambedue le facce di tavolette quadrate e girevoli, ed erano le leggi del diritto civile. Invece l'altro gruppo delle leggi di Solone, ossia quelle del diritto sacro e del diritto costituzionale, che erano scritte sui kyrbeis, cioè su piramidi a sezione triangolare, erano state trasferite nella Stoa Basileios sull'Agorà (Harpocr., s. v. ἄξονες; Arist., Ath. pol., 7; Suida, s. v. κύρβεις; cfr. Plut., Sol., 25). Nonostante qualche confusione nella tradizione letteraria antica e qualche tentativo di stabilire l'identità fra i due tipi di leggi (Plut., Sol., 25; Sch. in Apoll., IV, 280), la nomenclatura epigrafica e la buona tradizione letteraria mantengono sempre la differenza tra le leggi civili degli axones (Inscr. Gr., I, 61; Plut., Sol., 19) e le leggi religiose dei kyrbeis, che erano anche detti stelai (Lys., Contra Nicom., 17; Athen., VI, 234; Apollodoro presso Harpocr., s. v. κύρβεις).
Sono ricordate delle statue nel Pritaneo: una della Pace ed una di Estia, inoltre una del pancraziaste Autolico, opera di Leocare (Plin., XXXIV, 79), a cui forse fu innalzata molto tempo dopo la sua vittoria (422 a. C.), perché era considerato un eroe della libertà ateniese essendo stato ucciso dai Trenta Tiranni, e infine una di Milziade e una di Temistocle che in età romana erano state trasformate e iscritte a due personaggi ignoti, un romano e un trace.
Un ultimo edificio è da cercare nella pianura a nord dell'Acropoli, ed è il tempio di Serapide (Paus., I, 28, 3). Per la sua precisa ubicazione poco vale il ritrovamento di alcune iscrizioni riguardanti questo culto, perché troppo vasta è l'area in cui furono raccolte, tuttavia alcune (Inscr. Gr., III, 923; 'Εϕημ. ἀρχ., 1913, p. 197 seg.) ci portano nella regione della Piccola Metropoli. Ma per collocarlo un po' più a oriente valgono forse le indicazioni antiche che, non distante da esso, si trovava un luogo nel quale si erano incontrati Teseo e Piritoo prima della spedizione per Sparta, cioè prima del patto di andare a rapire Elena, che vicino a questo luogo si trovava il tempio di Ilitia, cioè della dea del parto (Pausania, I, 18, 4 seg.) e che di qua si andava al tempio di Zeus Olimpio (I, 18, 6). Ora il tempio di Ilitia si trovava nella regione di Agrai, che si estendeva sotto le ultime pendici dell'Imetto, e presso il corso superiore dell'Ilisso (Bekker, Anecd. Graec., 326, s. v. "Αγραι, dove ἀγοράν va corretto in "Αγρας). Non vi sono infatti argomenti convincenti per ammettere un altro tempio di Ilitia in città oltre a quello in Agrai.
Mentre tutti questi santuarî, templi, edifici pubblici di età greca e famosi nella tradizione letteraria, che si trovavano nella regione a nord dell'Acropoli, sono andati interamente distrutti, o le loro fondamenta sono ancora sepolte sotto le case della città moderna, si sono invece abbastanza bene conservati in questa regione, ma un poco più a nord, cioè sulla stessa linea dell'Agorà, degli edifici romani, appena menzionati dalla tradizione antica.
Il primo a incontrarsi di questi edifici, a est della stoa di Attalo, è il propilo dorico in marmo pentelico (v. tav. XXXVIII) innalzato (12 a. C.-2 d. C.) in onore di Atena Archegetis con i doni fatti alla città da Cesare e Augusto come dice l'iscrizione sull'architrave (Inscr. Gr., III, 65). La base sull'apice del frontone sosteneva, come si apprende dall'iscrizione (Inscr. Gr., III, 445), una statua del nipote di Augusto, L. Cesare.
Il propilo è costituito da un rettangolo (largh. sul prospetto m. 13,00, prof. m. 13,00) che ha sulla fronte quattro colonne (alt. m. 7,87, diam. inf. m. 1,22). La parete a porte è a m. 7,50 più indietro del prospetto a colonne, e aveva tre aperture di cui la mediana, destinata ai carri, è più larga (m. 2,50) in corrispondenza della maggiore larghezza dell'intercolumnio centrale. Dentro il propilo, sul lato settentrionale, è ancora in posto un pilastro in marmo che porta una legge di Adriano (Inscr. Gr., III, 38) riguardante l'olio che doveva essere riservato allo stato per suoi bisogni pubblici, tra l'altro per l'uso dei ginnasî.
Questo propilo più tardi è stato incorporato in un grande edificio, in cui si suole riconoscere il mercato di età romana, ma che con assai maggiore probabilità è il ginnasio di Adriano (Paus., I, 18, 9). Ne è stato scavato solo l'angolo di sud-est, ma ne è stata ricostruita la pianta, ed essa risulta allineata sull'altro grande edificio di Adriano, la Biblioteca, che è più a nord, e risulta anche press'a poco delle medesime dimensioni
La costruzione misura all'incirca 112 m. in lunghezza e 96 in larghezza e sembra che fosse chiusa tutt'intorno da un muro. Nell'interno delle file di colonne ioniche a fusto liscio, parallele ai quattro muri, chiudevano una vasta area scoperta (m. 82 × 57). Sui due lati stretti dietro il colonnato doveva esservi una fila di stanze rettangolari, almeno a giudicare da quelle conservate sul lato orientale (all'incirca m. 5,25 × 4,75). Ignoriamo invece quale fosse l'originario andamento sui due lati lunghi, perché gli avanzi di un secondo colonnato sul lato meridionale indicano soltanto un rozzo rimaneggiamento fatto in tarda età romana, foise quando il ginnasio poté essere adibito a mercato.
Sul lato orientale v'è un secondo propilo che per simmetria forse ne presuppone un terzo più a nord, una volta che esso non è sull'asse centrale dell'edificio.
È di ordine ionico (largh. sul prospetto m. 11,25, prof. m. 10,70): aveva anch'esso una parete a tre porte ma, dato il dislivello, che era superato con dei gradini, era solo accessibile ai pedoni.
Le cento e più colonne presumibili del colonnato interno sono, come quelle del propilo d'oriente, in marmo dell'Imetto, non sono cioè di quel marmo libio che la fonte antica ha visto, o ha creduto di vedere, nel ginnasio di Adriano; ma d'altra parte l'edificio manca del carattere e degli impianti necessarî per un mercato, e alla sua volta è troppo strettamente collegato alla biblioteca per non vedervi la seconda delle costruzioni con cui Adriano provvide al corpo oltre che allo spirito della gioventù ateniese. Assai male invece avrebbe provveduto alla tranquillità della Biblioteca, impiantandola vicino a un rumoroso mercato. D'altronde non v'è nessun argomento plausibile per cercare il ginnasio di Adriano altrove e precisamente, come si è fatto, in alcune rovine tornate alla luce sulla sponda sinistra dell'Ilisso, a sud del tempio di Zeus Olimpio.
Solo la sicurezza che questo edificio fosse l'Agorà romana ha fatto dare il nome di Agoranomion ad alcuni archetti in marmo dell'Imetto che si trovano a oriente di esso e più in alto, e che dovevano far parte di una più vasta costruzione, di cui non è possibile rintracciare la forma. Essa doveva preesistere al ginnasio di Adriano, come indicano la scalea, un po' obliqua, di raccordo, che è stata stabilita tra i due edifici, e ancora meglio la leggiera obliquità con la quale è stato impiantato il propilo orientale del ginnasio di Adriano, appunto perché rimanesse allineato su questa costruzione retrostante. Lo indica anche l'iscrizione sull'epistilio che la dice dedicata ad Atena Archegetis e agli Dei Augusti (Inscr. Gr., III, 66) e fa quindi indurre che fu innalzata nella prima metà del sec. I d. C., certo dopo la morte di Tiberio. L'Agoranomion deve invece cercarsi più a occidente, e a esso doveva appartenere un archetto in marmo dell'Imetto con dedica dell'agoranomo Erode Attico all'imperatore Antonino Pio ('Αρχ. δελτ., 1888, p. 188 seg.).
A nord di questa loggia di Atena Archegetis è ancora in piedi quasi intatto l'orologio costruito nel sec. I a. C. da Andronico Cirreste (Varr., De re rust., III, 5; Vitr., I, 6, 4) che è noto sotto la denominazione popolare di Torre dei venti (v. tav. XXXVIII).
Esso è un ottagono in marmo pentelico (alt. m. 12,80, diam. massimo m. 7, misura di ogni lato m. 2,80) che si eleva su tre gradini ed è coperto da un tetto circolare a piramide ottagonale abbassata, costituito da 24 lastre trapezoidali. Due piccoli vestiboli a colonne corinzie scanalate, ma senza base, con epistilio ionico e frontone, si trovano dinnanzi a due porte aperte sul lato di nord-ovest e sul lato di nord-est. Esse erano fatte per potere entrare e uscire passando dinnanzi all'orologio idraulico (clepsidra) che v'era nell'interno, e che era regolato dall'acqua che affluiva da un deposito cilindrico costruito sul lato meridionale. L'edificio era stato costruito anche come orologio solare o fu a ciò adibito più tardi; su ciascun lato è stata tracciata una meridiana. Infine esso serviva come indicatore dei venti, perché al culmine, su una specie di capitello corinzio, era collocato un tritone in bronzo che teneva nella destra una verga, ed era congegnato in tal modo che roteava al soffiare del vento, e si arrestava dalla parte da cui il vento soffiava indicandone così con la verga l'immagine a rilievo esistente sulla fascia alta dell'edificio al disotto del tetto. Sugli otto rilievi sono anche scritti in greco i nomi dei venti: attributi, vesti e forme ne distinguono il carattere.
Perfettamente allineata sul Ginnasio, e solo un po' più avanzata con la fronte occidentale, un po' più arretrata con la fronte orientale, è la Biblioteca di Adriano. Una distanza di 30 metri separa i due edifici. Anche la Biblioteca di Adriano è stata solo in parte scavata. E naturalmente è rimasto appena lo scheletro della sontuosa costruzione che aveva cento colonne di marmo frigio; in marmo frigio erano anche i muri dei porticati, le sale avevano soffitti dorati e pareti d'alabastro, ed erano ricche di pitture e di statue (Paus., I, 18, 9).
Secondo il carattere dell'architettura romana, e in corrispondenza al Ginnasio, la Biblioteca è una grandiosa costruzione a vasta spazialità interna, formata da un rettangolo chiuso su tre lati. Tutta questa recinzione è in blocchi rettangolari di poros. Sul lato settentrionale il muro presenta tre absidi, una mediana rettangolare e due laterali a semicerchio, e ciascuna con due colonne tra le ante. Un'analoga disposizione si deve presupporre per il lato meridionale non ancora scavato. Il lato occidentale costituiva la fronte (v. tav. XL): davanti al muro erano collocate quattordici colonne corinzie a tronco liscio (alt. m. 8,60, diam. m. 0,90), sulle quali continuava con spezzatura angolare la trabeazione del muro. Nel mezzo di questo muro si apre la porta e dinnanzi a essa vi era un propilo (largh. m. 12, prof. m. 7) con quattro colonne corinzie scanalate. Il lato orientale invece era chiuso e soltanto un poco aggettante nella sua parte centrale, ornata esternamente con sei pilastri. A questa parete erano appoggiate le stanze della biblioteca e la costruzione di esse era in mattoni con rivestimento in lastre di marmo. La sala mediana (m. 23,21 × 14,24), come indicano nella parete di fondo le nicchie destinate agli armadî a muro, era la stanza dei libri ed essa si apriva sulla corte centrale con una parete a quattro colonne. Le sale laterali dovevano servire alla lettura o ad altri usi e v'erano anche piccoli vani, forse spogliatoi e latrine.
Tutto lo spazio interno dell'edificio era circondato da un colonnato (lungh. m. 81,75, largh. m. 59,88), che costituiva quindi quattro portici (largh. sui lati lunghi m. 7,38, sui lati brevi m. 7,54). Le colonne dovevano essere circa 100: questo colonnato fu modificato in appresso: a colonne con sola base furono sostituite colonne con basamento; esse sono in marmo bianco. Il cortile compreso dentro il colonnato in origine aveva al centro un grande bacino (lungh. m. 58, largh. m. 13) forse circondato da giardini. Poi sulla parte orientale del bacino era stata costruita una sala quadrata (lato m. 15,40) in marmo con esedra a colonne su ciascun lato. In un terzo tempo l'edificio era stato ampliato con esedre a muro sui lati settentrionale e meridionale e con un vestibolo rettangolare (m. 25,40 × 5,13) sul lato occidentale. In età bizantina su questo edificio fu innalzata con materiale raccogliticcio la chiesa della Grande Panagia.
Ai dati architettonici che fanno riconoscere in questo edificio la Biblioteca di Adriano si aggiunge il ritrovamento di due statue femminili coricate (Museo Nazionale, Atene), personificazioni dell'Iliade e dell'Odissea, che, forse poste ai lati di una statua o di un busto di Omero, potevano far parte dell'ornamentazione statuaria di cui parla la fonte antica.
La regione a est e a sud dell'Acropoli. - Dal Pritaneo partiva la Via dei tripodi (Paus., I, 20, 1) che, girando intorno all'Acropoli, dalla sua pendice settentrionale portava alla sua pendice meridionale. Essa traeva il nome dai monumenti coregici sui quali era collocato il tripode della vittoria ottenuto nella gara drammatica, costituiva cioè la via d'accesso al santuario di Dioniso. A uno di questi monumenti doveva appartenere il Satiro versante di Prassitele (Paus., I, 20, 1 seg.) che è conservato in molte repliche romane. Il tracciato della Via dei tripodi sul lato orientale dell'Acropoli è indicato dagli avanzi dei basamenti di qualcuno di questi monumenti coregici.
Ma uno solo è ancora in piedi, ed è abbastanza ben conservato, il monumento di Lisicrate (v. tav. XLII), che, come dice l'iscrizione dell'epistilio, era stato innalzato dal vincitore Lisicrate durante l'arcontato di Eveneto (335-334 a. C.).
Sopra un basamento quadrato in poros (alt. m. 4, largh. circa m. 3), coronato da una cornice in marmo dell'Imetto, si innalza un piccolo tempio cilindrico in marmo pentelico (alt. m. 6,50, diam. m. 2,80) a cui si appoggiano sei mezze colonne corinzie. Sulla cornice superiore del tempietto, tra colonna e colonna, è rappresentata una serie di tripodi. Sopra le colonne poggia l'epistilio ionico, la cui fascia superiore presenta a rilievo la scena dei pirati tirreni trasformati in delfini da Dioniso. Il tetto è sormontato da un cesto di foglie d'acanto su cui era stato collocato il tripode della vittoria.
A sud-est del monumento di Lisicrate si sono trovate due colonne ioniche e parte della trabeazione d'un porticato di tarda età romana, di cui non si conosce il nome dalla tradizione letteraria antica. Più lontano, sempre a sud-est, s'innalza la già ricordata porta di Adriano e vicino a questa, con esatta orientazione est-ovest, si stende il grandioso podio del tempio di Zeus Olimpio.
Del tempio di Zeus Olimpio od Olympieion (v. tav. XXXIX) aveva posto le fondamenta Pisistrato nella seconda metà del secolo VI a. C., ma i lavori furono abbandonati alla sua morte e furono ripresi soltanto verso il 174 a. C. per iniziativa del re di Siria, Antioco IV Epifane, che ne affidò l'esecuzione all'architetto D. Cossuzio (Vitr., VI, praef., 15, 17). La morte di Antioco interruppe di nuovo l'opera. E si vuole che Silla nell'86 a. C. ne avesse trasportato a Roma gran numero delle colonne per la sua nuova costruzione del tempio di Giove Capitolino. Finalmente Adriano portò a compimento il tempio, che fu così dedicato poco dopo il 130 d. C.
Esso era il più grande tempio corinzio dell'antichità (lungh. m. 107,75, largh. m. 41,10) ed era costruito in marmo pentelico. Era un diptero con tre file di otto colonne sulla fronte e due file di venti colonne sui due lati lunghi, cioè era circondato da una selva di 104 colonne (alt. m. 17,25, diam. inf. m. 1,70). Ne rimangono solo sedici. Manca qualsiasi avanzo della cella, dei cui marmi, come del resto del colonnato, si deve essere fatta calce durante il Medioevo e anche più tardi. Nella cella v'era una statua colossale del dio, in oro e avorio (Paus., I, 18, 6).
