Atletica - La storia
di Roberto L. Quercetani
La parola atletica ‒ dal greco athlos "lotta", "combattimento" ‒ indica la pratica agonistica del correre, saltare e lanciare, non la semplice e isolata manifestazione di tali gesti. La storia dell'esercizio atletico nasce quasi con l'uomo, se non altro per la necessità che egli ebbe, fin dai tempi più remoti, di far ricorso ad atteggiamenti di difesa o di offesa che implicavano appunto correre, saltare, lanciare. Inoltre, al di là di ogni possibile contrasto, tali gesti corrispondono alle più semplici e spontanee manifestazioni dell'essere umano, che sia nella storia sociale sia nel quadro più soggettivo della crescita individuale è teso a scoprire e a esprimere le proprie risorse e potenzialità fisiche.
Tracce di un'attività atletica si trovano in bassorilievi egiziani risalenti a circa 3500 anni prima di Cristo, ma non si può escludere che manifestazioni del genere siano state in auge anche presso civiltà più antiche, per es. nelle Americhe e in Asia. Le prime notizie di sicuro rilievo su competizioni dell'Evo Antico si riferiscono comunque alla Grecia e all'Irlanda.
La letteratura greca dà notizia di gare di corsa tenute ancor prima del 1000 a.C., per lo più nell'ambito di funzioni religiose. L'origine dei Giochi Olimpici ‒ così chiamati perché si svolgevano ogni quattro anni a Olimpia nel Peloponneso nordoccidentale ‒ è fatta risalire da alcuni al 1222 a.C. e da altri all'884 a.C., ma il primo 'olimpionico' di cui ci sia stato tramandato il nome è Koroibos di Elide, vincitore della corsa veloce o stadion (600 pous o piedi, corrispondenti a 192,28 m, da percorrere in linea retta) nel 776 a.C., data che gli storici identificano con l'edizione inaugurale dei Giochi Olimpici. A partire dal 724 a.C. il programma si arricchì di un'altra corsa, il diaulos, distanza doppia dello stadion. Più tardi vennero ad aggiungersi il dolichos, una corsa di fondo che poteva variare da 7 a 24 stadi, e infine il pentathlon, che comprendeva corsa, salto in lungo, disco, giavellotto e lotta.
Nelle corse, il segnale di partenza veniva dato con un comando vocale ed era prevista una penalizzazione, a quanto sembra corporale, per chi lo anticipasse. Sulle distanze superiori a uno stadio era necessario voltarsi e ripercorrere lo stesso tratto nel verso contrario, una o più volte. Il kampter, punto dell'inversione di rotta, era segnato da una piccola colonna o da un palo. Fra i non pochi che scrissero in vario modo dei Giochi, con valutazioni che oggi definiremmo tecniche, citiamo Filostrato l'Ateniese (circa 170-245 d.C.), che nel suo Gymnasticus dissertò sulla differenza fra sprint e gare di resistenza. L'ellenismo attribuì grande importanza a questi Giochi, tanto che i vincitori di Olimpia furono celebrati da insigni scrittori e filosofi. I nomi degli olimpionici sono giunti fino a noi grazie alle liste del sofista Ippia, poi completate da Aristotele e Giulio Africano, e ora sapientemente ricostruite dall'epigrafista e storico dell'antichità Luigi Moretti. Non si hanno dati sulle prestazioni degli atleti, anche se sono state avanzate ipotesi sulle distanze raggiunte nel salto in lungo, sulla base di indicazioni di non facile interpretazione. Fra l'altro c'è da aggiungere che in questa prova i greci si servivano di pesi (halteres), con i quali assecondavano l'azione delle braccia e delle gambe.
Gare di atletica erano incluse anche nel programma di altri Giochi dell'antica Grecia: i Pitici, i Nemei e gli Istmici. Soprattutto i primi, che si tenevano a Delfi, in prossimità di Atene, avevano una vasta risonanza. Qui, come a Olimpia, ai vincitori erano riservati tali onori e favori che inevitabilmente essi divennero dei professionisti, e già verso il 50 a.C. pare si fosse costituita un'associazione di atleti professionisti. Sembra anche che i greci facessero talvolta ricorso a pozioni speciali al fine di migliorare sempre più le loro prestazioni. Gli stessi storici greci ritengono del resto che la fine dei Giochi Olimpici giunse come la risultante di diversi fattori che ne avevano minato il prestigio, anche al di là dei motivi puramente politici che ne decretarono la morte con l'editto dell'imperatore romano Teodosio nel 393 d.C.
Accanto alla tradizione greca occorre ricordare quella irlandese dei celti. I Giochi di Lugnas, detti più tardi Tailteann Games (dal nome della cittadina in cui si svolgevano, Tailti, nella contea di Meath, l'attuale Teltown a nord-ovest di Dublino) si svilupparono da piccole feste locali. Secondo l'Ancient Book of Leinster (scritto intorno al 1150 d.C.) si tennero per la prima volta nell'829 a.C., quindi in una data anteriore a quella ufficiale dei primi Giochi Olimpici. Oltre a gare di corsa comprendevano i salti in alto e con l'asta e i lanci della pietra e del giavellotto. Questa manifestazione si svolgeva ogni anno in agosto e sopravvisse fino al 14° secolo, pur perdendo importanza con il passare del tempo. Le saghe irlandesi a cui dobbiamo la memoria di questi Giochi sembrano tuttavia fondere e confondere storia e leggenda.
Nell'Europa medievale le nuove tendenze religiose e culturali permisero all'attività atletica di sopravvivere, in forme più o meno camuffate, unicamente nell'ambito di tornei cavallereschi o militari. Solo nelle isole britanniche andò pian piano sviluppandosi un'attività atletica non molto dissimile, nelle forme essenziali, da quella dei nostri giorni. Già intorno al 1100 esistevano a Londra e altrove diversi athletic grounds, cioè terreni per esercizi atletici, nei quali uomini di ogni ceto si cimentavano in gare di corsa, salto e lancio. In Scozia queste avevano luogo durante le feste popolari, che in parte sopravvivono ancora oggi, specialmente per quanto attiene a gare di lancio con gli attrezzi più svariati, come per es. il tossing the caber (lancio del tronco d'albero).
Fra il 1700 e il 1900 fu in auge in Gran Bretagna il pedestrianism, che consisteva in gare di corsa e di marcia, perlopiù assai lunghe, sotto forma di match fra due concorrenti di nobile stirpe. Agli albori dell'Ottocento una celebre rivista, Bell's Life, riportava i tempi di queste gare, che di solito si tenevano su prato o su strada, in minuti primi e secondi. Fra le figure più famose di quell'epoca si ricorda il capitano Robert Barclay Allardyce, uno scozzese che aveva studiato a Cambridge: in 42 giorni e altrettante notti coprì la distanza di 1000 miglia marciando alla media di 1 miglio (1609,35 m) l'ora, impresa che anche nell'ottica di quel tempo non appariva eccezionale e che tuttavia fu cantata ampiamente, grazie soprattutto all'eccentricità del suo autore, che da quella fatica ricavò la bella somma di 1000 ghinee. Negli Stati Uniti divenne famoso il marciatore di gran fondo Edward P. Weston che fece la traversata da costa a costa. In Italia il forlivese Achille Bargossi, debuttò come divoratore di chilometri nel 1873, accettando per scommessa di andare a piedi da Milano a Monza (15 km) in meno di un'ora. Vinse, coprendo la distanza in 58′. In seguito coltivò con successo la sua passione e riscosse affermazioni in Europa e altrove.
La track and field athletics, l'"atletica di pista e campo" quale la conosciamo noi, nacque per iniziativa degli inglesi, seguiti poco dopo dagli americani. A darle regole precise fu soprattutto l'élite che ruotava intorno alle università d'oltremanica. Molti storici considerano il primo incontro fra Oxford e Cambridge, tenuto al Christ Church Ground di Oxford nel 1864, come il foundational meeting dell'atletica moderna. Nel programma figuravano tre gare di corsa piana, tre a ostacoli e due di salto. I primi campionati inglesi si tennero a Beaufort House, Londra, nel 1866. Quelli degli Stati Uniti seguirono dieci anni dopo al Mott Haven Track di New York.
La prima federazione nazionale fu la AAA (Amateur athletic association), fondata a Oxford nel 1880. Le sue 16 regole, in gran parte riprese e applicate dagli organizzatori della prima Olimpiade moderna, possono essere considerate il 'codice sinaitico' dell'atletica moderna. Anche le distanze, i pesi e le misure ancora oggi adottate derivano in gran parte dal sistema inglese. Per es., i 400 metri, da tempo misura base delle piste, sono una traduzione libera delle 440 yards o quarto di miglio inglese (402,34 m). Se l'atletica moderna fosse nata nell'Europa continentale non c'è dubbio che le piste sarebbero di 500 metri, lunghezza che di fatto ebbero in certi stadi dell'Europa continentale (Milano, Parigi-Colombes, Colonia) fin oltre la metà del 20° secolo. Nelle gare dei pionieri anglosassoni la corsa sul miglio era considerata il glamour event, la "prova di maggior spicco", e non di rado veniva posta a chiusura del programma. All'evoluzione dei concorsi (salti e lanci) contribuirono largamente scozzesi e irlandesi.
Sotto l'egida dell'Amateur athletic association nel 1880 ai Lillie Bridge Grounds di West Brompton, Londra, si svolse la prima edizione dei Campionati d'Inghilterra, con 14 gare in programma. Erano open, aperti quindi anche ad atleti stranieri e, specialmente nei primi tre decenni del 20° secolo, avrebbero attirato i migliori europei e americani, per diventare il test di maggior prestigio internazionale dopo i Giochi Olimpici. L'italiano Luigi Facelli vinse tre volte il titolo delle 440 yards ostacoli (1929, 1931, 1933).
Le prime gare internazionali ebbero luogo poco prima della fine del 19° secolo. Nel 1894 a Londra si svolse un match fra le università di Oxford (Gran Bretagna) e Yale (Stati Uniti). Di ben maggior rilievo fu il confronto fra New York A.C. e London A.C. al Manhattan Field di New York nel 1895, nel quale scesero in lizza molti dei migliori atleti dei due paesi di lingua inglese e furono battute o eguagliate le migliori prestazioni mondiali dell'epoca in ben cinque gare (100 yards: Bernie Wefers 9″4/5; 220 yards: Bernie Wefers 21″3/5; 880 yards: Charles Kilpatrick 1′53″2/5; 120 yards ostacoli: Stephen Chase 15″2/5; alto: Mike Sweeney 1,97 m). Gli altri vincitori furono: 440 yards: Thomas E. Burke 49″; 1 miglio: Thomas Conneff 4′18″1/5; 3 miglia: Thomas Conneff 15′36″1/5; lungo: Edward Bloss 6,86 m; peso: George Gray 13,23 m; martello: James Mitchel 41,90 m. Tra questi atleti, tutti americani, alcuni, come Thomas Conneff, Mike Sweeney e James Mitchel, erano freschi emigrati di origine irlandese.
I primi Giochi Olimpici dell'era moderna si tennero nell'aprile 1896 allo Stadio Panatenaico di Atene. L'idea di questo revival era stata avanzata in una sera di novembre del 1892 alla Sorbona di Parigi, durante una riunione di personalità dello sport e dell'istruzione, da un nobile francese, il barone Pierre de Coubertin. Questi vedeva la cultura e lo sport nell'ottica di un 'matrimonio' ideale e verso questa visione era stato orientato dai suoi studi e dalle sue visite alle scuole inglesi e americane, in particolare dalla sua ammirazione per l'inglese Thomas Arnold, pedagogo della scuola di Rugby. Il CIO (Comité international olympique), creato nel 1894 a Parigi, assunse l'incarico di organizzare i Giochi a Scadenze quadriennali. Alle gare di atletica dell'edizione inaugurale parteciparono 67 concorrenti (solo uomini) in rappresentanza di dieci nazioni, fra le quali non era presente l'Italia. L'inadeguatezza degli impianti incise negativamente sui risultati, che apparvero decisamente mediocri in relazione ai livelli già raggiunti all'epoca. In mancanza di un regolamento internazionale, le gare furono assai libere sotto diversi aspetti. Nel salto triplo, per es., il metodo, oggi prevalente, di hop, step and jump coesisteva con quello dei due hops (con battuta e ricaduta sulla stessa gamba) e un jump (normale salto in lungo). Quest'ultimo stile fu usato dallo stesso vincitore, l'americano James Connolly (13,71 m), cronologicamente il primo olimpionico dell'era moderna.
I Giochi di Atene, anche se poco seguiti dalla stampa del tempo, ebbero fra l'altro il merito di consolidare la scelta dilettantistica fatta in precedenza dai pionieri anglosassoni. Da allora l'attività dei professionisti fu relegata in spazi sempre più angusti, fino a scomparire quasi del tutto.
Gli ultimi decenni del 19° secolo videro prestazioni di rilievo in quasi tutte le specialità (v. Tabella; talora i professionisti, la cui attività si svolgeva in condizioni meno attendibili in quanto a correttezza di rilievi, furono accreditati di risultati migliori, come nel caso dell'inglese Walter George sul miglio: 4′12″3/4 nel 1886).
Gli Stati Uniti assunsero già un ruolo guida nella gerarchia mondiale, seguiti abbastanza da vicino da Gran Bretagna e da altri paesi di lingua inglese, come Canada e Australia. Agli albori del Novecento l'atletica aveva compiuto i primi passi anche in buona parte del continente europeo, soprattutto in Francia e Germania. Stava inoltre costruendosi una tradizione dei paesi scandinavi. I secondi Giochi Olimpici dell'era moderna, tenuti a Parigi nel 1900, offrirono un quadro abbastanza indicativo dell'evoluzione dello sport, malgrado certe visibili pecche delle installazioni, situate nella zona della Croix-Catelan nel Bois de Boulogne. Cospicuo, rispetto all'edizione inaugurale di Atene, l'incremento delle prove in programma, passate da 12 a 24, anche se tutte ancora riservate agli uomini. Alle gare di Parigi parteciparono atleti di 15 nazioni, fra cui due italiani, il velocista Umberto Colombo e il mezzofondista Emilio Banfi, che non riuscirono a qualificarsi per le finali.
Nei primi decenni del Novecento il movimento atletico mondiale guadagnò lentamente ma costantemente terreno e si arricchì di nuove manifestazioni. Nel 1903 si tenne a Glasgow il primo campionato di corsa campestre (cross country), etichettato, non senza po' di baldanza, come 'internazionale' per la presenza di quattro entità del Regno Unito: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda. In realtà il primo paese straniero a parteciparvi fu la Francia nel 1907 (l'Italia concorrerà dal 1929). Nuove aree del mondo ebbero il loro battesimo internazionale con i primi Giochi dell'Estremo Oriente a Manila nel 1913 e i primi campionati del Sudamerica a Montevideo nel 1919. Nel frattempo si erano tenute altre tre edizioni dei Giochi Olimpici: St. Louis (USA) nel 1904, Londra nel 1908 e Stoccolma nel 1912, alle quali va aggiunta quella del 1906 ad Atene, fortemente voluta dai greci per celebrare il decennale dei Giochi, ma relegata dal CIO al ruolo di 'ufficiosa'.
Quelli di St. Louis furono Giochi quasi esclusivamente americani. Dati gli alti costi del lungo viaggio, solo nove nazioni straniere poterono prendervi parte, quasi tutte con pochissimi atleti. Mancavano, fra le altre, la Gran Bretagna e l'Italia. Solo la Grecia fu presente con 14 atleti, per lo più maratoneti. Gli ospitanti, che da soli rappresentavano quasi i tre quarti degli iscritti alle gare, fecero naturalmente la parte del leone.
I Giochi Olimpici del 1906 ad Atene offrirono nel complesso una partecipazione internazionale maggiore rispetto alle edizioni ufficiali precedenti. Erano presenti atleti di 21 nazioni. Gli italiani furono 6 e il migliore di essi fu Pericle Pagliani, quinto nelle 5 miglia. Le gare si svolsero, come quelle del 1896, allo Stadio Panatenaico, su una pista 'molle' dalle curve molto strette. Quindi i risultati ne risentirono. Gli organizzatori avevano incluso nel programma alcune gare che si richiamavano all'antica tradizione dell'ellenismo.
I Giochi di Londra del 1908 segnarono un deciso passo avanti nell'organizzazione e furono onorati da una buona partecipazione. Accanto al binomio classico USA-Gran Bretagna cominciavano ad affacciarsi sul proscenio i paesi scandinavi, particolarmente Finlandia e Svezia. L'Italia, dove l'atletica era nata per così dire da una 'costola' della ginnastica, si mise in luce con alcuni personaggi che potremmo chiamare fuori del tempo, quali il mezzofondista Emilio Lunghi e il maratoneta Dorando Pietri. Lunghi, secondo negli 800 metri, è ricordato come 'il primo italiano a salire su un podio olimpico' di questo sport, espressione formalmente scorretta in quanto il rituale dei podi fu inaugurato solo nel 1932 a Los Angeles. La vicenda di Pietri ebbe enorme risonanza in Italia e nel mondo: giunse per primo al traguardo (2h 54′46″2/5) ma fu squalificato per essere stato aiutato a rialzarsi proprio nella fase finale, quando cadde più volte per esaurimento. Vincitore ufficiale fu l'americano John Hayes (2h 55′18″2/5), ma all'italiano andò la simpatia di molti dei presenti e soprattutto quella dei suoi connazionali, vicini e lontani. Ebbe onori che non erano stati riservati fino ad allora a nessun vincitore ufficiale e intraprese una grande carriera da professionista nelle Americhe, dove fra l'altro ritrovò e sconfisse Hayes in più occasioni. Lunghi, già prima del secondo posto nella gara olimpica, era stato il primo italiano a fregiarsi di un primato mondiale: 2′31,0″ sul chilometro (a Roma, il 31 maggio 1908). Ottenne un secondo mondiale, questo di maggior rilievo internazionale, il 15 settembre 1909 a Montreal, correndo le 880 yards (804,67 m) in 1′52″4/5. Tuttavia queste imprese precedettero di qualche anno la fondazione di un ente mondiale per l'atletica e così non poterono avere il sigillo del riconoscimento internazionale.
I Giochi Olimpici del 1912 a Stoccolma segnarono una tappa importante nell'evoluzione dell'atletica. L'organizzazione fu giudicata eccellente anche da quei paesi ‒ Gran Bretagna e Stati Uniti ‒ che erano considerati i 'padri' di questo sport nell'era moderna. Gli svedesi vi profusero il meglio della loro esperienza e della loro passione e si fecero anche promotori dell'idea di dar vita a una federazione mondiale. I Giochi ebbero come suggestivo teatro il nuovo Olympiastadion. Fra le innovazioni tecniche vanno ricordati il cronometraggio al decimo di secondo e l'obbligo di correre in corsie separate anche nei 400 metri. Il decathlon, disputato per la prima volta secondo la versione tuttora vigente (anche se in tre giornate, anziché due), ebbe come grande protagonista il pellerossa americano Jim Thorpe, che vinse pure il pentathlon, vittorie che gli furono revocate pochi mesi dopo, quando si scoprì che nel 1909 aveva giocato per qualche tempo da professionista nel baseball; la squalifica inflittagli dal CIO per leso dilettantismo fu cancellata, mutati i tempi, nel 1982, ma la notizia rallegrò solo i suoi successori perché Thorpe era morto già nel 1953. Grande rilievo ebbero pure le vittorie nei 5000 e 10.000 m del finlandese Hannes Kolehmainen, con il quale cominciò la grande tradizione del fondo finlandese. Un altro ciclo che doveva rivelarsi lungo e glorioso si aprì a Stoccolma: quello della marcia italiana, grazie al diciannovenne Fernando Altimani, terzo nella 10 km su pista. Nel complesso il livello d'assieme fu superiore a ogni precedente.
Tre giorni dopo la fine dell'ultima gara, il 17 luglio 1912, si tenne al Parlamento di Stoccolma un congresso per la costituzione di un organismo mondiale che sovrintendesse al governo dell'atletica. Vi parteciparono rappresentanti di 17 nazioni. Lo svedese Sigfrid Edström, presidente del congresso, riassunse in tre punti le finalità del nuovo ente: stabilire un regolamento per le gare internazionali; omologare i primati mondiali e olimpici; dare una definizione univoca del 'dilettante' per le gare internazionali. Il neonato ente, denominato International amateur athletic federation (IAAF), fu ufficializzato nel 1913 a Berlino ed Edström fu eletto primo presidente.
La tabella inaugurale dei primati mondiali incorporò tutte le migliori prestazioni ottenute durante i Giochi di Stoccolma, ma anche qualche risultato risalente agli anni precedenti. Come già accennato, risultarono esclusi i tempi fatti registrare Lunghi nei 1000 metri e nelle 880 yards, probabilmente per mancanza di collegamenti fra la Federazione italiana sport atletici (FISA), nata nel 1909 a Milano, e la IAAF. D'altronde il secondo di questi tempi, quello ottenuto a Montreal nel 1909, sebbene riconosciuto ufficialmente come primato canadese e americano, entrò nell'albo italiano solo nel 1927, un anno dopo che la Federazione italiana di atletica leggera (FIDAL) aveva preso il posto della FISA.
