ATHOS
Massiccio montuoso situato nella parte orientale della penisola calcidica, caratterizzato dalla presenza di un vasto insediamento monastico costituito da venti monasteri maggiori e da numerose altre comunità minori, tutti di rito ortodosso.Le origini di questo insediamento si fanno risalire al secondo quarto del sec. 8°, quando piccoli gruppi di monaci in fuga dai vari centri bizantini sconvolti dalle lotte iconoclaste cominciarono a trovare rifugio in questa regione difficilmente accessibile. Nel corso del sec. 10°, s. Anastasio l'Atonita (ca. 920-1001) delineò una struttura organizzativa e un modello di vita monastica che sono in gran parte rimasti immutati sino ad oggi. Fonte documentaria principale di tale organizzazione è il c.d. Tragòs, risalente forse al 972, che stabilisce la regola monastica e l'organizzazione per l'intera comunità dell'Athos. Altri importanti documenti dello stesso genere, ma di diverso argomento, sono conservati in loco; tra questi particolarmente significativo è il Tipikón di s. Atanasio, che dettava la regola del monastero da lui fondato, la Grande Lavra (962), e che servì da modello normativo per tutti gli altri monasteri atoniti.Tra i secc. 11° e 14° la comunità dell'A. conobbe un periodo di grande prosperità e tranquillità; a partire dal 1387, però, l'occupazione turca della Grecia e, in particolare, della Calcidica, portò a un lento ma inarrestabile declino religioso ed economico dei monasteri atoniti. Tale decadenza durò virtualmente sino al 1912, anno della cacciata dei turchi dall'A. a opera dell'esercito greco. Nel 1924 le autorità elleniche promulgarono la nuova Carta Costituzionale dell'A., ancor oggi in vigore, che garantisce alla comunità monastica uno status di virtuale autonomia e indipendenza sia religiosa sia amministrativa.
La penisola dell'A. si divide nelle venti grandi proprietà annesse ai rispettivi 'monasteri sovrani' da cui dipendono, attualmente, dodici skíte e numerosi piccoli centri abitati distinti in kellía, kathísmata ed 'eremitaggi'.La maggior parte dei monasteri sorge in prossimità della costa: dieci si trovano sul litorale (Esfigmeno, Vatopedi, Pantocratore, Stavronikita, Iviron, Dionisio, Gregorio, S. Pantaleimone o Rossikon, Senofonte, Dochiario); cinque sono poco lontani dal mare (Chiliandari, Karakalos, Grande Lavra, S. Paolo, Simopetra); cinque si trovano invece nell'interno, fra le montagne (Filoteo, Kutlumusi, Xeropotamo, Constamonita, Zografo).Otto delle dodici skíte (S. Anna, Kavsokalivia, S. Demetrio di Lakku, Annunciazione, S. Demetrio di Vatopedi, S. Giovanni Battista di Iviron, S. Pantaleimone, Nea Skiti) sono 'idiorritmiche ' o 'archetipe' (unico momento di vita comune è quello dell'ufficio divino; i monaci, forniti di una dotazione particolare, provvedono poi personalmente alle necessità della propria vita) e si presentano come agglomerati di capanne; quattro sono cenobitiche, vale a dire organizzate sotto forma di convento (Bogoritissa, Profeta Elia, S. Giovanni Battista, S. Andrea); cinque sono situate geograficamente nella zona meridionale della penisola, quattro nel centro e tre a settentrione.Kellía e kathísmata sono invece fattorie isolate, di grandezza e composizione differenti, che si trovano in tutte le zone accessibili dell'A.; gli 'eremitaggi', semplici capanne o caverne usate come abitazione, sono invece situati nei luoghi più lontani e inaccessibili, soprattutto nelle zone meridionali. Al centro della penisola si trova inoltre il borgo di Karyaì, capitale amministrativa della comunità monastica.Le abitazioni dei monaci, ricostruite più volte a causa di incendi o di ampliamenti dei monasteri, appartengono per la maggior parte ai secc. 18°-20° e riflettono lo stile dell'architettura popolare della Grecia settentrionale.L'impianto generale dei singoli monasteri è rimasto inalterato attraverso i secoli, non essendo mutati i bisogni e le tendenze delle comunità religiose, sia nell'A. sia in tutto l'Oriente cristiano. Il complesso monastico è costituito da diversi tipi di edifici: lungo il perimetro murario si trovano le chórdes, o ali di celle (dal lat. chorda, a sua volta derivato dal gr. χοϱδή 'corda di cerchio'), che si giustappongono a formare un anello di strutture, dotato anche di torri di difesa, che lascia al centro un cortile libero; in questo trovano posto diversi edifici: la chiesa principale (katholikós naós o katholikón), che ha di fronte la trápeza (refettorio), e in mezzo la phiála (bacino per le abluzioni). Le chórdes comprendono anche l'entrata fortificata del monastero, l'archontaríki (ospizio), il synódicon (centro amministrativo), la hestía (cucina), il mageiréion (forno per il pane), il dochéion (cantina), il nosokoméion (ospedale), il gerokoméion (ospizio per i vecchi), la biblioteca e ulteriori ambienti destinati alle altre necessità della comunità monastica. Fuori della cinta si trovano invece il kióski o sala d'attesa, il vordonaréion (scuderia), il plyntírion (lavanderia), i mylónes (mulini), l'elaiotrivéion (frantoio per le olive), il nekrotaphéion (cimitero), con la cappella funeraria e la cripta. I monasteri che sorgono in riva al mare sono provvisti inoltre di un pontile e di un arsanás (arsenale).L'insieme di questi edifici determina evidentemente