Il tempio si eleva nel mezzo di un vasto podio rettangolare (lunghezza m. 205,60, largh. m. 129), costruito con blocchi rettangolari di poros e rinforzato esternamente da pilastri, che ne costituiva il peribolo. A questo peribolo si accedeva sul lato settentrionale da un propilo (larghezza m. 10,50, prof. m. 5,40), di cui si conservano le fondamenta e qualche cosa dell'elevato. Probabilmente è questo il propilo principale, perché conduceva dinnanzi alla fronte orientale del tempio. Nelle sue vicinanze dovevano trovarsi quattro statue di Adriano. Presso le colonne del tempio vi erano delle statue di bronzo, personificazioni di colonie. Il peribolo era pieno di statue, di cui moltissime di Adriano innalzate da città greche: tutte le vinceva quella colossale dedicata dagli Ateniesi e che si trovava dietro il tempio (Paus., I, 18, 6). Era collocata qui anche una statua in bronzo di Isocrate, innalzata sopra una colonna (Paus., I, 18, 8; Ps.-Plut., Vita X orat., 839 b). Dentro il peribolo del tempio sono ricordati inoltre il tempio di Crono e di Rea e il recinto di Ge Olimpia, con lo spacco nel terreno in cui si sarebbe riversata l'acqua dopo il diluvio del tempo di Deucalione (Paus., I, 18, 7). Difatti, secondo il mito, Deucalione, per gratitudine, avrebbe qui dedicato, dopo il diluvio, il primo tempio a Zeus Olimpio e si additava la tomba di lui non lontano dal tempio (Paus., I, 18, 8).
Immediatamente vicino al tempio di Zeus Olimpio, e più precisamente a sud-ovest e verso l'Ilisso, doveva trovarsi il santuario di Apollo Pizio (Paus., I, 19, 1), che era uno dei più antichi della città. L'ubicazione è confermata dal ritrovamento in questa contrada di epigrafi attinenti al culto di Apollo, tra le altre quella dell'altare dedicato da Pisistrato il giovane (Inscr. Gr., IV, 1, 1, 41, n. 373 e). Non sembra che vi fosse un tempio, ma solo un recinto sacro con statua di culto. E non è sicuro che l'altro santuario di Apollo detto Delfinio (Paus., I, 19, 1), a cui era associata nel culto anche Artemide Delfinia, si trovasse presso il santuario di Apollo Pizio. Con maggiore probabilità si ricerca più ad occidente, nella contrada dietro le porte Diomeia ed Itonia, il santuario delle due divinità infere Neleo e Basile, a cui più tardi fu associato nel culto Codro, l'ultimo re di Atene.
Invece con certezza più a oriente presso l'Ilisso, nelle vicinanze della chiesa di santa Fotinì (Φωτεινή), si deve collocare la fonte Callirroe, anche se non è tornato alla luce sinora nessun avanzo della grandiosa costruzione a nove bocche (Enneakrounos), di cui l'adornarono i Pisistratidi. Le notizie antiche la pongono a sud dell'Acropoli (Thuc., II, 15, 5), presso l'Ilisso (Ps.-Plat., Axioch., 364 b; Etym. Magn., s. v. 'Εννεάκρουνος; Schol. in Aristoph., Equit., 526), in vicinanza del tempio di Zeus Olimpio (Hierocl. Hippiatr. prooem.) e sotto le pendici dell'Imetto (Herod., VI, 137). A tale collocazione non contraddice neanche la menzione di Pausania (I, 14, 1), perché i monumenti che ricorda insieme all'Enneakrounos erano appunto lontani dall'Agorà che egli, giunto all'angolo di sud-est, là dove erano i Tirannicidi, abbandona con la sua descrizione, per rivolgere questa a monumenti lontani a sud dell'Acropoli. Dell'edificio dei Pisistratidi, che dovette rimanere esemplare nei tempi come costruzione tipica d'una fontana, si può avere un'idea da rappresentazioni di vasi attici a figure nere. L'acqua sgorgava da bocche ornate, disposte sulla parete di fondo e sulle pareti laterali di un portico a colonne doriche.
Appunto secondo la descrizione di Pausania vicino all'Enneakrounos, ma certo dentro le mura della città, si trovava un Odeion, cioè un teatro per recitazioni con commento musicale (Paus., I, 8, 6; 14, 1). Il fatto che dinnanzi al suo ingresso v'erano statue di Tolomei, cioè di Filometore, di Filadelfo, di Sotere, di principesse egiziane, Arsinoe e Berenice, e inoltre di Filippo, di Alessandro, di Lisimaco, di Pirro, può far credere che l'edificio fosse una donazione dell'una o dell'altra casa di dinasti ellenistici. A ogni modo questo esclude l'identificazione che si è tentata di fare con un edificio già ricordato che, se non proprio nell'Agorà, stava nel quartiere del Ceramico, cioè col teatro che era detto Agrippeion, perché è inverosimile che si sia usurpato per il nome di Agrippa, e due secoli dopo la sua morte, un edificio che chiaramente indicava la sua origine o almeno il suo abbellimento con queste statue onorarie.
Al disopra dell'Enneakrounos, cioè sulla pendice della collina retrostante, sono ricordati due templi, uno di Demetra e di Kore, l'altro di Trittolemo (Paus., I, 14, 1). Il tempio di Demetra e di Kore deve quasi certamente identificarsi col Metroon ἐν "Αγραις, nel quale si celebravano i piccoli Misteri (Hesych., s. v. "Αγραι; Steph. Byz., s. v. "Αγρα; Bekker, Anecd. Graec., 326, 334). Infatti si sa anche che esso trovavasi presso l'Ilisso (Hesych., s. v. "Αγραι). E il Metroon si è voluto riconoscere in un tempietto che è noto sotto il nome di tempietto dell'Ilisso. Esso era stato trasformato in una chiesa della Madonna della Pietra, e fu forse abbattuto quando furono fatte le nuove mura turche della città nel 1778. Ne sono state rimesse alla luce le fondamenta e qualche avanzo delle sculture decorative. Era un anfiprostilo ionico (m. 14,60 × 8,70) in marmo pentelico, con quattro colonne sulle fronti (alt. m. 4,50), con cella quadrata (m. 4,67). Altri identificano questo tempio con quello di Artemide Agrotera (Plat., Phaedr., 229 b, c) che si sa appunto vicino all'Ilisso, oppure col tempio di Artemide Eukleia, che è ricordato più in là del tempio di Demetra e di Kore (Paus., I, 14, 5).
Come ultimo monumento nella regione orientale, e sempre al di là dell'Ilisso, deve essere menzionato lo Stadio. Esso era stato collocato in un incavo sotto l'Ardetto, cioè sotto una collina che appartiene alle ultime propaggini dell'Imetto, e non doveva essere lontano da esso il tempio di Artemide Agrotera. A Licurgo si deve il primo impianto dello Stadio verso il 330 a. C. (Ps.-Plut., Vita X orat., 841 d), ma Erode Attico lo ricostruì completamente in marmo pentelico intorno al 140 d. C. (Paus., I, 19, 6). La costruzione ne era durata quattro anni.
Esso misurava nel suo asse maggiore (direzione NNO.-SSE.) metri 204,07 e nella sua larghezza massima m. 33,36. Non è possibile determinare con precisione la lunghezza dello spazio destinato alla corsa. Questo era fissato dalle mete, di cui se ne sono ritrovate quattro a forma di doppia erma (ancora sul posto e nel Museo Nazionale di Atene): di esse due dovevano stare all'estremità della parte curva. Io spazio destinato agli spettatori era costituito da cinquanta file orizzontali di sedili, divise in due ordini da un corridoio intermedio e accessibili per mezzo di undici scalette sui lati lunghi, di sette nel semicerchio. Un largo corridoio girava anche in alto. Inoltre nel semicerchio v'erano avanzi di un porticato dorico (prof. m. 10) che era forse un posto d'onore. Si calcola che potessero trovarvi posto 50,000 persone. L'ingresso principale verso nord-ovest doveva essere chiuso con un portico. Per dare accesso allo stadio era stato costruito un ponte sull'Ilisso, in opera a sacco rivestita di blocchi rettangolari di poros, che fu in gran parte distrutto solo verso il 1778 e di cui i pochi avanzi sono ora incorporati in un ponte moderno. A occidente dello Stadio, cioè sulla cima dell'Ardetto a cui si appoggia, gli avanzi di un grande edificio rettangolare (m. 25 × 15), sulla cui fronte orientale è stabilita una terrazza (lungh. m. 16), dalla quale sembra che una rampa discendesse allo Stadio, si considerano con probabilità quelli del tempio della Tyche, che Erode innalzò su un lato dello Stadio e di cui il simulacro era in oro e avorio (Philostr., Vita soph., II, 1, 5). Invece gli avanzi di una costruzione rettangolare sulla cima della collina orientale, a cui si appoggia lo Stadio, possono forse appartenere alla tomba di Erode, per quanto l'espressione dell'unica fonte che ne parla (Philostr., loc. cit.) dica soltanto che esso fu sepolto ἐν τῷ Παναϑηναικῷ, cioè nello Stadio.
In confronto a questa regione orientale, che ebbe anche una rinascita edilizia con lo stabilirsi della città romana, della quale rimangono notevoli segni nei ruderi delle ville e in modo particolare delle due terme, le minori a nord del tempio di Zeus Olimpio, le maggiori a sud-ovest del moderno Zappeion, tutta la regione meridionale non solo non viene costellata di santuarî dalla tradizione letteraria, ma scarseggia anche di avanzi monumentali. È questa un'altra prova dell'abbandono in cui dovette essere lasciata in età classica, mentre i tagli nella roccia sul versante settentrionale e occidentale del Museo, tra cui è interessante, nell'angolo di nord-ovest, un sedile a sette posti, mostrano che doveva essere fittamente abitata in età anteriore.
A questo antico lavoro nella roccia per impianto di case deve appartenere, anche se in appresso ha subito trasformazioni ed è stata forse adibita a tomba, la cosiddetta Prigione di Socrate (v. tav. XLI). Sotto la pendice di nord-est del Museo, sulla faccia della roccia tagliata verticalmente per un'altezza di m. 8 e una lunghezza di m. 15, si aprono tre porte che dànno accesso a due camere (m. 3,67 × 2,27) e a una fossa centrale unite da un corridoio: nel fondo v'è un vano circolare a volta (diam. m. 3,40) che forse in origine era una cisterna, indipendente dalle altre camere.
Un solo monumento domina la desolata nudità rocciosa della collina del Museo e domina anche il paesaggio di Atene, ed è la tomba di C. Giulio Antioco Filopappo di Commagene (Pausania, I, 25, 8), discendente dai principi di Siria, cittadino attico e console romano (v. tav. XLII). Il monumento fu innalzato tra il 114 e il 116 d. C.
Se ne conserva la fronte rivolta a nord-est verso l'Acropoli, mentre della camera funeraria retrostante (m. 10 × 9,30) restano solo i blocchi rettangolari di poros della parte inferiore. Nella fronte, sopra uno zoccolo in poros (alt. m. 3,50), si eleva per circa 10 metri di altezza una mostra in marmo pentelico che ha una sagoma ad abside leggermente arcuata. Nella parte inferiore della mostra è rappresentato in un fregio ad alto rilievo Antioco Filopappo come console romano sul carro preceduto dai littori. La parte superiore della mostra era tripartita da due pilastri corinzî: nello spazio centrale si apre una nicchia semicircolare (alt. m. 3), che è occupata dalla statua di Antioco Filopappo, mentre in una nicchia rettangolare di sinistra v'è la statua di suo nonno, Antioco IV, ultimo re di Commagene, e nella nicchia rettangolare di destra, che è ora distrutta, v'era la statua di Seleuco I, il capostipite. L'iscrizione sul pilastro esterno di sinistra registra in latino le dignità romane rivestite da Antioco Filopappo, quella sul pilastro esterno di destra, ora sparito, portava in greco la lista dei suoi titoli principeschi.
Su questo monumento, che quasi simboleggia, non solo nell'origine e nelle dignità di Antioco Filopappo, ma anche nelle forme dell'architettura e della scultura, l'unione dei due elementi greco e romano, quale era stato preparato dalla civiltà ellenistica, può chiudersi questa descrizione della topografia della città. Solo il caso lo ha salvato da quella distruzione a cui sono andati soggetti tanti monumenti più insigni di Atene, e solo il caso ha voluto che esso rimanesse, come testimonianza della più tarda civiltà ateniese, sulle colline che avevano visto sorgere la più antica Atene.
I sobborghi. - Sembra che Atene avesse nel suo interno delle oasi di verde, giardini, campi e ville, che interrompevano l'agglomeramento delle abitazioni, ma la fonte che ne parla (Plin., XIX, 50) dice che ne diede esempio Epicuro, del quale invece si sa che i suoi giardini erano nel sobborgo della città non lontano dall'Accademia (Cicer., De fin., I, 1 segg.). Di un Giardino delle Muse dentro la città rimane una pietra di confine in Piazza della Costituzione, ma non è certo che appartenesse in origine a quella contrada. Invece giardini e parchi dovevano costituire una specie di cintura a nord, a est e a sud della città, e alcuni di essi furono sede di ginnasî e di scuole filosofiche.
Fuori della cinta temistoclea, e probabilmente sulla sponda destra dell'Ilisso o a nord di esso, in quella regione che fu poi chiusa dentro le mura adrianee, deve cercarsi la zona detta dei giardini (Κῆποι). Vi era là un tempio di Afrodite e il suo simulacro era opera di Alcamene (Paus., I, 19, 2; Plin., XXXVI, 16).
Il ginnasio del Cinosarge deve cercarsi più a sud, nel demo di Diomeia (Ps.-Plat., Axioch., 364 b; Harpocr., s. v. ἐν διομείοις ‛Ηράκλειον; Steph. Byz., e Suida, s. v. Κυνόσαργες), e forse al di là dell'Ilisso, ma non molto lontano dalla porta della città (Diogenes Laert., VI, 13). Non si sa quando il ginnasio sia stato impiantato per la prima volta, ma già esisteva nel sec. VI e doveva essere sorto intorno a un santuario di Eracle (Sch. in Dem., XXIV, 114). Qui insegnò Antistene, il fondatore della filosofia cinica: questa prese il nome dal nome del ginnasio, che tuttavia non è di chiara etimologia. Si è voluto riconoscere il Cinosarge negli avanzi dei due edifici tornati alla luce sulla sponda sinistra dell'Ilisso nella contrada di fronte al punto in cui si pone la porta Itonia. In una collina vicino al Cinosarge v'era la tomba della famiglia di Isocrate (Ps.-Plut., Vita X orat., 838 b).
Il secondo grande ginnasio di Atene, il Liceo (Paus., I, 19, 3), deve invece cercarsi a oriente della città. Esso stava fuori della porta di Diocare (Strab., IX, 397) e non doveva essere lontano dall'Ilisso (Strab., IX, 400): è probabile quindi che si estendesse sotto la pendice meridionale del Licabetto. Doveva essere infatti un ampio recinto, perché serviva anche come luogo di esercizî militari, specialmente per la cavalleria (Xenoph., Hipparch., III, 1, 6, segg.). Pericle ne era stato il fondatore (Harpocr., s. v. Λύκειον), Licurgo vi aveva costruito una palestra e lo aveva arricchito di piante (Paus., I, 29, 16), Filippo V e Silla lo avevano devastato. Il nome gli era venuto dal santuario di Apollo Liceo che certo esisteva qui prima del ginnasio, e il simulacro rappresentava il dio appoggiato a un pilastro e con la destra portata sul capo (Luc., Anachars., 7). Degli alberi del Liceo era celebre un platano, che forse era quello sotto cui aveva insegnato Socrate. Nel Liceo Aristotele stabilì la sua scuola, ed esso rimase la sede dei peripatetici.
Una via esterna lungo le mura (Plat., Lys., 203 a) conduceva dal Liceo al sobborgo di Atene più ricco di alberi, all'Accademia, dove era un terzo ginnasio. L'Accademia si trovava a nord-est del Dipylon (Luc., Scyth., 2) e la sua distanza da questa porta era di circa un chilometro e mezzo (Liv., XXXI, 24; Cicer., Defin., V, 1, 1). Sulla via che conduceva dal Dipylon all'Accademia stava il santuario di Artemide Kalliste (Paus., I, 29, 2): si sono ritrovate iscrizioni e avanzi del santuario. Il nome di Accademia era certo esteso a tutto un parco che era venuto formandosi intorno al nucleo originario del giardino di un certo Akademos o Hekademos, oppure intorno al santuario di un eroe di tal nome (Schol. in Dem., XXIV, 114). Un recinto esisteva qui già al tempo dei Pisistratidi e serviva come ginnasio: esso era stato chiuso con un muro da Ipparco (Suid., s. v. τὸ ‛Ιππάρχου τειχίον). Ma fu Cimone a stabilirvi un parco pubblico e a dare al luogo il carattere che mantenne in appresso (Plut., Cim., 13, 8). E il parco fu sempre rinnovato dopo le sue devastazioni. Dinnanzi all'ingresso dell'Accademia v'era un altare dell'Amore (Paus., I, 30, 1; Athen., XIII, 609 d) e v'era un'antica base con le figure di Prometeo e di Efesto (Soph., Oed. Col., 57; Paus., I, 30, 2), che costituiva il punto di partenza per le lampadodromie. Dentro l'Accademia avevano altari le Muse, Eracle, Ermete, tutte divinità del ginnasio, ma la dea principale del luogo era Atena (Athen., XIII, 561 d), che aveva un tempio oltre che un altare. Dentro il suo recinto v'era anche un altare di Zeus Kataibates o Morios (Schol. in Soph. Oed. Col., 704 seg.) che deve ricollegarsi alle μορίαι, cioè agli olivi sacri che là si trovavano e che si dicevano nati da quello dell'Acropoli.