Il Primo conflitto mondiale causò la cancellazione dei Giochi Olimpici del 1916, che erano stati assegnati a Berlino. Il CIO, trasferito nel frattempo in Svizzera, decise peraltro di tenere fede all'uso dei greci antichi e quei Giochi, anche se non disputati per forza maggiore, contarono egualmente nella numerazione progressiva, passando alla storia come la sesta edizione.
La guerra ridusse notevolmente l'attività sportiva dei paesi coinvolti nel conflitto. Per es., i Campionati d'Inghilterra, aperti da sempre alla partecipazione straniera, non ebbero luogo dal 1915 al 1918 compreso. La neutrale Svezia poté invece proseguire normalmente le sue attività e, sullo slancio acquisito con i Giochi di Stoccolma 1912, riuscì a conquistare diversi primati mondiali nel mezzofondo e nel fondo.
I primi Giochi Olimpici dell'era postbellica si tennero ad Anversa nel 1920. Il Belgio era stato fra le nazioni più martoriate dalla guerra e il CIO, temendo che un riavvicinamento fra ex nemici, sia pure sul campo dello sport, fosse prematuro e quindi pericoloso, ritenne opportuno non invitare la Germania ‒ che in Belgio aveva mantenuto a lungo truppe di occupazione ‒ nonché i suoi alleati Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia. Si trattò in ogni caso di una decisione molto sofferta, che in certo modo potrebbe essere considerata il primo caso di boicottaggio politico applicato allo sport.
I Giochi di Anversa offrirono molti spunti di rilievo, ivi compresi alcuni primati mondiali, anche se dal punto di vista dell'organizzazione segnarono un passo indietro rispetto a Stoccolma 1912. Fra i protagonisti si segnalò ancora una volta Kolehmainen, che otto anni dopo i suoi successi sulla pista svedese si laureò campione olimpico della maratona. Il suo connazionale ed erede presunto, Paavo Nurmi, sulle lunghe distanze vinse tre medaglie d'oro e una d'argento. L'Italia fece registrare il suo miglior risultato fino a quel momento: alle vittorie di Ugo Frigerio nei 3 e 10 chilometri di marcia ‒ primi ori olimpici della nostra atletica ‒ si aggiunsero i terzi posti di Ernesto Ambrosini nei 3000 metri siepi e di Valerio Arri nella maratona.
Nurmi fu il grande protagonista dell'atletica degli anni Venti. Le corse di fondo avevano sempre espresso figure che la fantasia popolare riusciva a trasferire nel mito. Nella seconda metà del 19° secolo, per es., si era parlato molto di Lewis Bennett, un pellerossa della tribù seneca detto deerfoot ("piè di daino"), che riscosse successi su entrambe le rive dell'Atlantico. All'inizio del 20° secolo c'era stato l'inglese Alfred Shrubb, dominatore su un'ampia gamma di distanze. E poi il già ricordato Kolehmainen, primo dei grandi finlandesi. A quest'ultimo fece seguito il connazionale Nurmi, che assurse presto a vette mai raggiunte da alcun fondista: in tre edizioni dei Giochi Olimpici (1920, 1924, 1928) collezionò 12 medaglie (9 d'oro e 3 d'argento) e 29 primati mondiali. Il registro del 'silenzioso di Turku' si estendeva dai 1500 metri all'ora di corsa. Ebbe il suo momento più fulgido ai Giochi Olimpici del 1924, allo stadio di Colombes, presso Parigi, quando nel giro di tre quarti d'ora vinse prima i 1500 m e poi i 5000.
Ai Giochi di Parigi l'Italia vinse due medaglie, ancora a opera degli 'uomini di fatica': nuovo oro di Ugo Frigerio nella marcia e argento di Romeo Bertini nella maratona.
Negli anni Venti nacquero altre due manifestazioni di rilievo, i Giochi universitari internazionali e i Giochi Centroamericani e del Caribe. La prima edizione dei Giochi Universitari (che sarebbero stati ribattezzati nel 1959 Universiadi) si disputò nel 1923 a Parigi; si tratta di una manifestazione polisportiva nella quale l'atletica ha comunque invariabilmente un posto. I Giochi Centroamericani e del Caribe si inaugurarono a Città del Messico nel 1926.
Anche le origini dell'atletica femminile risalgono all'antichità. In Egitto, durante il Medio Impero, intorno al 2000 a.C, si tenevano gare femminili ginniche e di acrobazia, e anche nell'antica Grecia, contrariamente a quanto si afferma di solito, vi erano giochi riservati alle donne: a Olimpia, in un periodo dell'anno diverso rispetto a quello delle Olimpiadi maschili, si tenevano gli Heraia in onore di Hera, moglie di Zeus e patrona della vita matrimoniale, durante i quali le concorrenti, divise in tre gruppi di età, si cimentavano sulla distanza di 500 piedi olimpici (160,22 m).
Nell'era moderna le prime gare di atletica riservate alle donne si ebbero nei paesi di lingua inglese. La prima riunione più o meno conforme agli schemi attualmente vigenti ebbe luogo al Vassar College di Poughkeepsie (New York) nel 1895: si trattò di un field day comprendente cinque gare: 100 e 220 yards, 120 yards ostacoli, salti in alto e in lungo. Tuttavia, poiché i promotori dell'idea olimpica moderna non avevano certo inclinazioni progressiste nei confronti dell'altro sesso, per la vera e propria nascita dell'atletica femminile o meglio dello sport femminile tout court si dovette attendere fino al 1917, quando, per iniziativa della francese Alice Milliat, tre società d'oltralpe diedero vita alla Fédération féminine sportive de France.
Nel 1920 Madame Milliat chiese che le sue affiliate fossero ammesse ai Giochi Olimpici di Anversa, ma il CIO oppose un cortese, però fermo diniego. Da autentica suffragetta la signora francese riuscì a dar vita nel 1921 ai primi Giochi femminili internazionali, che si tennero a Montecarlo. Fu un festival anglo-francese, con undici gare in programma, fra le quali peso e giavellotto a due braccia. Quasi contemporaneamente fu fondata la Fédération sportive féminine internationale (FSFI), con Madame Milliat in veste di presidente. Vi aderirono sei nazioni: Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Cecoslovacchia e Stati Uniti. Nell'estate del 1922, allo Stade Pershing di Parigi, si tennero, davanti a 20.000 spettatori, i primi Giochi mondiali femminili, articolati in undici gare.
In Italia i primordi dell'atletica femminile si fanno generalmente risalire agli ultimi anni del 19° secolo, sotto forma di gare lunghe, di corsa o di marcia. Il fenomeno s'intensificò e assunse forme più diversificate nei primi decenni del Novecento, tanto che nella primavera del 1921 alcune atlete italiane parteciparono ai Giochi di Montecarlo, promossi da Madame Milliat. Per quanto riguarda invece i Giochi Mondiali, l'Italia avrà una sua rappresentanza solo a partire dalla terza edizione (Praga 1930). I primi Campionati italiani ebbero luogo a Milano nel 1923. Fra le prime atlete di un certo rilievo ricordiamo Maria Piantanida, Bruna Pizzini e Lina Banzi, che di solito amavano esibirsi in un'ampia tipologia di gare.
L'atletica femminile, non ancora accettata nel consesso olimpico, rimaneva frattanto sotto l'egida della FSFI e tenne la seconda edizione dei suoi Giochi mondiali a Göteborg, Svezia, nel 1926. Nell'occasione si mise in luce la prima grande atleta di un paese asiatico, la giapponese Kinue Hitomi, saltatrice in lungo capace pure di distinguersi in una vasta gamma di altre discipline.
Nel suo congresso del 1926, il CIO si arrese finalmente all'evidenza. Il buon lavoro della FSFI era riuscito a convincere i più che non c'era ragione d'insistere in alcuna forma di ostracismo a danno delle donne. L'ennesimo tentativo di Madame Milliat e delle sue associate di farsi aprire le porte di Olimpia fu accolto con 12 voti favorevoli e 5 contrari. D'altronde si trattò di un'apertura non molto generosa: per i Giochi Olimpici del 1928 ad Amsterdam furono incluse nel programma non più di cinque gare femminili. Le atlete risposero in modo molto dignitoso, stabilendo ben quattro primati mondiali. La sezione femminile della inglese AAA, offesa per l'esiguità del programma, si rifiutò d'inviare ad Amsterdam una sua squadra.
In campo maschile la nota più rilevante dei Giochi di Amsterdam fu la doppietta 100/200 metri del canadese Percy Williams. Gli statunitensi, da sempre dominatori dello sprint, rimasero per una volta esclusi dalle medaglie in queste due gare, ma per il resto si rifecero ampiamente. Nella maratona ‒ distanza ormai standardizzata a 42,195 km, il percorso dell'edizione di Londra 1908 ‒ Boughera El Ouafi, un algerino che correva per i colori della Francia, divenne il primo africano, al di fuori del Sudafrica, a vincere un titolo olimpico. E il giapponese Mikio Oda, vincitore nel triplo, fu il primo 'oro' dell'Asia.
Nel 1930 a Hamilton (Canada), con la partecipazione di 11 paesi, fu lanciata una manifestazione che da allora è rimasta fra le più importanti e attese al di fuori dei 'vertici' olimpici e/o mondiali: nata sotto il nome di Giochi dell'Impero Britannico, oggi è nota come i Giochi del Commonwealth e si tiene a cadenza quadriennale. Nello stesso anno Atene ospitò la prima edizione dei Giochi Balcanici. In campo femminile si svolsero a Praga i terzi Giochi mondiali femminili, sotto l'egida della FSFI, e con 12 prove in programma, ivi compreso un triathlon. Diversi giornali europei dell'epoca li chiamarono 'l'Olimpiade delle donne'.
Nel 1932 gli Stati Uniti ospitarono per la seconda volta i Giochi Olimpici. Nel nuovo e bellissimo Memorial Coliseum di Los Angeles (capienza di 105.000 spettatori) le cose andarono molto meglio rispetto all'edizione del 1904 a St. Louis, anche se vi fu qualche errore da parte dei giudici. Elevato come non mai il livello dei risultati, con larga messe di nuovi primati mondiali. L'Italia colse la sua prima vittoria in una gara di corsa piana, grazie a Luigi Beccali, primo nei 1500 m in 3′51,2″, nuovo primato olimpico. Ugo Frigerio nei 50 km di marcia vinse la medaglia di bronzo e lo stesso risultato fu raggiunto da Giuseppe Castelli, Gabriele Salviati, Ruggero Maregatti, Edgardo Toetti nella staffetta 4x100 m. Sempre razionato al massimo, il programma femminile consisteva di sole 6 gare.
Nel 1933 Beccali prima eguagliò, con 3′49,2″, il primato mondiale dei 1500 m, poi lo migliorò portandolo a 3′49,0″: fu il primo italiano a fregiarsi ufficialmente di un tale onore su una distanza del programma olimpico.
Nel 1934 l'Italia ospitò l'edizione inaugurale dei Campionati Europei, che si tenne allo Stadio Mussolini di Torino. Fra le nazioni assenti, la Gran Bretagna e l'URSS. Quest'ultima però entrerà nell'arengo internazionale dell'atletica solo dopo la Seconda guerra mondiale. Mancarono nel programma le gare femminili, non essendosi ancora saldate del tutto le divergenze fra FSFI e IAAF. Fra i risultati spiccò il primato mondiale del finlandese Matti Järvinen nel giavellotto: 76,66 m. Sempre nel 1934 ebbero luogo a Londra i quarti Giochi mondiali femminili, gli ultimi, perché la FSFI confluì poco dopo nella IAAF e dal 1936 in poi uomini e donne si trovarono finalmente riuniti sotto la stessa federazione.
Nel 1936 Berlino ebbe i suoi Giochi Olimpici. In realtà le erano stati assegnati prima dell'ascesa al potere di Adolf Hitler. Questi sembrò dapprima osteggiare l'incombente impegno, ritenendo le Olimpiadi un'espressione "del giudaismo internazionale". Si lasciò tuttavia convincere da uomini più vicini allo sport e alla fine decise di servirsi della manifestazione come veicolo di propaganda per il regime. I Giochi, per quanto bene organizzati e seguiti da un foltissimo pubblico, offrirono a tratti un'atmosfera alquanto greve. Su tutti svettò l'americano Jesse Owens, un magnifico atleta di colore che vinse quattro medaglie d'oro: 100 e 200 m, salto in lungo e staffetta 4x100 m. Nella prima e nella terza di queste gare fu registrato un vento a favore oltre i 2 m al secondo, limite di tolleranza istituito proprio allora dalla IAAF per l'omologazione dei primati mondiali nelle corse brevi e nei salti orizzontali. L'Italia conquistò cinque medaglie, fra cui una d'oro, grazie a Ondina Valla, prima in un'appassionante gara degli 80 m ostacoli.
Nell'estate del 1938 si tennero allo stadio di Colombes presso Parigi i secondi Campionati Europei. La pista, che al tempo dei Giochi Olimpici del 1924 aveva un perimetro di 500 m, era stata riconvertita nella misura divenuta ormai standard, 400 m. Poco più tardi, Vienna ospitò la prima edizione dei Campionati Europei femminili (solo nel 1946, a Oslo, si comincerà ad avere una sede unica per le gare maschili e femminili).
Il Secondo conflitto mondiale (1939-1945) paralizzò l'attività atletica di molte nazioni in misura ancora maggiore di quanto non avesse fatto il Primo. Vennero a cadere due edizioni dei Giochi Olimpici: quella del 1940, assegnata in un primo tempo a Tokyo e poi a Helsinki, e quella del 1944, che era stata assegnata a Londra. Grandi atleti in auge in quegli anni si videro così precludere la via della gloria olimpica, in particolare, gli americani Hal Davis nella velocità; il tedesco Rudolf Harbig, l'inglese Sydney Wooderson, gli svedesi Gunder Hägg e Arne Andersson nel mezzofondo; e ancora gli americani Les Steers e Cornelius Warmerdam nei salti, e Al Blozis nei lanci. Due di questi atleti, Harbig e Blozis, morirono in guerra.
I Campionati Europei del 1946, svoltisi a Oslo, furono la prima grande manifestazione del dopoguerra. Come era già accaduto per i Giochi Olimpici dopo il Primo conflitto mondiale, anche in questo caso non fu invitata la Germania. All'Italia fu riservata miglior sorte e ciò, fra l'altro, permise ad Adolfo Consolini, uno dei migliori discoboli del mondo fin dal 1940, di fregiarsi del suo primo titolo europeo. Scese in lizza per la prima volta l'URSS, entrata finalmente a far parte della IAAF dopo il lungo isolamento che si era autoimposta durante gli anni Venti e Trenta. Abbiamo già detto che per la prima volta nella storia di questi campionati il programma previde gare maschili e femminili.
Nello stesso 1946 Lord David Burghley, Marchese di Exeter, vincitore dei 400 m ostacoli ai Giochi Olimpici del 1928, succedette a Edström e divenne il secondo presidente della IAAF.
Anche per i primi Giochi Olimpici dell'era postbellica, Londra 1948, il CIO si attenne al principio, già applicato nel 1920 ma sicuramente discutibile dal punto di vista sportivo, di non invitare la Germania. Lo stesso fu fatto per il Giappone. Fu invece accolta l'Italia che, grazie ai discoboli Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi, vinse per la prima volta nella storia dei Giochi l'oro e l'argento nella stessa specialità. Contrariamente alle aspettative, venne a mancare l'URSS, che già agli Europei di Oslo 1946 aveva dimostrato di avere buone carte, almeno nel settore femminile. Probabilmente i vertici politici e sportivi del paese giudicarono prudente aspettare fino al 1952, per avere il tempo di organizzarsi meglio anche nel settore maschile. Grande stella delle gare femminili fu l'olandese Fanny Blankers-Koen, che vinse quattro medaglie d'oro. Trentenne e madre di due figli, era stata già presente a Berlino nel 1936 (sesta nel salto in alto). I Giochi si svolsero in un clima nobile e austero.
Nel 1950 si tennero a Bruxelles i Campionati Europei, con la Germania ancora esclusa dalla lista degli invitati. Per l'Italia si ebbero una nuova doppietta nel disco, grazie al tandem Consolini-Tosi, e le vittorie di Giuseppe Dordoni nei 50 km di marcia e di Armando Filiput nei 400 m ostacoli.
Nel 1951 il calendario internazionale si arricchì di tre nuove manifestazioni: i Giochi Panamericani, tenuti a Buenos Aires; i Giochi Asiatici a New Delhi e i Giochi del Mediterraneo ad Alessandria d'Egitto.
Helsinki ebbe finalmente i suoi Giochi Olimpici nel 1952. Fu un'edizione importante, perché segnò il rientro di Germania e Giappone e il debutto dell'URSS sulla scena olimpica. La prima era uscita smembrata dal conflitto mondiale, divisa in due Stati ‒ la Repubblica Federale a Ovest e la Repubblica Democratica a Est. Solo la prima, però, era affiliata al CIO e poté quindi partecipare ai Giochi, mentre l'altra fu costretta a rimanere in lista d'attesa per altri quattro anni. L'imperante clima di guerra fredda si manifestò nel fatto che i paesi dell'area comunista decisero di alloggiare i loro atleti in un villaggio olimpico diverso, distante da quello degli altri paesi.
Eroe indiscusso dei Giochi di Helsinki fu il cecoslovacco Emil Zatopek, che vinse 5000 e 10.000 m, nonché la maratona ‒ una tripletta mai realizzata da alcun fondista, prima e dopo. Sua moglie Dana Zatopkova (nata Ingrova) vinse l'oro del giavellotto nello stesso pomeriggio in cui Emil vinse i 5000 m. Curioso notare che marito e moglie erano nati lo stesso giorno, mese e anno. Per l'Italia l'oro venne da Giuseppe Dordoni, che vinse i 50 km di marcia con grande superiorità. Nel complesso fu un'edizione splendida, fra l'altro con abbondanza di nuovi primati mondiali.
L'URSS, unitasi da poco alla famiglia olimpica, stava già affermandosi come la prima potenza del settore femminile. Dei suoi progressi in quello maschile si ebbe una prova convincente ai Campionati Europei del 1954 a Berna, dove Vladimir Kuts suggellò la fine dell'era Zatopek, battendo il cecoslovacco nei 5000 m a tempo di primato mondiale. In quell'edizione Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi finirono per la terza volta primo e secondo nel disco. L'Italia non ha mai più avuto un binomio così forte in nessun altro settore dell'atletica.
L'avvenimento principe del 1954 fu registrato a Oxford il 6 maggio, quando, a opera dell'inglese Roger Bannister, si registrò il primo tempo inferiore ai 4 minuti sul miglio, con 3′59,4″. Questa distanza era da sempre ritenuta la più nobile dagli inglesi appassionati di atletica, per cui dell'avvenimento si parlò ampiamente, e non solo oltremanica.
Nel 1956 i Giochi Olimpici si tennero per la prima volta nell'emisfero meridionale, in Australia. L'edizione di Melbourne ebbe la sventura di cadere in un momento in cui il mondo era angustiato da gravi problemi, come la rivolta ungherese e il conflitto angloegiziano per il canale di Suez. Questo causò fra l'altro l'assenza dalla scena dei Giochi di alcuni campioni, in particolare dell'ungherese Sandor Iharos, che fra il 1955 e il 1956 aveva stabilito primati mondiali su un largo raggio di distanze, fra i 1500 e i 10.000 metri. In compenso, scese in lizza una squadra tedesca unificata (Est-Ovest). Malgrado le avversità e tenendo anche in considerazione il fatto che i Giochi si svolsero fra novembre e dicembre (estate australe), non mancarono le grandi prodezze agonistiche, come quelle fatte registrare da Bobby Morrow nei 100 e 200 m e da Vladimir Kuts nei 5000 e 10.000 m. Si mise in particolare evidenza la giovane velocista australiana Betty Cuthbert. L'Italia rimase senza medaglie.
I Campionati Europei del 1958 al vecchio Olympiastadion di Stoccolma offrirono un alto livello di prestazioni in quasi tutte le prove, con un acuto nella maratona in cui il russo Sergey Popov mise a segno, con 2h15′17,0″, la miglior prestazione mondiale di sempre. Il discobolo Adolfo Consolini, al suo quinto campionato continentale sull'arco di vent'anni, finì sesto con 53,05 m, a non più di 87 cm dal vincitore.
Roma si era vista assegnare i Giochi Olimpici già nel lontano 1908, quando era stata costretta a rinunciare per emergenze di carattere economico. Quell'edizione si svolse a Londra e la capitale italiana dovette aspettare 52 anni prima di potere ospitare la manifestazione. I Giochi del 1960 furono splendidi per scenario e per contenuto agonistico. All'inatteso, anche se parziale, oscuramento degli USA nel settore delle gare brevi contribuì in parte anche l'Italia, che vinse i 200 m grazie al ventunenne Livio Berruti, il quale eguagliò due volte il primato mondiale (20,5″), prima in semifinale e poi in finale. Sempre sul versante dello sprint, femminile però, si stagliò netta la figura di Wilma Rudolph, un'agilissima americana che vinse con suprema autorevolezza 100 e 200 m.