uno spazio munito, funzionale per la vita in comune e per l'esercizio del culto, che attribuisce ai monasteri atoniti un carattere nettamente difensivo. La soluzione adottata è quella della struttura chiusa verso l'esterno e aperta verso l'interno, un impianto che riflette nel contempo gli schemi della casa greca antica e delle piazzeforti medievali. Le cinte murarie sono alte e si presentano esternamente come superfici piene, rinforzate da torri quadrate e da camminamenti di ronda merlati (perídromos), da bastioni, da piombatoi (katakystrés) e da feritoie. La cinta, che segue sempre la morfologia del terreno, ha solitamente forma quadrilatera o poligonale. Come nelle piazzeforti, le entrate dei monasteri del monte A. sono rinforzate da pilastri doppi, con un varco mediano coperto, il diavaticón. Il monastero è provvisto di un'unica entrata e solo in alcuni casi nella cinta si apre, sul lato opposto all'ingresso principale, una posterla chiamata parapylís o paraporti. Al di sopra dell'entrata vi è una torre di difesa con piombatoi posti esattamente sopra il varco; sia a Vatopedi sia all'arsanás di Lavra si può ancora intravedere l'esistenza di un fossato posto dinanzi all'ingresso. Attualmente le entrate sono riparate dalle intemperie da strutture a baldacchino, aggiunte posteriormente.Passando sotto l'ingresso al convento si accede al cortile, ovvero a uno spazio libero e aperto creato dalla giustapposizione dei corpi di fabbrica che lo circondano; al centro si trova la costruzione indipendente del katholikón; se il cortile è più spazioso esso comprende altri edifici ugualmente indipendenti, come il refettorio, il tesoro e le cappelle. L'insieme delle celle dei monaci (kellía o kélle) costituisce una serie di edifici a più piani chiamati chórdes. Tali costruzioni, come detto, si dispongono attorno al katholikón come le corde di un cerchio attorno al suo centro. Le chórdes si aprono verso la corte con portici sovrapposti chiamati heliacói o émvoloi, che danno all'insieme un aspetto armonico; le facciate interne sono sovente decorate con ceramiche, laterizi disposti a formare differenti motivi e bacini di maiolica policroma.Quasi sempre sulle chórdes vi è un'iscrizione di fondazione che ricorda i donatori e la data di costruzione dell'edificio.Le ricostruzioni, le addizioni e gli ampliamenti successivi hanno conferito ai monasteri un aspetto architettonico organico, nel quale ogni nuovo corpo di fabbrica si sviluppa nel luogo e nel momento in cui se ne determina la necessità funzionale. Ciononostante tale varietà è subordinata a una precisa volontà compositiva, sia sotto il profilo morfologico sia sotto quello geometrico, con un esito che ravviva il dinamismo delle forme architettoniche delle facciate, così serene e nobili, ma allo stesso tempo imponenti.Il katholikón presenta uno schema architettonico particolare, definito atonita o agioritico. La pianta a croce greca inscritta, di tipo costantinopolitano, si arricchisce infatti di tre elementi che ne diventano la caratteristica peculiare: le absidi laterali o cori, le litae, ampi narteci, e le cappelle laterali. Sull'origine di questa tipologia architettonica sono state formulate diverse ipotesi. Alcuni studiosi la considerano un semplice arricchimento dell'impianto a croce inscritta, legato a necessità liturgiche, mentre altri ritengono che questo schema triconco assunto dalle chiese atonite derivi piuttosto dalle tradizioni architettoniche della Georgia o dell'Armenia. Tuttavia, è stato archeologicamente dimostrato che le absidi laterali, considerate da tutti gli studiosi come corpi integranti la costruzione originaria, sono state invece aggiunte in prosieguo di tempo a edifici del tipo a croce inscritta: è il caso dei katholiká della Lavra nel 1002, di Iviron nel 1028-1029, di Chiliandari nel 1303 e di numerosi altri. È apparso dunque evidente che lo schema architettonico atonita o agioritico costituisce un'evoluzione dell'impianto a croce inscritta; tipologia tipica dell'A. tra i secc. 11° e 14°, si diffuse poi in Macedonia, Serbia, Grecia e nelle regioni danubiane.Anche la chiesa del Protáton, che sorge a Karyai, la capitale federale di tutta la comunità monastica atonita, è stata modificata per necessità liturgiche; inizialmente, forse intorno al 900, era un edificio con semplice pianta basilicale a tre navate coperte da capriate lignee; in seguito, intorno al 965, furono eliminati i due pilastri centrali e fu inserito un transetto i cui bracci divennero cori a pianta rettangolare.Le trápeze, considerate come le costruzioni più importanti dopo il katholikón, sono collocate di fronte o in prossimità di quest'ultimo, giacché il pasto collettivo costituisce l'ultimo atto della celebrazione della messa. Le trápeze presentano generalmente una pianta longitudinale, o a tau o cruciforme, come è il caso di quella della Grande Lavra, che risale al tempo degli imperatori Niceforo II Foca (963-969) e Giovanni Zimisce (969-976); tutte presentano una copertura lignea. Grandi tavoli di marmo si dispongono sui due lati, lasciando spazio a un corridoio centrale per facilitare il servizio. Accanto alle trápeze si trovano gli ambienti sussidiari, destinati alle cucine, ai forni per cuocere il pane e a locali di servizio e dispense.