Il giardino nel quale Platone insegnò nell'ultimo periodo della sua vita, e che rimase la sede della sua scuola, era nell'immediata vicinanza del parco e del ginnasio dell'Accademia e da questa vicinanza nacque la fortuna del nome. Platone dedicò in questo luogo un recinto e un altare alle Muse, il Mouseion, e nel recinto fu poi dedicata la statua di Platone, opera di Silanione (Diogenes Laert., III, 25). Forse nel giardino stesso v'era la tomba di Platone, a ogni modo essa era non lontana dall'Accademia (Paus., I, 30, 3). Nella regione dell'Accademia e, si deve supporre, non lontano dal giardino di Platone, v'era il Lakydeion, il giardino che Attalo I aveva fatto preparare per il filosofo Lacide (Diogenes Laert., IV, 60) che diresse la scuola platonica nella seconda metà del sec. III a. C. Per contrasto al tanto affetto umano che v'è al fondo della filosofia platonica si ergeva nei pressi dell'Accademia la torre di Timone, dell'uomo il quale conosceva un solo modo di essere felice, quello di fuggire gli altri uomini (Paus., I, 30, 4).
Tra queste tranquille zone di vita, vita del corpo e vita dello spirito, rappresentate dai parchi dei ginnasî e dai giardini delle scuole filosofiche, si inserivano nelle più immediate vicinanze della città e davanti alle sue porte, le zone della morte, quelle delle necropoli. Ritrovamenti di tombe hanno accertato l'esistenza di un cimitero a sud dinnanzi alla porta Itonia, di un cimitero a est dinnanzi alla porta di Diocare, e di uno a nord dinnanzi alla porta Acarnese, ma il più vasto era quello che a ventaglio si distendeva dinnanzi al Dipylon, soprattutto lungo la via sacra di Eleusi, e che verso nord-est doveva giungere a toccare il parco dell'Accademia. Del resto era questa la contrada in cui la città aveva sepolto sino dal periodo miceneo. E nel tratto verso l'Accademia doveva trovarsi il cimitero di stato, dove erano sepolti i cittadini morti per la patria, o dove erano stati innalzati a essi dei cenotafî, o dove erano stati registrati i loro nomi. Tale onore era dato anche ai morti alleati. Qui continuavano così a vivere nella memoria secoli gloriosi di storia ateniese con le sue vittorie e con le sue sconfitte. E qui avevano ricevuto sepoltura anche uomini illustri. Passano in tal modo sotto i nostri occhi nelle testimonianze antiche i nomi di Armodio, di Aristogitone, di Clistene, di Pericle, di Efialte, di Formione, di Antemocrito, di Trasibulo, di Cabria, di Conone, di Timoteo, di Licurgo e poi ancora i nomi di Euripide, di Socrate, di Menandro, e passa il ricordo della guerra di Egina (circa 480), delle battaglie dell'Eurimedonte (465), di Tanagra (457), di Coronea (447), di Delio (424), di Anfipoli (422), di Mantinea (418), della spedizione di Sicilia (415-413), di quella dell'Ellesponto (411-409), della guerra corinzia (394), di quella di Eubea (350) e infine passa il ricordo della battaglia di Cheronea (338), in cui la Grecia perdette la sua libertà.
Nessuna di queste tombe, di questi cenotafî, di queste stele, di cui abbiamo notizie dalla tradizione letteraria, si è conservata o almeno è tornata sin ora alla luce. Invece gli scavi nel cimitero del Dipylon, oltre a due monumenti pubblici, non conosciuti d'altronde, la stele per i due ambasciatori di Corcira Tersandro e Similo morti in Atene (Inscr. Gr., II, 1678) forse nel 375 a. C., e la stele di Pitagora che nei primi decennî del sec. V a. C. era rappresentante in Atene nella sua città di Selimbria (Inscr. Gr., IV, 1, 2, n. 491), hanno restituito in grande quantità monumenti funerarî di cittadini privati, per lo più uniti in sepolcri di famiglia (v. tav. XLIII). La maggior parte di queste stele sono ora conservate nel Museo Nazionale di Atene; alcune, le più significative, sono state lasciate in luogo: è qui ricordata tra tutte la stele di Dexileos che era caduto in uno scontro con i Lacedemoni nel 394-393 a. C., e che rappresenta il giovane cavaliere mentre vibra la lancia contro il nemico atterrato. I più belli di questi monumenti funerarî del Dipylon appartengono alla seconda metà del sec. V a. C., e a quasi tutto il sec. IV: sembra che questo genere d'arte sia stato troncato dal decreto di Demetrio Falereo (317-307 a. C.) contro il fasto delle sepolture. Le tombe dell'età ellenistica e dell'età romana erano contrassegnate da semplici pilastrini scritti o da piccole stele disadorne e mal lavorate.
Decadenza e distruzione della città. - L'età di Adriano e di Erode Attico segnò per Atene il culmine della sua grandiosità monumentale. L'Imetto, il Pentelico, il Parnete, l'Egialeo incastonavano nel mezzo della pianura ateniese, dentro il cerchio ombroso dei parchi, una città che vantava otto secoli di vita storica e che conservava i suoi monumenti da almeno sei secoli, cioè dalla rinascita dopo la distruzione persiana. La gemma al centro dell'anello era l'Acropoli.
Ma l'età di Adriano e di Erode Attico segna anche la sosta, cioè il principio della decadenza. E questa s'iniziò con le spogliazioni, a favore di Costantinopoli, prima sotto Costantino, poi sotto Teodosio II, infine sotto Giustiniano. Una sola opera in favore di Atene fu compiuta in questo periodo: Giustiniano ne fece restaurare le mura. Tuttavia la chiusura della scuola di Atene, appunto decretata da Giustiniano nel 529, anche se non la provocò, determinò per sempre la desolazione spirituale della città.
Bibl.: Opere generali: C. Wachsmuth, Die Stadt Athen im Altertum, I, II, i, Lipsia 1874, 1890; C. Wachsmuth, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der klass. Altertumswiss., suppl. I, Stoccarda 1903, col. 159 segg.; W. Judeich, Topographie von Athen, Monaco 1905; E. Petersen, Athen, Lipsia 1908; G. Fougères, Athènes, 4ª ed., Parigi 1923. - Per i monumenti singoli la bibliografia sino al 1910 è registrata in A. Mau e A. v. Mercklin, Katalog d. Bibliothek d. kais. deutsch. arch. Instit., I, Roma 1914, p. 104 segg. - Pubblicazioni posteriori: Tholos e Pritaneo: D. Levi, in Annuario della R. Scuola arch. ital. di Atene, VI-VII (1923-1924), p. 1 segg. - Portico dei Giganti: Ch. van Essen, in Bull. de Corr. Hell., 1926, p. 183 segg. - Ptolemaion, Diogeneion e erme dei Cosmeti: P. Graindor, in Bull. de Corr. Hell., 1915, p. 241 segg.; G. Guidi, in Annuario della R. Scuola arch. ital. di Atene, IV-V (1921-22), p. 33 segg. - Ginnasio di Adriano: Th. Sauciuc, in Ath. Mitt., 1912, p. 183 segg. - La Via dei tripodi: G. Welter, in Ath. Mitt., 1922, p. 72 segg. - Tempio di Zeus Olimpio: G. Welter, in Ath. Mitt., 1922, p. 61 segg.; 1923, p. 182 segg., tav. II seg. - Santuario di Artemide Kalliste: A. Philadelpheus, in Bull. de Corr. Hell., 1927, p. 155 segg.; P. Roussel, ibid., p. 164 segg. - Recenti scavi nel cimitero del Ceramico (Dipylon): A. Brückner, in Ath. Mitt., 1926, p. 128 segg.
L'età medievale e moderna. - Atene nell'epoca cristiana non presenta più l'antico splendore. Centro del paganesimo, dovette assumere atteggiamento nettamente ostile alla propaganda cristiana fino ai tempi di Giustiniano, quando anch'essa fu presa dalla grande corrente del cristianesimo, ridotta a centro cristiano di second'ordine e trascinata alla deriva da tutte le vicende politiche: bizantina fino al sec. XIII, franca dal 1205 al 1456 e turca sino al 1830, quando cominciò a ripigliare la posizione primiera come capitale della nuova Grecia.
Sono relativamente pochissimi gli avanzi dei diversi periodi dell'Atene cristiana. Dell'età pregiustinianea, si sono salvati i fondamenti di basiliche paleocristiane del V secolo: presso il Licabetto, dove si scoperse un'epigrafe d'uno dei primi vescovi d'Atene, Clemazio; soprattutto nell'isoletta dell'Ilisso presso il tempio di Giove Olimpio (basilica ellenistica con transetto e cripta o confessione del vescovo di Atene Leonida). Inoltre si conservano nel Museo bizantino d'Atene anche molte sculture provenienti in massima parte dall'Acropoli, i cui monumenti erano stati quasi tutti trasformati in chiese cristiane: il Partenone nel tempio della B. Vergine Ateniese ('Αϑηνιώτισσα), ch'ebbe grande importanza come cattedrale d'Atene, poi ridotto a moschea sotto i Turchi e gravemente rovinato per lo scoppio delle polveri nell'assedio del 1687; l'Eretteo nel tempio della SS. Trinità; la Pinacoteca dei Propilei in quello dei Ss. Angeli e, al tempo della dominazione catalana, nella cappella di S. Bartolomeo; mentre il Theseion diventava chiesa di S. Giorgio. Al tempo di Giustiniano sembra che l'ambito della città sia stato grandemente ridotto, come apparirebbe da resti di mura, credute un tempo di Valeriano, ma da alcuni ora ritenute dell'epoca di Giustiniano (secondo altri invece sarebbero dell'epoca degli Acciaiuoli).
D'età propriamente bizantina (dal sec. IX alla fine del XII) sussiste, nella città e nei dintorni, una serie di chiese per lo più di piccole dimensioni, in parte a croce greca con cupola poggiata su quattro sostegni d'aspetto elegante, costruite di blocchi tufacei con rivestimento di mattoni e illuminate da bifore o trifore con colonnine poligonali terminanti in capitelli con ornamenti a forma di lira, in parte a pianta ottagonale con cupola. Tra le chiese superstiti (le più antiche, come S. Giovanni Mancuti, Μαγκούτης, dell'871, andarono distrutte) la prima, del sec. XI, è la Piccola Metropoli della Gorgoepḗkoos (o S. Eleuterio), presso la cattedrale, nell'esterno della quale sono incastrati molti bassorilievi classici e bizantini provenienti da monumenti più antichi. Del sec. XIl sono la Kapnikaréa col caratteristico nartece, d'età posteriore, avente una serie di frontoni sul prospetto; la chiesa degli Hágioi Theódōroi con iscrizioni del fondatore Nicola Kalomallos, che fece riattare una chiesa preesistente del 1065; i Ss. Angeli presso il Theseion e i Ss. Apostoli presso le falde settentrionali dell'Acropoli in pianta tricora come le chiese del Monte Athos: inoltre, nei dintorni della città, i monasteri - collegati alla storia di Atene bizantina - di Kaisarianḗ e di S. Giovanni, κυνηγὸς τῶν ϕιλοσόϕων, sull'Imetto, la Bella Chiesa ("Ομορϕη ἐκκλησία) presso Patissia, ed altre.
Più importanti delle suddette sono le chiese di pianta ottagonale, cioè la chiesa della Madonna del Lykódēmos (ora di S. Nicodemo, chiesa russa), e sulla via sacra che conduce a Eleusi il famoso monastero di Dafni, la cui chiesa serba notevolissimi musaici: ambedue monumenti bizantini del sec. XI (v. tavv. XLIV-XLV).
Dell'epoca della dominazione latina non abbiamo che riattamenti di monumenti bizantini (di quelli antichi sull'Acropoli; della chiesa della Purificazione a nord dell'Acropoli; la Bella Chiesa presso Patissia), ma dell'epoca turca sussiste una quantità di chiesette a cupola e per lo più ad una sola navata (S. Demetrio Λουμπαρδιάρης presso l'Acropoli; la Chrysokastriótissa; e altre) nonché di cappelle private appartenenti a famiglie signorili, di cui portano i nomi (Ρόβη, Βλασαροῦ, Χριστοκοπίδης, ecc.). Di edifici turchi restano la moschea del Conquistatore o Fetihé (ora panificio militare) nell'Agorà romana; la moschea presso il Monastēraki (ora Museo d'arti decorative), fondazione del voivoda Zizarakis del 1759; e, lì presso, la prefettura (ora prigioni della vecchia caserma). Nei tempi della dominazione turca, per cui abbiamo anche testimonianze di viaggiatori, il numero delle chiese in Atene era grande: secondo il Bubin ve n'erano 300, secondo lo Spon 200; il Ross nel 1832 ne contò 130. Questo numero diminuì in seguito, principalmente a causa della demolizione di molte chiese che si trovarono nelle zone archeologiche (la Megálē Panagía nella biblioteca di Adriano; la Pyrgiótissa nel portico di Attalo; e la chiesa di Cristo nel Bouleuterion). Oggi rimangono in Atene 55 chiese appartenenti al periodo che va dal sec. IX al XIX, le quali o serbano la forma antica come quelle sopra indicate o sono state restaurate in tutto (S. Giorgio Karýkē, i Ss. Anárgyroi di Psyrrē, ecc.) o in parte (i Ss. Angeli presso il Theseion e altre).
Gli edifici pubblici più recenti furono costruiti principalmente sotto il regno di Ottone e di Giorgio I nello stile neoclassico da architetti tedeschi e danesi con denari di filantropi greci (Sínas, Valliános, Záppas, Avérof, ecc.). I più importanti sono i tre edifici sulla Via dell'università: l'università costruita con le offerte di molti Greci e di re Ottone, opera dell'architetto danese Hansen; l'Accademia, splendida costruzione in marmo pentelico sul modello dell'Eretteo, edificata nel 1859 su progetto del Hansen, terminata dopo la rivoluzione del 1862 dallo Ziller (le statue sono opera dello scultore greco Drosos; gli affreschi della grande aula sono del viennese Griepenkerl; v. tav. XLVI), la Biblioteca Nazionale in stile dorico di marmo bianco, eseguita dallo Ziller a spese di P. Valliános. Sulla Piazza della Costituzione (Πλατεῖα τοῦ Συντάγματος) sono: la vecchia reggia (1834-38), grande e pesante edificio su disegno del bavarese Gärtner (alcune sale sono ornate di affreschi di pittori bavaresi e danesi); la cattedrale (Metropoli, 1840-1855), edificata col materiale di antiche chiesette d'Atene su progetto del Müller. Sulla via di Patissia si trova il politecnico (1862), costruito con offerte dei cittadini di Metsovo d'Epiro, su disegno dell'architetto greco Kaftantzóglou in stile dorico, e il Museo Nazionale (1866-1869), costruito su disegno dell'architetto Lange, e a spese del Vernardákis in stile classico, ampliato nel 1889 e nel 1905. È questo uno dei più recenti, ma più importanti, musei d'Europa, nel quale furono radunate tutte le collezioni di Atene e di altre città della Grecia e le scoperte degli scavi. Sulla via dello Stadio è il Parlamento (Βουλή), di stile classico neoellenico. Nella più bella posizione d'Atene sorge lo Záppeion (Ζάππειον, 1880), palazzo delle esposizioni con portico d'ordine corinzio su disegno del Hansen e a spese dei fratelli Záppas. A destra dello Záppeion è lo Stadio (1907), di marmo bianco, edificato a spese di Avérof sull'antico stadio (v. tav. XLVI). Sul colle delle Ninfe è l'osservatorio ('Αστεροσκοπεῖον, del 1843), opera del Hansen e dello Schaubert, ecc.
Le principali biblioteche di Atene sono attualmente: la Nazionale ('Εϑνικὴ βιβλιοϑήκη τῆς ‛Ελλάδος), che riceve due esemplari gratuiti di tutti gli stampati nello stato ellenico; ha attualmente circa 410.000 voll., 200.000 documenti storici e 3.800 manoscritti, oltre ad una raccoltina di incisioni. Buona fonte per storia, geografia, letteratura e giurisprudenza greca è la biblioteca del Parlamento (βιβλιοϑήκη τῆς Βουλῆς) fondata nel 1875, con circa 250.000 volumi. Raccolte tecniche considerevoli possiedono i diversi istituti stranieri: oltre alla Scuola archeologica italiana, particolarmente l'American School of classical Studies e l'École française.