Nel 1960 si tenne a Santiago del Cile l'edizione inaugurale dei Giochi Ibero-americani. L'anno seguente entrò a far parte del programma della IAAF la Coppa Mondiale di marcia, svoltasi a Lugano. È in ricordo di questa première che gli addetti ai lavori sono soliti chiamarla Lugano Trophy.
I Campionati Europei del 1962, tenuti a Belgrado, valsero all'Italia due titoli, grazie a Salvatore Morale, primo nei 400 m ostacoli, e ad Abdon Pamich, vincitore dei 50 km di marcia. Il primo coronò la sua fatica eguagliando con 49,2″ il primato mondiale.
Nel 1964 i Giochi Olimpici furono ospitati per la prima volta da una città asiatica, Tokyo. Il Giappone era subito apparso come la nazione-leader di quel continente, grazie soprattutto ai suoi saltatori e ai suoi maratoneti. Fu quella l'ultima edizione in cui le gare di atletica si tennero su una pista convenzionale in tennisolite. Poco dopo si ebbe l'introduzione del materiale sintetico, che doveva ben presto rivelarsi più veloce e meno soggetto ad alterarsi in relazione alle condizioni atmosferiche. Il cronometraggio ufficiale continuava a esser quello manuale (al decimo di secondo), ma accanto a esso veniva da tempo usato come supporto quello elettronico (al centesimo di secondo), più esatto perché azionato da un congegno automatico sia alla partenza sia all'arrivo. In relazione a questi due fattori, assunsero grande rilievo i tempi ottenuti a Tokyo dall'americano Bob Hayes, che vinse i 100 m in 10,06″, dopo aver corso in 9,91″ in semifinale, sia pure con l'aiuto di un forte vento (ufficialmente i tempi furono annunciati nella vecchia versione 'manuale' come 10,0″ e 9,9″). L'edizione di Tokyo registrò prodezze senza precedenti. Altro grande protagonista di quei Giochi fu il neozelandese Peter Snell, che vinse 800 e 1500 m, doppietta che non era più stata ripetuta dopo la prestazione del britannico Albert Hill ai Giochi del 1920. Germania Federale e Repubblica Democratica Tedesca scesero di nuovo in campo con una squadra unificata, per la prima volta scelta sulla base dei trials. L'onore dell'atletica azzurra fu salvato una volta di più da un marciatore, Abdon Pamich, primo nei 50 km. Salvatore Morale conquistò la medaglia di bronzo nei 400 m ostacoli.
Nella seconda metà degli anni Sessanta il calendario internazionale continuò ad arricchirsi di nuove manifestazioni. Nel 1965 si tennero a Brazzaville i primi Giochi Africani, rassegna di un continente destinato presto a emergere ai più alti livelli nel settore mezzofondo/fondo. Nello stesso anno fu lanciata una competizione per squadre nazionali, la Coppa Europa per nazioni. Nella prima edizione, tenuta a Stoccarda e intitolata al suo ideatore, l'italiano Bruno Zauli, l'URSS vinse per un solo punto (86 a 85) davanti alla Germania Federale. Il regolamento della Coppa Europa prevede che ogni nazione concorra con un solo uomo per gara. Vige una classifica a punti, che alla fine si riassume naturalmente in una classifica generale (l'Italia otterrà il miglior piazzamento nel 1999 a Parigi, con un secondo posto in campo maschile dietro la Germania).
La IAAF diede finalmente un riconoscimento al fenomeno dell'atletica invernale al coperto, che aveva avuto i suoi natali negli Stati Uniti nella seconda metà del 19° secolo. In Europa, l'attività indoor, che si svolgeva in ambienti più angusti di quelli disponibili all'aperto, aveva un certo rilievo solo in Germania. Con il riconoscimento della IAAF fu stabilita la misura standard per la circonferenza delle piste indoor: 200 m, ossia la metà rispetto alle gare all'aperto. Un'altra regola importante venne fissata rispetto alle curve che al coperto sono sopraelevate con pendenza dall'interno verso l'esterno. Disco, martello e giavellotto sono generalmente esclusi dal programma indoor per mancanza di spazio. Nel 1966 si tennero a Dortmund i primi Giochi Europei indoor, che già nella seconda edizione del 1970 a Vienna presero il nome di Campionati Europei indoor.
Nel 1966 i Campionati Europei si svolsero a Budapest e le due Germanie vi parteciparono con squadre distinte. L'Italia ebbe tre belle vittorie, con Eddy Ottoz nei 110 m ostacoli, Roberto Frinolli nei 400 m ostacoli e Abdon Pamich nella marcia lunga.
Nel 1967 si tenne a Montreal il primo match fra continenti: America-Europa. La serie peraltro si esaurì dopo il secondo, tenuto nel 1969 a Stoccarda.
I Giochi Olimpici del 1968, assegnati a Città del Messico, riservarono al mondo dell'atletica nuove scoperte. Per la verità già in occasione dei Giochi Panamericani del 1955 si era potuto constatare come l'altitudine della capitale messicana (2300 m sopra il livello del mare) influisse sulle prestazioni: si erano infatti registrati risultati sorprendentemente buoni nell'area delle prove anaerobiche (quelle che si svolgono indipendentemente dalla disponibilità di ossigeno), come per es. le gare veloci e i salti orizzontali, a causa dell'aria rarefatta di montagna. Per la stessa ragione, tuttavia, le prove aerobiche, come le corse lunghe, erano state fortemente condizionate dallo scarso ricambio di ossigeno. I Giochi Olimpici del 1968 confermarono ampiamente le due tendenze. Le gare brevi ‒ corsa e salti orizzontali ‒ fecero registrare nuovi primati mondiali in gran copia. Su tutti svettò quello dell'americano Bob Beamon nel salto in lungo ‒ un balzo di 8,90, ben 55 cm oltre il mondiale di allora. Nel salto triplo il limite mondiale fu superato quattro volte da un trio del quale faceva parte anche l'italiano Giuseppe Gentile, finito poi terzo. Nella corse lunghe i tempi risultarono invece al di sotto della norma e gli atleti abituati a correre solo in pianura ne soffrirono in modo particolare. Più a loro agio, perché nati e cresciuti per lo più in alta montagna, etiopi e kenyoti, che in seguito tuttavia si sarebbero confermati dominatori anche in pianura. Degno di nota il quarto successo consecutivo del discobolo americano Al Oerter.
I Campionati Europei, svoltisi fino al 1966 ogni quattro anni, conobbero da quell'edizione in poi diverse oscillazioni, prima di riassumere nel 1974 la cadenza quadriennale. Nel 1969 si tennero ad Atene e furono forse i più 'caldi' nella storia della manifestazione, non solo per le condizioni climatiche ma anche per un caso sorto fra le due Germanie, presentatesi con squadre distinte. La Repubblica Federale aveva selezionato Jürgen May, un mezzofondista emigrato dalla Repubblica Democratica poco più di due anni prima. La IAAF non lo accolse fra i concorrenti perché non erano ancora trascorsi i tre anni di residenza nella patria di elezione, prescritti come minimo necessario dalla federazione internazionale. La dirigenza sportiva della Repubblica Federale non accettò il verdetto e decise di ritirare la sua squadra dai campionati, facendo eccezione solo per gli staffettisti "come segno di rispetto verso gli ospitanti greci". L'Italia colse un bel successo con Eddy Ottoz, primo nei 110 m ostacoli, e tre terzi posti con Erminio Azzaro nell'alto, Aldo Righi nell'asta e Paola Pigni nei 1500 m, distanza nuova nel programma femminile.
La successiva edizione dei Campionati Europei seguì a breve scadenza, nel 1971 a Helsinki. I finlandesi poterono rinverdire gli allori del passato grazie a Juha Väätäinen, che arrivò primo nei 5000 e 10.000 m. Janis Lusis, lettone dell'URSS, vinse per la quarta volta il titolo del giavellotto.
I Giochi Olimpici del 1972 si tennero a Monaco di Baviera. L'edizione fu funestata dall'assalto al quartiere degli atleti israeliani da parte di un manipolo di terroristi palestinesi. Il dramma si concluse con un conflitto a fuoco fra terroristi e polizia che costò la vita a 12 innocenti. Qualcuno propose di sospendere i Giochi in segno di lutto, ma dopo una 'tregua' di poche ore il CIO decise che le gare dovessero riprendere regolarmente. Fra i protagonisti, si distinsero in particolare Valeri Borzov (URSS), primo sprinter europeo a realizzare la doppietta 100/200 m, e Lasse Viren (Finlandia), vincitore dei 5000 e 10.000 m. Nella gara più lunga Viren ottenne un nuovo primato mondiale, malgrado una caduta occorsagli poco prima di metà gara. L'Italia conquistò due medaglie di bronzo con il ventenne Pietro Mennea nei 200 m e con Paola Pigni nei 1500 m.
Negli anni Settanta il mondo dell'atletica registrò due novità importanti. Negli Stati Uniti sorse per iniziativa di Mike O'Hara un'organizzazione di professionisti l'ITA (International track association): ebbe vita breve (1972-76) ma palesò una tendenza destinata ad affermarsi di lì a non molto tempo nell'ambiente dell'atletica ufficiale. Nel 1975 la IAAF inserì nel suo regolamento una regola in base alla quale venivano sospesi dall'attività gli atleti che risultavano positivi a esami antidoping, soprattutto relativamente agli steroidi anabolizzanti.
Nel 1974 lo Stadio Olimpico di Roma tornò a ospitare la grande atletica con i Campionati Europei. Pietro Mennea diede prova delle sue accresciute capacità vincendo i 200 m e finendo secondo nei 100, oltre a contribuire all'argento della staffetta 4x100. Pippo Cindolo nei 10.000 m e Sara Simeoni nel salto in alto vinsero la medaglia di bronzo. In generale i risultati di maggior rilievo vennero dal settore femminile, che faceva registrare una fase di grande ascesa.
Fra il 1976 e il 1984 i Giochi Olimpici caddero nella morsa dei boicottaggi politici. Non è in realtà sorprendente che le Olimpiadi ‒ spettacolo sovrano nello scenario dello sport mondiale, accompagnato da una risonanza eccezionale ‒ fossero suscettibili di essere usate da movimenti di varia ispirazione per dimostrazioni e proteste. Nel clima di guerra fredda e di lotta contro la segregazione razziale divennero anche oggetto di manovre politiche. Il primo boicottaggio organizzato in grande stile colpì l'edizione del 1976 a Montreal, quando 22 paesi africani oltre alla Guyana ritirarono le loro squadre dai Giochi, quasi all'ultimo momento, in segno di protesta per la presenza della Nuova Zelanda, 'rea' di aver intrattenuto rapporti sportivi (una tournée di una squadra di rugby) con il Sudafrica, nazione che a causa della politica di apartheid era stata esclusa dai Giochi fin dal 1964. Sebbene privati di atleti africani di primo piano, soprattutto nel mezzofondo/fondo, i Giochi di Montreal offrirono un imponente complesso di risultati, compresi nove primati del mondo. Il cubano Alberto Juantorena mise a segno la prima doppietta 400/800 m, ottenendo sulla maggior distanza un nuovo primato mondiale, 1′43,50″. Il finlandese Lasse Viren seppe ripetere il doppio successo del 1972 sui 5000 e 10.000 m, impresa mai riuscita prima a un fondista e che non sarebbe più stata replicata. L'Italia conquistò una medaglia d'argento, con Sara Simeoni nel salto in alto.
Durante i Giochi di Montreal l'olandese Adriaan Paulen, che in gioventù era stato un ottimo specialista della velocità prolungata, fra l'altro conquistando un primato mondiale di 1′03,8″ per i 500 m nel 1924, divenne il terzo presidente nella storia della IAAF. Al congresso della IAAF del 1976 fu deciso che da allora in poi non sarebbero stati più omologati come primati mondiali i tempi ottenuti sulle distanze in yards, fatta eccezione per il miglio (= m 1609,35). L'anno successivo la IAAF rese obbligatorio il cronometraggio automatico al centesimo di secondo per l'omologazione dei tempi ottenuti sulle brevi distanze, fino ai 400 m compresi.
I Campionati Europei del 1978 si tennero a Praga. L'Italia ebbe in quell'occasione tre protagonisti. Pietro Mennea vinse con autorità i 100 e 200 m, poi disputò anche le due gare a staffetta ‒ per un totale di dieci corse (fra batterie e finali) nello spazio di sei giorni. Venanzio Ortis terminò secondo nei 10.000 m e vinse poi i 5000 in un finale da cardiopalma: meno di 3 decimi di secondo fra il primo e il quarto. In campo femminile Sara Simeoni vinse il salto in alto, eguagliando con 2,01 m il primato mondiale che già le apparteneva.
Anche i Giochi Olimpici del 1980, tenuti a Mosca, risentirono pesantemente dei condizionamenti politici. Le truppe sovietiche avevano attaccato l'Afghanistan e il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, si fece promotore del boicottaggio ai Giochi, incontrando il consenso del Comitato olimpico americano che decise di aderire alla proposta. Uguale indirizzo seguirono altri paesi dell'Alleanza Atlantica, ma non l'Italia e la Gran Bretagna i cui Comitati olimpici non si allinearono alla linea suggerita dai rispettivi governi e inviarono le squadre ai Giochi. La lista dei paesi che boicottarono la manifestazione comprese dunque Stati Uniti, Germania Federale, Kenya, Giappone, Canada e Nuova Zelanda. Malgrado queste importanti assenze, non mancarono i primati mondiali, specialmente nel settore femminile nel quale URSS e Germania Democratica erano le potenze dominanti del tempo. L'Italia ebbe la sua buona parte di gloria, con tre medaglie d'oro: Pietro Mennea nei 200 m, Maurizio Damilano nei 20 km di marcia e Sara Simeoni nel salto in alto; vi fu anche una medaglia di bronzo nella staffetta 4x400 degli uomini.
In occasione della Coppa del Mondo del 1981, svoltasi a Roma, fu eletto presidente della IAAF ‒ il quarto in ordine di tempo ‒ un italiano, Primo Nebiolo. Industriale, sempre vicino al mondo dello sport, già presidente della FIDAL e della FISU (Federazione internazionale dello sport universitario), persona pragmatica e dinamica, a volte autocratica, ebbe un grande impatto sulla IAAF, che nei diciotto anni del suo mandato conobbe molte più novità di quante ne avesse viste dalla sua fondazione in poi. Legò la federazione a sponsor del mondo degli affari e della televisione e questo gli permise di arricchire notevolmente il calendario internazionale, anzitutto nel 1983 con l'istituzione di Campionati Mondiali. Questi nuovi legami gli consentirono inoltre di devolvere una parte dei nuovi proventi a favore dell'organizzazione dell'atletica nei paesi emergenti.
Nel 1982 i Campionati Europei si svolsero ad Atene, che già li aveva ospitati nel 1969. Teatro della manifestazione fu un nuovo grande impianto, che i greci denominarono Olympic Stadium, tanto per non nascondere il loro sogno di ospitarvi quanto prima anche i Giochi quadriennali. La rassegna continentale del 1982 offrì gare di alto tono agonistico e ricche di ottimi risultati, ivi compresi diversi primati mondiali. L'Italia portò a casa cinque medaglie, fra le quali l'oro di Alberto Cova nei 10.000 m.
Nel 1983 debuttarono dunque i Campionati del Mondo. A differenza di altri sport che avevano da tempo i loro mondiali, l'atletica li acquistò così tardi semplicemente perché il suo regolamento considerava già tali i Giochi Olimpici quadriennali, di cui era stata fin dal principio lo sport faro. Ma con la crescita della IAAF come entità economica l'istituzione di campionati mondiali propri appariva ormai necessaria. L'edizione inaugurale si tenne a Helsinki, capitale di una nazione, la Finlandia, assai ricca di tradizioni atletiche. Nell'epoca in cui i Giochi Olimpici erano presi nella morsa dei boicottaggi politici, questa rassegna autonoma si rivelò subito utilissima, perché vi parteciparono ben 153 nazioni, con un totale di 1572 atleti. E il successo fu pieno sotto tutti i punti di vista. L'Italia vinse tre medaglie, ancora con Alberto Cova come 'portatore d'oro'. L'americano Carl Lewis fu la stella dei Campionati con tre medaglie d'oro, vinte nei 100 m, nel lungo e nella staffetta 4x100.
Con i Giochi Olimpici del 1984 a Los Angeles riprese purtroppo il perverso gioco dei boicottaggi. Stavolta fu il turno dei paesi europei dell'Est, che decisero di astenersi dal viaggio in California. Ufficialmente si disse che questa decisione era stata dettata da motivi di sicurezza, ma nel parere dei più si trattò di una rivalsa per il boicottaggio dei Giochi di Mosca 1980 da parte degli americani. Vennero pertanto a mancare le squadre dell'URSS e della Germania Democratica, nonché quelle dei loro alleati, con la sola eccezione della Romania, che preferì esser presente. Con simili assenze, non poche gare, soprattutto femminili, risultarono depauperate, così come era accaduto nel 1980 per l'assenza degli USA e dei loro alleati. Malgrado ciò, il livello generale dei risultati fu molto buono. Carl Lewis si consacrò come 'il nuovo Owens'. Vinse quattro medaglie d'oro, come l'eroe dei Giochi di Berlino 1936 e proprio nelle stesse gare: 100, 200 m, lungo e staffetta veloce. L'Italia ebbe il suo più florido raccolto (sette medaglie, fra cui tre d'oro), grazie soprattutto al momento particolarmente favorevole di alcuni suoi atleti, ma in parte anche per l'assenza dei grandi campioni russi e tedeschi orientali. Alberto Cova vinse i 10.000 m, completando una triade straordinaria (Europei/Mondiali/Olimpiadi) nell'arco di tre anni consecutivi. Anche Alessandro Andrei (peso) e Gabriella Dorio (1500 m) ottennero l'oro.
L'atletica internazionale, al di là dei 'cardini' costituiti dai grandi eventi 'globali' si andava ormai articolando in una vasta serie di altre manifestazioni che si estendevano fino a coprire ogni area geografica del pianeta e ogni settore di questo sport. Nel 1985 fu lanciato il Grand Prix IAAF-Mobil, una serie di meeting di alto bordo, nei quali venivano messi in palio premi in denaro per i protagonisti. Con l'istituzione di questi prestigiosi incontri a invito, riservati naturalmente ai più forti atleti delle varie specialità, la IAAF entrò nell'era del professionismo, anche se decise di rimuovere dalla sua sigla la 'A' che stava per amateur solo nel 2001.
Il 1986 vide la nascita di un'altra importante rassegna: i Campionati Mondiali juniores, riservati agli atleti al di sotto dei 20 anni. L'edizione inaugurale si tenne ad Atene per ripetersi poi con cadenza biennale. Nello stesso anno si svolsero a Stoccarda i Campionati Europei. Ottimo il bilancio dell'Italia, con dieci medaglie, fra cui due ori: Stefano Mei nei 10.000 m (con Alberto Cova secondo e Salvatore Antibo terzo) e Gelindo Bordin nella maratona.
L'atletica indoor ebbe i suoi primi Campionati Mondiali nel 1987 a Indianapolis. Questo tipo di attività aveva a quel punto una sua stagione regolare, anche se di formato molto ridotto rispetto a quella all'aperto. Nello stesso 1987 Roma ospitò la seconda edizione dei Mondiali estivi. Fu una festa per molti aspetti memorabile e di grande livello agonistico. Due i nuovi primati mondiali, nati nel giro di un'ora: 9,83″ del canadese Ben Johnson nei 100 m e 2,09 m della bulgara Stefka Kostadinova nel salto in alto femminile. Il primo di questi fu cancellato dall'albo della IAAF molti mesi dopo, quando Johnson risultò positivo a un test antidoping durante i Giochi Olimpici di Seul 1988 e successivamente confessò di aver fatto uso di prodotti proibiti per diversi anni. L'Italia vinse cinque medaglie, fra cui due d'oro con Francesco Panetta (3000 m siepi) e Maurizio Damilano (marcia 20 km). In un primo momento le medaglie italiane furono sei, ma poi la scoperta di un incredibile errore (per eccesso) nella misurazione di un salto in lungo di Giovanni Evangelisti ne determinò la retrocessione dal terzo al quarto posto.
Ai Giochi Olimpici del 1988, tenuti a Seul nella Corea del Sud, il boicottaggio d'ispirazione politica si ridusse finalmente a modeste proporzioni. Mancarono solo Cuba ed Etiopia, in segno di protesta per il rifiuto del CIO di assegnare una parte dei Giochi alla Corea del Nord. La manifestazione fu macchiata da un evento clamoroso che ebbe grande risonanza: il canadese Ben Johnson fu trovato positivo a una sostanza doping e quindi squalificato, dopo aver vinto i 100 m a tempo di primato mondiale (9,79″). Carl Lewis, giunto secondo, poté così fregiarsi della medaglia d'oro. In campo femminile svettò su tutte la velocista americana Florence Griffith-Joyner, con tre medaglie d'oro e una d'argento. L'Italia vinse tre medaglie, fra le quali una d'oro con Gelindo Bordin nella maratona, primo successo italiano nella specialità, ottant'anni dopo il drammatico epilogo della corsa di Dorando Pietri a Londra.