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Gli unici mosaici parietali esistenti sul monte A. si trovano nel katholikón del monastero di Vatopedi. Nel timpano della porta che conduce all'endonartece è rappresentata la Deesis, con la Vergine e il Battista raffigurati in preghiera davanti alla figura di Cristo in trono benedicente con il libro aperto. Sopra la porta d'ingresso della cappella di S. Nicola si trova, in pessimo stato di conservazione, l'icona del santo a mezzo busto, mentre sulle pareti che dividono il bema dalla protesi e dal diaconico è rappresentata l'Annunciazione con la Vergine stante. Le figure sono contornate da linee accentuate e caratterizzate da grandi occhi, sopracciglia ricurve, grandi nasi e labbra sottili. Questi mosaici sono stilisticamente vicini a quelli di Osios Lukas e della Santa Sofia di Kiev. La Deesis può essere datata all'ultimo decennio del sec. 11°, dato che l'iscrizione che la circonda menziona l'igumeno Ioannikios, martirizzato nello stesso periodo. Da alcuni studiosi l'Annunciazione è ritenuta coeva alla Deesis, mentre altri la datano alla prima metà dell'11° secolo.Ai lati della porta che dall'esonartece conduce all'endonartece è rappresentata un'altra Annunciazione, con la Vergine raffigurata seduta, che per il morbido modellato e l'intensa espressività è databile alla fine del 13° secolo.
Protáton di Karyai, i katholiká dei monasteri della Grande Lavra, Vatopedi e Iviron -, risalenti al sec. 10° oppure all'inizio del secolo seguente, è andata perduta l'originaria decorazione, eccetto probabilmente la più antica Annunciazione di Vatopedi. Se si escludono pochi mosaici e affreschi, alcuni datati alla fine del 1100, altri intorno al 1200 e alla prima metà del sec. 13°, la maggior parte delle rappresentazioni è databile al 14° secolo. I più antichi dipinti murali, risalenti alla fine del sec. 12°, appartengono alla corrente postcomnena, nota in particolare dagli affreschi di Nerezi, di Staraja Ladoga e da quelli della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano di Castoria, caratterizzati dall'intensa schematizzazione, dalla disposizione delle linee con le quali vengono plasmati i volti e le mani e dal modo di rappresentare il movimento del panneggio. Alla fine del sec. 12° appartengono il frammento di affresco con gli apostoli Pietro e Paolo e la testa di un altro apostolo forse parte della perduta decorazione del refettorio di Vatopedi del 1197-1198; all'inizio del sec. 13° risalgono invece le figure intere dei due apostoli Pietro e Paolo nel kellíon di Rabduchu presso Karyai.La cella della Trinità, nei pressi del monastero di Chiliandari, venne decorata intorno al 1260 da un valente artista che dipinse i volti con stile plastico ed espressivo, in tonalità rosa e verde chiaro. Si conserva solo parte della decorazione absidale, con la Vergine che sostiene un medaglione con l'effigie di Cristo affiancata da due arcangeli; nella parte inferiore sono raffigurati in posizione frontale i Padri della Chiesa. Gli affreschi del parekklésion della torre di S. Giorgio a Chiliandari, stilisticamente inferiori ma di grande interesse iconografico, sono attribuiti allo stesso periodo. Nel nartece sono rappresentati santi in posizione eretta e sulla parete esterna si hanno scene della vita di s. Giorgio e la rara rappresentazione del Canone sugli agonizzanti.Le tre più importanti decorazioni atonite - del Protáton e dei katholiká dei monasteri di Vatopedi e di Chiliandari - risalgono ai primi venti anni del 14° secolo.Il Protáton fu affrescato intorno al 1300 dalla bottega che, secondo una tradizione successiva, faceva capo a Manuele Panselino di Salonicco, con un ciclo fra i più significativi del monte Athos. Questa attribuzione trova conferma nella grande somiglianza di questi affreschi con quelli del parekklésion di S. Eutimio della chiesa di S. Demetrio a Salonicco, datati in base a un'iscrizione al 1303. Sulle ampie superfici parietali della chiesa si sviluppa un ciclo complesso, che include nelle fasce inferiore e superiore figure di santi, di dimensioni imponenti, rappresentate isolate; nella zona intermedia, divisa in due registri, scene cristologiche e mariane e gli evangelisti. Le figure sono monumentali e le vesti dipinte con colori chiari hanno pieghe morbide dai riflessi metallici; caratteristici sono i volti anziani degli asceti e dei profeti dallo sguardo severo e penetrante. Questi affreschi appartengono al c.d. heavy style, degli ultimi decenni del 13° secolo. Alla stessa bottega è stato attribuito un frammento di affresco della Grande Lavra, ora staccato, raffigurante la testa di s. Nicola proveniente probabilmente dalla più antica decorazione del katholikón. Dello stesso stile sono anche gli affreschi del katholikón del monastero di Vatopedi del 1312, che sono stati ridipinti tranne che nell'esonartece. In questi manca l'intensità espressiva che caratterizza le figure di Panselino e, in alcune scene, è evidente un crudo realismo, soprattutto nei volti sgraziati.Il terzo grande ciclo di pitture murali pervenuto è la decorazione del katholikón del monastero di