Bibl.: Intorno ai monumenti cristiani di Atene, vedi i lavori più antichi di A. Couchaud, Choix d'églises byzantines en Grèce, Parigi 1842; A. Mommsen, Athenae christianae, Lipsia 1868; T. Neroutsos, Χριστιανικαὶ Αϑῆναι, 1889; D. Kampouroglous, Μνημεῖα τῆςἱστορίας τῶν Αϑηναίων, I-III, Atene 1891-92; G. Lampakis, Mémoire sur les antiquités chrétiennes de la Grèce, Atene 1902; G. Millet, L'école grecque dans l'architecture byzantine, Parigi 1916; A. Stuck, Griechenland, I: Athen und Attika, Vienna e Lipsia 1911 (anche per Atene moderna). Fra i più recenti vedi diverse monografie, in 'Εϕημ ρὶς άρχαιολογική; 'Αρχαιολογικὸν δελτίον; 'Επετηρὶς Βυζαντινῶν Σπουδῶν (di Sotiriou, Orlandos, Xyngopoulos), ed ora l'ediz. dell'Inventario dei monum. medievali della Grecia (Εὑρετήριον τῶν μεσαιωνικῶν μνημείων τῆς ‛Ελλάδος) dal 1927 in poi.
Storia.
L'età antica. - Gli Ateniesi e tutti gli abitanti dell'Attica appartengono al gruppo dialettale detto Ionico, essendosi riconosciuti come Ionî quando si ebbe la percezione della loro parentela con gli abitanti delle coste meridionali dell'Asia Minore, che si erano o erano stati così chiamati dai popoli limitrofi. Si fece allora l'induzione, in gran parte giusta, che gli Ioni dell'Asia fossero loro coloni. Gli Ateniesi si ritennero autoctoni, e la persuasione dell'autoctonia dovette essere anteriore all'identificazione degli Ionî coi Pelasgi, la quale sembra posteriore a Ecateo, poiché Ecateo narra che gli stessi Ateniesi avevano concesso il territorio presso l'Imetto ai Pelasgi come compenso per la fabbricazione del muro intorno all'Acropoli, il Pelasgico. L'eroe più caratteristico degli Ateniesi è Cecrope, nato dalla terra: della stessa natura è Eretteo o Erittonio, e animale sacro a tutti è il serpente. Quando poi all'idea di Pelasgi venne associata quella di autoctonia, è naturale che gli Ateniesi si ritenessero Pelasgi, e così certe designazioni esprimenti lo stesso concetto come Cranai, Cecropidi, Eretteidi, per un falso prammatismo si ritiene che esprimessero delle metonomasie succedutesi cronologicamente.
La città, secondo Tucidide, si è sviluppata dall'Acropoli, e Tucidide adduce come prova della sua affermazione il fatto che ai suoi giorni l'Acropoli era chiamata πόλις. Ma questa ipotesi di Tucidide è troppo organicamente connessa con la tradizione del sinecismo di Teseo, per potersi accettare integralmente; inoltre πόλις in un periodo remoto doveva significare luogo fortificato, e questa designazione poteva essersi mantenuta anche quando il significato di πόλις si è alterato. Pertanto l'opinione di Tucidide va accolta con una certa limitazione: cioè bisogna supporre che quando la vita si fu concentrata nell'Acropoli e questa non bastava più ai bisogni della popolazione, continuasse la città a svilupparsi nella parte bassa.
Abbiamo accennato che a Teseo veniva attribuito il sinecismo Sotto Cecrope, secondo la tradizione raccolta da Tucidide, e sotto i suoi immediati successori, nell'Attica vi erano tanti staterelli, i quali anche si guerreggiavano fra loro: Teseo avrebbe riunito tutti questi staterelli in un solo grande stato. Effettivamente l'Attica era composta di tanti staterelli, tra i quali Eleusi conservò la sua indipendenza da Atene fino a tempi relativamente recenti, giacché se ne ha ricordo ancora recente nell'inno omerico a Demetra. Inoltre non solo è attestata l'indipendenza di Eleusi, ma anche si può legittimamente inferire l'autonomia di molte località nell'Attica più che dalla tradizione, dall'esame di certi riti e certe usanze spiegabili solo con l'indipendenza di singoli villaggi. Tale è il divieto di epigamia tra Agnunte e Pallene - divieto certo rimasto solo formale - che con una spiegazione eziologica fu ritenuto effetto di una guerra di difesa di Teseo contro i Pallantidi. E significato politico dovettero avere i consorzî, in tempi storici solo religiosi, come la tetrapoli composta dei demi Maratona, Enoe, Probalinto e Tricorito al nord-ovest dell'Attica, o la tetracomia composta dei demi Pireo, Falero, Xipete e Timetade o la tricomia composta dei demi Cropide, Peleci ed Eupiride.
L'Attica era divisa in quattro tribù genetiche, formatesi durante il periodo dell'occupazione, i Geleonti, gli Opleti, gli Argadei, gli Egicorei. Molto probabilmente l'origine di questi nomi si deve ricercare nel culto di determinate divinità. Le tribù alla loro volta erano divise in fratrie, o piuttosto le tribù risultavano da conglomerati di fratrie. Queste erano associazioni fondate in origine sulla parentela, ma ben presto accolsero membri estranei legati per vincoli d'interesse col nucleo primitivo. E questo processo evolutivo non è solo degli Ateniesi, ma di tutti i popoli greci, e certo anche non greci. Le singole fratrie, tranne qualcuna, avevano nomi patronimici; come Demotionidi, Acniadi, Tericlidi. Le fratrie avevano un fratriarco, come le tribù avevano ciascuna un capo chiamato ϕυλοβασιλεύς (re della tribù), il che mostra che l'istituzione rimonta al periodo della monarchia, e proprio nel suo massimo rigoglio. Nell'Attica si trovavano anche le stirpi (γένη); che difficilmente sono da considerarsi come sottogruppi delle tribù o delle fratrie, ma vanno invece riguardate come formazioni dovute al desiderio di più famiglie di riconnettersi con un capostipite illustre o divino. Per mantenere salda la compagine unitaria dell'Attica, si preferì affidare attribuzioni politiche e amministrative ai re delle tribù piuttosto che a rappresentanti degli antichi stati; ma l'incomodità di un sistema fondato su elementi che avevano perduto gradatamente la loro aderenza al luogo, non tardò a farsi sentire, e almeno nel settimo secolo si dettero alle naucrarie, una volta destinate solo alle cose della marina, attribuzioni poliziesche. I singoli villaggi (demi) vennero acquistando sempre più un'individualità politica, se anche è dubbio che fosse riconosciuta ufficialmente; sicché i re della tribù finirono con l'aver solo una larva di potere, costituendo più tardi, sotto la presidenza del re diventato magistrato annuale, un tribunale per giudicare gli animali e le cose inanimate in caso di omicidio (v. pritaneo).
Secondo tarde conclusioni, al potere regio si sarebbe sostituito l'arcontato a vita, a questo l'arcontato decennale, all'arcontato decennale finalmente l'arcontato annuale. È naturale che un arcontato vitalizio, e per giunta dinastico, è un controsenso. L'arcontato decennale fu escogitato per ragioni cronologiche. Gli antichi avevano la lista degli arconti annuali fino al 683 o 682 a. C.; e siccome accanto all'arconte vi compariva anche il Βασιλεύς (re) e il polemarco, anch'essi magistrati annuali, possiamo così ricostruire le vicende delle trasformazioni del governo: mettendo al fianco del basileus il polemarco, capo militare, e l'arconte, magistrato, si lasciarono al basileus solo le competenze religiose. Questi magistrati diventarono poi elettivi, e poiché l'aristocrazia, in mano della quale stava il potere, ripugnava come la democrazia a un'ipoteca perpetua delle magistrature nella stessa persona, divenne magistratura annuale anche il basileus, a differenza dei Romani, pei quali la dignità di rex sacrorum e di tutti gli altri magistrati religiosi era vitalizia; ma una traccia della vetusta dignità del basileus rimane nel fatto che, mentre le mogli dell'arconte e del polemarco erano del tutto estranee alla vita pubblica, la moglie del basileus era chiamata basilissa o basilinna, e aveva un ambito di competenze religiose. A questi tre magistrati si associò un collegio di sei tesmoteti, che in tempi posteriori troviamo rivestiti di competenze giudiziarie, come quelle di ricevere accuse e istruire i processi in cui sentenziava il consiglio supremo (Βουλή), nonché altre simili di carattere politico e censorio, come la docimasia, per cui si faceva un'inchiesta morale sulle persone che aspiravano alle pubbliche cariche. Secondo Aristotele i tesmoteti sarebbero l'ultima magistratura istituita dall'arcontato in poi e, data la fisionomia di questa magistratura in tempi storici, può avere ragione. Ma molto probabilmente il collegio dei tesmoteti ha il suo precedente in una giunta che cooperava col re nell'amministrazione e nel disbrigo degli affari. L'arconte, il basileus, il polemarco e i tesmoteti formarono poi un solo collegio denominato dei nove arconti. Conosciamo inoltre il collegio degli efeti composto di 51 membri, ma ignoriamo il criterio con cui questi erano reclutati. In tempi storici costituivano un tribunale per gli omicidî involontarî o legittimi, insomma per tutti quegli omicidî per i quali non era comminata la pena capitale. Riguardo all'origine di questo collegio, lo stesso Aristotele tace; probabilmente se ne era perduta ogni memoria nella tradizione, come fu per l'Areopago, che solo per induzioni giustificate certo, ma sempre induzioni, si è giunti a riconoscere continuazione della Βουλή omerica. Il potere rimase fino al principio del sec. VI in mano agli eupatridi, corrispondenti a un dipresso ai patrizî romani, ma già cominciavano a fermentare malcontenti per le disuguaglianze delle classi sociali. La plebe immiserita è costretta per insolvenza anche a perdere la libertà: indice di questa pietosa condizione è la classe degli ectemori che lavorava solo a beneficio del proprietario di terra, se anche non è provato che del frutto ricavato dal proprio lavoro rimanesse a loro solo un sesto. Solone, arconte dal 594, riuscì a sollevare le misere condizioni della maggioranza con provvedimenti rivoluzionarî, tra cui ricordiamo la legge sullo sgravamento dei pesi (σεισάχϑεια) consistente soprattutto nel divieto di ipoteca sulle persone e sui beni, e con altri provvedimenti legislativi come l'introduzione del testamento nel caso che non vi fossero figli maschi. A Solone si deve anche la riforma monetaria, in cui fu presa come base la mina euboica in cambio dell'eginetica.
Alla distanza di quattro anni, e poscia di altri quattro anni ci furono movimenti rivoluzionarî di cui s'ignorano i particolari; ma è noto che né l'una né l'altra volta si elesse l'arconte. Poi quattro anni dopo vi fu un vero e proprio colpo di stato, operato da Damasia il quale sembra che volesse valersi della suprema magistratura per farsi tiranno. Damasia ritenne l'arcontato due anni e due mesi, ma ne fu cacciato a forza (582-81, 580-79) e si creò subito dopo, invece di un arconte unico, un arcontato collegiale di dieci membri, cinque eupatridi, tre campagnoli, due operai. Tutti questi movimenti sboccano nella tirannide. Probabilmente in questo periodo Cilone, vincitore nei giuochi olimpici, imparentato con Teagene tiranno di Megara, pensò di farsi tiranno di Atene; ma il suo tentativo fu represso per opera di Megacle Alcmeonide, proprio quello che si alleò prima con Pisistrato e poi contribuì alla sua cacciata, non già l'avo, come la storiografia antica aveva fissato in base alla data del 640, in cui Cilone avrebbe vinto nei giuochi olimpici. Le fazioni che agitavano la vita ateniese erano allora quella dei Pediei, probabilmente i proprietarî fondiarî, capeggiati da Licurgo; quella dei Paralî, cioè gli abitanti lungo la costa che probabilmente vivevano del commercio, capeggiati da Megacle; e, infine, quella dei Diacrî, abitatori dei paesi alpestri, in gran parte pastori e boscaioli. A capo dei Diacrî, Pisistrato in seguito a un accordo con Megacle Alcmeonide, propugnatore d'una democrazia temperata, abbatté la potenza di Licurgo capo dei Pediei e si fece tiranno. Poi, nonosiante l'imparentamento di Pisistrato con Megacle, questi si accordò con Licurgo, e Pisistrato venne cacciato, ma rientrò in Atene dieci anni dopo, in seguito alla vittoria presso il tempio di Atena Pallenide. È questa una ricostruzione della critica molto probabile; secondo la tradizione erodotea, Pisistrato sarebbe stato cacciato due volte, e con la vittoria presso il tempio di Atena Pallenide, in cui avrebbe avuto la cooperazione di Argivi mercenarî e del tiranno Ligdamide di Nasso, sarebbe rientrato la seconda volta e definitivamente. Ma se anche le cacciate di Pisistrato fossero state due, il periodo delle due tirannidi sarebbe stato effimero, poiché è certo che la tirannide dei Pisistratidi sino alla cacciata d'Ippia (510) durò trentasei anni. Ipparco era stato ucciso quattro anni prima in seguito a una congiura che la tradizione ci presenta come l'effetto di un risentimento privato, ma non è improbabile che al risentimento privato si aggiungegse una ragione politica.
Clistene, figlio di Megacle, dopo la cacciata dei tiranni, emanò una costituzione democratica temperata, dando all'Attica un ordinamento a base territoriale; questo forse era stato già iniziato da Pisistrato col quale già i singoli demi goderono una certa autonomia e attribuzioni amministrative. L'opera di Clistene probabilmente si ridusse a consociarli nell'unità più vasta delle dieci tribù che egli non costituì con tutti demi aggruppati nella stessa località: divise invece l'Attica in tre trittie, Diacria, Mesogea, Paralia, e con egual numero di demi tolti da ciascuna di queste trittie, formò una tribù (ϕυλή). Ciascuna di queste tribù aveva a capo un ἐπιμελητής (curatore) della tribù, come ogni demo aveva a capo un demarco. Ciascuna tribù eleggeva 50 buleuti, e nello stesso tempo forniva un certo numero di soldati, uno stratego e un tassiarco a questo subordinato.
Con Clistene abbiamo l'instaurazione di un governo democratico, in cui solo i buleuti erano tratti a sorte; i magistrati erano eletti dal popolo. Ma la famiglia dei tiranni in Atene aveva sempre un cospicuo numero d'aderenti; tanto è vero che quando Atene intorno al 500 a. C. ebbe soccorso gli Ionî ribelli al re di Persia e li ebbe abbandonati, a un parente dei Pisistratidi, Ipparco di Carmo, riuscì d'essere eletto arconte. Essendo poscia Atene uscita vittoriosa dall'assalto persiano nella pianura di Maratona nel 490, ma non credendosi sicura dal ricadere nella tirannide (v'erano stati indizî di tradimento da parte degli amici dei tiranni, ai quali forse va attribuito il piano di far dare l'assalto ad Atene, dopo la sconfitta di Maratona, dalla parte del Falero), per difendere la democrazia da possibili attentati si istituì nel 488-87 la legge sull'ostracismo, fatta allo scopo di bandire da Atene Ipparco da Carmo che era stato arconte sul 496-95, e che forse al tempo dell'invasione persiana nei campi di Maratona dovette riuscire pericoloso. Si continuò per tre anni di seguito (487-86, 486-85, 485-84) a ostracizzare non solo gli amici dei tiranni, ma anche personaggi troppo in vista tra i quali un Megacle Alcmeonide, forse perché ritenuto responsabile dell'esito infelice della guerra con Egina nel 488. Nel 487-86 s'introdusse il sorteggio anche per gli arconti. Furono ostracizzati Santippo nel 484-83 e Anstide nel 483-82 non certo perché sospetti anch'essi di farsi tiranni d'Atene; ma costoro furono richiamati dinnanzi alla minaccia dell'invasione persiana e Santippo nel 479 come stratego concorse alla vittoria di Micale, mentre in Grecia gli Ateniesi combattendo sotto Pausania, reggente di Sparta, vincevano insieme con gli alleati a Platea (479).