Il 'caso Johnson' ebbe il potere di dare una scossa all'ambiente dell'atletica. La IAAF riconobbe la necessità di rendere più frequenti e severi gli esami antidoping e all'inizio del 1989 introdusse novità nelle regole previste in materia, con la possibilità di condurre esami di controllo in qualunque luogo e momento. Nacquero i cosiddetti random tests eseguibili anche presso i campi di allenamento. Negli anni che seguirono affiorarono solo sporadici casi d'infrazione, ma sul finire degli anni Novanta e al principio del 21° secolo divennero anche più rari i nuovi primati, soprattutto nei lanci. È probabile che questo sia dovuto, almeno in parte, alla maggior frequenza ed efficienza degli esami antidoping.
I Campionati Europei del 1990 si svolsero a Spalato, Iugoslavia. Fu il capitolo più bello nella storia del fondo italiano, con la doppietta di Salvatore Antibo nei 5000 e 10.000 m e le vittorie di Francesco Panetta nei 3000 m siepi e di Gelindo Bordin nella maratona. Un oro fu vinto anche in campo femminile, da Annarita Sidoti nei 10 km di marcia. In totale l'Italia si aggiudicò 12 medaglie.
Il successo delle prime due edizioni dei Campionati Mondiali (1983 e 1987) era stato tale da indurre la IAAF a decidere di 'raddoppiare': dal 1991 la manifestazione ebbe frequenza biennale, anziché quadriennale. L'edizione del 1991 si svolse a Tokyo ed ebbe come protagonista l'americano Carl Lewis, che vinse i 100 m con un nuovo primato mondiale (9,86″), portò alla vittoria la 4x100 degli USA, stabilendo anche qui un primato mondiale (37,50″), e finì secondo nel lungo, dietro il connazionale Mike Powell. Quest'ultima gara fu la più bella e Lewis, con quattro salti fra 8,83 e 8,91 m, realizzò la miglior serie di sempre ma poi si vide precedere da Powell, che al quinto turno volò a 8,95 m, succedendo a Bob Beamon come primatista mondiale. L'Italia salvò l'onore con la medaglia d'oro di Maurizio Damilano nei 20 km di marcia. In seguito alla riunificazione delle due Germanie, a Tokyo gli atleti tedeschi apparvero per la prima volta con una sola squadra.
I Giochi Olimpici del 1992, tenuti a Barcellona, videro importanti novità nello schieramento delle squadre partecipanti. La scossa politica conseguente alla caduta del Muro di Berlino portò alla dissoluzione dell'URSS, le cui Repubbliche riemersero come Stati indipendenti. Mentre la nuova situazione andava consolidandosi, le autorità sportive di quella vasta zona del mondo decisero tuttavia di gareggiare per l'ultima volta con una squadra unificata. Solo i tre paesi baltici ‒ Estonia, Lettonia e Lituania ‒ furono pronti a schierarsi subito come entità indipendenti. Un'altra novità importante, con la cessazione dell'apartheid, fu la riammissione del Sudafrica nel CIO, dopo un'assenza dalla famiglia olimpica di oltre trent'anni. Fra i molti exploit di campioni, nell'edizione di Barcellona, fece spicco il nuovo primato mondiale dell'americano Kevin Young nei 400 m ostacoli: 46,78″, un tempo che sessantun anni prima non era stato ancora raggiunto sui 400 piani. Il suo connazionale Carl Lewis aggiunse altre due medaglie d'oro (lungo e staffetta 4x100) alla sua già cospicua collezione, grazie alla quale stava ormai guadagnando lo status di 'atleta del secolo'. L'Italia vinse una sola medaglia, di bronzo, con Giovanni De Benedictis nei 20 km di marcia.
Gia a partire dai Campionati Mondiali del 1993, svoltisi a Stoccarda, ognuna delle Repubbliche della ex URSS apparve con la propria squadra. La manifestazione ebbe gran successo di pubblico (51.500 persone già di mattina per le prime gare del decathlon) e fornì alcuni risultati eclatanti. L'Italia conquistò tre medaglie d'argento e una di bronzo.
Gli anni pari fra un'Olimpiade e l'altra erano ormai gli unici di ogni quadriennio a non avere in programma una manifestazione globale (Mondiali o Giochi Olimpici). Così nel 1994 l'evento di maggior rilevanza fu il Campionato Europeo, tenuto a Helsinki. La squadra italiana vinse otto medaglie, fra cui due d'oro, grazie ad Andrea Benvenuti (800 m) e Alessandro Lambruschini (3000 m siepi).
Nel 1995 i Campionati Mondiali si svolsero a Göteborg. Fra i risultati di maggior rilievo fece spicco la doppietta 200/400 m di Michael Johnson, la prima del genere nella storia della manifestazione. A questa l'americano aggiunse una terza medaglia d'oro contribuendo alla vittoria degli USA nella staffetta 4x400. L'ucraino Sergey Bubka, inarrivabile dominatore del salto con l'asta, vinse per la quinta volta il titolo di questa specialità. Sei furono le medaglie dell'Italia, fra cui due d'oro, grazie a Michele Didoni (marcia 20 km) e Fiona May (salto in lungo).
Nel desiderio di molti, i Giochi Olimpici del 1996 avrebbero dovuto aver luogo ad Atene, che esattamente un secolo prima aveva dato i natali ai primi Giochi dell'era moderna. Ma il CIO favorì per ragioni economiche la candidatura di Atlanta, città della Georgia. Fu comunque un'edizione magnifica dei Giochi, sotto tutti gli aspetti: per ampiezza di partecipazione, per affluenza di pubblico e per risultati. Michael Johnson seppe ripetere l'exploit dell'anno prima ai Mondiali di Göteborg, vincendo 200 e 400 m, impresa senza precedenti nella storia dei Giochi. Sulla distanza più breve, ottenne un primato mondiale di 19,32″, forse il tempo più sorprendente fin qui ottenuto in una prova veloce. Il suo connazionale Carl Lewis vinse il salto in lungo per la quarta volta, portando a nove la sua collezione di ori olimpici. L'Italia, invece, ottenne solo due medaglie d'argento e due di bronzo.
Atene, orfana dei suoi Giochi Olimpici, poté in qualche modo consolarsi come sede dei Campionati Mondiali del 1997 ai quali volle comunque dare un tocco olimpico, organizzando la cerimonia di apertura e l'arrivo della maratona nel vecchio Stadio Panatenaico. Per la prima volta nella storia di questa rassegna non ci fu alcun primato mondiale, ma non mancarono le gare di alto interesse. Gli incentivi erano cospicui: 60.000 dollari per il vincitore di ogni prova, 40.000 per il secondo e 20.000 per il terzo. Sergey Bubka, lo 'zar' dell'asta, ottenne in questa specialità il suo sesto successo consecutivo nell'arco di quattordici anni. Tre medaglie furono conquistate dall'Italia, tutte nel settore femminile, fra le quali un oro di Annarita Sidoti nella marcia.
Nel 1998 fu istituita la IAAF Golden League, la più alta classe del Grand Prix, di cui comprese i sei più importanti meeting, con un montepremi di 1 milione di dollari da dividersi fra gli atleti che avessero collezionato il maggior numero di vittorie nelle loro prove. Le riunioni si svolsero a Oslo, Roma, Berlino, Zurigo, Bruxelles e Monte Carlo. Nel 1999 ne fu aggiunta una settima a Parigi.
Budapest, capitale di una nazione con buone tradizioni atletiche, ospitò per la seconda volta i Campionati Europei nel 1998. L'Italia si distinse particolarmente: nove medaglie, con un 'pieno' nella maratona, vinta da Stefano Baldini, seguito da altri due italiani. Nella marcia dei 20 km emerse Annarita Sidoti che si aggiudicò l'oro.
Nel 1999 Siviglia ospitò i Campionati Mondiali, che furono memorabili per il caldo intenso, con temperature spesso intorno ai 35 gradi. Michael Johnson, da diversi anni numero uno dei 400 m, colse finalmente il primato mondiale della distanza con 43,18″. Poi contribuì al successo degli Stati Uniti nella staffetta 4x400 e portò così a nove la collezione dei suoi 'ori' negli annali di questa manifestazione, uno in più rispetto al connazionale Carl Lewis. Quattro furono invece le medaglie vinte dall'Italia, di cui una d'oro grazie a Fabrizio Mori (400 m ostacoli). La medaglia d'argento di Ivano Brugnetti nei 50 km di marcia si tramutò in oro tre anni dopo, con la squalifica 'a posteriori' per doping inflitta al vincitore, il russo German Skurigin.
Nello stesso anno la città polacca di Bydgoszcz ospitò l'edizione inaugurale del Campionato Mondiale allievi under 18, che andava ad aggiungersi al Campionato mondiale juniores iniziato nel 1986.
Primo Nebiolo, il più dinamico fra i presidenti che la IAAF avesse mai avuto, morì a Roma, all'età di 76 anni, il 7 novembre 1999. Il senegalese Lamine Diack, il più anziano dei suoi vice, gli succedette come presidente ad interim. Verrà poi eletto presidente a tutti gli effetti nel 2001. Diack era stato campione di Francia di salto in lungo (7,63 m nel 1958) prima che il Senegal diventasse indipendente (1960). Successivamente aveva ricoperto cariche importanti nei quadri del nuovo sport africano.
Nel 2000 l'Australia, e con essa l'emisfero sud, ospitarono per la seconda volta i Giochi Olimpici, e la sede prescelta fu Sydney. In uno scenario meraviglioso, il concorso di pubblico raggiunse cifre record: da 85.000 a 97.000 nelle sedute mattutine e da 99.000 a 112.000 in quelle pomeridiane. I risultati, invece, furono complessivamente più modesti rispetto a quelli del 1996 ad Atlanta e, per la prima volta dal 1948 in poi, non furono registrati primati mondiali. L'Italia conquistò due medaglie d'argento con Nicola Vizzoni nel martello e Fiona May nel lungo femminile.
Nel congresso del 2001, in occasione dei Campionati Mondiali a Edmonton (Canada), la IAAF decise di rimuovere dalla sua ragione sociale la parola 'amateur' (dilettantistico) e la International amateur athletic federation, denominata così fin dalla sua nascita, divenne International association of athletics federations, lasciando dunque inalterata la sigla.
La rassegna di Edmonton non fornì alcun primato mondiale ma fu straordinaria per organizzazione e concorso di pubblico. Il tedesco Lars Riedel vinse il lancio del disco per la quinta volta in dieci anni. L'Italia riuscì a conquistare quattro medaglie, fra cui l'oro con Fiona May nel salto in lungo.
Monaco di Baviera ospitò nel 2002 un'eccellente edizione dei Campionati Europei, anche se il tempo fu inclemente in più occasioni, come nella giornata dei 10.000 m femminile, che l'inglese Paula Radcliffe vinse in 30′01,09″, nuovo primato europeo, malgrado la pioggia. L'Italia vinse quattro medaglie, tutte sul conto del settore femminile, con Maria Guida, splendida vincitrice della maratona.
Nel 2003 i Campionati Mondiali si sono svolti nell'imponente Stade de France di Saint-Denis, a nord di Parigi. Solo le gare di marcia hanno offerto nuovi primati mondiali confermando, fra l'altro, il buon diritto del polacco Robert Korzeniowski, dominatore dei 50 km, di esser considerato il più grande specialista nella storia di questa faticosa specialità. Per il resto, si sono avute molte gare avvincenti, con verdetti finali spesso sul filo del rasoio: un solo centesimo di secondo fra il primo e il quarto dei 100 m e 4 centesimi fra il primo e il secondo dei 5000 m. Il marocchino Hicham el Guerrouj, da 7 anni campione mondiale dei 1500 m, ha vinto di nuovo la sua specialità e poi ha mancato di un soffio (i suddetti 4 centesimi di secondo) l'oro dei 5000, nel tentativo di ripetere ‒ in tempi ben più difficili ‒ la famosa doppietta di Paavo Nurmi ai Giochi Olimpici del 1924. L'Italia ha conquistato tre medaglie: un insperato oro nell'asta maschile con Giuseppe Gibilisco, che nel corso della gara ha migliorato due volte, con 5,85 e 5,90 m, il primato nazionale; e due medaglie di bronzo, con Stefano Baldini nella maratona e Magdelin Martinez nel triplo femminile. A offuscare almeno in parte la manifestazione, è intervenuto il rilievo positivo all'esame antidoping ‒ peraltro da confermare ‒ per l'americana Kelli White, vincitrice dei 100 e 200 metri.
All'inizio del 21° secolo, lo scenario dell'atletica appare caratterizzato soprattutto dalla gran quantità di eventi, manifestazioni e impegni internazionali che si vanno via via ad aggiungere alle manifestazioni classiche. Parallelamente vanno sparendo gli incontri fra due o più nazioni, che per oltre mezzo secolo avevano dilettato gli appassionati europei. In questo senso solo Svezia e Finlandia sono riuscite a preservare la tradizione del loro celebre derby, nato nel 1925 a Helsinki e divenuto annuale a partire dal 1953. Tuttavia il mondo dell'atletica complessivamente ha tratto vantaggio dalla nuova impostazione, sicuramente più ricca e articolata, perché gli atleti di tutto il mondo hanno la possibilità d'incontrarsi ogni anno più e più volte, laddove un tempo campioni di diversi continenti si vedevano solo ogni quattro anni, ai Giochi Olimpici, e in pochissime altre occasioni (Adolfo Consolini e Fortune Gordien, i due maggiori discoboli del primo dopoguerra, dal 1948 al 1956 ebbero modo di fronteggiarsi direttamente non più di quattro volte).
di Giorgio Reineri
La IAAF è l'organismo che governa lo sport atletico in tutto il mondo, riunendo 210 Federazioni nazionali. Sotto la dizione 'atletica' sono comprese sia le discipline che si svolgono su pista, pedana e prato (track and field) all'interno di uno stadio, chiuso (indoor) o aperto (outdoor), sia quelle disputate attraverso campi, sentieri o su strada e cioè corsa campestre (cross country), corsa su strada propriamente detta (in particolare maratona e mezza maratona), marcia (50 km e 20 km) e, infine, corsa in montagna.
Il controllo di un'attività così vasta, praticata in tutti e cinque i continenti con il coinvolgimento di milioni di praticanti, necessita di un'organizzazione centralizzata capace di armonizzare, attraverso norme di comportamento standardizzate, società nazionali profondamente differenti sotto il profilo storico-culturale, sociale, politico e religioso. È questo il compito principale della IAAF, alla quale spettano anche altre mansioni, quali decidere le regole tecniche (raccolte nell'Official handbook, un insieme di 121 disposizioni, suddivise in circa 531 sub-regole e paragrafi) che presiedono allo svolgimento delle competizioni maschili e femminili; stabilire le gare ufficialmente riconosciute che faranno parte del programma dei Campionati del Mondo e dei Giochi Olimpici sia per gli uomini sia per le donne; ratificare la validità dei risultati e, in particolare, dei primati olimpici e mondiali (quest'ultimi distinti in assoluti e juniores, outdoor e indoor, che dopo la verifica dei documenti di gara e di antidoping sono proposti dal segretario generale al presidente della IAAF per la relativa firma e omologazione); accettare o respingere la richiesta di affiliazione di una nuova Federazione nazionale, controllando che effettivamente essa svolga attività atletica e che il suo statuto sia conforme alla 'costituzione' della Federazione internazionale; stabilire l'eleggibilità di un atleta, cioè il suo diritto a gareggiare, e decidere sotto le insegne di quale Federazione nazionale deve competere; fungere da supremo organo regolatore di eventuali dispute tra Federazioni nazionali, tra atleti e Federazioni nazionali, tra atleti, Federazioni nazionali e la stessa Federazione internazionale; garantire che non vi siano discriminazioni razziali, religiose, politiche o di sesso in atletica e che non esista nessuno di tali impedimenti per la partecipazione di un paese o di un atleta alle competizioni internazionali; cooperare con il comitato organizzatore dei Giochi Olimpici e assicurare che le prove atletiche nelle Olimpiadi si svolgano nel rispetto delle regole e sotto il controllo degli organi tecnici della IAAF; emanare, ma soprattutto far rispettare, le norme sull'antidoping; sviluppare la diffusione dell'atletica nel mondo con opportune azioni di promozione e, al tempo stesso, facilitarne la conoscenza tecnica attraverso corsi per allenatori, dirigenti e giudici di gara.
Organi della IAAF sono il Congresso, l'equivalente dell'Assemblea legislativa dei paesi a democrazia rappresentativa, al quale hanno diritto di partecipare tutte le Federazioni nazionali in regola con le norme e il pagamento dei diritti annuali d'affiliazione; il Consiglio (Council), formato da 27 membri di cui 21 eletti a maggioranza (tra i quali il presidente, 4 vicepresidenti e l'honorary treasurer) e 6 nominati dalle rispettive aree geografico-amministrative in cui è diviso il controllo della IAAF (Europa, Asia, Africa, Oceania, America Centro-Settentrionale e Caraibi, America Meridionale); il presidente, membro e capo del Consiglio, che ha speciali poteri, viene eletto dal Congresso a maggioranza e dura in carica quattro anni (la sua elezione avviene contestualmente a quella dell'intero Consiglio, che a sua volta coincide con l'edizione dei Campionati del Mondo precedente la disputa dei Giochi Olimpici). Per decisione intervenuta al Congresso di Edmonton del 2001 è stata sancita l'incompatibilità tra il ruolo di consigliere eletto e quello di segretario generale, che è un funzionario che prepara e partecipa alle riunioni del Consiglio, ma non ha diritto di voto.
Lo sviluppo del movimento atletico, anche dal punto di vista economico-imprenditoriale, ha comportato un aumento dei compiti giuridico-amministrativi della Federazione internazionale che ha dovuto ristrutturare la sua base organizzativa. Nel 1993, in seguito a una decisione votata nel Congresso di Stoccarda, la sua sede è stata trasferita da Londra nel Principato di Monaco. Attualmente vi lavora a tempo pieno uno staff di 55 persone che provengono da 15 diversi paesi e fanno capo a vari dipartimenti: Presidenza, Segreteria generale, Direzione generale, Competizioni, Comunicazione, Televisione, Marketing, Servizi amministrativi, Servizi per le Federazioni, Servizi antidoping, Servizi legali.
Il nuovo status economico-finanziario dell'atletica mondiale, accompagnato in parallelo dalla crescita dei guadagni di molti atleti, ha reso opportuno il mutamento del nome della Federazione da International amateur athletic federation in International association of athletics federations, decisione presa al Congresso di Edmonton 2001 su proposta del presidente Lamine Diack. Il cambiamento di nome è stato in realtà il punto di arrivo di un processo iniziato negli anni Ottanta e di cui è stato protagonista il quarto presidente della IAAF, l'italiano Primo Nebiolo. Durante la presidenza Nebiolo (1981-1999), che per predisporre progetti finalizzati alla modernizzazione della Federazione si servì di committees (Technical, Women's, Race walking, Cross country e Road running, Medical, Veterans), di commissions (Marketing, Competition, Development, Press, Television, Antidoping, Athletes, Finance) e di working groups (World athletics series, Circuit, Golden League), i primi eletti dal Congresso, gli altri di nomina del Consiglio o dello stesso presidente, l'atletica si è trasformata da attività dilettantistica in un 'prodotto' vendibile a caro prezzo sul mercato televisivo e delle sponsorizzazioni.
Dal 1981 al 1999 il bilancio annuale della Federazione è cresciuto da 50.000 a 50 milioni di dollari. Tale straordinario incremento fu dovuto alla capacità di Nebiolo di cogliere i segnali favorevoli dell'incipiente boom dello spettacolo sportivo, presentandosi sul mercato con un prodotto adeguato. L'idea fondamentale fu affiancare alla World Cup, l'unica manifestazione allora organizzata dalla IAAF, i Campionati del Mondo di atletica. Il progetto già esisteva, a Nebiolo toccò il compito di metterlo in atto, trovando i mezzi finanziari necessari a organizzare un evento che coinvolgesse gli atleti di tutto il mondo e avesse i risultati tecnici e l'ampiezza spettacolare e organizzativa dei giochi atletici nelle Olimpiadi. Il successo di pubblico, di risultati e di audience televisiva della manifestazione fu già palese alla prima edizione tenuta nel 1983 a Helsinki.
Confortati dal buon risultato dei Mondiali, Nebiolo e il Consiglio della IAAF decisero di implementare ulteriormente il programma di eventi, in modo che vi fossero gare ogni anno e per tutto l'anno, sia d'estate sia d'inverno. Nacquero così i Mondiali indoor, che ebbero una pre-edizione nel 1985 a Parigi-Bercy come Jeux mondiaux en salle e si disputarono per la prima volta in maniera ufficiale come IAAF world indoor championships dal 6 all'8 marzo 1987 nell'Hoosier Dome di Indianapolis (USA), susseguendosi poi ogni due anni, sino alla nona edizione del 2003 a Birmingham, Inghilterra (per evitare di far svolgere a distanza di pochi mesi Mondiali al coperto e all'aperto è stato deciso che a partire dall'edizione di Budapest del 2004 i Campionati indoor abbiano luogo ogni anno pari). Fu dato inoltre nuovo vigore ai Campionati del mondo di cross country, la cui prima edizione risaliva al 1973 a Waregem (Belgio) e che, con il passare del tempo, stavano divenendo un avvenimento sempre più seguito, in particolar modo dal 1981 quando avevano cominciato a parteciparvi i paesi dell'Africa orientale, specialmente Kenya ed Etiopia; fu messa in programma la gara juniores anche per le donne e infine, nel 1998, furono raddoppiati i giorni di competizione introducendo tanto per gli uomini quanto per le donne la disputa del 'cross corto', sulla distanza dei 4 km.