Chiliandari, ridipinto nel 1803 senza tuttavia che venisse alterata la precedente iconografia. Oltre alle figure dei santi, rappresentati isolati, e all'ampio ciclo cristologico (le dodici Grandi Feste, scene dei miracoli di Cristo, le parabole, la Passione e gli episodi successivi alla Risurrezione) sono anche rappresentate scene della vita della Vergine, le visioni dei profeti, icone della Theotókos e infine episodi della vita di vari santi. Le figure sono caratterizzate da modi aggraziati; il modellato, come è deducibile dalle poche scene che non sono state ridipinte o ripulite, è morbido e prevalgono i colori blu scuro e rosso vivo. Caratteristica è la conformazione del naso allungato. Questo complesso, datato intorno al 1319, è senz'altro opera di pittori di Salonicco, forse dello stesso artista che affrescò la chiesa di S. Nicola Orfano a Salonicco, oppure di Giorgio Kaliergis che nel 1315 decorò la chiesa di Cristo a Verria.Coevi, pur se di qualità inferiore, sono, sempre a Chiliandari, gli affreschi nel refettorio (tre scene della vita di Abramo) e nella chiesa cimiteriale (tra gli altri, quello del Giudizio universale), anch'essi attribuibili a botteghe tessalonicesi. Al secondo quarto del sec. 14° potrebbero risalire gli affreschi, quasi totalmente ridipinti, della chiesa di S. Basilio nella Torre Hrusija, nei pressi del monastero di Chiliandari.Tra i più notevoli cicli della seconda metà del sec. 14° è quello del katholikón del monastero del Pantocratore, datato tra il 1360 e il 1370, che - benché sia stato quasi completamente ridipinto nel 1854 - sembra influenzato dallo stile della seconda metà del 13° secolo. Coevi e come questi ridipinti sono gli affreschi delle cappelle dei Ss. Cosma e Damiano nel monastero di Vatopedi e della Sinassi degli arcangeli nel monastero di Chiliandari. I primi sono attribuiti a un pittore di Salonicco; i secondi, privi di forza espressiva, sono opera di un artista di scarso valore.In conclusione, è possibile ritenere che nel periodo mediobizantino non esistesse presso il monte A. una scuola di pittura e che gli artisti venissero chiamati da altre città, specialmente da Salonicco, come testimoniano le affinità artistiche tra i due centri.
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Nei monasteri dell'A., che comprendono grandi chiese e numerose cappelle, come anche nei complessi e nelle proprietà fondiarie dipendenti (skíte, metóchia, ecc.), sono conservate molte icone portatili, di data e provenienza diverse. Alcune icone della Vergine, considerate miracolose, sono riferite dalla tradizione a donazioni dei primi imperatori di Bisanzio o ad avvenimenti miracolosi: nel periodo dell'iconoclastia alcune icone avrebbero attraversato da sole il mare per sfuggire alle distruzioni degli iconoclasti o degli infedeli (Kretzenbacher, 1962), mentre opere di una certa importanza sono spesso legate ai nomi degli imperatori Niceforo II Foca (963-969) e Giovanni I Zimisce (969-976). Tutte le icone particolarmente venerate sono in genere ridipinte o in mediocre stato di conservazione; in entrambi i casi non è quindi possibile ricavare indicazioni precise sullo stile e sulla datazione dell'originale. Nei rari casi in cui si è potuto procedere al restauro, la datazione si è comunque rivelata molto distante da quella tramandata dalla tradizione.L'attività di restauro in alcuni monasteri ha consentito il recupero di una serie di antiche icone in precedenza passate inosservate. Del resto anche un certo numero di icone importanti, come quelle a mosaico - di cui la collezione più ricca si trova appunto sull'A. -, pur note da tempo, soltanto dopo il restauro hanno riacquistato il loro aspetto primitivo.Da queste ricerche risulta confermato che sull'A. non esistono icone anteriori al 1100; ma il fatto che attualmente non se ne conosca alcuna e che anche le icone del sec. 12° siano rare non vuol dire comunque che i monasteri in tali epoche fossero sprovvisti di un numero rilevante d'icone di grande qualità. I rari documenti dell'epoca riferiscono infatti di donazioni importanti, oppure contengono un vero e proprio inventario delle icone appartenenti ai monasteri dell'Athos. Nella prima metà del sec. 11°, per es., furono donate alla Grande Lavra sette grandi icone da Giovanni Iberico, fondatore del monastero di Iviron (Chatzidakis, 1982).La ricchezza di icone dei monasteri atoniti - non solo di quelli più grandi - si deduce fra l'altro dall'inventario del piccolo monastero di Xylurgu, più tardi chiamato Rossikon, del 1142, nel quale sono infatti catalogate più di centodieci icone. Va peraltro precisato che in questo tipo di testimonianza testuale sono menzionate di preferenza solo le icone rivestite in oro o in argento con aureole tempestate di pietre preziose e che nessuno dei pezzi elencati si è purtroppo conservato. Queste constatazioni confermano il dato che molte preziose icone atonite andarono perdute nel periodo intercorso tra la fondazione dei primi monasteri e la fine del sec. 10°; le opere che restano, tuttavia, costituiscono ancora la collezione più importante dopo quella del monastero di S. Caterina