È ora necessario esaminare le vicende politiche esterne di Atene dalla cacciata dei tiranni in poi. Sparta aveva cooperato alla cacciata dei tiranni, ma certamente non con l'intenzione di instaurare un governo democratico, e dopo la riforma clistenica il re Cleomene di Sparta invase Atene e vi fondò un'oligarchia, facendo eleggere arconte Isagora, capo degli aristocratici. Ma gli Alcmeonidi ebbero la forza di reagire, e Cleomene assediato nell'Acropoli fu costretto a cedere. Tornato in patria organizzò una spedizione in grande stile alla quale dovevano prender parte tutti gli alleati peloponnesiaci, mentre Tebe e Calcide avrebbero aggredito Atene contemporaneamente dalla parte di mare. Il tentativo fallì per opera dei Corinzî che di questa avventura non vollero sapere, e per opera del re Demarato in dissidio con Cleomene. I Beoti e i Calcidesi mossero tuttavia contro Atene, ma l'esito della lotta riuscì favorevole agli Ateniesi, che ridussero Calcide a una cleruchia. Gli Ateniesi cercarono l'alleanza di Artaferne, satrapo della Lidia, ma questi acconsentiva solo a condizione che avessero di nuovo accolto Ippia come tiranno; condizione inaccettabile. Poscia gli Ateniesi accolsero l'invito dei ribelli della Ionia, e insieme con gli Eretrî mandarono in Asia una spedizione: le truppe Ateniesi insieme con gli Eretrî si avanzarono fino a Sardi e l'incendiarono. Poi si ritirarono dalla lotta, e avendo compreso la gravità dell'impresa, cercarono un riavvicinamento con la Persia. Infatti nel 496-95 fu arconte Ipparco di Carmo parente dei Pisistratidi. Questa politica remissiva non valse a stornare l'ira del re di Persia, e dopo che ebbe prostrate le forze degli Ionî con la battaglia di Lade nel 494, Dario rivolse il pensiero alla vendetta contro Atene, ma la sua impresa ebbe epilogo disastroso nella battaglia di Maratona (490). Avendo Milziade, il vincitore di Maratona, fatto il tentativo infelice della conquista di Paro, che faceva parte di un programma più vasto, l'assoggettamento delle isole dell'Egeo, gli Alcmeonidi lo accusarono ed egli morì, sotto processo, in seguito a una ferita riportata a Paro.
Ma nella lotta contro Egina nel 488 Atene riportò un grave insuccesso, e Temistocle, il quale era stato arconte nel 493-92 e già vagheggiava la fondazione d'una formidabile potenza navale ateniese, ma non aveva potuto attuare il suo programma a causa dell'aggressione persiana, ritornò insistentemente, dopo la sconfitta inflitta da Egina ad Atene, al suo programma, avversato soprattutto da Aristide; ma egli riuscì a farlo trionfare, e per opera sua le miniere d'argento del Laurio diedero i mezzi necessarî alla costruzione della flotta. Questa flotta fece splendida prova alla battaglia di Salamina, vinta soprattutto per opera di Temistocle, e l'anno seguente, dopo la vittoria dei Greci a Platea e a Micale, Temistocle continuò l'opera di liberazione delle isole greche nell'Egeo. Scontenti i Greci del contegno di Pausania, passarono sotto il protettorato di Atene (478-77). Quest'organizzazione va sotto il nome di Aristide, ma non c'è dubbio che si debba in massima parte a Temistocle; la cui assenza dalle battaglie del 479-78, quando vediamo che il suo prestigio era sempre alto fino al periodo dell'ostracismo, non si spiega altrimenti che supponendolo attivo nell'opera organizzatrice.
Quantunque in Sparta dalla parte più conservatrice la perdita del dominio marittimo potesse essere considerata come una liberazione, non c'è dubbio che allora si gettassero i germi del futuro dissidio. La lega delio-attica ebbe il suo centro a Delo, e quivi era depositato il tesoro, volendosi così affermare che Atene era un membro della lega come tutti gli altri. Ma fosse ragione o pretesto, la minaccia persiana nel 454, quando gli Ateniesi aiutavano i ribelli d'Egitto contro il dominio persiano, indusse a trasportare il tesoro ad Atene e a collocarlo nell'opistodomo del Partenone.
Sia storica o no la notizia che gli Spartani volevano impedire la riedificazione delle mura d'Atene nell'inverno del 479-78 e che Temistocle riuscì a deluderli, è chiato che Temistocle, ritenendo debellata completamente la Persia, tramava ai danni di Sparta e a vantaggio di Atene. L'aneddoto del progetto avanzato da Temistocle d'incendiare la flotta greca ancorata nel porto di Pagase, sventato da Aristide, aggiunge una conferma a questo atteggiamento antilaconico di Temistocle. Accanto a Temistocle, sorse Cimone il quale con singolare chiaroveggenza vide che il pericolo persiano esisteva sempre, e per sua ispirazione Atene continuò a combattere contro la Persia, alla quale si volle ritogliere Cipro riconquistata dai Persiani dopo la catastrofe di Pausania. Intorno al 470 Cimone riportò una splendida vittoria all'Eurimedonte nella Panfilia, e la Licia e la Panfilia furono guadagnate alla lega delica.
Mentre il prestigio di Cimone si accresceva, tramontava l'astro di Temistocle, contro il quale cospirava insieme con le rivalità interne, specialmente degli Alcmeonidi, e di Aristide, l'odio degli Spartani, i quali vedevano probabilmente in lui, e non senza ragione, l'autore principale del passaggio ad Atene dei Greci liberati. Egli fu ostracizzato e si recò ad Argo, dove cercò di minare la potenza spartana; di qui l'accusa di cooperare con Pausania, il vincitore di Platea, il quale mirava a rovesciare la costituzione nazionale e fondare un grande impero spartano. Atene richiese la sua consegna e Temistocle, dopo aver vagato per la Grecia, giunse nel 464 alla corte persiana presso re Artaserse, il quale gli conferì il principato di Magnesia sul Meandro. La posizione di Cimone fu dall'esilio di Temistocle momentaneamente rafforzata, ed egli continuò a essere per qualche anno padrone assoluto della situazione. Frattanto la sicurezza dell'impotenza persiana aveva indotto Atene a una politica sempre più accentratrice verso la federazione delica; d'altra parte le città di questa cominciarono a non vedere più l'utilità di un'unione che si riduceva a soggezione. Dopo la rivolta di Nasso, che era avvenuta prima della battaglia dell'Eurimedonte, si sollevò Taso (466-65), perché gli Ateniesi volevano essi sfruttare le miniere del monte Pangeo. Secondo una notizia raccolta da Tucidide i Tasî avrebbero domandato segretamente il soccorso degli Spartani, ma questa è probabilmente una voce inconsistente, nata dopo che la rivalità tra Sparta e Atene era ormai scoppiata. Altrimenti è molto dubbio che Cimone riuscisse, coerente al suo programma di amicizia con Sparta, a far votare dai suoi concittadini la proposta (effettuata nel 462 a. C.) di aiuto a Sparta contro gli Iloti, che profittando del catastrofico terremoto della Laconia, si erano ribellati nel 464. Il rifiuto degli Spartani di accogliere aiuti ateniesi (essendo forse già domata la rivolta) ebbe una forte ripercussione politica. Cimone fu condannato all'ostracismo, ed Efialte che si era opposto alle proposte d'aiuto da portare agli Spartani venne in auge; una delle prime leggi ch'egli fece approvare all'assemblea fu la circoscrizione della competenza dell'Areopago ai soli delitti di sangue. Efialte fu pugnalato, e venne al governo Pericle, Alcmeonide per parte di madre, e figlio di Santippo, uno dei vincitori di Micale.
Con lui l'indirizzo democratico si accentuò. Egli fece approvare la legge con la quale si dava ai giudici dei tribunali popolari la mercede di due oboli; promosse lavori grandiosi per abbellire la città di Atene e venire in soccorso delle classi diseredate, fece fare distribuzioni di frumento, promosse feste magnifiche accompagnate spesso da elargizioni di denaro ai cittadini. Sotto Pericle venne introdotta la mercede per gli spettacoli teatrali; più tardi, nel periodo della restaurazione democratica, Agirrio (400 circa a. C.) istituì il compenso d'un obolo per la partecipazione alle adunanze popolari, l'ἐκκλησιαστικὸς μισϑός, elevato poscia a due oboli e, da Agirrio stesso, a tre oboli. Ma quanto maggiormente crescevano i vantaggi del diritto di cittadinanza, tanto più si cercò di restringere il numero dei cittadini. Mentre sotto Clistene si era stati molto larghi nell'accogliervi stranieri e perfino schiavi liberati, nel 451-50 Pericle fece passare una legge secondo la quale erano considerati come cittadini solo i figli di padre e madre ateniese. Gli altri cittadini erano considerati come meteci, vale a dire stranieri residenti nell'Attica, obbligati per questa residenza a pagare una tassa, e a farsi rappresentare da un patrono ateniese nel caso di contestazioni giuridiche. I meteci ebbero singolare importanza nella vita ateniese, poiché quasi tutte le industrie erano da loro largamente esercitate, e similmente i mestieri; solo non potevano acquistare proprietà fondiaria, tranne che per individuali concessioni.
Dopo che Sparta ebbe rifiutato i soccorsi ateniesi condotti da Cimone, le relazioni fra Sparta e Atene s'intorbidarono. Atene si alleò con Argo, rivale secolare di Sparta, e con la Tessaglia, in cui era ancor viva la memoria della spedizione punitiva di Leotichida. Megara, in conflitto per motivi di territorio con la potente vicina Corinto, si gettò dalla parte di Atene. Intorno a questo periodo (462 o 461) probabilmente gli Ateniesi stanziarono a Naupatto i Messeni che avevano capitolato dopo la resa di Itome, ma Sparta non ruppe per ciò le sue relazioni con Atene. E neppure le ruppe quando la città rivale si trovò coinvolta in una doppia guerra, in Grecia contro Corinto, appoggiata dalle città dell'Argolide Epidauro ed Egina, e nell'Egitto alleata di Inaro che alla morte di Serse si era posto a capo degli Egizî ribelli. Già prima che Cimone fosse ostracizzato era stata mandata una spedizione a Cipro, e mentre la flotta operava nelle acque di Cipro, s'era organizzata una spedizione in Egitto, la quale occupò Menfi. Atene sostenne la guerra in casa e fuori con successo. Distrusse la flotta di Egina e mise l'assedio alla città (458). Frattanto Sparta intervenne col pretesto di difendere i Dorî contro i Focesi, e il reggente Nicomede invase la Beozia con l'appoggio interno degli oligarchi. Atene per paralizzare l'azione spartana, fece una spedizione insieme coi Tessali e gli Argivi, ma la diserzione dei cavalieri Tessali fu causa di un insuccesso a Tanagra (457). La sconfitta ateniese non ebbe però gravi conseguenze poiché Nicomede abbandonò la Beozia e gli Ateniesi, non volendo tollerare il governo oligarchico di Beozia, mandarono un esercito che sconfisse i Beoti a Enofita, ed emancipò tutte le città beotiche da Tebe (457). Subito dopo la battaglia di Enofita, Egina capitolò, dovette consegnare la flotta, demolire le mura ed entrare nella lega ateniese con un tributo di trenta talenti. L'anno seguente fu segnalato per i successi di Tolmide che devastò le coste del Peloponneso, sottomise la colonia corinzia Calcide nell'Etolia e attrasse gli Achei nell'alleanza ateniese. Ma in questo stesso anno si ebbe la catastrofe degli Ateniesi nell'isola di Prosopitide sul Nilo (455). In seguito a questa il tesoro della lega delica venne trasportato ad Atene, e così Atene poté continuare nella sua politica dominatrice sugli alleati (vedi sopra). La guerra di Europa continuò languida, finché tornato Cimone dall'ostracismo nel 451, concluse un armistizio di cinque anni tra Sparta e Atene, il quale ebbe per effetto un trattato di pace trentennale fra Argo e Sparta. L'armistizio con Sparta lasciò mano libera agli Ateniesi di continuare la guerra col re di Persia, e Cimone andò con un'armata a Cipro. Dopo avere espugnato Marios, e posto l'assedio a Cizio, soccombette a una epidemia. In seguito alla morte di Cimone si concluse un trattato di pace, per il quale gli Ateniesi rinunciavano a ogni azione in Egitto e consideravano Cipro possesso persiano; il re s'impegnava di non mandare navi da guerra nell'Egeo e di lasciar libere le città greche del continente asiatico. La pace fu conclusa da Callia. Intanto, mentre ancora si svolgevano le trattative tra Atene e la Persia, gli Spartani fecero (449) una spedizione contro i Focesi per restituire a Delfo l'autonomia nell'amministrazione del santuario. Forse in seguito a questa spedizione Pericle fece il progetto di convocare un congresso panellenico in Atene per la restaurazione dei templi distrutti dai Persiani, e forse in questa occasione si doveva trattare di regolare le condizioni di Delfo. Sparta non acconsentì e Pericle ordinò una spedizione per la quale restituì ai Focesi il protettorato sul santuario. Tuttavia, malgrado questa provocazione d'Atene, non si violò l'armistizio; non si violò neanche quando Atene intervenne nelle faccende della Beozia, dove si ebbe una rivoluzione oligarchica nella quale i mille opliti mandati sotto il comando di Tolmide non poterono far fronte all'esercito avversario, e lo stesso duce cadde presso Coronea mentre il resto dell'esercito capitolò. Si sollevò l'Eubea; la Locride e la Focide andarono perdute per Atene, si sollevò Megara, e, spirato il termine dell'armistizio, Sparta ebbe mano libera: sotto il re Plistoanatte gli Spartani invasero il territorio ateniese, ma Pericle si destreggiò in modo che Plistoanatte s'indusse alla ritirata dietro la rinunzia di Atene a Megara. Atene ebbe mano libera sull'Eubea, e con Sparta si concluse un trattato di pace che avrebbe dovuto durare trent'anni. Gl'insuccessi in Beozia, la ribelliono d'Eubea e il distacco di Megara potevano compromettere la saldezza del partito democratico. A capo degli oligarchi vi era Tucidide figlio di Melesia; ma questi non essendo circondato dall'aureola militare di Cimone non fu di nessun ostacolo all'ascensione continua di Pericle, il quale, essendo stato Tucidide ostracizzato nel 445 rimase senza competitori. Nel periodo della pace trentennale fino alla guerra del Peloponneso regnò una relativa tranquillità, interrotta solo dalla guerra contro Samo, in soccorso di Mileto, che finì con l'instaurazione in Samo di un governo democratico. Si provvide anche all'espansione coloniale; essendosi fino dal 447 mandati dei cleruchi nel Chersoneso, nel 444 si fondò sotto gli auspicî di Pericle la colonia di Turio, presso a poco nel luogo dell'antica Sibari, e nel 437-36, dove poco meno che trent'anni innanzi era avvenuto l'eccidio di numerosi colonisti ateniesi, si fondò la colonia di Anfipoli. Fu questo per Atene il periodo di massimo splendore, l'età di Pericle.
Un conflitto tra Corcira, colonia di Corinto, ed Epidamno, colonia di Corcira, fu la causa occasionale d'una rottura che doveva finire con la catastrofe militare d'Atene. Gli Epidamnî democratici, cacciati dagli aristocratici (435 a. C.), non avendo ottenuto l'aiuto di Corcira si rivolsero a Corinto, e Corcira chiese l'alleanza di Atene, alleanza solo difensiva che nel diritto internazionale antico non era considerata come un'infrazione del trattato di pace. Ma i Corinzî la considerarono una provocazione e, malgrado la ripugnanza del re Archidamo a cimentare la patria in una guerra lunga e funesta, essi imposero ad Atene condizioni che in parte non si potevano, in parte non si vollero accettare. Bisogna notare che Potidea nella Calcidica, colonia corinzia, era entrata nella lega ateniese, ma aveva sempre mantenuto con la metropoli vincoli di pietà, ricevendo ogni anno dignitarî corinzî chiamati epidemiurgi, le cui mansioni non sono accertate. In seguito alle prime provocazioni, per opera di Pericle fu votata una deliberazione che proibiva a Potidea di ricevere gli epidemiurgi corinzî, e Potidea si ribellò. Oltracciò anche per opera di Pericle si decretò il blocco commerciale contro i Megaresi. Forse revocando il blocco si poteva almeno per il momento evitare la guerra, ma gli Ateniesi furono irremovibili, e la guerra scoppiò.
La guerra del Peloponneso (così viene chiamato il periodo dal 431 sino al 404, quantunque si tratti di due guerre), si divide in tre periodi. Il primo dal 431 al 421, nel quale gli Spartani fecero quasi ogni anno incursioni nell'Attica mentre gli Ateniesi devastavano con la flotta le coste del Peloponneso, finché nell'anno 425 essendo stato preso prigioniero a Sfatteria un gruppo di trecento Spartani, gli Spartani, temendo rappresaglie, rinunziarono alle sistematiche incursioni. Questa felice fazione militare promosse la fortuna politica del demagogo Cleone; ma, procedendo la guerra senza lasciar prevedere una decisione, gli Spartani presero il partito di assalire il nemico in Tracia, punto vitale della potenza ateniese, inviandovi Brasida. Lo storico Tucidide che doveva proteggere Anfipoli, la perdette e fu esiliato. Sotto le stesse mura di Anfipoli nel 422 caddero Brasida e Cleone; tolto di mezzo Cleone, Nicia sempre fautore della pace, riuscì a conchiuderla (421) alle condizioni dello statu quo ante, condizioni difficili a realizzarsi perché gli Spartani non potevano abbandonare alla vendetta degli Ateniesi i Calcidesi che si erano dati a loro; così anche gli Ateniesi tennero Sfacteria nelle loro mani. Durante il periodo di pace che fu piuttosto una tregua, per opera di Alcibiade, Atene prese parte a una guerra condotta dagli Argivi, Mantineesi ed Elei alleati contro Sparta, i quali furono sconfitti a Mantinea nel 418.