Alla lista dei campionati si sono aggiunte altre importanti manifestazioni, sino a formare l'insieme delle IAAF world athletic series, che comprende: World championships in athletics (le prime tre edizioni, dal 1983 al 1991 si disputarono ogni quattro anni; in seguito ogni due anni); World indoor championships in athletics (ogni due anni); World cross country championships (ogni anno); World youth championships, riservati agli under 18 (la prima edizione si è disputata nel 1999 e l'appuntamento è biennale); World junior championships (per gli under 20, biennali); World half marathon championships (annuali); Walking world cup (biennale); Grand prix final (annuale, in conclusione della stagione su pista); World cup in athletics (ogni quattro anni).
Per attuare un programma di siffatte dimensioni era naturalmente indispensabile disporre di ingenti entrate finanziarie, che vennero garantite vendendo, in un unico pacchetto, l'insieme delle competizioni ai network televisivi. Il primo contratto con l'EBU (European broadcasting union), stipulato per gli anni 1991-1995, portò nelle casse della IAAF 90 milioni di dollari. Agli inizi del Duemila il budget della Federazione trae i mezzi finanziari necessari alla vita e alla crescita del movimento atletico per il 65% dalle compagnie televisive, soprattutto EBU e network giapponesi, per il 25% dagli sponsor, per il 10% dal Comitato olimpico internazionale, attraverso la partecipazione agli incassi per i diritti televisivi e i diritti di marketing dei Giochi Olimpici. Anche in questo campo l'azione svolta da Nebiolo, come membro del CIO e presidente della IAAF, ma soprattutto in qualità di presidente dell'ASOIF (Association summer Olympic international federations), è stata determinante.
Un'altra importante iniziativa venne varata negli ultimi anni di presidenza Nebiolo: il potenziamento della rete dei meeting, cioè degli spettacoli atletici della durata di alcune ore che da sempre costituiscono l'innervatura delle competizioni atletiche. Sono ormai migliaia i meeting di atletica che si svolgono in ogni parte del mondo, con una frequenza che ‒ nella stagione all'aperto ‒ è quasi giornaliera. Alcuni di essi con il tempo hanno acquistato particolare prestigio e notorietà, sia per l'ottimo livello organizzativo sia per la partecipazione dei migliori campioni del momento e i conseguenti risultati tecnici, e sono seguiti da decine di migliaia di spettatori, a seconda della capienza degli impianti. L'influenza e la potenza, anche economica, degli organizzatori di alcuni di questi eventi ‒ i meeting di Zurigo e Bruxelles, per es., impegnano ogni anno un budget che si aggira attorno ai tre milioni di dollari ‒ misero in allarme Nebiolo che temeva potessero, presto o tardi, entrare in concorrenza con la IAAF stessa. Così nel 1998 Nebiolo decise di proporre a questi imprenditori di atletica, già uniti nel 'Golden Four' (Berlino, Bruxelles, Oslo, Zurigo), di consorziarsi con la IAAF e di dare vita alla 'Golden League'. Questo torneo atletico in sette tappe ‒ ai quattro meeting nelle città già citate si aggiunsero quelli di Parigi, Roma e Monte Carlo ‒ metteva in palio un milione di dollari tra gli atleti (uomini e donne) che, nelle rispettive specialità, fossero risultati imbattuti al termine delle sette competizioni. Nel frattempo la IAAF aveva acquistato dagli organizzatori i diritti televisivi per la trasmissione dei meeting e, attraverso complesse e lunghe trattative, li aveva rivenduti a un consorzio televisivo privato, facente capo alla francese Canal Plus, per 15 milioni di dollari per cinque anni (1998-2002). Nella riunione del Consiglio IAAF del novembre 2001 è stato deciso che Monte Carlo si sarebbe ritirata dalla Golden League ‒ mentre, con deliberazione presa alla fine del 2002, è stata confermata la partecipazione delle altre sei città ‒ per divenire sede stabile (almeno sino al 2005) della finale del Grand Prix, da quel momento denominata World athletics final, e organizzando in contemporanea il tradizionale Gala dell'Atletica, altra manifestazione ideata da Nebiolo, nei locali del prestigioso Sporting Club di Monte Carlo.
Per molti anni l'atletica mondiale non ha avuto alcuna regolamentazione, ovvero non esistevano norme emanate da un ente appositamente destinato a questa funzione. Nelle competizioni universitarie si applicavano le regole che governavano le gare tra atleti di Cambridge e Oxford o, in altri casi, dei college statunitensi. Ma con la nascita dell'Olimpiade moderna, all'interno della quale l'atletica costituiva lo sport principale sia per numero di partecipanti sia per il più largo seguito, diventò sempre più impellente la necessità di un regolamento accettato e rispettato da tutti, in Europa come in America, in Oceania come in Asia e Africa.
Così, nel maggio del 1911, per iniziativa di due svedesi appassionati dello sport atletico, J. Sigfrid Edström e Leopold Englund, furono inviate lettere d'invito individuali per partecipare ‒ in concomitanza con la celebrazione dei Giochi Olimpici di Stoccolma ‒ a un congresso inaugurale da tenersi alle cinque del pomeriggio del 17 luglio 1912 nella capitale svedese. L'agenda, come indicato nella lettera inviata da Edström e Englund, era principalmente incentrata su questi punti: redigere e accordarsi sulle regole e sulla regolamentazione delle competizioni internazionali; predisporre la registrazione di tutti i record mondiali, olimpici e nazionali in un apposito registro da tenersi in un ufficio centrale; stabilire la reale interpretazione della parola amateur da applicarsi per tutte le competizioni internazionali. All'invito risposero i delegati di 17 paesi: Australia, Austria, Belgio, Canada, Cile, Danimarca, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Ungheria, Norvegia, Russia, Svezia, Stati Uniti d'America. A questo congresso, che fu considerato il primo della nascente IAAF, cosicché tutti i seguenti vennero numerati di conseguenza, Edström fu eletto presidente e il suo connazionale Kristian Hellström segretario onorario. La discussione che seguì si incentrò subito sul come varare un'organizzazione internazionale, con il compito di coordinare la pratica dell'atletica in tutto il mondo. Ovviamente, proprio lo spettacolare successo dei Giochi di Stoccolma, e in particolar modo dell'atletica ‒ largamente dominatrice su ogni altra disciplina ‒ aveva ancor più fatto avvertire questa esigenza. I delegati decisero quindi di affrettare i tempi, dandosi appuntamento l'anno seguente a Berlino per procedere decisamente sulla strada dell'integrazione.
Il secondo congresso ebbe dunque luogo nella capitale tedesca, il 20-23 agosto 1913: in quell'occasione venne presentato e accettato il primo schema di costituzione della IAAF. I partecipanti, 27 delegati in rappresentanza di 16 paesi, provvidero anche a confermare l'elezione di Edström come presidente della IAAF e di Hellström come segretario onorario, ed elessero altri cinque membri del primo Consiglio: Pierre Roy (Francia), Carl Diem (Germania), la cui importanza nel movimento olimpico e nell'organizzazione dei Giochi di Berlino del 1936 sarebbe stata enorme, Szilard Stankovits (Ungheria), Percy Fischer (Gran Bretagna), James Sullivan (Stati Uniti). L'importanza del secondo congresso è ancora oggi evidente: non soltanto perché venne costituito un organo centrale di governo, ma soprattutto perché furono varati alcuni principi che, per quasi settant'anni, avrebbero continuato a reggere il mondo dell'atletica. Su proposta del presidente Edström fu stabilito che la nuova organizzazione si sarebbe chiamata International amateur athletic federation, che i Giochi Olimpici sarebbero anche serviti come Campionati del Mondo di atletica e che la IAAF non avrebbe mai permesso a sportivi professionisti di competere. Tutte e tre le proposte vennero approvate all'unanimità dai delegati, che accettarono anche l'affiliazione, come membri, di 34 nazioni. Inoltre si varò una prima lista di record mondiali, nella quale figurarono sei record stabiliti prima del 1900: il più antico era stato ottenuto da Thomas Griffith (Gran Bretagna) nel 1870 a Londra, sulle 20 miglia di marcia, in 2h47′52″.
Nato a Göteborg il 21 novembre 1870, Edström aveva studiato molti anni a Zurigo, formandosi una solida base di cultura tecnica ed economica. Da giovane era stato anche un più che dotato atleta, capace di eccellere in vari sport: sprinter da meno di 11″ sui 100 m, aveva ottenuto sui 150 m con 16,4″ il primato nazionale svedese, che sarebbe rimasto imbattuto per molti anni. Oltre all'atletica, praticava anche il canottaggio e la lotta. Nel 1903, completati gli studi d'ingegneria, venne nominato direttore della Swedish electrical company in Vaersteras. A latere della professione, si impegnava quale dirigente sportivo: nel 1901 era già stato eletto presidente della Swedish athletic association ‒ raggruppando sotto l'egida di un unico organismo le varie sigle allora esistenti nel paese ‒ e, appena due anni dopo, fu tra i fondatori della Swedish national sport federation, l'ente che coordina tutto lo sport in Svezia. Contribuì poi, come coorganizzatore, al successo dell'Olimpiade di Stoccolma, e ciò ne rafforzò ulteriormente il prestigio. La nuova Federazione internazionale ‒ la cui sede era stata stabilità nella capitale svedese ‒ iniziava dunque la sua vita avendo alle spalle un personaggio capace di proteggerla nei primi difficili passi.
Edström fu inoltre avvantaggiato, rispetto ai dirigenti di altri Stati, dalla politica internazionale del suo paese, tradizionalmente neutrale. Cosicché, unendo il pacifismo svedese alla competenza di dirigente sportivo, venne cooptato nel 1920 fra i membri del Comitato internazionale olimpico.
Edström politicamente era un conservatore. La sua visione dello sport, e dell'atletica in particolare, era già stata ampiamente illustrata in occasione della nascita della IAAF, alla quale aveva imposto, nella stessa costituzione, la missione di difendere, in maniera rigida, l'idea del dilettantismo. Proprio questa rigidità di pensiero e quest'aristocratico concetto dell'agonismo lo portarono a proclamare, al congresso della IAAF del 1928: "Molte influenti persone ritengono che sia necessario pagare i lavoratori dello sport per il tempo che vi dedicano. Ma se noi accettiamo questa idea, se superiamo quella linea di divisione anche di poco, finiremo per scivolare sempre di più in questa melma e, alla fine, non saremo più capaci di tirarcene fuori. In verità, noi dobbiamo tenere sempre alta la bandiera del dilettantismo". In quest'ottica, Edström non ebbe alcun dubbio nel sollecitare il CIO a ratificare la squalifica impartita nel gennaio del 1913 dall'AAU (Amateur athletic union) statunitense a Jim Thorpe, dopo che un giornale rivelò che aveva giocato come professionista nel baseball nel 1909, guadagnando tra i 60 e i 100 dollari al mese. Il CIO decretò che a Thorpe fossero ritirate le medaglie d'oro del decathlon e dell'eptathlon vinte all'Olimpiade di Stoccolma nel 1912.
Anche in un campo diverso ‒ l'apertura della pratica agonistica alle donne ‒ Edström si distinse per atteggiamenti di grande chiusura che, d'altro canto, erano perfettamente in linea con il pensiero del barone de Coubertin e della stragrande maggioranza delle persone a cui allora era affidata l'organizzazione olimpica e dello sport in generale. Alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928 fu autorizzata la partecipazione delle donne alle gare dei 100 m, 800 m, 4x100 m, salto in alto e lancio del disco. Nella corsa degli 800 m, molte atlete collassarono dopo aver superato il traguardo: il conte Henri de Baillet-Latour, il presidente del CIO, e lo stesso Edström trassero spunto dall'episodio per decretare che le donne non potevano esser sottoposte a competizione di endurance, perché contrarie e pericolose per la fisiologia femminile. Immediatamente si procedette a togliere gli 800 m femminili dal programma olimpico e di conseguenza da quello delle competizioni atletiche ufficiali, limitando la partecipazione delle donne a gare non superiori ai 200 m. Gli 800 m tornarono a essere disputati alle Olimpiadi in occasione dei Giochi di Roma del 1960, 32 anni dopo Amsterdam, pur essendo la gara già riapparsa, nel contesto dei Campionati d'Europa di atletica, nel 1954 a Berna.
La perfetta identità di vedute tra l'establishment olimpico e il presidente della IAAF ne favorì la carriera: nel 1936, e cioè in concomitanza con la celebrazione delle Olimpiadi invernali a Garmisch-Partenkirchen e di quelle estive a Berlino, Edström divenne vicepresidente del CIO, per esserne poi nominato presidente nel 1946. Come cittadino di un paese non belligerante, appariva l'uomo adatto alla ricostruzione del Comitato internazionale olimpico dopo la guerra. La sua elezione portò ulteriore prestigio al movimento atletico.
Nell'elitario mondo della politica sportiva spettava al presidente uscente scegliere, e imporre, il suo successore. Così Edström, nel momento di assumere la presidenza del CIO, designò come nuovo presidente della IAAF David George Brownlow Cecil, lord Burghley. Rampollo di una delle più aristocratiche famiglie inglesi, nel 1931, a soli 26 anni, lord Burghley divenne membro del Parlamento; nel 1936 fu eletto presidente della British amateur athletic association, incarico che mantenne sino al 1976; nel 1948 fu nominato responsabile dei Giochi Olimpici di Londra. Alle spalle aveva una brillante carriera atletica: aveva partecipato alle Olimpiadi di Parigi del 1924, dove era stato eliminato nelle batterie dei 110 m ostacoli; era stato campione olimpico dei 400 m ostacoli all'Olimpiade di Amsterdam del 1928 e di nuovo nel 1932 a Los Angeles era entrato in finale nei 400 m ostacoli, chiudendo in quarta posizione. Per prepararsi convenientemente ai Giochi del 1932 si era preso un anno di permesso dal Parlamento: naturalmente nessuno scorse in ciò l'ombra di leso dilettantismo. Lord Burghley, difatti, rinunciò a ogni appannaggio, di cui peraltro non aveva alcun bisogno. Come atleta era un perfezionista (passava incredibilmente radente all'ostacolo, il che era tanto più rimarchevole in quanto all'epoca la barriera era fissa, e dunque sbattervi contro voleva dire non soltanto cadere, ma anche procurarsi delle lesioni). Oltre che sportivo di vaglia ed estroso rappresentante dell'aristocrazia britannica, lord Burghley, che sarebbe poi stato nominato marchese di Exeter, era anche un buon politico conservatore. Tra le altre cariche, ricoprì quella di governatore delle Bermuda per tre anni e, infine, fu membro della Camera dei Lord.
Dato il suo retroterra, si poteva pensare che il nuovo presidente della IAAF avrebbe portato alla Federazione e al movimento atletico, usciti impoveriti dalla Seconda guerra mondiale, un diverso dinamismo. Invece, lord Burghley si mise sullo stesso sentiero di fedeltà assoluta al più rigido conservatorismo che per 34 anni era stato percorso da Edström: nulla doveva venir ideato o organizzato o promosso dalla IAAF, il cui compito era soltanto quello di controllare che le attività delle Federazioni nazionali e degli atleti avvenissero nel rispetto delle regole emanate a partire dal 1913. L'unica riforma apportata nei trent'anni di presidenza di lord Burghley fu il cambio di sede della IAAF da Stoccolma a Londra.
La prima sede londinese della Federazione fu il piccolo appartamento di Holborn dell'unica impiegata, Patricia Fox Fitzgerald, che conservava i registri dei record, i verbali dei congressi e del Consiglio, i resoconti della scarna contabilità delle quote versate dalle Federazioni nazionali associate, con le quali peraltro si pagava il compenso. Honorary secretary-treasurer era E.J.H. 'Billy' Holt, della Lloyds Bank. Agli inizi degli anni Sessanta, il marchese di Exeter decise di incrementare l'organico e affiancò a Donald Pain (il successore di Holt), in qualità di assistente, Frederic Hodler. Fu allora affittato un ufficio di due camere a Windsor House; in seguito, la IAAF si spostò ‒ sempre in due camere ‒ nel South West di Londra, a Putney, dove rimase sino all'avvento di Nebiolo.
Le esigenze del secondo dopoguerra erano tuttavia numerose, soprattutto dal punto di vista della politica sportiva. Occorreva riunificare i movimenti atletici dell'Europa dell'Ovest e dell'Est; affrontare il problema della Germania, della Cina Popolare e di Formosa; confrontarsi con la crescente influenza delle donne nella società e con la loro legittima aspettativa di praticare atletica alla pari con gli uomini; guardare allo sviluppo sportivo dell'Africa; prendere posizione sull'apartheid in Sudafrica; andare incontro ai bisogni degli atleti, dando loro un riconoscimento finanziario per il tempo dedicato a migliorare prestazioni e spettacolo; inserirsi nel mercato sportivo e affrontare con decisione la concorrenza sempre più accesa mossa da altri sport, specialmente quelli professionistici. Su tutti i problemi legati, in qualche maniera, all'evoluzione del dilettantismo e alla possibilità di un profitto per gli atleti, alla diffusione e allo sviluppo della pratica atletica nel mondo, alla ricerca di mezzi finanziari per svolgere proficuamente l'attività di promozione e, soprattutto, a quelli dell'eguaglianza fra uomini e donne e fra razze diverse, la 'sordità' di lord Burghley fu assoluta e anche come membro del CIO la sua attività non si scostò dal più rigido conservatorismo, peraltro in perfetto allineamento con le posizioni dell'americano Avery Brundage, che aveva sostituito Edström alla guida dell'ente olimpico. Il problema delle 'due Cine' non venne risolto che negli anni Ottanta, grazie a due uomini nuovi della dirigenza sportiva mondiale: Juan Antonio Samaranch e Primo Nebiolo. Invece, lord Burghley dimostrò capacità e sensibilità nel portare a soluzione quello dell'Unione Sovietica: cominciò a lavorarvi nel 1948, in coincidenza con l'organizzazione dei Giochi di Londra di cui aveva la supervisione. Una delegazione sovietica fu accreditata all'Olimpiade e questo passo aprì la via alla partecipazione degli atleti dell'URSS all'Olimpiade di Helsinki del 1952. Lord Burghley mostrò uno spirito altrettanto aperto nei confronti della Germania: la divisione fra tedeschi dell'Est e dell'Ovest fu presto accettata, consentendo alle due squadre di competere separatamente.
Una questione nella quale l'atteggiamento di lord Burghley fu di chiusura totale fu quella dei voti a disposizione dei paesi membri nei congressi: non volle che fosse in nessun modo alterato il sistema per il quale alcuni paesi ‒ esattamente quelli fondatori della IAAF, o senior members ‒ potevano contare otto voti e altri sei, mentre alle Federazioni nazionali associate più di recente o più minuscole erano riservati solo due voti. L'intento era chiaro: non permettere che il potere passasse a uomini nuovi. Nel 1968 questo pericolo si fece più imminente con la proposta di far entrare nel Consiglio della IAAF i rappresentanti delle Associazioni di area (o continentali). Nonostante la netta opposizione del presidente la riforma fu accettata al Congresso del 1968. Non passò, invece, quella del sistema di voto. Analogamente fu drastica l'opposizione di lord Burghley all'istituzione dei Campionati del Mondo. La sua forte personalità fu invece utile nell'accrescere l'importanza della IAAF all'interno del CIO e nel riuscire anche a ottenere qualche minuscolo beneficio finanziario, con la suddivisione di una parte dei diritti televisivi olimpici tra le varie Federazioni internazionali sulla base degli spettatori presenti alle competizioni.
Il marchese di Exeter, ormai ultrasettantenne, decise di ritirarsi e di non presentare la sua candidatura al Congresso di Montreal del 1976. Il candidato alla successione era l'olandese Adriaan Paulen, già a lungo a capo dell'atletica europea e anch'egli ex campione. Appena diciannovenne, all'Olimpiade di Anversa 1920 era giunto settimo sugli 800 m; nel 1924 ai Giochi di Parigi, sui 400 m era riuscito a precedere, in un turno eliminatorio, il futuro campione olimpico Eric Liddell; infine ad Amsterdam, nel 1928, aveva gareggiato sui 400 e 800 m. Paulen era un vero gentleman sportivo, animato da autentico amore per l'atletica, e comprendeva che molto doveva essere innovato. Tuttavia, come molti del suo tempo, non mostrava una adeguata comprensione del problema razziale. Il 1976 fu un anno travagliato sotto questo aspetto: dopo una tournée in Sudafrica della nazionale di rugby neozelandese, l'Africa chiese che la Nuova Zelanda, che aveva violato l'embargo anche sportivo contro il paese dell'apartheid, fosse bandita dai Giochi. Il CIO rifiutò e gli Stati africani decisero di boicottare i Giochi di Montreal. Paulen non avvertiva come centrale il problema dell'apartheid e questo poteva rappresentare un grave impedimento per la sua elezione alla presidenza della IAAF. Si cercò di appianare la difficoltà organizzandogli un incontro, che si tenne nel 1975 a Montreal, con un'emergente figura della dirigenza sportiva africana, e in particolare dell'atletica, il senegalese Lamine Diack. L'esito fu positivo: Paulen fu convinto della necessità di difendere i diritti degli africani del Sudafrica contro la minoranza bianca e, eliminato quest'ultimo ostacolo alla sua candidatura, fu designato successore di lord Burghley.