sul monte Sinai.L'esistenza di numerose icone è del resto giustificata dalle esigenze del culto; nella chiesa principale del monastero, il katholikón, veniva infatti esposta su un apposito sostegno l'icona della festa del giorno. Ma fu soprattutto il graduale evolversi dell'iconostasi, divenuta sempre più una vera e propria parete interamente ricoperta di tavole dipinte, a costituire il principale impulso per la produzione di un gran numero di icone con temi e dimensioni che andarono codificandosi nel tempo. La loro disposizione sull'iconostasi era ordinata secondo uno schema che può dirsi ormai prefissato nel corso del 12° secolo. Nel registro inferiore vi erano le grandi icone destinate alla proskýnesis dei fedeli: l'icona del Cristo era collocata tra quelle della Vergine e del Battista (formando così il tema della Deesis); lateralmente erano disposte quelle del santo titolare della chiesa e dell'arcangelo Michele. Nel secondo registro si trovavano le icone, di dimensioni minori, delle dodici Grandi Feste (il Dodekáorton). Inizialmente le Feste erano rappresentate su due o tre lunghe tavole che componevano l'architrave, l'epistilio del témplon, ma già nel corso del sec. 12° erano dipinte anche su tavole distinte quando lo richiedevano le dimensioni del témplon. Il terzo registro era infine composto dalle icone della Grande Deesis: Cristo al centro, tra la Vergine e il Battista, ai cui lati si dispongono due arcangeli e gli apostoli, più frequentemente Pietro e Paolo. Generalmente, i personaggi erano rappresentati in atto di preghiera, rivolti verso la figura centrale del Cristo, in posizione frontale.Delle iconostasi dei secc. 12° e 13° si è conservato un numero piuttosto limitato di icone. Se ne possono menzionare alcune appartenenti al primo registro, tra le quali una con S. Pietro stante nella chiesa del Protáton, una a mosaico con la Vergine Odighítria nel monastero di Chiliandari, due, ugualmente musive, con le figure stanti di S. Giorgio e di S. Demetrio nel monastero di Senofonte (dedicato a s. Giorgio). Più numerose sono le icone della fine del sec. 13°: fra queste si ricordano le due raffiguranti il Cristo e la Vergine del monastero di Chiliandari, quelle con S. Giorgio e S. Demetrio a Vatopedi e quella di S. Stefano alla Grande Lavra. In quasi tutti i monasteri si conservano poi numerose icone per la proskýnesis databili al 14° secolo. Si segnalano fra le tante, per lo più inedite, una coppia di icone di notevole livello qualitativo, l'una con la Vergine Odighítria, l'altra con l'Ospitalità d'Abramo, a Vatopedi, e nello stesso monastero un Cristo Pantocratore; dal monastero del Pantocratore, un'icona del Cristo con i ritratti dei donatori, ora a Leningrado (Ermitage), un'altra con Cristo e S. Atanasio Atonita sulla fronte e la Vergine e il Battista sul retro; a Chiliandari la Vergine Tricherúsa (con tre mani) con S. Nicola sul retro. Le icone 'bifrontali' di quest'ultimo tipo, attualmente montate su supporti separati, erano all'origine destinate alle processioni oppure potevano anche essere esposte sull'iconostasi.Del secondo registro con le Grandi Feste, del tipo epistilio, rimangono i frammenti di tre serie che provengono o appartengono alla Grande Lavra. Della prima serie, databile al sec. 12°, un frammento con la Trasfigurazione si trova ora a Leningrado (Ermitage), mentre un secondo, con la Risurrezione di Lazzaro, è conservato ad Atene (coll. privata). Di una seconda serie di frammenti, due sono alla Grande Lavra (il Battesimo e la Dormizione della Vergine) e due all'Ermitage di Leningrado (la Risurrezione e la Pentecoste). Ugualmente all'Ermitage è conservato un frammento con un apostolo e due santi raffigurati stanti sotto arcate, che probabilmente erano pertinenti al registro della Grande Deesis. Originariamente tutti questi pezzi facevano parte di lunghe tavole dalle quali, in un secondo tempo, furono ritagliati. Solo a Vatopedi si conserva un grande epistilio quasi intero, dell'inizio del sec. 13°, composto di quattro segmenti sui quali sono dipinte la Grande Deesis e scene cristologiche e mariane.Per le epoche successive (secc. 14° e 15°) le icone delle Grandi Feste sono più rare e il fenomeno non ha carattere locale. Al contrario, conobbe una certa diffusione la serie della Grande Deesis, con numerose figure di apostoli a mezzo busto; la più nota è quella di Chiliandari ma una serie analoga, non altrettanto ben conservata, si trova anche a Vatopedi.Si conserva inoltre un considerevole numero di icone bizantine non destinate all'iconostasi: si tratta di esemplari che si ricollegano talvolta al culto di una reliquia cui era consacrata una particolare cappella del monastero, come nel caso di una delle più antiche icone della Grande Lavra con la rappresentazione dei cinque martiri di Sebaste. Altre sono donazioni di monaci o di persone pie, talora attribuite a imperatori, come la piccola icona a mosaico di S. Giovanni Teologo, la cui cornice in filigrana d'argento è ornata di medaglioni a smalto raffiguranti tutti i santi di nome Giovanni. Essa dovrebbe risalire alla fine del sec. 13°, anche se la tradizione ne