Trattandosi di un'epimachia non si considerava ancora rotto il trattato del 421, detto pace di Nicia. Ma la rottura avvenne quando gli Ateniesi in forza d'un trattato con Segesta vennero in aiuto di essa contro Selinunte. Già da parecchi anni Atene manteneva relazioni con l'Occidente: già nel 453 aveva stretto un trattato con gli Egestani e gli Alici, i quali erano in guerra coi Selinuntini, e nel 433 con i Leontini e Reggio. Con Napoli in Campania mantenne amichevoli relazioni, e rafforzò con coloni ateniesi la popolazione della città. Si parla anche di un'alleanza con Roma che però non si può porre, se pure c'è stata, nel sec. V. Ora la lotta di Segesta con Selinunte dava occasione a un intervento ateniese in Sicilia: era palese l'intendimento di procedere alla conquista di tutta l'isola. Ma sopra il più valente dei generali inviati in Sicilia, Alcibiade (v.), pesava l'accusa d'aver profanato i misteri d'Eleusi e di aver mutilato le erme. I suoi stessi avversarî, certi della sua assoluzione in quel momento, vollero ch'egli partisse. Ma presto fu richiamato per rispondere delle accuse rivoltegli, ed egli preferì l'ospitalità dei nemici. Il suo piano di assalire Siracusa dopo un accerchiamento metodico, guadagnando alla causa ateniese molte città, non fu attuato dopo la sua partenza. Dopo l'offensiva contro Siracusa che come era da prevedersi, aveva preso le parti di Selinunte, gli Spartani, un po' temendo dell'incremento eccessivo di Atene, un po' stimolati dall'alleata Corinto, metropoli di Siracusa, mandarono sotto Gilippo soccorsi a Siracusa. L'esercito e la flotta ateniese, privati del loro maggiore stratego, non riuscirono a espugnare Siracusa, e quando v'era ancora una speranza di salvezza col ritorno della flotta in patria, la superstizione di Nicia ritardò la partenza, onde la flotta e l'esercito ateniese subirono un immane disastro. Nemmeno quando Sparta aveva inviato il navarca Gilippo in soccorso di Siracusa la pace si poteva considerare come rotta, a quel modo che non fu un casus belli l'alleanza degli Ateniesi con l'Elide, Mantinea e Argo nel 420. Ma quando gli Spartani irruppero nell'estate del 414 nel territorio di Argo, allora si entrò decisamente in guerra, e nella primavera del 413 Agide, il re euripontida, occupò Decelea a nord-est dell'Attica, danneggiando i rifornimenti per via di terra e favorendo la fuga degli schiavi. Ma ad un assalto contro Atene non venne, e tanto meno pensò a cingerla d'assedio.
In seguito al disastro di Sicilia trionfò il partito oligarchico. Così il consiglio dei Quattrocento, di cui faceva parte Teramene, s'insediò nel maggio del 411 con l'obbligo di scegliere tra i più abbienti tutti i cittadini che avrebbero diritto al voto, circa 5000. Le cariche dovevano essere gratuite. Ma l'oligarchia non durò a lungo, soprattutto per opera di Teramene il quale vedeva che gli oligarchi spinti se la intendevano con gli Spartani. Nell'ottobre del 411 caddero i Quattrocento e s'instaurò un'oligarchia temperata secondo l'ideale di Teramene, che durò fino alla vittoria di Cizico (410), dopo la quale fu ristabilita la democrazia. Alcibiade, il quale anche per odio dei democratici che l'avevano costretto a fuggire aveva contribuito a instaurare in Atene l'oligarchia, alimentando la speranza dei soccorsi da parte del re di Persia, le si dichiarò contrario quando vide la piega sfavorevole degli avvenimenti. Egli si era frattanto guastato con gli Spartani: fu pertanto richiamato ed eletto stratego dell'esercito ateniese stazionante a Samo, che non aveva accettato l'oligarchia. Rientrò quindi in patria, a cui la sua direzione fu molto propizia, finché dovette lasciarla per un insuccesso militare subito in Caria in sua assenza. Ma l'allontanamento d'Alcibiade fu fatale ad Atene: la flotta ateniese, dopo una serie di successi, fu distrutta nel 405 da Lisandro a Egospotami per non avere gli strateghi ascoltati i consigli di Alcibiade. Atene fu assediata per terra e per mare e si ebbe una seconda oligarchia (quella dei Trenta tiranni) a cui prese parte anche Teramene. Opera di Teramene fu la pace con Sparta conclusa a condizioni dure, ma la sola possibile. Teramene peraltro non riuscì a trionfare come nella prima oligarchia, e dagli oligarchici più accesi dopo un processo rivoluzionario fu condannato a bere la cicuta.
La riscossa democratica, capitanata da Trasibulo, poté aver ragione degli oligarchici per la gelosia destata dalla strapotenza di Lisandro a Sparta. Il re Pausania, figlio di Plistoanatte, appoggiato dalla maggioranza degli efori, prese il posto di Lisandro nel comando degli aiuti che Sparta aveva mandato agli oligarchici, e indusse le due parti avverse a un accordo. Atene ne riuscì umiliata e ridotta alla condizione di satellite più che di alleata di Sparta. Ma l'egemonia spartana destò gelosie e risentimenti, tanto che quando Agesilao, in seguito alla politica inaugurata da Sparta contro il re Artaserse, si recò in Asia (396) per continuare la guerra iniziatasi fino dalla spedizione dei diecimila mercenarî in soccorso di Ciro Minore, il re di Persia riuscì facilmente con l'oro mandato per mezzo di Tiribazo, a sollevare contro Sparta Atene, Corinto e la Beozia, dove prima che finisse la grande guerra aveva trionfato il partito democratico. Agesilao fu costretto ad abbandonare l'impresa asiatica e a condurre il suo esercito in Grecia al soccorso di Sparta. Frattanto Conone (394) aveva vinto e distrutto a Cnido la flotta spartana di Pisandro. La guerra finì con la pace di Antalcida (386) e Atene in forza del principio d'autonomia sanzionato nel trattato perdette tutti i vantaggi avuti in seguito all'azione di Trasibulo di Stiria, che aveva procurato l'unione ad Atene di Taso, Samotrace, Tenedo e del Chersoneso tracio. Atene era bensì risorta e nella politica generale della Grecia faceva sentirc di nuovo la sua azione, ma ad ogni sogno di egemonia conveniva ormai rinunciare, se pure questa persuasione stentò molto a farsi strada e non divenne mai generale.
Un nuovo slancio ebbe Atene quando, in seguito alla riscossa tebana contro Sparta, che d'accordo con gli oligarchi di Tebe aveva posto un presidio nella Cadmea, e al colpo di mano tentato dal generale spartano Sfodria sul Pireo, si alleò con Tebe e poté costituire la seconda lega marittima, differente nella struttura dalla prima, in ciò che Atene non faceva parte direttamente della federazione, ma ne convalidava le deliberazioni coi suoi organi di governo. Malgrado che con ogni mezzo si cercasse di eliminare la possibilità di un'invadenza soverchiatrice d'Atene, pur non vi si riuscì. Nel 357 Filippo, che l'anno antecedente aveva ottenuto dagli Ateniesi che abbandonassero il pretendente Argeo, promettendo loro di riconoscere la loro sovranità su Anfipoli, la ritenne invece per sé, e quindi Atene iniziò la guerra contro di lui. Nello stesso anno per opera di Mausolo di Caria avviene la defezione di Chio, Rodi, Coo e Bisanzio dalla federazione. Seguì una guerra, detta civile. Nella pace del 355 Atene dovette riconoscere l'indipendenza di questi stati, e quindi la federazione si disgregò. Continuò ora languidamente, ora con un po' più d'energia la guerra contro Filippo il quale chiamato dai Tessali era intervenuto contro i Focesi, di cui Atene con Sparta avevano prese le parti, e contro i tiranni di Fere. Nel 346 si concluse il trattato di pace detto di Filocrate in cui i Focesi furono abbandonati alla discrezione di Filippo e a lui si dovette riconoscere il diritto sulla Tracia e su Anfipoli. Atene poté salvare l'Eubea, Lemno, Imbro e Sciro.
Ma quantunque la pace fosse approvata e lo stesso Demostene incitasse a osservarla, nondimeno più che un periodo di pace fu un periodo di tregua quello degli anni seguenti, in cui Demostene cercò di sollevare tutto il Peloponneso contro Filippo. Un'altra volta Diopite, stratego ateniese, assalì Cardia contro i trattati, e Filippo si limitò a fare rimostranze. Vi fu un continuo stato di guerra senza che mai si venisse a un conflitto aperto, anzi Filippo poté condurre guerre in Illiria, sistemare le cose dell'Epiro, e internarsi nella Tracia settentrionale senza alcun timore di aggressioni dalla parte meridionale. Ma quando gli Anfizioni dichiararono una guerra "sacra" contro Anfissa e ne assunse il comando Filippo, Atene riuscì a concludere contro di lui l'alleanza con Tebe; a Cheronea le forze alleate furono disfatte dall'esercito macedonico, a capo del quale era lo stesso re Filippo, col suo generale Parmenione. A un assedio di Atene Filippo rinunciò, ammaestrato dalle difficoltà incontrate nell'assedio di Perinto nel 340, e nello stesso tempo desiderando accelerare la spedizione contro la Persia, in braccio alla quale forse avrebbe gettata Atene proseguendo la guerra. Onde offrì ad Atene patti vantaggiosi, mantenendo per sé gli antichi possessi ateniesi nella Tracia, e lasciando Atene padrona delle grandi isole, dandole Oropo e rendendole senza riscatto i prigionieri di Cheronea. Al congresso di Corinto (337), in cui si bandiva la guerra contro il Persiano e si nominava Filippo generalissimo dell'esercito federale, intervenne anche Atene. Dopo la morte di Filippo (336) vi fu da parte di Atene un tentativo di riscossa, quando si sollevò Tebe, ma la comparsa fulminea di Alessandro, il quale distrusse Tebe (335), paralizzò ogni tentativo di ribellione. Atene prese parte con la flotta alla spedizione di Alessandro in Asia, ma con sole venti navi invece di mettere a disposizione di lui tutta la flotta. Quando Arpalo durante la spedizione di Alessandro fuggì in Atene con i tesori, il governo si condusse lealmente verso Alessandro, promovendo un'inchiesta che gettò una luce fosca sopra uomini politici in vista, tra i quali anche lo stesso Demostene. Morto Alessandro (323), si determinò in Grecia un movimento di ribellione, a capo del quale era Atene, ma l'esercito federale, pure avendo ottenuto un cospicuo successo a Lamia, fu sconfitto a Crannone e Demostene fuggì al suo fato avvelenandosi (322). Antipatro curò che in Atene fosse abolita la democrazia, stabilendo per l'esercizio dei diritti civili un censo di 2000 dramme. Quando Poliperconte nel 319 proclamò il ristabilimento della democrazia, Atene cacciò il presidio che Antipatro aveva posto a Munichia, ma dovette poi (317) arrendersi al figlio di Antipatro, Cassandro, il quale instaurò nel potere Demetrio del demo di Falero, letterato e filosofo. Questi ristabilì l'oligarchia, ma permise l'esercizio dei diritti civili a tutti i cittadini che avevano un capitale di mille dramme, sicché l'oligarchia di Demetrio Falereo fu più temperata di quella instaurata da Antipatro. Questa costituzione durò dieci anni, poiché nel 307 sbarcò improvvisamente al Pireo Demetrio, figlio di Antigono, conosciuto poi sotto il nome di Poliorcete per le macchine d'assedio adoperate contro Rodi nell'anno 305.
Questi restaurò la democrazia ed ebbe onori divini; una delle tribù di Atene fu chiamata, in suo onore, Demetriade (un'altra fu detta Antigonide). Mentre però Demetrio era in Oriente a cooperare col padre Antigono nella guerra contro Tolomeo, Cassandro mosse contro Atene. Il primo attacco nel 306 fu sventato, ma nel 304 Cassandro tornò all'attacco, s'impadronì della fortezza di File, di Panatto e anche di Salamina dopo aver battuta la flotta ateniese. Avendo poi Antigono concluso un accordo con Rodi, Demetrio poté tornare in occidente, e da Calcide mosse verso Aulide e di qui verso Atene, onde Cassandro si dovette ritirare. Ma dopo la battaglia di Ipso (301) in cui cadde Antigono, l'impero fondato da Demetrio in Grecia crollò e quindi anche Atene si ribellò, tornando in onore gli antichi democratici, difensori della libertà, fra i quali Democare da Leuconoe, nipote di Demostene. Nel 295 la città cadde sotto la tirannide di Lacare, il quale conservò la democrazia. Gli avversarî chiamarono allora Demetrio che assediò Atene dopo essersi impadronito di Salamina, e di una piccola parte del territorio dell'Attica. Atene gli aprì le porte nel 294. Quantunque la costituzione venisse rispettata, mal si tollerava l'influenza del re nelle cose ateniesi, onde si fece un decreto in cui si proclamava l'autonomia assoluta. La risposta di Demetrio fu l'ordine di accogliere gli oligarchi cacciati nel 307. I democratici furono allora perseguitati, e Atene venne sempre più alla dipendenza della Macedonia con un governo oligarchico. Quando Demetrio nel 287 ebbe soggiaciuto alla coalizione di Lisimaco e Pirro, Atene in seguito agl'infortunî di Demetrio cacciò il presidio macedonico. Nel 280 mandò anch'essa alle Termopili un contingente di truppe contro i Galli che avevano invaso la Grecia. Accedette poi alla politica di Tolomeo Filadelfo, rivale del re di Macedonia, Antigono Gonata, che dopo molte vicende aveva potuto ricuperare il regno paterno, e in seguito alla proposta di Cremonide unì le sue armi a quelle di Tolomeo e di Areo II, re di Sparta. L'esito infelice della guerra (266-262) ebbe per effetto il ritorno di Atene sotto la soggezione della Macedonia, e l'insediamento di un presidio macedonico a Munichia e al Pireo. Solo nel 252 Antigono Gonata rese agli Ateniesi la libertà, mantenendo però un presidio al Pireo. Il comandante Diogene nel 229, forse nella congiuntura della morte di Demetrio detto l'Etolico, successore di Antigono Gonata, consegnò il Pireo agli Ateniesi, ma i maneggi di Arato per far entrare Atene nella lega acaica non riuscirono come erano riusciti per Egina. D'allora in poi la politica ateniese si mostrò propensa verso i Tolomei e i re di Pergamo.
Il risentimento della Macedonia per la liberazione di Atene dal suo dominio si manifestò nel 200, quando due Acarnani, il cui popolo era alleato della Macedonia, penetrati tra i celebratori dei misteri eleusini furono massacrati. Filippo V re di Macedonia devastò per mezzo dei suoi generali il territorio ateniese quasi fino alle porte di Atene. Da allora in poi Atene, la cui aggressione fu una delle cause occasionali della seconda guerra condotta dai Romani contro la Macedonia, tenne una politica di continuo ossequio e servilità verso Roma, che non si curò di attentare alle istituzioni democratiche. Quando nel 155 gli Ateniesi fecero un'irruzione nel territorio di Oropo, e gli Oropî ricorsero ai Romani, la condotta di questi verso gli Ateniesi fu indulgente e favorevole, giacché rimisero la decisione della controversia alla città acaica di Sicione, che inflisse agli Ateniesi una multa di 500 talenti; il senato romano la ridusse a cento che nemmeno furono pagati. Ma ormai la soggezione ai Romani divenne sempre più stretta e opprimente, tantoché quando tra i Greci dell'Asia per opera di Mitridate s'iniziò una generale sollevazione contro i Romani, Atene vi partecipò per istigazione di Aristione che assunse una specie di dittatura. Atene fu assediata da Silla e, caduta nell'86 a. C. in mano sua, fu trattata duramente e spogliata, tra l'altro, di molti manoscritti preziosi.