La presidenza Paulen ebbe inizio con qualche innovazione. Innanzitutto vi fu la distinzione tra la carica di honorary treasurer e quella di secretary; Fred Holder venne rieletto tesoriere onorario, mentre segretario generale fu nominato l'inglese John Holt, naturalmente dipendente a tempo pieno. Inoltre Paulen, che nonostante l'età era un uomo molto attivo e che da tempo aveva capito che il mondo dell'atletica non poteva rimanere immobile di fronte al progredire degli altri sport, caldeggiò l'idea di organizzare i Campionati del Mondo e costituì con questo intento un gruppo di lavoro, il quale concluse che l'iniziativa doveva esser realizzata, avendo per prima sede Helsinki, nel 1983. Il problema era, semmai, di trovare i mezzi e mettere in piedi la complessa organizzazione. Un altro gruppo di lavoro aveva, intanto, studiato il problema dello 'status' di dilettante: anche in questo campo, le idee di Paulen erano innovative, così come lo fu la decisione di organizzare, sul modello della European Cup, la prima Coppa del Mondo, che ebbe la sua prima edizione nel 1977 a Düsseldorf.
Dietro a molte delle iniziative di Paulen cominciava a profilarsi, però, l'ombra di Nebiolo, che era stato eletto nel Consiglio della IAAF nel 1972. Nebiolo premeva perché la Federazione internazionale si modernizzasse rapidamente e nelle sue richieste si faceva forte dei successi che la FIDAL, la Federazione italiana che presiedeva dal 1969, aveva ottenuto anche grazie a un efficiente team guidato da un giovane dirigente romano, Luciano Barra. Nel 1981, Paulen compì 80 anni e fu sollecitato da Nebiolo a ritirarsi; Paulen stesso peraltro si rendeva conto che il dirigente italiano aveva ‒ anche per ragioni anagrafiche ‒ maggiori possibilità di mettere in atto i progetti allo studio. Durante il Congresso straordinario convocato a Roma in occasione della seconda IAAF world cup Paulen si dimise (restò, però, presidente onorario) e Nebiolo fu eletto al vertice della Federazione internazionale.
Nebiolo non poteva vantare i brillanti trascorsi atletici di lord Burghley o di Paulen e aveva origini sociali assai modeste. In compenso era uomo di inesauribile ambizione e di grande determinazione. Aveva cominciato a praticare l'atletica ai tempi del liceo a Torino. Poi, dopo la parentesi della guerra e della militanza con le formazioni partigiane che operavano nel Monferrato, si laureò in giurisprudenza e riprese l'attività agonistica, gareggiando per il Gruppo Lancia. Contribuì alla rinascita del Centro universitario sportivo di Torino e ne fu eletto presidente; in quella veste cominciò, insieme ad altri, a dar vita al movimento sportivo universitario internazionale, ponendosi tra i protagonisti della riunificazione ‒ sempre in campo sportivo universitario ‒ tra Est e Ovest, cioè tra studenti dei paesi a regime comunista e quelli occidentali. Partecipò alla fondazione della Federazione internazionale sport universitario e molto contribuì al suo sviluppo. Ne divenne presidente dopo il successo dell'Universiade di Torino del 1959, alla quale Nebiolo, tra l'altro, ottenne che partecipassero gli atleti della Cina Popolare, fino a quel momento esclusi (e lo sarebbero rimasti ancora per molto tempo) da tutte le competizioni internazionali a vantaggio di Formosa. L'insieme di queste esperienze e il gran numero di conoscenze e contatti stabiliti con autorità politiche e sportive di ogni paese del mondo gli furono di grande aiuto quando, ventidue anni dopo, approdò al comando della IAAF.
Imprenditore di buon successo nel campo dell'ingegneria civile, dinamico, pronto a rischiare, dotato di fiuto per gli affari, Nebiolo disponeva di una situazione economico-finanziaria personale assai solida che gli permetteva di dedicare tutto il tempo allo sport. Nella Federazione internazionale applicò le stesse strategie che aveva usato prima nella FISU e poi nella FIDAL. La prima mossa fu di trasferire l'organizzazione in una sede più prestigiosa, nell'elegante distretto londinese di Knightsbridge. Ma occorreva, soprattutto, trovare i mezzi finanziari per sostenere le spese crescenti. In questo ambito la capacità imprenditoriale di Nebiolo si palesò al meglio. I primi finanziamenti arrivarono dalla televisione, per l'edizione inaugurale dei Mondiali di atletica a Helsinki 1983. Altri furono forniti dall'agenzia di marketing internazionale ISL (International sport leisure), fondata da Horst Dassler, proprietario dell'Adidas, e che aveva come manager Jean-Marie Weber. Infine Nebiolo reclamò con Juan Antonio Samaranch, da poco diventato presidente del CIO, una più equa ripartizione dei proventi dei Giochi Olimpici. Intanto, come si è detto, si allungava la lista delle competizioni IAAF e diveniva sempre più fitto il calendario.
Riforme importanti vennero nel frattempo apportate all'organizzazione, fra le quali fu fondamentale la modifica del sistema di votazione in Congresso che fu approvata a Roma nel 1987 per acclamazione e in base alla quale a ciascun paese era assegnato un voto. Nebiolo aumentò inoltre progressivamente il numero dei membri del Consiglio e fece anche passare la regola che due seggi dovessero essere riservati alle donne. Al Congresso di Göteborg del 1995 vennero così elette la marocchina Nawal El Moutawakel, prima africana ad aver vinto una medaglia d'oro olimpica (tre anni dopo sarebbe divenuta la prima donna islamica a esser nominata membro del CIO) e la canadese Abby Hoffman.
I maggiori beneficiari del nuovo corso della IAAF furono gli atleti. Nel 1985 alla finale del Grand Prix a Parigi fu introdotto un premio di 2000 dollari al vincitore di ciascun evento, di 600 dollari al secondo classificato e di 400 dollari al terzo. Inoltre venne riconosciuto un premio d'ingaggio (participation fee) di 1000 dollari, oltre al pagamento delle spese. Non erano grandi cifre, ma rappresentavano comunque un primo passo. Ne seguirono rapidamente altri, come quando la IAAF riuscì ad avere come sponsor per il circuito del Grand Prix la compagnia petrolifera Mobil. Dal 1996 in poi, sponsor del Grand Prix divenne la IAAF stessa, che per la finale vi impegnò un montepremi di 3.700.000 dollari, con 50.000 dollari destinati al vincitore di ciascun evento, 100.000 dollari ai due vincitori ‒ un uomo, una donna ‒ della classifica generale (overall Grand Prix champions), e ricompense a scalare per tutti gli atleti partecipanti. Il passo più importante fu compiuto nel 1996 quando, seppur con qualche fatica, Nebiolo riuscì a fare accettare dal Consiglio l'introduzione del principio del price-money, ovvero del premio in denaro per tutti i vincitori e finalisti delle World athletics series. La rivoluzione ‒ che andò in vigore nel 1997 ‒ significava soprattutto riconoscere una forte ricompensa ai vincitori dei Campionati del Mondo, fatto che allarmò non poco il CIO per l''effetto domino' che si sarebbe potuto determinare nei confronti dei Giochi Olimpici. Già dal 1991, il Congresso di Tokyo aveva deciso di rendere biennali i Campionati del Mondo, ciò che da un lato accresceva le entrate della IAAF, ma dall'altro obbligava gli atleti a impegni agonistici sempre più intensi e ravvicinati. Proprio per evitare che qualche campione rinunciasse a partecipare al Mondiale di Stoccarda 1993, la IAAF era riuscita a ottenere che la Mercedes, sponsor della Federazione, offrisse un'auto a ogni vincitore, per quell'edizione e la successiva di Göteborg del 1995. La IAAF fu, dunque, la prima delle grandi Federazioni olimpiche a cancellare l'ipocrisia del dilettantismo, ammettendo che lo status dell'atleta era cambiato e recependo tale cambiamento nelle regole 14, 15, 16 e 53 della sua Costituzione.
Innovativo fu anche il programma relativo allo sviluppo delle attività nelle aree più povere del mondo. Cifre rilevanti ‒ nell'ordine di 5 milioni di dollari all'anno ‒ furono stanziate per l'assistenza agli atleti e la diffusione delle indispensabili conoscenze attraverso l'organizzazione di corsi per allenatori e giudici di gara. Dieci centri vennero aperti nelle varie aree continentali (quattro in Africa, due in Asia, e uno ciascuno per America Meridionale, America Centro-Settentrionale e Caraibi, Oceania ed Europa), per implementare questa promozione e, sul finire del 20° secolo, iniziarono a funzionare in Senegal, Kenya e a Bangkok centri di 'alto rendimento', cioè di allenamento.
Durante la presidenza Nebiolo i rapporti tra IAAF e CIO si strinsero ulteriormente, nonostante non mancassero i conflitti. Nel 1992, con un'iniziativa personale, Samaranch nominò Nebiolo membro del CIO 'per meriti speciali'. Parte di questi meriti consistevano nel lavoro svolto dal dirigente italiano per riportare il Sudafrica nel consesso sportivo mondiale, cosa che avvenne nella tarda primavera del 1992, dopo la liberazione di Nelson Mandela e i primi passi per lo smantellamento dell'apartheid, giusto in tempo perché il paese potesse partecipare alle Olimpiadi di Barcellona. Per accelerare questo importante avvenimento Nebiolo organizzò due meeting di atletica, che si tennero il primo a Dakar, nel Senegal, e il secondo a Johannesburg, in Sudafrica, in concomitanza con la Pasqua. Questi incontri videro per la prima volta, dopo molti lustri, atleti e dirigenti africani recarsi in Sudafrica.
Per parte sua il presidente della IAAF premeva perché il CIO riservasse uno speciale trattamento alla sua Federazione. Era evidente che il possente sviluppo impresso al movimento atletico mondiale era di beneficio all'intero CIO: uno sport atletico forte, capace di attrarre gioventù tra le sue fila e di promuovere lo spettacolo, costituiva infatti un richiamo importante per l'Olimpiade, come dimostravano la presenza di un folto pubblico alle competizioni atletiche dei Giochi (Los Angeles, Seul, Barcellona, Atlanta) e gli indici d'ascolto delle relative trasmissioni televisive. Fu questa la carta giocata da Nebiolo sul tavolo delle trattative per la suddivisione dei diritti olimpici tra il CIO e le Federazioni internazionali, nel corso delle quali giunse a minacciare il ritiro dell'atletica dai Giochi o quanto meno l'adozione di una prassi analoga a quella seguita dalla Federazione internazionale del calcio, che autorizza la partecipazione olimpica ad atleti sotto i 23 anni, con la scusa di voler proteggere i propri Campionati Mondiali. Dopo molte discussioni, si arrivò all'accordo che si sarebbe dovuto siglare prima delle Olimpiadi di Sydney 2000. Secondo la richiesta di Nebiolo alla IAAF sarebbe dovuto andare un totale di 30 milioni di dollari nel quadriennio 2000-2003. All'improvviso tuttavia, nel novembre del 1999, Nebiolo morì.
Solo pochi mesi prima, a Siviglia, durante il Congresso che precedeva la celebrazione dell'ottava edizione dei Campionati del Mondo, Nebiolo era stato riconfermato alla guida della IAAF per acclamazione. La stessa, unanime, riconferma nel ruolo di vicepresidente era stata ottenuta da Lamine Diack, al quale, per l'anzianità di servizio, toccava il ruolo di supplenza del presidente nel caso di assenza o d'impedimento di quest'ultimo. Alla notizia della morte di Nebiolo, Diack si recò immediatamente da Dakar a Monte Carlo per prendere il comando della Federazione. Si poneva, però, il problema se convocare un Congresso straordinario ‒ per procedere alla sostituzione di Nebiolo ‒ o se, al contrario, su deliberazione del Consiglio, Diack potesse assumere l'incarico di presidente ad interim.
Alla presidenza aspirava anche il segretario generale, l'ungherese Istvan Gyulai, che era anche membro del Consiglio, un doppio incarico di dubbia costituzionalità e al quale Nebiolo aveva acconsentito proprio per tenere Gyulai sotto controllo. La grande maggioranza dei consiglieri era però schierata con il vicepresidente e la transizione di potere avvenne, infine, senza particolari traumi. Il carattere stesso di Diack, un uomo politico abituato alla mediazione, era per il Consiglio una garanzia. Naturalmente, all'inizio vi furono delle difficoltà, anche perché Gyulai cercava con ogni mezzo di assumere la reale guida della Federazione, approfittando dell'inesperienza del nuovo presidente relativamente al lavoro quotidiano, unita alla sua non perfetta conoscenza degli aspetti politico-finanziari della IAAF e ai suoi impegni in Senegal, che lo obbligavano a lunghi periodi di assenza o a viaggi continui tra Dakar e Monte Carlo.
Ma in aiuto di Diack arrivò, con straordinaria tempestività, il presidente del CIO. Da sempre vicino al mondo dell'atletica e, come si è visto, molto legato a Nebiolo (al quale conferì, post mortem, la massima onorificenza olimpica), Samaranch rafforzò enormemente la posizione di Diack all'interno della IAAF proponendolo per la nomina a membro CIO alla prima assemblea dell'ente olimpico, già nel dicembre 1999. Si trattava di un evento del tutto eccezionale, reso possibile dalla convergenza di due fattori: il prestigio che la IAAF si era conquistata nel mondo, tanto alto da far apparire inimmaginabile che il suo leader non facesse parte del Comitato olimpico, e la stima personale che Diack raccoglieva nel mondo dello sport internazionale.
In effetti, Diack aveva tutti i titoli per accedere a quella posizione. Nato a Dakar nel 1933 da una famiglia della borghesia del Senegal, a quel tempo sotto amministrazione francese, aveva compiuto gli studi universitari a Parigi. Atleta di talento, era stato buon giocatore di calcio ma soprattutto saltatore in lungo: campione di Francia, con 7,63 m nel 1958, non aveva potuto partecipare alle Olimpiadi di Roma del 1960 a causa di un incidente. Aveva però preso parte alle Universiadi di Torino del 1959, dove aveva conosciuto Nebiolo. Ritornato in Senegal, aveva affiancato alla sua professione di ispettore delle imposte un'intensa attività in campo sportivo, come allenatore di calcio ‒ sino a occuparsi della direzione tecnica della nazionale ‒ e dirigente di atletica. Nello stesso tempo, vicino al partito socialista del presidente Leopold Senghor, era entrato in politica, divenendo membro del Parlamento, più volte ministro, sindaco di Dakar e, infine, presidente della Società delle Acque, la più importante azienda di Stato senegalese. Di pari passo cresceva la sua importanza nel mondo dello sport: presidente del Comitato olimpico senegalese, era stato tra i fondatori della African amateur athletic confederation, di cui fu nominato presidente nel 1973.
Il primo passo compiuto da Diack in qualità di presidente della IAAF era stato largamente preparato da Nebiolo: la firma dell'accordo con il CIO per la suddivisione dei diritti olimpici di Sydney. Tuttavia nel contratto definitivo la somma fu ridotta dai 30 milioni di dollari richiesti da Nebiolo a 22 milioni di dollari. Un'altra difficile trattativa per Diack ‒ alla quale già aveva lavorato Nebiolo ‒ fu il rinnovo del contratto con l'EBU per la cessione dei diritti di trasmissione televisiva delle IAAF World athletic series. In scadenza nel 2001, il contratto fu rinnovato per un periodo di quattro anni più quattro, a una cifra praticamente identica a quella spuntata da Nebiolo nella tornata precedente (circa 120 milioni di dollari per quadriennio).
Ma la vera sfida che Diack ‒ il cui mandato, affidatogli dal Congresso di Edmonton, è stato rinnovato per quattro anni nel Congresso elettivo del 2003, alla vigilia dei Campionati del Mondo di Parigi ‒ deve affrontare è quella di mantenere all'atletica il ruolo di protagonista nello sport mondiale che si è conquistata negli ultimi due decenni: una sfida da giocarsi sulla capacità d'iniziativa, sul modo di proporre lo spettacolo atletico, specie in televisione, sulla riorganizzazione del calendario delle competizioni e in particolare dei meeting che fanno parte del Grand Prix e della Golden League, con particolare attenzione a riportare a livelli sostenibili i costi ormai troppo lievitati. Ma, soprattutto, la sfida deve mirare a rimotivare i giovani, affinché tornino a seguire e praticare l'atletica. È essenziale al riguardo che siano proposti modelli positivi non macchiati dall'ombra del doping o da una esagerata avidità di guadagno. Era questa la visione che Nebiolo aveva cercato di affermare non soltanto con le imprese agonistiche dei campioni, ma anche con un'incisiva presenza politica sullo scenario mondiale: come è accaduto, per es., con il Meeting della Solidarietà, celebrato nel settembre 1996, a pochi mesi dalla fine di una devastante guerra, nello stadio Olimpico di Sarajevo, ricostruito da CIO e IAAF. La sfida è davvero importante. I Campionati del Mondo di Helsinki del 2005 e quelli di Osaka del 2007 diranno se sarà stato possibile vincerla.
di Giorgio Reineri
Nel Congresso della IAAF del 1968 fu approvata una modifica della Costituzione che intendeva assicurare la rappresentanza in seno alla Federazione internazionale delle associazioni continentali di area, favorendone allo stesso tempo la nascita in quei continenti che ne erano privi. La riforma era di notevole importanza perché dava all'atletica, anche sotto l'aspetto dirigenziale, quell'etichetta di universalità che già le apparteneva sui campi di gara per l'ampia partecipazione di paesi di ogni parte del mondo. Nel contempo la nuova normativa rispondeva alla sempre più sentita esigenza di decentramento, affidando alle associazioni continentali il compito di interpretare, anche sotto il profilo socioculturale, i bisogni e le sensibilità delle diverse aree.
La prima delle associazioni di area è stata la Confederazione dell'America del Sud. In seguito, fu creata in Europa la Commissione europea della IAAF. Attualmente le aree continentali riconosciute e organizzate nella IAAF sono sei: Africa, America CentroSettentrionale e Caraibi, America Meridionale, Asia, Europa, Oceania.
La Confederazione africana d'atletica (inizialmente CAAA, Confédération africaine d'athlétisme amateur; dal 2001 CAA, Confédération africaine d'athlétisme), alla quale aderiscono 53 paesi, fu fondata nel 1973, in occasione dei Giochi Africani di Lagos. Alla presidenza fu eletto il senegalese Lamine Diack, al tempo ministro dello sport del suo paese, e la sede fu stabilita a Dakar, capitale del Senegal. Nel 1974, al Congresso di Roma, la IAAF approvò lo statuto del nuovo organismo. Nel 1976 a Montreal, nel congresso che elesse Adriaan Paulen presidente della IAAF, tre dirigenti africani entrarono per la prima volta a far parte del Consiglio: Lamine Diack, eletto terzo vicepresidente; Hassan Agabani, sudanese, nominato dalla CAAA in rappresentanza dell'Africa; e Charles Mukora, keniota, eletto membro.
Negli anni Settanta l'atletica africana, che si stava mettendo sempre più in luce con campioni di grande livello, cominciò a organizzare competizioni in modo che i suoi atleti potessero esibirsi nel loro continente. Nel 1973 si tenne a Dakar il primo incontro Africa-Stati Uniti, che si replicò due anni dopo a Durham; nel 1977 una selezione africana partecipò alla prima edizione della Coppa del Mondo e nel 1979 vennero organizzati per la prima volta i Campionati africani di atletica, ai quali presero parte 23 paesi. Un momento critico si ebbe nel 1976, quando 22 nazioni attuarono il primo boicottaggio olimpico di grandi proporzioni e ritirarono le loro squadre da Montreal per protesta contro la presenza della Nuova Zelanda, colpevole di aver intrattenuto rapporti sportivi con il Sudafrica (la South African amateur athletic union venne espulsa dalla IAAF nel 1976, molto in ritardo rispetto al CIO che dal 1964 non aveva più invitato quel paese a partecipare alle Olimpiadi; finita l'apartheid, la rinnovata Federazione atletica sudafricana sarebbe stata di nuovo affiliata alla IAAF nel 1992). Nel 1983, per dare nuovo impulso all'organizzazione, venne istituita la carica di segretario generale, che fu affidata al senegalese Garang Coulibaly. Nel 1984 furono organizzati per la prima volta i campionati juniores ad Algeri; nel 1985 quelli continentali di cross a Nairobi. Con il decisivo sostegno di Nebiolo e il conseguente appoggio finanziario della IAAF, Diack poté poi realizzare il progetto di aprire centri di formazione permanente per l'atletica a Dakar, Nairobi, Il Cairo e Lisbona (per la difficile situazione politica in Angola), dedicati rispettivamente ai paesi africani francofoni, anglofoni, arabi e di lingua portoghese.
