ATENEO ('Αϑήναιος, Athenaeus)
Di Naucrati in Egitto, erudito dell'età imperiale, e autore, oltre che di due opere minori non conservate, della vastissima compilazione intitolata Deipnosofisti (Δειπνοσοϕισταί "sofisti [o professori] a banchetto"), opera per noi preziosissima, perche ci ha conservato la maggior parte dei frammenti della commedia attica media e nuova, resti copiosissimi di storiografia greca in genere, di erudizione ellenistica in particolare, di rarità di ogni genere, perché insomma è per noi la fonte forse più ricca per la conoscenza della cultura greca.
Quest'opera così preziosa è stata sul punto di perdersi nel Medioevo bizantino. Infatti essa è giunta a noi, in una redazione divisa in 15 libri, solo in un ms. del sec. X, conservato ora a Venezia nella Marciana, il quale è per giunta mutilo in principio e in fine, sicché ora mancano i due primi libri, la prima parte del III, la fine del XV, e anche l'XI, presenta due lacune. Supplisce in qualche modo a questi difetti un'epitome bizantina conservata in parecchi mss., non ancora sufficientemente esplorati. Ma il confronto dell'epitome col testo del Marciano mostra che questo è già abbreviato, mentre essa risale a una redazione più completa. Confermano questo risultato, che a torto, per esser venuto meno qualche indizio secondario, è stato messo in dubbio in questi ultimi tempi, da una parte certe indicazioni marginali del Marciano, che attestano, a quel che pare, non soltanto una divisione, ma una redazione in 30 libri, dall'altra turbamenti nella forma dialogica, della quale in alcune parti, specialmente in tutto il XII libro, manca ormai qualsiasi traccia.
Il tempo della composizione dell'opera originale è contestato: o tra il 193 e il 197, o dopo, probabilmente subito dopo il 228 (cfr. sotto); la prima opinione sembra preferibile.
L'opera descrive un banchetto offerto dal ricco romano Larenzio (certo da identificare col pontifex minor P. Livius Larensis di un'iscrizione sepolcrale di Roma, Corp. Inscr. Lat., VI, 2126) a una cerchia di amici, greci i più, dotti nelle specialità più svariate, filosofi di scuole diverse, grammatici, medici, giureconsulti e così via, tra i quali figurano nomi celebri, quali Galeno, Plutarco, Ulpiano, Masurio; è tuttavia incerto se, tranne Galeno, la cui identità non è dubbia, gli altri personaggi siano davvero quelli noti a noi da storie letterarie, o non piuttosto omonimi, celebri allora, per noi oscuri. Il dubbio più grave è per Ulpiano, detto, sì, Tirio, come il giurista, ma rappresentato non già come giurista, bensì quale grammatico greco di purismo fanatico; il che non s'intende bene neppure immaginando intenzioni caricaturistiche, perché una caricatura presuppone pur sempre qualche somiglianza con l'originale, anche solo per essere riconoscibile. E anche meno s'intende perché A. avrebbe in fine della sua opera (XV, 686 c) aggiunto la menzione d'una felice morte sopravvenuta senza malattia al suo Ulpiano pochi giorni dopo il dialogo, se questo era l'Ulpiano praefectus praetorio ucciso nel 228 dai soldati ribelli; perché A. avrebbe mentito senza ragione, e toccato senza necessità un tasto pericoloso.
I convitati di A. conversano, certo nella pia intenzione d'imitare il Simposio platonico, de omnibus rebus et de quibusdam aliis, per lo più profittando delle occasioni offerte dai cibi e dalle bevande che si succedono durante il banchetto, ma allontanandosi spesso dal punto di partenza sino a perderlo di vista, e mostrando piuttosto erudizione che buon gusto. I pretesti per passare da un argomento all'altro non mancano mai. I loro discorsi riboccano di citazioni: lunghi tratti sono formati esclusivamente di cataloghi disposti talvolta persino alfabeticamente (così quello dei pesci nel VII libro): a ogni nome che in questi cataloghi ricorre, è aggiunta una ricca documentazione. Ma proprio questa mancanza di senso di forma, quest'eccessività nel citare rende il libro importantissimo per la scienza dell'antichità, una vera delizia per il filologo, che, del resto, lo leggerà sempre a spizzico e mai di seguito. Si aggiunga che l'interesse dell'autore non è, come di solito nella tarda erudizione greca, grammaticale, formale, ma antiquario, reale. Capitoli interi trattano di vini, usi simposiaci, simposî celebri, pesci, ghiottoni e beoni celebri, vasi per bere, ma anche di strumenti musicali, opinioni filosofiche favorevoli e contrarie all'ebbrezza, danze, giuoco del cottabo, etère celebri, letteratura drammatica inferiore: il XIII libro si presenta da sé quale "trattazione erotica".