attribuisce la donazione a un imperatore di nome, appunto, Giovanni (forse Giovanni I Zimisce).Non ci sono testimonianze riguardo l'esistenza sul monte A. di botteghe nelle quali venissero eseguite icone; l'insieme delle opere deve essere pertanto considerato come una produzione non condizionata da fattori d'ordine locale. Il valore artistico delle icone atonite è in effetti molto elevato e riflette sia il livello qualitativo sia le tendenze stilistiche proprie delle opere eseguite in altri centri, in particolare a Costantinopoli e Tessalonica.Dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, la situazione mutò radicalmente. I grandi centri bizantini, ormai occupati dagli ottomani, non furono più in grado di assicurare la produzione di icone. L'isola di Creta, in mano ai veneziani, divenne allora il centro artistico più importante, continuando a produrre icone secondo la più alta tradizione costantinopolitana. Un pittore cretese, il monaco Teofane Bathas, si trasferì nella Grande Lavra (1535-1558), lavorando insieme ai due figli e altri allievi cretesi in vari centri dell'A., dove eseguì sia affreschi sia icone portatili. Le sue opere più importanti sono le icone per le iconostasi dei monasteri della Grande Lavra (1535) e di Stavronikita (1546), nonché le sette grandi icone della Grande Deesis al Protáton (1542). Un complesso analogo è a Dionisio (1542), ma firmato da un altro pittore cretese, il prete Eufrosino. Queste iconostasi, oltre ai suddetti registri d'icone, comprendono anche la grande croce e le porte di accesso al santuario.Molte icone del sec. 16° furono eseguite nelle botteghe degli artisti cretesi trasferitisi sull'A., poche sono invece quelle di pittori attivi a Creta, come Michele Damaskinos.
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Nelle biblioteche del monte A. si è conservato un numero eccezionale di testi miniati (ca. 11.500), i più antichi dei quali risalenti al sec. 9° (per es. il Salterio Pantocratore 61). Nella maggioranza sono greci e solo in minima parte di provenienza slava. Molti monaci atoniti erano copisti, ma non è stato accertato se fossero anche miniatori, almeno prima del 14° secolo.Le più importanti raccolte si trovano nei monasteri della Grande Lavra, di Vatopedi, di Iviron e di Dionisio; altri monasteri non possiedono invece attualmente alcun codice, come quello di Simopetra, la cui biblioteca venne distrutta nel 1891 da un incendio. Un gran numero di codici provenienti dall'A. sono oggi conservati in varie biblioteche dell'Europa e degli Stati Uniti: per es. il Salterio Chludov (Mosca, Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz., Add. gr. 129), il Salterio Pantocratore 49 (smembrato: Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Cleveland, Mus. of Art; Atene, Benaki Mus.) e il Tetravangelo Dionisio 8; codici miniati della skíte di S. Andrea sono oggi nella Princeton Univ. Lib.: tra di essi il più importante è un tetravangelo (Garret 6), le cui miniature risalgono alla seconda metà del 9° secolo. I manoscritti ancora oggi all'A. offrono comunque un ampio panorama della miniatura bizantina dall'epoca macedone alla caduta dell'impero, non solo sotto il profilo tecnico-artistico ma anche sotto quello testuale.La maggior parte di questi codici è di soggetto religioso. I più numerosi sono i vangeli, sia nella più ampia redazione del tetravangelo sia sotto forma di redazione abbreviata contenente passi scelti da leggere durante le funzioni liturgiche.I vangeli recano solitamente nella prima pagina il ritratto dell'evangelista, spesso a piena pagina, più raramente campito all'interno di una testata (per es. l'Evangeliario Dionisio 20; The Treasures, 1974-1975, I, pp. 402-403, figg. 52-54). Negli evangeliari, dato il loro testo abbreviato, le figure degli evangelisti furono talora riunite in un'unica pagina, come nel caso del Dionisio 13 (fine sec. 14°), ove sono collocate all'esterno di un quadrilobo che incornicia la scena dell'Anástasis (c. 1v; ivi, p. 399, fig. 38). Sovente gli evangelisti sono rappresentati seduti, raramente stanti, come nel Tetravangelo Iviron 247M (sec. 9°-10°; ivi, II, p. 331, figg. 168-171).Relativamente pochi sono i tetravangeli e gli evangeliari con scene illustrate; il più importante è l'Evangeliario Dionisio 587, datato intorno al 1059 e forse eseguito nello scriptorium imperiale di Costantinopoli. Esso contiene infatti ca. settantacinque miniature, racchiuse entro cornici, poste in alto o al margine della pagina, ovvero intercalate al testo. Le illustrazioni non sono in diretto rapporto al testo evangelico, bensì alla festa in occasione della quale veniva letto il brano. Il codice mostra inoltre il ritratto dell'evangelista Giovanni a piena pagina e raffinate iniziali antropomorfe che impreziosiscono il testo scritto su due colonne (Weitzmann, 1969; The Treasures, 1974-1975, I, pp. 434-446, figg. 189-277).Lo splendido Lezionario della Grande Lavra, probabilmente della fine del sec. 11° o dell'inizio del 12° - secondo una tradizione spuria il codice fu invece inviato in dono dall'imperatore Niceforo II Foca (963-969) - contiene al contrario