I problemi dell'atletica in Africa sono complessi e strettamente legati a quelli economici, politici e sociali. Ma è indubbio che questo continente rappresenti un'ineguagliabile riserva di talenti. Molti di loro ora si trovano costretti a emigrare in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e lì forniscono le nuove leve a tutti gli sport, non solo all'atletica. Garantire un progresso organizzativo all'Africa costituisce dunque per il presidente Diack un impegno primario.
La North America-Central America and Caribbean athletic association, della quale fanno parte 32 paesi, fu fondata nel 1988 a Porto Rico e riconosciuta dalla IAAF nel 1989. Comprende una delle aree più ricche al mondo di campioni e di tradizioni, spaziando dal Canada, dove nel 1884 fu fondata la Canadian amateur athletic union ed ebbero luogo i primi campionati nazionali (quelli femminili nel 1925), agli Stati Uniti, dove il New York athletic club fu fondato l'8 settembre 1868, fino ai Caraibi, poiché Giamaica, Trinidad e Tobago, Cuba, Panama, Messico, Haiti, Santo Domingo sono paesi nei quali l'atletica ha diffusione capillare e grande importanza anche sociale.
La gamma di competizioni in questa vasta area è antica e diversificata. La manifestazione più importante è rappresentata dai Pan American Games, i Giochi Panamericani, ai quali partecipano anche gli atleti dell'America Meridionale; furono organizzati per la prima volta a Buenos Aires, nel 1951, e inaugurati dall'allora presidente Juan Perón, nello stadio del River Plate, davanti a 100.000 persone. Le gare di atletica, centro del programma dei Pan American Games, furono dominate a lungo dagli Stati Uniti prima che i progressi di Cuba rendessero questa nazione un avversario di tutto rispetto.
Di notevole interesse, anche promozionale, sono i Central American and Caribbean games, limitati alle isole e ai paesi centrali dell'America Centrale, che furono ospitati per la prima volta a Città del Messico nel 1926.
Lo statuto e la struttura organizzativa della Confederación Sudamericana de Atletismo, che fu fondata nel 1918 e di cui fanno parte 13 paesi, vennero presi d'esempio dalla IAAF quando, nel 1968, decise di affiliare le organizzazioni continentali.
Una nazione sudamericana, il Cile, fu presente alla prima edizione delle Olimpiadi moderne nel 1896 ad Atene. Ma l'atletica aveva già da tempo una sua tradizione in America Meridionale: a Rio de Janeiro il primo meeting d'atletica aveva avuto luogo nel 1872. I primi campionati sudamericani vennero disputati dall'11 al 13 aprile 1919 a Montevideo e da allora si sono regolarmente susseguiti a distanza di due-tre anni. Un campionato non ufficiale, al quale fecero seguito altri otto campionati sempre non ufficiali, si era già tenuto nel 1918 a Buenos Aires. I primi campionati femminili ebbero luogo a Lima nel 1939. Il programma di gare si è successivamente andato arricchendo dei Campionati sudamericani juniores.
Fra le manifestazioni del continente vale la pena ricordare la Corrida di San Silvestro, una delle più antiche corse su strada del mondo, ideata dall'editore brasiliano Casper Libero nel 1925: si tiene ogni anno a San Paolo, in Brasile, con partenza poco prima della mezzanotte del 31 dicembre su un percorso di circa 8,5 km.
L'atletica in Asia ha radici antiche, se si considera che la prima Federazione nazionale venne fondata nel 1906, nello Stato di Perak, odierna Malaysia. Il Giappone è stato la prima nazione asiatica a partecipare alle Olimpiadi, nel 1912. Il primo atleta olimpico del continente fu tuttavia l'indiano Norman Pritchard che prese parte nella squadra della Gran Bretagna ai Giochi di Parigi del 1900, ottenendo la medaglia d'argento nei 200 m e nei 200 m a ostacoli. La prima medaglia d'oro fu vinta nel 1928 dal grande triplista giapponese Mikio Oda.
Lo statuto dell'Asian amateur athletic association, che raggruppa 44 paesi, venne approvato dalla IAAF durante il Congresso di Roma del 1974. L'anno precedente, a Marakina vicino a Manila, nelle Filippine, si erano disputati i primi Campionati Asiatici, che hanno cadenza biennale. Un problema è stato a lungo rappresentato dall'opposizione dei paesi musulmani alla partecipazione di Israele, tanto che la IAAF non riconobbe lo status di campionati continentali alle competizioni del 1979 e del 1981 proprio per il mancato invito a Israele. La questione fu infine risolta accettando la richiesta di Israele di affiliarsi all'European athletic association.
L'atletica moderna è nata in Europa e vi si è particolarmente sviluppata nei primi anni del 20° secolo. Tuttavia, la costituzione di un organismo che in via autonoma organizzasse l'attività agonistica continentale risale soltanto al 1932, quando all'interno della IAAF fu creata una Commissione Europea, il cui atto costitutivo fu firmato il 3 novembre dello stesso anno a Budapest. Uno dei principali fautori fu l'ungherese Szilard Stankovits, che pose innanzitutto l'accento sulla necessità di creare delle competizioni tra tutte le nazioni d'Europa.
I primi Campionati d'Europa si svolsero nel 1934, dal 7 al 9 settembre, a Torino, nel nuovo stadio comunale Mussolini. Vi parteciparono 23 nazioni per un totale di 226 atleti. Non vi presero parte la Gran Bretagna, che si sarebbe unita alle nazioni europee nel 1938, e l'URSS, che inviò una squadra soltanto al termine della guerra mondiale, nell'edizione di Oslo del 1946. Nell'edizione inaugurale venne battuto un record del mondo dal finlandese Matti Jarvinen nel lancio del giavellotto, con 76,66 m. Quattro anni dopo, nella prima edizione femminile, che si tenne a Vienna separatamente da quella maschile, fu l'italiana Claudia Testoni a migliorare, con 11,6″, il record del mondo degli 80 m a ostacoli. Dal 1946, la sede dei Campionati d'Europa diventò unica, per uomini e donne. I campionati continuarono a disputarsi ogni quattro anni, sino a quando la Commissione pensò di trasformarli in biennali: per questo, dopo Budapest 1966, si ebbe l'edizione del 1969 ad Atene seguita da quella di Helsinki nel 1971. Ma il progetto, per difficoltà finanziarie e organizzative, venne abbandonato e si ritornò, con l'edizione di Roma nel 1974, alla cadenza quadriennale.
Nel 1970 la Commissione Europea della IAAF ha preso il nome di EAA (European athletic association), e si è ristrutturata secondo il modello organizzativo della IAAF, prevedendo l'elezione di un presidente, di due vicepresidenti, di un tesoriere e di tredici membri del Consiglio. I paesi membri sono 49. Al Consiglio della EAA (così come a quello di tutte le altre associazioni continentali) ha diritto di partecipare, come membro ex officio, il presidente della IAAF.
Molte delle manifestazioni organizzate dalla EAA hanno costituito, soprattutto negli anni Settanta, il banco di prova di competizioni successivamente messe in cantiere dalla IAAF. Fra queste va soprattutto ricordata la Coppa Europa per Nazioni, ideata dall'italiano Bruno Zauli. Anche nell'istituzione delle gare indoor l'EAA ha anticipato di molti anni le decisioni e il calendario delle gare della Federazione internazionale: i primi European indoor games (che poi furono autorizzati dalla IAAF a chiamarsi European indoor championships) si disputarono difatti il 27 marzo 1966 a Dortmund; inizialmente annuali, divennero in seguito biennali, intervallandosi con gli IAAF world indoor championships. Un'altra importante iniziativa europea fu la creazione dei campionati juniores, che per la prima volta si svolsero, seppur non in via ufficiale, nel 1964 a Varsavia. Anche questi, a cadenza biennale, furono riconosciuti dalla IAAF come European championships for juniors dall'edizione di Lipsia del 1970. Nel 1973 fu organizzata la prima Coppa Europea di prove multiple (European cup of combined events); nel 1981 venne istituita la Coppa Europa di maratona. Un altro campionato, di più recente istituzione, è quello riservato agli 'under 23'. Ma con la creazione di un affollato calendario della IAAF, e soprattutto con la crescita politica e finanziaria della Federazione internazionale, la EAA ha visto progressivamente diminuire il suo ruolo di guida, che aveva esercitato a lungo non soltanto in Europa ma anche nell'intero movimento atletico mondiale.
La tradizione britannica ha ovviamente segnato lo sviluppo dell'atletica nel continente, in particolare in Australia e Nuova Zelanda. Il Sydney Harriers, il primo club atletico australiano, nacque nel 1872; la fondazione dell'Australian athletic union è del 1897, dieci anni dopo che il Nuovo Galles del Sud aveva creato la propria federazione, alla quale seguirono quelle degli altri Stati australiani: Victoria nel 1891, Queensland nel 1895, Tasmania nel 1902, South Australia nel 1905, Western Australia nel 1905. L'Australian women's athletic union nacque nel 1932, ma già nel 1928 le donne avevano potuto gareggiare nei 100 m ai Giochi Australiani. Lo sviluppo dell'atletica in Nuova Zelanda fu contemporaneo a quello dell'Australia: il Wellington amateur athletic club fu fondato, difatti, nel 1875 e già nel 1888 si tennero i primi campionati neozelandesi. La prima edizione femminile venne organizzata nel 1926, ma limitatamente alla gara delle 100 yards.
Più recente è l'affiliazione alla IAAF degli Stati più piccoli, alcuni peraltro diventati indipendenti relativamente da poco. Le isole Fiji, per es., aderirono alla IAAF nel 1949. L'Oceania regional group, del quale fanno parte 19 paesi, venne riconosciuto dalla IAAF, come federazione che governa l'atletica in quella parte di mondo, nel 1972, ma dei veri e propri campionati continentali di atletica non sono mai stati organizzati. L'attività, dunque, si svolge principalmente a livello nazionale, anche se non mancano competizioni internazionali che raggruppano alcuni paesi dell'Oceania, come i South Pacific games e i South Pacific championships, oppure, di maggior importanza, i Pacific conference games, la cui prima edizione si tenne a Tokyo nel 1969.
di Giorgio Reineri
Per quasi ottant'anni la IAAF ha combattuto non soltanto il professionismo, ma qualsiasi forma di indennizzo, rimborso spese o mancato guadagno che fosse offerta a un atleta in ricompensa del suo impegno agonistico. Molti furono gli atleti squalificati, nel corso del 20° secolo, per aver accettato un premio o un ingaggio in denaro. Fra i casi più celebri si possono ricordare quelli di Jim Thorpe (USA), il grande campione protagonista dei Giochi Olimpici di Stoccolma nel 1912; Jules Ladoumègue (Francia), mezzofondista che conquistò nel 1928 la medaglia d'argento nei 1500 m e fu squalificato alla vigilia dei Giochi di Los Angeles del 1932; Paavo Nurmi (Finlandia), l'inventore del mezzofondo moderno, praticamente imbattibile tra il 1920 e il 1931; Charles Hoff (Norvegia), primatista di salto con l'asta e mezzofondista; Gunder Haegg e Arne Andersson (Svezia), mezzofondisti, allievi di Goesta Olander, che stabilirono una serie di record del mondo tra il 1940 e il 1945; Wes Santee (USA) e Dan Waern (Svezia), anche loro corridori di mezzofondo, tra il 1954 e il 1960; Guy Drut (Francia), ostacolista, primatista del mondo e campione olimpico dei 110 ostacoli a Montreal 1976, e poi più volte deputato, ministro dello Sport e, infine, membro del CIO.
L'inversione di tendenza nel non considerare più il professionismo colpa grave cominciò a profilarsi al Congresso di Roma nel 1981, con l'approvazione di alcuni emendamenti alla rigida costituzione IAAF. Così l'art. 55 che statuiva: "Un amatore è una persona che gareggia per amore dello sport e per il quale lo sport è un mezzo di ricreazione senza che suo scopo sia quello di trarne un qualunque guadagno materiale", fu drasticamente riformulato in: "È amatore l'atleta che accetta di rispettare le regole della IAAF". L'apertura al professionismo trovò qualche opposizione non soltanto da parte dell'ala conservatrice occidentale ma anche da parte di alcuni paesi del blocco dell'Est, dove esisteva un professionismo di Stato ma gli atleti ‒ in coerenza con il sistema sociale vigente ‒ non potevano considerarsi privati professionisti, autorizzati, cioè, a viaggiare per il mondo gareggiando dove fossero stati meglio ricompensati. Nebiolo, tuttavia, sostenuto anche da Samaranch, andò avanti per la sua strada, convinto che agli atleti non potesse essere negata la possibilità di monetizzare il loro talento e le loro fatiche, ove si fosse voluto sottrarli al richiamo di altri sport o di un diverso impegno professionale. Erano, quelli, anche gli anni in cui l'atletica aspirava a inserirsi nel ricco business della commercializzazione dello sport attraverso la vendita dei diritti televisivi e le sponsorizzazioni. Senza atleti, niente sarebbe stato possibile: dunque, occorreva riconoscere la realtà e farli partecipi del sempre più importante giro d'affari che si andava organizzando attorno alle loro esibizioni.
Nel 1982, al Congresso di Atene, Nebiolo fece approvare il concetto dei trust funds, o fondi fiduciari controllati dalle varie federazioni o dalla IAAF, nei quali depositare i guadagni sino al momento del ritiro dall'attività agonistica. La norma passò con 366 voti a favore e 16 contrari (tra i quali Romania e URSS). Inoltre fu approvata la liceità dei permit meetings dove la ricompensa degli atleti poteva avvenire alla luce del sole e non più sottobanco.
Aprendo l'attività atletica al professionismo era inevitabile che apparisse una nuova figura: quella degli agenti. Il proliferare dei meeting, soprattutto europei ma anche americani, giapponesi e in paesi arabi, specie dell'area del Golfo Persico, obbligava gli atleti a organizzare la propria attività, programmare gli impegni, stendere i contratti con gli organizzatori, incassare i guadagni e gestirli. L'agente diventava così un essenziale intermediario tra l'atleta e il sistema organizzativo, sia privato (quello cioè che faceva capo al circuito Euromeeting lanciato nel 1987 dallo svizzero Andreas Brugger, patron del meeting di Zurigo), sia pubblico, vale a dire la IAAF.
La IAAF aveva progressivamente inserito premi in denaro nelle proprie competizioni. Il circuito del Grand Prix, la cui finale era direttamente organizzata dalla Federazione internazionale, disponeva di una sponsorizzazione della Mobil: l'edizione inaugurale si ebbe nel 1985, con un insieme di 15 meeting e la finale da disputarsi a Roma dove, il 7 settembre, si radunarono 60.000 spettatori. Il montepremi fu, allora, di 542.000 dollari, per passare poi a 763.000 dollari nel 1986, a 1.300.000 dollari nel 1993 e salire a oltre 3 milioni di dollari nel 1997.
I primi vincitori del Grand Prix 1985 furono gli americani Doug Padilla e Mary Decker-Slaney, che ebbero un premio di 25.000 dollari ciascuno. In quello stesso anno si tenne, a Londra, la rivincita tra Zola Budd e Mary Decker-Slaney, dopo l'incidente che le aveva viste protagoniste nella finale dei 3000 m all'Olimpiade di Los Angeles: Zola Budd ebbe un ingaggio di 125.000 dollari e Mary Decker-Slaney di 95.000 dollari. Crescevano anche i compensi per le corse di maratona: Londra premiò la norvegese Ingrid Kristiansen, per la sua vittoria nel tempo record di 2h21′6″, con 75.000 dollari, più l'ingaggio.
Un agente che assunse, in quegli anni, una grande importanza nel mondo dell'atletica fu Joe Douglas, patron del Santa Monica track club, che vantava, tra molti altri campioni, il grande Carl Lewis. Douglas pretendeva l'ingaggio ai meeting non soltanto di Carl Lewis, ma dell'intero gruppo del Santa Monica track: la cifra base era di 100.000 dollari, cui si aggiungevano i biglietti di aereo in business class e gli alberghi, rigorosamente a cinque stelle. L'organizzazione professionale dell'agente andava infatti di pari passo con le nuove esigenze degli atleti, sia di altissimo sia di medio livello. Occorreva non soltanto interessarsi dei contratti d'ingaggio, ma anche fornire un'assistenza completa: dall'allenatore al fisioterapista, all'avvocato, indispensabile per trovare soluzione ai problemi legali sempre in agguato.
I primi tentativi di far ufficialmente riconoscere i manager si ebbero nel 1989, quando per la prima volta furono ammessi a parlare al Congresso della IAAF di Barcellona. Nel 1993, al Congresso di Giakarta, vennero approvate le linee guida per questo riconoscimento. Nel 1997 a Atene furono varate le regole costituzionali degli agenti. Intanto venivano appianandosi le frizioni che spesso si erano create con la IAAF e alcune Federazioni nazionali, soprattutto quelle più povere che temevano di vedersi portar via la gestione dei loro campioni senza ricavarne alcun beneficio.
Finalmente al Congresso di Siviglia del 1999 è stata approvata la riforma dell'art. 19 della Costituzione della IAAF, che ora recita: "Le federazioni nazionali possono autorizzare gli atleti ad utilizzare i servizi di un agente... in ordine a pianificare, organizzare e negoziare il proprio programma atletico". Sempre quell'articolo stabilisce la giurisdizione della Federazione nazionale sull'agente che rappresenta i suoi atleti e, anche, su chi lavora come agente nel territorio di una Federazione nazionale. Ancora più importante, al fine di evitare lo sfruttamento di atleti da parte di agenti (cosa, per la verità, non del tutto inusuale), è quanto previsto al paragrafo 4 dello stesso art. 19: "Nessun agente sarà autorizzato a operare senza che esista un contratto scritto tra l'atleta e il suo rappresentante, nel quale siano indicate tassativamente le condizioni minime secondo quanto stabilito nelle guidelines della IAAF".
di Giorgio Reineri
La IAAF è la Federazione internazionale che oggi in materia di antidoping possiede le regole più severe. L'articolo 4, paragrafo 5, della sua Costituzione prevede per tutte le Federazioni nazionali associate l'obbligo di presentare alla Federazione internazionale, all'inizio di ogni anno, un rapporto sul programma adottato per i controlli fuori competizione. Nell'organizzare questi controlli, le Federazioni possono avvalersi dell'assistenza della Federazione internazionale, il cui Consiglio dovrà anche garantire, nella suddivisione delle entrate, mezzi sufficienti allo svolgimento del programma antidoping.
Secondo la regola 55 della IAAF, che proibisce tassativamente il doping, la violazione per doping si verifica quando: a) nei tessuti o nei liquidi del corpo di un atleta si accerta la presenza di una sostanza proibita; b) un atleta utilizza una tecnica proibita o ne trae vantaggio; c) un atleta ammette di avere usato una sostanza o una tecnica proibita o di averne tratto vantaggio (l'espressione 'sostanza proibita' comprende anche un metabolita della sostanza stessa, mentre per 'tecnica proibita' si devono intendere il doping del sangue e l'uso di sostanze o metodi capaci di alterare l'integrità e la validità dei campioni d'urina utilizzati per il controllo antidoping). Le sostanze proibite sono elencate nel manuale Procedure guidelines for doping control e la loro lista viene costantemente aggiornata secondo le indicazioni ricevute dalla Commissione antidoping della stessa IAAF. Tutte le variazioni devono esser approvate dal Consiglio ed entrano in vigore dopo tre mesi da tale approvazione.
Il paragrafo 4 della stessa regola è per molti aspetti il più importante e anche il più controverso dal punto di vista giuridico. In esso è specificato che "è compito dell'atleta assicurarsi che nessuna sostanza proibita entri nei tessuti e nei liquidi del suo corpo. Gli atleti sono pertanto avvisati che loro stessi sono responsabili di qualunque sostanza sia presente nel loro organismo". La regola 57 fissa una serie di norme relative ai controlli al di fuori delle competizioni. In particolare precisa che nessun atleta è autorizzato a gareggiare nei campionati nazionali o in ambito internazionale se non ha dato la sua disponibilità a sottoporsi ai controlli out of competition condotti dalla IAAF o da una Federazione nazionale. Gli atleti sono dunque tenuti a fornire alla Federazione nazionale il loro indirizzo di residenza e anche a comunicare l'indirizzo del luogo in cui si recano, ove la permanenza prevista sia superiore ai tre giorni. Nel caso queste informazioni non vengano fornite, o siano false, esse saranno considerate alla stregua di una violazione. Analogamente sarà considerato violazione se in tre occasioni documentate e consecutive, in giorni differenti, l'incaricato del controllo antidoping non avrà potuto rintracciare l'atleta.
L'articolo 58 stabilisce che la IAAF è responsabile del controllo antidoping in occasione dei Campionati del Mondo, della Coppa del Mondo, della Golden League, dei meeting Grand Prix e Grand Prix II, dei meeting IAAF e in ogni altra occasione in cui siano organizzati test a sorpresa dalla Federazione internazionale, in particolar modo i campionati o meeting di area.