Nelle guerre civili seguì prima le parti di Pompeo e quelle di Bruto e Cassio, poi quelle di Antonio; ma né Cesare, né Augusto fecero scontare ad Atene il fio di queste ostilità. Adriano rialzò di molto il prestigio di Atene, tanto che la città, per mostrare la sua riconoscenza chiamò una trihù e un demo Antinoeis, dal nome di Antinoo. Adriano fece costruire in Atene il tempio di Zeus Panellenio, istituì le Panellenie, assemblee con carattere amfizionico accompagnate da feste solenni e da gare ginniche. Tutte le città della Grecia vi mandarono i loro tesori che venivano raccolti in una cassa comune, amministrata da un ἑλληνοταμία. Nel periodo repubblicano e imperiale la costituzione di Atene funzionò come ai tempi dell'indipendenza e un certo residuo di spirito democratico si mantenne vivo, né mancano esempî di tumulti dovuti contenere dagli strateghi, il cui ufficio pare che si limitasse in massima a un potere coercitivo di polizia, mentre il primo stratego aveva anche la mansione dell'approvvigionamento. L'aeropago crebbe sempre più di prestigio, al quale dovette molto conferire la rinnovata elettività degli arconti da cui l'aeropago era formato. Inoltre continuava come prima a funzionare l'assemblea popolare. Si è pensato che al posto del polemarco fosse subentrato il primo stratego; ma non è certo, e in ogni modo si deve trattare di modificazioni non permanenti, perché la persistenza del polemarco ci è attestata da una fonte contemporanea (Philostr., Vita Soph., II, 30). Si può dire che durante il periodo imperiale Atene impersonasse tutta la Grecia. Durante il regno di Adriano cade l'attività di Erode Attico; esiste ancora in stato di buona conservazione l'Odeon da lui fabbricato ai piedi dell'Acropoli. Ammirato per la sua signorile munificenza, egli curò ancora la costruzione dello stadio panatenaico al di là dell'Ilisso. L'attività di Erode Attico, cominciatasi a rivelare sotto Adriano, si svolse sotto i primi Antonini, Antonino Pio e Marco Aurelio. Quest'ultimo si volle iniziare nei misteri di Eleusi e promosse l'incremento dell'università di Atene, stabilendo anche gli onorarî dei professori; il che mostra in quale considerazione fosse tenuta Atene da questi imperatori e come fosse sempre viva la forza della tradizione gloriosa, sia pure sotto un po' di ciarpame rettorico. Un trattamento ostile ebbe Atene da Settimio Severo il quale ai privilegi degli Ateniesi avrebbe portato restrizioni, che non siamo in grado di determinare, come non sono note neanche le cause di questa ostilità: secondo la tradizione egli avrebbe ricevuto qualche cattivo trattamento durante la sua vita studentesca in Atene; ma probabilmente egli volle punire Atene dell'appoggio prestato insieme con gli altri Greci a Pescennio Nigro. Ma fu questa una nube che passò, e sull'orizzonte di Atene ritornò presto il sereno.
L'istituzione che più di tutte caratterizza l'importanza di Atene, è la sua università sempre fiorente. Essa, malgrado le difficoltà finanziarie cui dovette sottostare dopo il tempo di Alessandro Severo per le ripercussioni delle guerre e delle gravi condizioni finanziarie dell'impero, continuò sempre a fiorire, e sotto Costantino ebbe una sistemazione amministrativa che ha un riscontro con gli ordinamenti dei tempi nostri, l'istituzione del rettore e del senato accademico. La città prendeva viva parte al funzionamento dell'università, tanto che l'elezione d'un professore costituiva per il pubblico ateniese un avvenimento del massimo interesse. I professori d'altra parte godevano d'una certa libertà di parola, nonostante la loro dipendenza dall'imperatore attraverso il proconsole e i suoi agenti; solo con gl'imperatori cristiani, i quali favorivano i correligionarî, la loro libertâ cominciò a essere inceppata. Secondo la tradizione, un colpo decisivo avrebbe avuto finalmente l'università di Atene sotto Giustiniano, che avrebbe proibito d'insegnare giurisprudenza, e, considerando l'università un vivaio d'idee pagane, anche filosofia. Ciò sarebbe avvenuto nel 529 d. C., e avrebbe segnato il principio della decadenza definitiva d'Atene.
Bibl.: Vedi in generale: Wachsmuth, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., supplemento I; Roscher, Myth. Lexikon, I, s. v. Athena. II Curtius (Grundzüge der griech. Etym., 251), riconnette il nome di Atene con Anthos, etimologia problematica. - Per l'autoctonia degli Ateniesi: Erodoto, I, 57. Per i Pelasgi fabbricatori del Pelasgico: idem, VI, 137, 7. Per il serpente di Eretteo, vedi Preller-Robert, Griech. Myth., 4ª ed., I, pp. 140, 199, n. 1 e i luoghi ivi citati. Per il nome Ionî, vedi Beloch, Gr. Gesch., 2ª ed., I, II, l., p. 140; Oldfather, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IX, col. 1858. Per Cecrope, vedi Tucidide, I, 15, i, e l'art. cecrope di questa enciclopedia. Per l'Attica anteriore al sinecismo: Francotte, La polis grecque, Paderborn 1905, p. 6 seg.; Gilbert, Die altattische Komenverfassung, Lipsia 1874; S. F. Hammarstrand, Attikas Verfassung zur Zeit des Königthums, Lipsia 1874; De Sanctis, Atthis, 2ª ed., Torino 1912, p. 24 seg. Vedi le storie del Beloch, Busolt, E. Meyer. Per il significato religioso dei nomi dati alle tribù ioniche: Costanzi, I nomi delle tribù Ioniche rischiarati con quelli delle tribù di Tegea, in Annali delle Università toscane, XLV. Per le questioni relative all'evoluzione dei poteri che alterarono e sopraffecero il potere monarchico: De Sanctis, ibid., p. 118 seg. Per il carattere religioso della basilissa: Aristotele, La costituzione di Atene, 2. Per gli ectemori: Aristotele, nel principio mutilo de La costituzione di Atene; Plutarco, Solone, 13. Per l'arcontato e la lista degli arconti vedi Schöffer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, coll. 582-598; De Sanctis, Atthis, pp. 77 seg., 80 seg. Per la questione intorno all'epoca della congiura ciloniana cfr. J. Beloch, in Rheinisches Museum, 1895, p. 252, n. 1; id., Griech. Geschichte, Strasburgo 1893, I, ii, p. 302 seg.; De Sanctis, Atthis, 2, p. 280. Per la tirannide di Pisistrato e i Pisistratidi: Erodoto, I, 55, 59, 65, 91, 94; VI, 35, 102; VII, 6; Aristotele, op. cit., 14 seg.; E. Meyer, Beloch, Busolt, De Sanctis, nelle opere ripetutamente citate; Costanzi, La costituzione di Clistene, in Rivista di filologia, LX (1927), p. 174 seg. Per le fratrie: De Sanctis, Atthis, p. 41 seg. In generale per la struttura costituzionale d'Atene, vedi Hermann e Thumser, Lehrbuch der griech. Staatsalterth., Friburgo 1892, II; vedi Hermann e Thumser, Lehrbuch der griech. Staatsalterth., Friburgo 1892, II; G. Busolt, Griech. Staatskunde, Monaco 1920, II, pp. 758-810. Per la fondazione della lega Delica: Tucidide, i, 96; Aristotele, op. cit., 23, 55. Per il periodo della pentecontetia, v. soprattutto: Tucidide, I, 97-117 fino alla guerra con Samo; 118 segg., per gli avvenimenti precedenti la guerra del Peloponneso con alcuni sguardi retrospettivi; Diodoro, XI-XII; Plutarco, Temistocle. Cimone e Pericle. Cfr. per il resto gli scrittori già citati e inoltre: Costanzi, La battaglia dell'Eurimedonte, in Riv. di fil., XXXI (1903), p. 249; La cronologia della terza guerra messenica, in Riv. di fil., L (1922), p. 29 seg. Per le relazioni di Atene con l'Occidente vedi Inscr. Gr., I, 20, 33; Plutarco, Vita di Pericle, 20; id., Alcib. 17; Pausania, I, 29; Beloch, op. cit., II, i, p. 203; E. Pais, Ricerche Storiche e Geografiche, p. 437. Per tutti gli antecedenti della guerra del Peloponneso: Tucidide, I, oltre Diodoro e Plutarco, Vita di Pericle. Per le fasi dei tre periodi della guerra del Peloponneso vedi Tucidide, il quale giunge sino al 411-10; Senofonte, i primi due libri delle Elleniche; Diodoro, XIII e XIV; Plutarco nelle vite di Pericle, Nicia ed Alcibiade. Cfr. le opere citate del Busolt, III, ii; E. Meyer, IV; Beloch, II, ii, p. 286 segg. Inoltre A. Ferrabino, L'impero ateniese, Torino 1927. Per l'instaurazione della prima oligarchia, vedi Tucidide, VIII, 65-76; Aristotele, Costituzione d'Atene, 22 seg. - Per la critica: E. Meyer, Forschungen, Halle 1892, II, p. 406 segg.; Ferrabino, op. cit. e I quattrocento e i cinquemila, in Atti della R. Accademia delle Scienze a Padova, XLII (1926). - Per i trenta tiranni e la restaurazione democratica, oltre Senofonte ed Aristotele, sono fonti importantissime le orazioni di Lisia contro Eratostene e contro Agorato. Di moderni, vedi P. Cloché, La restauration démocratique à Athènes, Parigi 1916. Per la guerra di Corinto e il risorgimento di Atene: Senofonte, Elleniche, III e IV; Diodoro, XIV seg.; Cornelio Nepote, Vita di Conone; Plutarco, Vita di Agesilao; lo storico d'Ossirinco scoperto nel primo decennio di questo secolo. Per la seconda lega marittima: Senofonte, V e VI; Diodoro, XV; Cornelio Nepote, Cabria e Timoteo; Beloch, op. cit., III, i, p. 150 seg.; Hermann e Thumser, op. cit., 739, 4. Per la storia di Atene nell'età di Filippo e di Alessandro, fonti principalissime sono gli oratori attici, particolarmente Demostene ed Eschine; per Diodoro, particolarmente nel lib. XVI, e Plutarco nelle vite di Alessandro, Demostene, Focione, inoltre le Vite dei dieci oratori e Arriano, Anab., I, 7; II, 17. Di moderni, vedi Schaefer, Demosthenes und seine Zeit, 2ª ed., Lipsia 1885-87; Beloch, Att. Politik, Lipsia 1886 e Griech. Geschichte, Strasburgo 1904, III, i. - Per la guerra lamiaca: Iperide, Epitafio; Diodoro, XVII, iii; XVIII, 9, 10-18; Plutarco, Vita di Focione, 26, 22. - Per Demetrio Falereo: Diodoro, XVIII, 34; XX, 54, 15; II, 3; Plutarco, Vita di Focione, 35; Beloch, Griech. Geschichte, IV, i, p. 104 seg., 105; De Sanctis, nel volume II degli Studi di storia antica del Beloch, Roma 1893, pp. 12-20. Per la venuta di Demetrio Poliorcete e le sue vicende: Diodoro, XX, 46; Plutarco, Vita di Demetrio, 9; Pseudoplutarco, Vite dei dieci oratori, p. 586. Per l'opera sua posteriore, vedi De Sanctis negli Studi cit., 21 seg.; Beloch, op. cit., pp. 160 seg., 231-232. Per la politica filotolemaica d'Atene e la guerra cremonidea: Pausania, I, i, 7; Giustino, XXVI, 2. Cfr. Beloch, op. cit., IV, i, p. 588 seg.; ii, p. 502 seg. Per l'emancipazione d'Atene dal dominio macedonico: Plutarco, Vita d'Arato, 34; Pausania, II, 8, 6; Beloch, op. cit., IV, i, p. 640. Per le relazioni d'Atene e Roma, oltre il Colin, Rome et la Grèce, Parigi 1905, passim; W. S. Ferguson, Hellenistic Athens, Londra 1911; Niese, Gesch. der griech. und maked. Staaten, II e III. Per l'assedio di Atene durante la guerra mitridatica, fonti principali sono: Appiano, Storia Mitridatica e Plutarco, Vita di Silla, oltre a un frammento di Posidonio presso Ateneo, V, 211 segg. Di moderni, vedi Th. Reinach, Mithridate Eupator, Parigi 1890; Wilamowitz, Athenion und Aristion, in Sitzungsberichte der preuss. Akad., 1923, p. 39 segg. Per le relazioni con Roma al tempo delle guerre civili: Appiano, Guerre civili, II, 70, 76, 88; V, 7, 11, 93, 138. Per le relazioni di Atene con Adriano e in generale per il periodo imperiale: Hertzberg, Geschichte Griechenlands unter der Herrschaft der Römer, II, Halle 1868, pp. 314 seg., 331, 367-373. Per Erode Attico, vedi l'articolo dell'enciclopedia. Per l'interesse di Antonino Pio e di Marco Aurelio per Atene, vedi Dione Cassio, LXXI, 31. Per le relazioni con Settimio Severo, vedi Hertzberg, op. cit., II, p. 425. Per l'importanza dell'università di Atene, id., III, Halle 1875, pp. 80 segg., 539 seg. Per l'impronta democratica della costituzione d'Atene, id., II, pp. 339, 341, n. 3.
L'età medievale e moderna. - Col sec. IV d. C. la vita di Atene entra in un periodo di profonda oscurità che continua per tutto il Medioevo e per gran parte dell'età moderna. Poco si sa della predicazione e della diffusione del cristianesimo; in Atene sarebbe persino anteriore alla predicazione in Roma; giacché, stando agli Atti degli Apostoli (XVIII, 15-33), S. Paolo vi avrebbe predicato nel 53 d. C., se pure con scarso successo. Comunque, è certo che almeno per l'influsso della chiesa di Corinto, uno dei focolai d'irradiazione del cristianesimo, anche Atene con l'Attica dovette essere compresa nell'azione dì propaganda evangelizzatrice. Siamo tuttavia all'oscuro sull'organizzazione della chiesa di Atene e sulla successione dei suoi vescovi: a parte Dionigi l'Areopagita, che secondo leggende greche sarebbe stato a capo della diocesi, troviamo solo alcuni nomi, come quelli di Poplio e di Codratos all'inizio del sec. II. Certo, Atene non era il centro più favorevole per la nuova dottrina: le tradizioni culturali e religiose, il fiorire dell'Accademia, che rappresentava una vigorosa corrente di pensiero non cristiana, dovevano ostacolarne i progressi.
Delle invasioni barbariche qualcuna è giunta sino all'Attica; ma la città rimase, nella cerchia delle sue mura, intatta e ben difesa dall'Acropoli, che già nel sec. III è indicata come castello. Da Costantino a Giustiniano questa o quell'opera d'arte venne tolta dalla città per abbellire la nuova capitale sul Bosforo. Ad Atene continuarono, certo, ad esservi scuole, sebbene nulla di preciso si possa dire circa lo scioglimento dell'Accademia che la tradizione attribuisce a Giustiniano (v. sopra). A Giustiniano si attribuisce pure un restauro delle mura cittadine; qualche lapide ricorda i funzionarî municipali addetti alla cura degli acquedotti. Forse nell'età giustinianea si compie la trasformazione dei vecchi templi in chiese cristiane: il Theseion dal sec. IV era già diventato tempio dedicato a San Giorgio; il Partenone fu dedicato alla Vergine e la patrona della città fu ora la Panagía Theotókos Athēniótissa; nel tempio di Giove olimpico fu costruita una cappella dedicata a San Giovanni delle Colonne; l'Eretteo diventa anch'esso tempio della Theotókos; l'Asklepieion fu consacrato ai Santi Cosma e Damiano; anche il Ceramico fu trasfomiato in chiesa. Nei Propilei installò la sede episcopale.
L'oscurità s'infittisce in seguito, e certo la città continuò in quella decadenza, già descritta nel sec. IV da Sinesio. Nel sec. VII due sole notizie abbiamo di Atene: nel 662 l'imperatore Costante II sbarca al Pireo e rimane in Atene sino alla primavera del 663, quando riparte per l'Italia; il vescovo di Atene, Giovanni, interviene al concilio di Costantinopoli del 680. Nulla di più sappiamo per il sec. VIII: di famiglia patrizia ateniese era Irene che andò sposa all'imperatore Leone IV e che nel 797, per assicurarsi sul trono, esiliò in Atene i cognati, i figli cadetti di Costantino V. Un'altra ateniese, parente di Irene, la patrizia Teofane andò sposa al principio del sec. IX a Staurakios figlio dell'imperatore Niceforo I. Nell'887 Leone V esiliò ad Atene due dei suoi nemici, Teodoro Santabareno e Basilio Ereikto; della stessa età conosciamo due vescovi ateniesi: Niceta, morto nell'881, e Sabas, morto nel 914. Notizie slegate che non bastano a darci un'idea di quel che fosse Atene in quel tempo.
Già nel sec. IX Atene era diventata sede arcivescovile e occupava il 28° posto nella gerarchia. Il metropolita di Atene aveva il titolo di Esarca di tutta l'Ellade e aveva sotto di sé dieci vescovi suffraganei; nel sec. XII ne ebbe dodici. Politicamente Atene e l'Attica facevano parte del tema di Ellade, i cui governatori risiedevano a Tebe. Si ha la notizia isolata che nel 915 l'arconte Chasé trovandosi in Atene destò un tumulto popolare e venne colpito e ucciso nel tempio della Theotókos. Nel sec. X il tema di Ellade fu unito a quello del Peloponneso; nel XII sotto i Comneni, si procedette alla divisione delle grandi provincie e Atene con l'Attica formò provincia a sé col nome di Orion: è conosciuto il nome di qualche governatore della fine del sec. XII.