solo tre miniature a piena pagina, ma presenta raffinate ornamentazioni nelle testate (Weitzmann, 1936; Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 217-219, figg. 1-8). Analogo è il Lezionario Iviron 1, della metà del sec. 11°, con sei miniature (The Treasures, 1974-1975, II, pp. 293-295, figg. 1-6), mentre nel Lezionario S. Pantaleimone 2 vi sono ben diciassette miniature a piena pagina. Eccettuata la prima, tutte le altre che illustrano il ciclo delle feste sono campite sul recto e sul verso del medesimo foglio (ivi, pp. 347-351, figg. 272-295).Il più bel vangelo del monte A. è senza dubbio il Tetravangelo Iviron 5 del sec. 13°; considerato opera costantinopolitana, esso contiene trentadue miniature che illustrano il testo evangelico (ivi, pp. 296-303, figg. 11-40). Notevoli sono inoltre il Tetravangelo A76 della Grande Lavra, datato al sec. 14° (Weitzmann, 1963a; Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 230-253), e il contemporaneo Tetravangelo Vatopedi 937, con dodici miniature a piena pagina, di cui nove precedono il Vangelo di Matteo, mentre le altre tre sono collocate prima dei Vangeli di Luca e Giovanni (Weitzmann, 1963a, pp. 57-59).Gli Atti e le Lettere degli apostoli recano spesso i ritratti dei loro autori, come nel Pantocratore 234 (sec. 11° o 12°), nel quale le figure degli evangelisti, degli altri autori delle Lettere e dei Padri della Chiesa sono inserite all'interno delle iniziali e delle testate (Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 283-287, figg. 242-257).L'Antico Testamento, troppo ampio per essere contenuto in un'unica redazione, veniva ripartito in più codici, dei quali solo quello contenente l'Ottateuco era illustrato; il Vatopedi 602, del sec. 13°, comprende solo sei libri veterotestamentari, dal Levitico al Libro di Rut, e le Catenae in psalmos. Le sue miniature furono eseguite da un artista che si ispirò allo stesso modello dell'Ottateuco del sec. 12° conservato a Roma (BAV, gr. 746), senza tuttavia riprodurlo fedelmente (Huber, 1973, pp. 33-108; Lowden, 1982).Il Libro di Giobbe ebbe grandissima diffusione e le sue illustrazioni sono caratterizzate da un'iconografia costante, nell'ambito della quale Giobbe è quasi sempre rappresentato in atto di disputare, come testimonia per es. il Vatopedi 590 (già 503) del sec. 12° e il B100 della Grande Lavra, del sec. 13° (Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 242-246, figg. 81-104). Un altro testo che in ambito bizantino veniva frequentemente corredato di numerose miniature era il libro dei Salmi a cui si aggiungevano talora nove canti dell'Antico e del Nuovo Testamento. Il salterio non era solo un testo liturgico, veniva infatti ampiamente usato anche per la devozione privata, essendo considerato uno scritto salvifico. Uno dei più importanti salteri con illustrazioni marginali è il Salterio Pantocratore 61, scritto e miniato a Costantinopoli tra la metà e la fine del 9° secolo. Molto simile al Salterio Chludov e a un salterio conservato a Parigi (BN, gr. 20), il Pantocratore 61 contiene ca. cento miniature campite con grande freschezza e immediatezza al margine del testo, che illustrano temi diversi: soggetti vetero e neotestamentari, figure di santi e di personaggi protagonisti della lotta iconoclasta (Dufrenne, 1966, pp. 11-37, tavv. 1-33; Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 265-280, figg. 180-237).Dei cinquantotto salteri miniati appartenenti invece al gruppo dei 'salteri aristocratici', datati tra il sec. 11° e il 14°, solo tredici sono ancora conservati nelle biblioteche del monte A. (Cutler, 1984, pp. 20-31, 103-110, figg. 26-87, 239-392).Altri testi, che servivano per le funzioni liturgiche e per gli uffici quotidiani, presentano ugualmente numerose miniature: per es. lo Sticheron 412 del monastero Kutlumusi (sec. 14°) è illustrato con più di cento piccole miniature; nella maggioranza sono figure di santi entro clipei, altre riguardano scene della vita di Cristo e della Vergine (The Treasures, 1974-1975, I, pp. 465-468, figg. 277-384). Gli Orologhia di Thekara, di epoca più tarda (sec. 15°), sono decorati con teste di santi campite senza sfondo o incorniciature, come nel caso del Dionisio 417 e del Kutlumusi 193 (ivi, pp. 431, 459, figg. 169-172, 342-344).Il testo della Divina Liturgia, che a Bisanzio era scritto su rotuli e non su codici, raramente veniva illustrato. Il Rotulo 105 del monastero Dionisio, del sec. 13°, reca comunque all'inizio la figura di s. Basilio il Grande all'interno di un ciborio ed è impreziosito da numerose iniziali zoomorfe (ivi, pp. 426-427, figg. 150-158). Anche il Rotulo 2 della Grande Lavra, del sec. 14°, presenta iniziali riccamente ornate e tredici miniature che illustrano il testo (Brehier, 1940; Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 259-261, figg. 166-170).A Bisanzio, tra i testi patristici, erano sovente illustrate sedici delle quarantasette omelie di s. Gregorio Nazianzieno; otto dei trentasei manoscritti contenenti questa raccolta si trovano nelle biblioteche del monte Athos. I più significativi sono il Dionisio 61 e il S. Pantaleimone 