La questione delle fonti dirette di Ateneo (del resto non di grande momento, perché a noi importano gli autori primi, non compilazioni perdute che dobbiamo alla loro volta ricostruire), spessissimo trattata, specie una quarantina d'anni fa, non può dirsi risolta. È certo che A. ha fatto egli stesso estratti dai comici attici, da una raccolta di canti conviviali (scolî), anche essi attici, e da scrittori di parodie: sicuro è anche l'uso diretto della grande compilazione lessicografica di Panfilo (prima meta del II sec. d. C., cioè non molto anteriore ad A. stesso), sebbene sia difficile delimitarlo; sicura la derivazione di notizie zoologiche da un'opera di Alessandro di Mindo (I sec. d. C.). Molto di più non pare si possa, almeno per ora, dire. A. è uomo di dottrina, che non segue per lunghi tratti un solo autore, ma combina spesso tra loro estratti provenienti da fonti diversissime.
Si deve riconoscere senz'altro con G. Wissowa (in Gött. Nachr., 1915, p. 325), che Macrobio attinge non da un Ateneo più ricco della redazione marciana, ma da una fonte comune; ma, anche senza questo sostegno, l'opinione che questa rappresenti un testo abbreviato può rimanere salda (cfr. Mengis, p. 51 segg. e specialmente p. 111 segg.; v. Bibl.).
Larenzio è identificato da H. Dessau (in Hermes, 1890, p. 156). Per gli altri personaggi v. G. Kaibel nella prefazione (v. Bibl.) e, in senso opposto, W. Dittenberger (in Apophoreton, Berlino 1903, 1 segg.): il Kaibel, seguito di rccente dal Mengis, piuttosto che supporre omonimie (Plutarco, p. es., è nome diffusissimo in Grecia) preferisce credere che Ateneo abbia mutato professione e carattere ai celebri personaggi da lui introdotti come interlocutori del dialogo. Ma, lasciando stare che almeno Larenzio e Galeno sono dipinti quali furono, una trasformazione troppo completa, anche se ha analogie p. es. nel romanzo di Nino (Mengis p. 34) avrebbe impedito già a contemporanei il riconoscimento, e sarebbe quindi mancata al suo fine.
La questione cronologica, importante anche perché esercita un certo influsso sulla distinzione o datazione dei due Oppiani o dell'unico Oppiano (v.), dipende in grande parte dalla risoluzione di quella prosopografica. Terminus post quem è la morte di Commodo (193 d. C.), che Ateneo non si sarebbe permesso di deridere vivo, come fa in XII, 537 f: ma chi creda l'Ulpiano di Ateneo identico col giurista dovrà senz'altro scendere sotto il 228. Chi non ammette quest'identificazione, considerando che l'acmè di Ateneo è collocata da Suida sotto Marco, cioè, conforme all'uso esclusivo della letteratura, sotto Marco Aurelio, sarà disposto, pur non facendosi illusione sul valore di tali date in Suida, a salire più in su. Il Dittenberger (p. 13 segg.) ha fatto osservare che la derisione di Commodo sarebbe stata pericolosa sotto Settimio Severo, che riconsacrò la memoria dell'odiato predecessore, e sotto Caracalla, che di Commodo fu anch'egli ammiratore: rimane dunque il tempo fra il 193 e il 197. Con questa datazione s'accordano bene cinque passi nei quali gl'interlocutori fissano almeno approssimativamente l'età di note personalità rispetto alla propria. giacché l'anacronismo pare escluso. E le è favorevole anche il fatto che nell'opera di Ateneo manca qualunque notizia sul periodo 193-228.
Edizioni: Ottima è quella di G. Kaibel, Lipsia 1887-1890, con contributi importanti dell'editore e del Wilamowitz e con prefazione, che orienta sui problemi della tradizione. Congetture su A. escono ogni giorno, ma l'attività dei critici si rivolge piuttosto ai testi da lui inseriti nella sua opera. Delle edizioni antiche rimangono fondamentali, per il ricco apparato esegetico, quella del Casaubono (Parigi 1596-1600, ristampata più volte), secondo le cui pagine si suole citare, e quella dello Schweighäucer (Strasburgo 1800-1807). Il problema diplomatico dell'Epitome non pare al Pasquali trattato adeguatamente neppure da Kaibel.
Bibl.: Sull'opera di A. orientava fino a pochi anni or sono ottimamente l'art. di G. Wentzel in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 2026 segg., ora un po' antiquato (v. anche Christ-Schmid, Griech. Lit., II, 5ª ed., p. 625). Supplisce ora molto bene il volume di K. Mengis, Die schriftstellerische Technik im Sophistenmahl des Athenaios, Paderborn 1920, che dà più di quel che il titolo promette.
Su Panfilo v. da ultimo K. Mengis, in Philologus, 1922, p. 402 e anche Wellmann, in Hermes, 1888, p. 179; su Alessandro di Mindo l'art. fondamentale di M. Wellmann, in Hermes, 1891, p. 481; proprio in questo campo, nel quale la ricerca negli ultimi anni, non senza ragione, si è meno esercitata, conserva il suo valore l'art. del Wentzel, al quale rimandiamo; un art. latino di G. Setti, in Riv. di Fil. class., XIII (1885), p. 483, è purtroppo di scarso valore.
Su Ateneo, quale testimonio del testo dei classici, cfr. ora l'art., del resto non ottimo, di K. Zepernick, in Philologus, 1921, p. 311.