Il confronto dei nomi e un'attenta indagine glottologica hanno dimostrato che la zona ateniese si conservò durante tutto il Medioevo quasi completamente pura da infiltrazioni slave: solo nella pianura di Maratona qualche nome slavo è riconoscibile. Nel sec. XII la vita economica pare essersi rialzata: sappiamo di una notevole colonia ebraica, di manifatture di seta; Edrisi la dice città popolosa. Dal 1175 (o 1180) Atene ebbe come arcivescovo il dotto Michele Acominato, che nelle sue lettere e nei suoi discorsi parla spesso della città che dice povera e indotta; naturalmente il colto prelato fa troppo spesso il confronto fra l'Atene antica e la moderna; si lagna della barbarie della popolazione, della scarsa cultura del clero, delle depredazioni dei pirati, delle fiscalità dei governatori.
Nella bufera della quarta crociata, un potente feudatario greco, Leone Sguros, cercò di occupare Atene, ma fu respinto dalla popolazione; la città cadde invece nelle mani dei latini e precisamente di Ottone de la Roche che fondò il ducato di Atene. Ma i duchi si chiamarono così solo in omaggio alla tradizione illustre, loro imposta dalle grandiose costruzioni antiche ancora esistenti. In realtà abitavano a Tebe, continuando la tradizione dei governatori bizantini. Atene, il cui nome fu corrotto in Satines, fu completamente trascurata; anche il Pireo fu chiamato Porto del Leone e il suo nome primitivo scomparve. Fuggito Michele Acominato a Ceo, Ottone de la Roche trasformò i templi in chiese latine; vi mise arcivescovo il suo cappellano Berardo cui furono subordinate ora 11 sedi; il Partenone diventò la chiesa di Santa Maria, che fu servita da 12 canonici. La trasformazione cattolica fu agevolata dalla fondazione di non pochi monasteri: celebre diventò quello dei cistercensi a Daphní sulla via di Eleusi. Sotto la cura dei duchi e dei loro governatori dell'acropoli, Atene ebbe un notevole rifiorimento economico, grazie anche alla frequenza dei commercianti italiani. Una fase nuova della vita di Atene si iniziò nel 1311, quando il ducato cadde in possesso della Compagnia dei Catalani. Nell'acropoli s'installò il governatore catalano e la città godette di una certa autonomia. Ma nel 1387 la città e il 2 maggio 1388 l'acropoli furono occupate dal fiorentino Neri Acciaiuoli: l'elemento spagnolo scomparve dalla città e fu sostituito da quello italiano, che si dimostrò tollerante in materia religiosa, permettendo una restaurazione ortodossa. Dal 1395 al 1402 Atene fu in possesso dei Veneziani che ricacciarono i Turchi nelle loro scorrerie. Dello stato di Atene abbiamo una descrizione fattaci nel 1395 dal notaio italiano Niccolò de' Martoni di Capua; più tardi nel 1436 e ancora nel 1444 la città fu visitata da Ciriaco d'Ancona, il noto umanista archeologo. Gli Acciaiuoli avevano rioccupato Atene nel 1402 e la conservarono fino al 4 giugno 1456, data dell'occupazione turca. Però l'acropoli resistette ancora qualche tempo, difesa da Franco Acciaiuoli.
La dominazione turca si rassodò definitivamente in Atene dopo la breve rioccupazione veneziana del 1466 e durò sino al 1833. Non si può dire che i Turchi abbiano recato gravi danni ai monumenti antichi, ché solo si preoccuparono di trasformare i vecchi templi in moschee, ricoprendo con calce le pitture cristiane, e di rinsaldare le fortificazioni dell'Acropoli. Maometto II nel 1459 visitò la città e ammirò i tesori dell'arte antica. I turchi però, per prudenza militare, cercarono d'impedire la visita della città agli occidentali; Atene, chiamata ancor sempre il castello di Setiné, fu trascurata da viaggiatori e pellegrini. Nel 1578 la popolazione era di circa 12.000 fra cristiani e musulmani. Nel secolo XVII, prima la Francia, poi l'Inghilterra vi stabilirono i loro consoli; nel 1645 gesuiti francesi e nel 1658 cappuccini, pure francesi, s'installarono in Atene e incominciarono a disegnare un piano della città e dei monumenti antichi. Nel 1656 i Propilei saltarono per uno scoppio del deposito di polveri stabilitovi dai Turchi. Nella seconda metà del sec. XVII l'attenzlone degli studiosi incominciò a fermarsi su Atene; nel 1674 vi si recò l'ambasciatore di Luigi XIV a Costantinopoli, il marchese De Nointel, che fece disegnare i principali monumenti antichi dal pittore Carrey; nel 1672 il gesuita Babin, nel 1675 il Guillet, e lo Spon, nel 1676 il Vernon descrissero la città.
Tristi furono le vicende di Atene nella guerra fra Venezia e i Turchi iniziatasi nel 1684; i Turchi per la difesa della città distrussero il tempio della Nike, i Veneziani del Morosini e del Koenigsmark bombardarono l'Acropoli e il 26 settembre 1687 colpirono gravemente il Partenone. Occupata la città e l'Acropoli, i Veneziani dovettero abbandonarla, dopo averla fatta sgomberare dalla popolazione. Francesco Morosini inviò come trofeo a Venezia i leoni del Pireo (ora all'arsenale) e cercò di asportare anche le statue del frontone del Partenone, che però caddero e si spezzarono.
Atene partecipò, come gli altri centri ellenici, al risveglio nazionale del sec. XVIII. Nel 1812 vi si formò una società segreta detta degli amici delle Muse. Scoppiata l'insurrezione, il 10 giugno 1822 gli ateniesi cacciarono il presidio turco e si resero padroni della città. Negli anni seguenti si rifugiarono nell'Acropoli molti difensori dell'indipendenza, come Odysseus, Guros, il Fabvier; nel 1827 la città fu bombardata da Reshīd pascià e rioccupata dai Turchi il 5 giugno. Solo il 31 marzo 1833 i Turchi, dopo la proclamazione del regno di Grecia, abbandonarono per sempre Atene, lasciandola completamente rovinata.
Fra le varie città desiderose di essere la capitale del nuovo stato, come Nauplia e Corinto, Atene s'impose col prestigio del suo nome glorioso. Fu proclamata capitale il 18 settembre 1834 e il primo re degli Elleni, Ottone di Baviera, vi entrò solennemente il 1° gennaio 1835. Vicino alla città antica nacque nell'ultimo secolo una nuova città, nella pianura a nord, verso Patissia e ad est sulle pendici del Licabetto.
Il primo piano regolatore fu dato già nel 1834 dagli architetti bavaresi chiamati da re Ottone: a ventaglio, con l'Acropoli per base. Il vecchio quartiere medievale (l'ἄστυ) rimase la città degli affari; dell'Agorà, il bazar turco, assai poco si è salvato dall'incendio del 1885. Dell'Atene bizantina rimangono, prezioso ricordo, alcune chiese come la Panagía Kapnikaréa, San Teodoro. La torre degli Acciaiuoli fu distrutta nel 1875.
Bibl.: C. Hopf, Geschichte Griechelands vom Beginn des Mittelalters, Lipsia 1870; F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Athen im Mittelalter, Stoccarda 1889; L. de Laborde, Athènes aux XV-XVII siècles, Parigi 1855; H. Omont, Athènes au XVIIe siècle, Parigi 1897; G. Constantinides, ‛Ιστορία τῶν 'Αϑηνῶν, Atene 1894; Th. Philadelpheus, ‛Ιστορια τῶν 'Αϑηνῶν ἐπὶ τῆς Τουρκοκρατὶας Atene 1902; Sp. Lampros, ‛Ιστορία τῆς πόλεως 'Αϑηνῶν, Atene 1900; id., ‛Ιστορία τῆς ‛Ελλάδος, Atene 1886-1908; D. Kamporouglous, ‛Ιστορία τῶν 'Αϑηνῶν, voll. 3, Atene 1889-96.
Ducato di Atene.
Lo stato latino di Atene sorse nel 1205, in conseguenza della conquista di Costantinopoli dovuta alla quarta crociata. L'Attica e la Beozia facevano parte dei territorî greci, che nella ripartizione vennero assegnati al regno di Salonicco di Bonifacio di Monferrato. Il marchese le occupò nell'estate del 1205, e le diede in feudo a un cavaliere borgognone del suo seguito, Ottone de la Roche, dei signori di Salins. Questi assunse il titolo di sire di Atene; i Greci lo chiamarono Megaskyr. Si considerò dapprima vassallo del regno di Salonicco e poi, dopo la sua scomparsa, dell'imperatore di Romania; ma, avendo accettato dal principe di Acaia il feudo di Nauplia e d'Argo, finì col trovarsi subordinato in certo qual modo al principe stesso. Ottone de la Roche divise i territorî dell'Attica e della Beozia fra i parenti e gli amici che presto arrivarono numerosi dalla Borgogna; e si stabilì non in Atene, ma a Tebe, nel castello costruito nel sito dell'epica Cadmea.
Lo stato ateniese abbracciava l'Attica, la Beozia, la Megaride e la Locride; ben difeso dal mare d'ogni parte, aveva contro le minacce dei despoti greci d'Epiro due buoni baluardi nei feudi di Boudonitza e di Salona. Il marchesato di Boudonitza sorvegliava il passo delle Termopili e fu dapprima affidato all'italiano marchese Guido Pallavicini; la signoria di Salona o la Sole (l'antica Amfissa) sorvegliava la via lungo il golfo di Corinto.
Nel 1225, Ottone, preso dalla nostalgia, se ne ritornò con la famiglia in patria, lasciando lo stato greco al nipote Guido, mentre un altro nipote, Guglielmo, ebbe la baronia di Velagosti.
I principi furono spinti dal bisogno di procurarsi maggiori redditi a favorire lo sviluppo dell'industria della seta, tradizionalmente coltivata, più che altrove, a Tebe da un'attiva colonia di Ebrei. I Genovesi specialmente s'interessarono del commercio con il ducato di Atene, volendo qui rifarsi dei gravi danni, sofferti per la quarta crociata, che aveva significato il trionfo economico di Venezia. Presto vi furono in Atene e in Tebe importanti nuclei genovesi, e nel 1240 Guido de la Roche accordò ai Genovesi un solenne diploma: concedeva libertà e sicurezza di commercio, esenzione dalle dogane, diritto di avere quartieri nelle due città, diritto alla giurisdizione consolare, salvo l'appello al principe per le questioni gravi. L'atto è firmato da Riccio di San Donato, che si dice console genovese in Tebe. Poi, dopo la caduta dell'Impero latino, anche nell'Attica affluirono i commercianti veneziani e pisani; più tardi la dominazione aragonese portò in gran numero i commercianti catalani. Pare che i commercianti italiani non si limitassero all'esportazione dei prodotti tessili greci, ma che essi stessi organizzassero la produzione locale.
Un conflitto che Guido de la Roche sostenne col principe di Acaia per difendere la sua indipendenza, finì felicemente per il primo: benché sconfitto, e costretto a subire il giudizio dei pari di Acaia riuniti a Nikli, e invitato a Parigi per sottostare al giudizio del re, tuttavia il parlamento di Parigi lo dichiarò abbastanza punito per effetto delle gravi spese del viaggio, e Luigi IX gli conferì titolo di duca d'Atene. Ritornato in Grecia, a lui toccò di assumere la difesa del principato d'Acaia durante la prigionia di Guglielmo di Villehardouin. Gli successe, nel 1263, il primogenito Giovanni, che nel 1275 intervenne vittoriosamente nell'Epiro per impedire il trionfo di Michele VIII Paleologo; ma nel 1278 fu dai Bizantini sconfitto e fatto prigioniero a Negroponte. A lui successe, nel 1280, il fratello minore Guglielmo, che si riconobbe vassallo del re di Napoli, per il quale governò l'Acaia durante alcuni anni. Gli successe nel 1287 il figlio minorenne Guido II, detto Guyot; la madre e reggente, Elena Angelo Ducas, sposò in seconde nozze Ugo di Brienne conte di Lecce, vedovo d'Isabella de la Roche sorella dei due duchi Giovanni e Guglielmo. Guido II prese in moglie Matilde, figlia d'Isabella di Villehardouin, erede dell'Acaia, col pensiero di unificare i due stati latini limitrofi. Ma nel 1308 il giovane duca, unica speranza della sparuta aristocrazia franca crociata, venne a morte. Gli successe, l'anno dopo, il cugino Gualtieri di Brienne, figlio di Ugo e d'Isabella de la Roche. Audace e intraprendente, Gualtieri si propose di togliere ai Greci Neopatras e vi riuscì, assoldando la compagnia catalana di Roger de Flor allora accampata presso Salonicco. Ma anch'egli, come prima l'imperatore bizantino, venne a lotta con i suoi mercenarî, e morì in battaglia, al Cefiso (15 marzo 1311). Caduti nella battaglia quasi tutti i cavalieri franchi, i Catalani poterono occupare Tebe ed Atene: la vedova del duca, Jeanne de Châtillon, fuggì in Francia col figlio Gualtieri VI.
I Catalani, incapaci di organizzare la conquista, prima acclamarono loro comandante il francese Roger Deslaur, uno dei catturati al Cefiso; poi offrirono il ducato a Federico d'Aragona, re di Sicilia. Così il ducato ateniese fu annesso alla Sicilia e governato da funzionarî inviati da Palermo, Lol titolo di Vicario generale e di Maresciallo.
I Catalani formarono una nuova aristocrazia militare, meno nobile della franca, col nome di fortunato esercito dei Franchi nel ducato di Atene. Sotto la protezione dei nuovi padroni i commercianti catalani vennero numerosi ad Atene, facendo un'importante concorrenza alle colonie mercantili italiane. La dominazione aragonese-siciliana durò nel ducato sino al regno di Maria, figlia di Federico III: nel 1381, per evitare il governo di una donna, davanti al pericolo turco i Catalani riconobbero come duca Pietro IV, re d'Aragona. Ma l'elemento catalano era così scarso e disgregato, che, nel 1387, Neri (Ranieri) Acciaiuoli, signore di Corinto, riuscì a impadronirsi di Atene, dando origine alla terza fase del ducato, la fase italiana. Neri I fu riconosciuto da Ladislao, re di Napoli, quale duca d'Atene e suo vassallo: lasciò, morendo nel 1394, lo stato al re di Napoli, e, per esso, al fratello Donato, mentre un figlio illegittimo, Antonio, doveva avere Tebe e Livadia. Sotto la minaccia di un'occupazione turca, il governatore d'Atene chiese aiuto al balivo veneziano di Negroponte, che occupò allora la città, ma nel 1402 Antonio Acciaiuoli costrinse i funzionarî veneziani a restituirgli la città, a patto di riconoscersi vassallo della Serenissima. Nel 1418, a sua volta, diventò tributario del sultano, e nel 1423 dovette unire le sue genti a quelle inviate da Murad II a invadere la Morea. Nel 1422 trattò con la signoria di Firenze per attirare ad Atene i mercanti fiorentini, che furono ammessi con gli stessi privilegi ed esenzioni godute dai Genovesi e dagli altri commercianti italiani. Morì nel 1435. Gli successe Neri (Ranieri) II, primogenito di Franco, figlio di Donato Acciaiuoli, già adottato da Antonio, e che finì con sposarne la vedova Maria Melisseno. Uomo debole, strumento cieco del sultano turco, fu nel 1439 cacciato dal fratello Antonio II; ma, morto questo nel 1441, Neri II ritornò ad Atene, riprendendo la politica di devozione al sultano turco. Morì nel 1451. Per il figlio Francesco I governò la duchessa madre Chiara di Niccolò Zorzi, assistita dall'amante e poi marito, Bartolomeo Contarini. Maometto II allora sostituì nel governo di Atene a Francesco I, il figlio di Antonio II Acciaiuoli, che da più anni era suo ospite, Francesco II (1454). Questi fece uccidere la duchessa Chiara Zorzi, e allora il sultano si decise a far occupare Atene, lasciando a Francesco II Tebe e la Beozia, come feudo. Nel 1461, per timore di una restaurazione franca in Atene, Francesco II Acciaiuoli fu arrestato e strozzato, i figli furono inscritti nei giannizzeri e Tebe fu occupata. E l'ultima traccia del ducato di Atene scomparve.
Bibl.: Gauthier, Othon de la Roche, in Académie des Sciences de Besançon, 1880-1881; F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Athen im Mittelalter, Stoccarda 1889; C. Hopf, Geschichte Griechenlands v. Beginn des Mittelalters, in Ersch u. Gruber's allgemeine Encyklopädie, Lipsia 1867-68, voll. 85 e 86; W. Miller, The Latins in the Levant, Londra 1908. Sugli Almugavari, ved. G. Schlumberger, Expédition des Almugavares en Orient, Parigi 1902, 2ª ed., 1925; A. Rubiö y Lluch, Atenes en temps dels Catalans, Barcellona 1907; W. Miller, The Turkish Capture of Athens, in English Historical Reviev, XXIII (1908).