6 (secc. 11°-12°), nei quali, all'inizio di ogni omelia, è miniata una scena in diretto rapporto con il testo. Altre miniature illustrano invece il commento dello pseudo-Nonno, ove vengono spiegati i riferimenti di s. Gregorio alla mitologia (Galavaris, 1969; The Treasures, 1974-1975, I, pp. 415-418, figg. 104-117; II, pp. 352-358, figg. 296-322). Tra i codici contenenti la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco, asceta del sec. 7°, degno di nota è lo Stavronikita 50, del sec. 14°, decorato con due miniature a piena pagina che rappresentano lo stesso autore e altri monaci mentre salgono sulla scala del paradiso e con altre trentasette scene di analogo soggetto. Le miniature riprendono, anche se non fedelmente, un codice del sec. 11° (Roma, BAV, gr. 394; Martin, 1954, pp. 167-168, figg. 133-171).Sul monte A. sono conservati anche due importanti menologi: l'Esfigmeno 14, della seconda metà del sec. 11°, con miniature a piena pagina che comprendono due episodi in successione oltre alle sessantacinque miniature che illustrano (talora con tre episodi successivi) l'omelia per la nascita di Cristo di Giovanni di Eubea, da altri attribuita a s. Giovanni Damasceno (The Treasures, 1974-1975, II, pp. 361-383, figg. 327-408); il Dochiario 5, di poco posteriore, nel quale, se si eccettuano due vite illustrate con un breve ciclo narrativo, tutte le altre sono precedute dal ritratto del santo o dalle sue iniziali (Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 289-291, figg. 258-268).Anche i typiká dei monasteri solo eccezionalmente erano corredati di miniature, come nel caso del typikón del monastero di S. Eugenio a Trebisonda, fondato nel 1346, contenuto nel Vatopedi 1199, che reca all'inizio i ritratti di s. Giovanni Damasceno e di s. Saba e alla fine quello di s. Eugenio, mentre anche la guida per le funzioni mensili è decorata da miniature che illustrano il lavoro dei mesi (Weitzmann, 1963b, pp. 109-111).L'Iviron 463, un importante codice miniato del sec. 12°, contiene il romanzo di Barlaam e Iosafat, una singolare parafrasi della vita del Buddha. Il testo è decorato da un ritratto a piena pagina di s. Giovanni Damasceno (che secondo alcuni studiosi potrebbe essere stato l'autore del testo) e da settantanove miniature, di formato stretto e allungato, intercalate al testo, illustranti due o tre diversi episodi del romanzo (Der Nersessian, 1937; The Treasures, 1974-1975, II, pp. 306-322, figg. 53-132).Tra i codici miniati di soggetto profano sono inoltre degni di nota alcuni documenti imperiali del 14° e del 15° secolo. Nel monastero di Dionisio è conservato il crisobollo dell'imperatore Alessio III di Trebisonda, contenente l'elenco delle sue ricche donazioni al monastero nel 1374. All'inizio del codice sono rappresentati gli imperatori Alessio e Teodora con sontuosi abiti nell'atto di mostrare la bolla d'oro, entrambi benedetti da s. Giovanni Battista, al quale è infatti dedicata la chiesa del monastero (Dölger, Weigand, 1943, p. 96, fig. 51; The Treasures, 1974-1975, II, pp. 36-40).Nella biblioteca della Grande Lavra è invece conservato un manoscritto del De materia medica di Dioscoride (75Ω), databile al sec. 12°, con miniature che riproducono numerose erbe medicinali (Οἱ θησαυϱοί, 1973-1979, III, pp. 258-259, figg. 147-163).I manoscritti atoniti offrono un interessante panorama delle diverse tendenze stilistiche della pittura bizantina a partire dal 9° secolo. Il Salterio Pantocratore 61 è caratterizzato per es. da uno stile linearistico e schematico, mentre le miniature del Tetravangelo Stavronikita 43 e quelle del Tetravangelo Filoteo 33 documentano le tendenze artistiche della rinascenza macedone.Al c.d. stile mignon, riferibile al terzo quarto del sec. 11°, appartiene l'Evangeliario Dionisio 587, mentre il Tetravangelo S. Pantaleimone 25 rientra nel gruppo dei codici che, già considerati opere dello scriptorium di Nicea, sono ora attribuiti alla fine del sec. 12° o agli inizi del 13°, così come il Dochiario 39 e il 26 della Grande Lavra. Di questo gruppo il codice più significativo dal punto di vista qualitativo è il Tetravangelo Dionisio 4, dei primi anni del 13° secolo. Il manierismo che caratterizza la pittura dell'epoca della dinastia degli Angeli traspare dai ritratti degli evangelisti del codice Iviron 55, del terzo decennio del 13° secolo. Un altro gruppo di codici, databili tra il secondo quarto del sec. 13° e gli inizi del 14°, è invece caratterizzato da forme di gusto plastico e monumentale, da una più attenta ricerca ritrattistica e dall'immissione di nuovi tipi iconografici per le figure degli evangelisti: si veda per es. il Tetravangelo Iviron 5. Alla matura arte paleologa appartiene l'Evangeliario Kutlumusi 62, del terzo quarto del sec. 14°, che è stato infatti ritenuto opera dello stesso miniatore che illustrò il bellissimo manoscritto con le opere teologiche di Giovanni VI Cantacuzeno (Parigi, BN, gr. 1242). Infine, le ultime miniature pervenute dagli scriptoria costantinopolitani sono contenute nel Tetravangelo Iviron 548, eseguito nel 1433.
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