La regola 60 indica le sanzioni in caso di doping accertato. Alla prima violazione, qualunque sia la sostanza trovata, con la sola eccezione degli stimolanti leggeri (tipo caffeina), il periodo di squalifica sarà di un minimo di due anni; in caso di seconda violazione vi sarà la squalifica a vita. Per le violazioni considerate leggere (e indicate nell'apposito manuale sulle modalità di controllo antidoping) non vi sarà squalifica, ma soltanto un avvertimento, per l'atleta che vi incorre per la prima volta; in caso di recidiva, invece, vi sarà la squalifica per un minimo di due anni.
La durata della pena è stata cambiata più volte. Dai due anni originariamente previsti (sino allo scoppiare del caso Ben Johnson, il primatista mondiale risultato positivo ai controlli antidoping alle Olimpiadi di Seul nel 1988), fu innalzata a quattro sotto l'incalzare di campagne di stampa e per la posizione molto rigorosa di alcune Federazioni nazionali. Ma una così lunga squalifica, che appariva quasi come una condanna a vita ove si tenga presente il tempo medio di durata dell'agonismo, non poteva essere imposta agli atleti di vari paesi: essa, infatti, contrastava con il principio giuridico della congruità della pena e con quello del diritto al lavoro che agli atleti stessi veniva riconosciuto. In Germania, per es., questi vincevano regolarmente davanti ai tribunali civili le cause che perdevano di fronte all'autorità sportiva la quale, per di più, doveva sostenere le spese per i danni procurati. Lo stesso avveniva in Russia, in Spagna e in molti paesi di altri continenti. Così il Consiglio della IAAF presentò, anche in accordo con l'indirizzo del CIO, la proposta di ridurre a due anni la squalifica minima da applicarsi nei casi di doping grave. Il Congresso di Atene, nel 1997, rigettò la riforma, ma questa fu accettata da quello di Siviglia nel 1999. Infine, nel 2001, al Congresso di Edmonton, fu modificata la regola 21 della Costituzione IAAF che prevedeva la sola competenza dello IAAF Arbitration panel in caso di dispute tra la Federazione internazionale e una Federazione membro o un atleta. Con la modifica introdotta, questa competenza per i casi di doping passava in esclusiva alla CAS (Corte arbitrale per lo sport, istituita a Losanna in ambito CIO); negli altri casi si sarebbe fatto ricorso a tale istituzione solo come ultima istanza, dopo aver esaurito le procedure in ambito IAAF.
Nell'ultimo decennio del 20° secolo il doping e l'antidoping erano diventati materia di quotidiana trattazione da parte degli organi di stampa e radiotelevisivi che spesso accusavano il potere sportivo ‒ rappresentato da CIO e dalle Federazioni internazionali ‒ di essere corresponsabili, se non addirittura promotori, delle pratiche illecite nell'agonismo. L'accusa di tolleranza nei confronti del doping diveniva una potente arma di attacco politico e, viceversa, il presentarsi quali portatori della bandiera dell'antidoping e di uno sport intransigente nella difesa dei suoi valori etici costituiva un efficace mezzo per fare carriera nell'ambito della dirigenza sportiva. Intanto l'influenza della Commissione medica del CIO e delle varie commissioni ad hoc nate nelle diverse Federazioni si accresceva enormemente, soprattutto per quanto riguardava gli stanziamenti di fondi che, nella sola IAAF, salivano vertiginosamente, sino a toccare gli oltre 2 milioni di dollari l'anno.
In verità la IAAF, che aveva patito un'offensiva mediatica intensa e senza soste sin dallo scoppiare del caso Ben Johnson, era stata la prima ad affrontare il fenomeno e a cercare i mezzi per limitarne la crescita, tanto che lo stesso CIO si rifece alle procedure e ai protocolli della IAAF per istituire la sua Commissione medica e per impiantare dei laboratori accreditati. Per es., i controlli sull'uso di anabolizzanti furono eseguiti per la prima volta nel 1974 a Roma in occasione dei Campionati Europei di atletica e furono poi introdotti dal CIO, utilizzando le stesse procedure, ai Giochi Olimpici di Montreal nel 1976.
Proprio a Roma, nel 1974, si ebbe il caso del primo atleta squalificato per accertata positività al controllo antidoping, dopo aver vinto una medaglia: si trattò del marciatore sovietico Vladimir Zhaloshik, arrivato terzo nella gara dei 20 km. Ai Campionati Europei del 1969 si era avuta, invece, la prima squalifica in assoluto per uso di stimolanti, a carico dell'atleta olandese di decathlon Eduard de Noorlander, classificatosi sesto.
A mano a mano che i controlli venivano effettuati, il numero degli atleti trovati positivi rapidamente cresceva. Alle Olimpiadi del 1976 la discobola polacca Danuta Rosani venne esclusa dalla finale dopo che, al termine delle qualificazioni, le furono trovate nelle urine tracce di anabolizzanti. Nel 1977 la squalifica colpì la tedesca dell'Est Ilona Slupianek, vincitrice del lancio del peso nella finale di Coppa Europa, che poi tornò presto all'agonismo e vinse, un anno e sedici giorni più tardi, il titolo europeo (e, nel 1980, quello olimpico). Nel 1979, in occasione dei Giochi Balcanici e della Coppa Europa, fu riscontrata la positività di cinque atlete: tre rumene (Ileana Silai, Natalia Marasescu, Sandra Vlad) e due bulgare (Totka Petrova e Daniela Teneva), ma il caso fu molto contestato e, alla fine, la IAAF decise, con otto voti contro otto più quello determinante del presidente Adriaan Paulen, di riammettere le cinque atlete.
In realtà, sia i metodi di accertamento della positività sia le procedure di controllo erano, a quei tempi, ancora approssimativi e offrivano ampio margine alle contestazioni. Il grande passo in avanti nell'accertamento dell'uso di anabolizzanti si ebbe nel 1983 quando Manfred Donicke mise a punto il metodo della cromatografia e spettrometria di massa, che consentiva di accertare in un piccolo campione di urina dell'atleta la presenza di molecole di azoto o fosforo e di confrontarle con le molecole delle sostanze proibite. Il sistema fu utilizzato per la prima volta in occasione dei Pan American Games di quello stesso anno; in seguito è stato perfezionato, sino a raggiungere oggi un altissimo grado di precisione e di sensibilità. Attualmente non esiste la possibilità di sfuggire ai controlli sugli steroidi anabolici, mentre ancora non è stato messo a punto un metodo per rilevare la presenza dell'ormone della crescita. Di recente si sono fatti progressi per quanto riguarda la determinazione dell'impiego di eritropoietina, sostanza che aumenta i globuli rossi del sangue e dunque la capacità di trasporto di ossigeno. Le tecniche usate sono due: una, messa a punto da un laboratorio di ricerca di Parigi ma non ancora pienamente accettata dalla comunità scientifica, utilizza le urine, l'altra si basa sull'analisi del sangue. La IAAF riconosce validità ai controlli per l'eritropoietina soltanto se incrociati, cioè attraverso l'analisi del sangue dalla quale risulti l'abnormità di alcuni parametri e che viene poi avvalorata da quella sull'urina. Il test sul sangue, studiato e introdotto in Australia prima dell'Olimpiade di Sydney, permette di risalire all'utilizzo della sostanza proibita sino a due-tre settimane prima del controllo. Il test sull'urina limita invece il suo raggio di validità a pochi giorni dall'introduzione nell'organismo dell'eritropoietina. La nuova frontiera del doping è ora costituita dalle terapie geniche, che consentono di manipolare le qualità naturali di un atleta. Si tratta di una possibilità concreta che si prospetta possa realizzarsi in tempi rapidi, forse prima dei Giochi Olimpici di Pechino 2008. Per questo in sede sia CIO sia IAAF viene dedicato molto impegno allo studio e alla prevenzione del fenomeno, anche in collaborazione con la WADA (World antidoping agency), l'ente al quale è demandata, su scala mondiale, la responsabilità dei controlli.
Nel complesso si può dire che la lotta della IAAF contro il doping non ha avuto eguali tra le Federazioni internazionali. Nel 1991, su un totale di 84.110 prelievi effettuati nel mondo in tutti gli sport, quelli pertinenti all'atletica furono 10.400, cioè il 12%. La percentuale salì al 16% nel 1993, per attestarsi poi sul 13% nel 2001, anno in cui i controlli in atletica sono stati 16.500 su un totale di 125.700. Contestualmente è cresciuto il numero dei test fuori competizione organizzati direttamente dalla IAAF, passati dagli 80 del 1990 ai 2067 del 2002. Per quanto riguarda i Campionati del Mondo, il numero dei test antidoping è stato: 214 a Helsinki 1983 (positivi 0); 196 a Roma 1987 (positivi 1); 216 a Tokyo 1991 (positivi 2); 218 a Stoccarda 1993 (positivi 4); 275 a Göteborg 1995 (positivi 0); 378 ad Atene 1997 (positivi 5); 298 a Siviglia 1999 (positivi 4); 390 a Edmonton 2001 (positivi 9); 405 a Parigi 2003 (positivi 3). Ma, per quanto riguarda questi ultimi Campionati, ulteriori indagini sarebbero state espletate nei mesi successivi a seguito della scoperta di un nuovo ormone sintetico, il THG, o tetrahidrogestrinone.
Infine vale la pena notare come il numero dei casi positivi di atleti, a partire dal 1974, cioè dall'anno in cui si cominciarono a raccogliere questi dati, sia cresciuto in modo significativo a mano a mano che aumentavano i controlli e si affinavano le tecniche. Difatti, a fronte dei due casi del 1974, si è passati ai 10 del 1984 e ai 71 del 1994 per arrivare agli 81 del 2002 (di cui 68 in competizione e 13 in controlli a sorpresa fuori competizione).
di Gianfranco Colasante
Agli inizi del 1914 venne pubblicato l'annuario del Comitato permanente delle Federazioni sportive, organismo fondato a Milano il 19 gennaio dell'anno precedente con lo scopo di coordinare le federazioni delle diverse discipline per la partecipazione ai Giochi Olimpici, esigenza propostasi con forza dopo le deludenti esperienze olimpiche del 1908 (Londra) e del 1912 (Stoccolma). L'opera di quel Comitato, in parallelo con analoghe iniziative, avrebbe favorito la nascita del CONI, avvenuta nel giugno del 1914.
La scheda informativa sulla Federazione italiana degli sports atletici contenuta nell'Annuario costituisce la prima ricostruzione delle vicende che avevano portato alla costituzione della Federazione di atletica: una versione probabilmente di parte, ma che ha dalla sua il merito di riflettere la posizione ufficiale di chi, all'epoca, reggeva le sorti della Federazione e aveva conoscenza diretta di vicende non troppo lontane nel tempo. Il testo recita: "La Federazione Italiana degli Sports Atletici fu istituita nel 1906. Esisteva prima di allora una Unione Podistica Italiana, la quale riuniva le poche società che curavano lo sport pedestre. Questo ente federale che ebbe qualche anno di buono e fecondo lavoro andò a poco a poco diminuendo la sua attività. Cosicché quando da alcuni si ventilò l'idea della costituzione di una nuova istituzione federale, l'iniziativa raccolse la simpatia delle maggiori associazioni e l'Unione Podistica Italiana, dopo una parvenza di reazione, morì senza rimpianto. L'ente federale che oggi porta il nome di Federazione Italiana degli Sports Atletici, alla sua origine si chiamava, più modestamente, Federazione Podistica Italiana. Ma quando col diffondersi delle corse a piedi sorsero numerose le società che dedicavano esclusivamente la loro attività alla cultura degli sports individuali, e numerosa divenne la schiera di coloro che oltre al podismo si dedicavano ai lanci ed ai salti, si ritenne opportuno dare più larga zona di azione alla Federazione, si mutò la sigla da FPI in FISA e si diede mano alla organizzazione e regolamentazione dei lanci e dei salti. Sembrò ad alcuni che il passo compiuto fosse troppo audace, data la poca potenzialità numerica degli enti federali, dato che altre istituzioni già curavano gli sports che furono inclusi nel programma della FISA. Ma l'esperienza di qualche anno, e specialmente quella data dai campionati nazionali del 1913, nei quali tutti i migliori atleti si contesero il titolo ambitissimo, ha dimostrato che il passo era necessario, e che l'epoca scelta per compierlo era stata opportuna. La FISA ebbe nei pochi anni di sua esistenza vicende lieti e tristi. Le traversie che sono caratteristiche per tutti gli enti sportivi, traversie di carattere tecnico, amministrativo e finanziario, furono incontrate dalla giovane Federazione che ebbe l'audacia di dettare legge in un campo poco sofferente di disciplina, che volle, sulla stregua di quanto si era compiuto all'estero, stabilire modalità per l'esecuzione dei principali esercizi atletici e, per la prima volta in Italia, istituì l'organizzazione necessaria per l'esecuzione e l'omologazione dei records sia podistici che di salto e di lancio. La FISA ebbe la sua prima sede a Roma, e ciò sino verso la fine del 1912, quando, per una specie di reazione all'indirizzo seguito dalla direzione allora in carica, fu scelta come sede del Consiglio Direttivo la città di Milano. Conta attualmente circa 120 associazioni, e si hanno ragioni per credere che questo numero andrà gradatamente aumentando. Tra le sue fila la FISA ha l'orgoglio di annoverare due campioni del mondo, Lunghi e Altimani, che hanno compiuto performances riconosciute anche dalle principali federazioni atletiche delle altre nazioni. [...]".
Nel 1914 la FISA era presieduta da Edgardo Longoni, uno dei due giornalisti italiani ‒ l'altro era Luigi Barzini ‒ che avevano seguito il raid Pechino-Parigi. Segretario era il veneziano Antonio Vaghi, che di lì a poco avrebbe abbandonato la FISA per più importanti incarichi nella Federazione internazionale di ginnastica (dove seppe operare con tale accortezza da vedersi insignito della Legion d'Onore da parte del governo francese). La FISA non possedeva un proprio bollettino di informazione, ma pubblicava gli atti ufficiali sul settimanale La Lettura Sportiva. Ogni tessera federale costava 50 centesimi, mentre la tassa per le approvazioni gare era di 2 lire.
Nei nove articoli dello Statuto della Federazione erano fissati con buon senso pratico quelli che oggi chiameremmo principi informatori, tra i quali, precorrendo i tempi, veniva riconosciuta importanza all'organizzazione territoriale con l'istituzione dei comitati regionali ("art. 1: Allo scopo di favorire in Italia lo sviluppo degli sports atletici si è costituita la Federazione italiana degli sports atletici. Essa si mantiene assolutamente estranea a questioni politiche religiose; art. 2: La Federazione unisce in fascio tutti gli enti e gli individui che praticano tali sports; ne tutela gli interessi, ne sostiene i diritti, ne promuove e protegge le manifestazioni; art. 3: Alla Federazione possono affiliarsi tutte le Società che in qualsiasi modo esplichino la loro azione nel campo dello sport, nonché individui non appartenenti a Società; art. 4: La Federazione è retta da un Comitato Direttivo, composto da un Presidente, due Vice-presidenti, un Cassiere, un Segretario e sette Consiglieri. Il C.D. elegge nel suo seno una Commissione Tecnica che si occupa delle questioni tecniche ed una Commissione Amministrativa che si occupa delle gestione finanziaria della Federazione; art. 5: La sede del Comitato Direttivo viene scelta nel Congresso federale; la elezione dei componenti detto Comitato avviene per referendum; art. 6: Il C.D. nomina in ogni regione, a seconda dei bisogni locali, uno o più Commissari regionali; art. 7: I componenti il C.D. durano in carica tre anni; i Commissari regionali durano in carica un anno; gli uni e gli altri sono rieleggibili; art. 8: Il funzionamento amministrativo e tecnico è stabilito da apposito Regolamento Federale approvato dal Congresso; art. 9: Per tutti i casi non contemplati dal presente Statuto Regolamento delibera il C.D.").
Ma l'atletica leggera (come si continuò a chiamarla, almeno fino agli anni Settanta del 20° secolo, per distinguerla da quella 'pesante' che riuniva la Lotta e il Sollevamento pesi) aveva nel nostro paese radici più profonde. Gli ultimi decenni del 19° secolo avevano visto diffondersi nelle regioni settentrionali un grande interesse per la corsa e la marcia su strada, manifestazioni che riscuotevano notevole successo di partecipazione: al 'Giro di Milano', organizzato nell'ottobre 1895 dal Corriere della Sera, si contarono 1140 classificati. Tanto erano diventate popolari quelle gare che parve naturale coniare per loro un appropriato termine autarchico, di derivazione latina, in opposizione alla parola inglese pedestrianism, molto in voga oltralpe per indicare le gare di corsa a piedi. La scelta cadde su 'podismo', neologismo suggerito da un anonimo professore dell'Ateneo milanese in una lettera indirizzata alla Gazzetta dello Sport. La prima edizione dei Giochi Olimpici, tenutisi nell'aprile 1896, con le drammatiche cronache della prima maratona (cui non aveva potuto partecipare l'italiano Carlo Airoldi che, una volta raggiunta Atene da Milano dopo un viaggio di oltre un mese compiuto per lo più a piedi per mancanza di fondi, si era visto escluso dalla corsa con l'infamante accusa di professionismo), non fecero che rinfocolare quell'interesse. Così, mentre proliferavano gare e tentativi di record, il 4 aprile 1897 si riunivano nella redazione della Gazzetta dello Sport i rappresentanti di una quindicina di società lombarde per costituire l'Unione pedestre italiana, organismo che ebbe vita effimera. Quattro mesi più tardi venne soppiantato dalla Unione pedestre torinese, che il 31 ottobre 1897 provvide a organizzare il (cosiddetto) primo Campionato italiano e a indire un congresso costituente. L'UPT, che si appoggiava al giornale La Bicicletta, ebbe come primo presidente uno dei maggiori giornalisti sportivi del tempo, Gustavo Verona.
Tanto fervore di iniziative di lì a poco produsse un nuovo cambiamento. Il 1° aprile 1899, sempre a Torino (dichiaratamente la capitale sportiva italiana, dove erano già attive le Federazioni di ginnastica, costituita nel 1869, di canottaggio 1888, e di giuoco calcio 1898), la UPT si trasformava in Unione pedestre italiana della quale diveniva presidente il pubblicista Mario Luigi Mina. Ma anche quella nuova struttura non riuscì mai realmente a superare i confini regionali, tanto che venne del tutto ignorata la seconda edizione dei Giochi Olimpici, programmata sulla pista in erba del Bois de Boulogne. A Parigi si recarono a proprie spese solo due giovani corridori milanesi ‒ Umberto Colombo ed Emilio Banfi ‒ che, nonostante la mediocre figura riportata, restano i primi italiani a essersi cimentati in gare olimpiche d'atletica.
Il passaggio del secolo non portò bene alla UPI le cui sorti declinarono rapidamente, proprio mentre riprendeva vigore l'interesse degli sportivi milanesi che potevano contare sul supporto della potente Gazzetta dello Sport. E fu proprio un dinamico redattore del giornale milanese, Tullo Morganti, ad avviare una campagna di stampa per la fondazione di una Federazione del tutto nuova. All'invito di Morganti, che firmava le sue note con lo pseudonimo Nodier, risposero un centinaio di società di tutta Italia i cui rappresentanti, riuniti all'Arena napoleonica, il 21 ottobre 1906 fondarono la Federazione podistica italiana. La prima società a sottoscrivere la scheda di adesione fu la 'Speranza' di Saronno.
La neonata FPI di lì a pochi giorni indisse i propri campionati su pista (già peraltro fatti svolgere a fine settembre a Torino, e per l'ultima volta, dalla UPT ormai in chiusura). Il programma comprendeva tre sole gare: i 100 m che furono vinti dal novarese Umberto Barozzi in 11″3/5, i 1500 m vinti dal genovese Emilio Lunghi in 4′14″2/5, i 25.000 m vinti dallo strillone romano Pericle Pagliani in 1h33′58″1/5. Un referendum tra le società portò, nel febbraio 1907, alla definitiva costituzione della nuova Federazione la cui sede venne trasferita a Roma. Presidente venne eletto il deputato vicentino Attilio Brunialti, docente di diritto costituzionale, mentre segretario divenne il giornalista Arturo Balestrieri.
La Federazione ‒ che a fine 1908 contava 134 società e oltre 7500 atleti tesserati ‒ nel Congresso tenutosi a Milano l'8 ottobre 1909 mutò il suo nome in Federazione italiana sports atletici. Con l'occasione si dette un nuovo statuto, si adoperò per poter disciplinare oltre alle corse anche le prove di salti e lanci (fino a quel momento gelosamente custoditi dalla Federazione ginnastica) e rielesse alla presidenza Brunialti, il quale tenne l'incarico fino alle dimissioni presentate nel febbraio 1911. Il vuoto di potere venne colmato mediante un nuovo referendum postale: le società chiamarono alla presidenza l'on. Romeo Gallenga-Stuart. Questi rimase in carica pochi mesi, fino a che un congresso straordinario, voluto dalle società lombarde, lo dichiarò decaduto eleggendo al suo posto, il 30 giugno 1912, Longoni e decretando il ritorno della Federazione a Milano.
Molto meno attiva appariva la FISA sul piano internazionale, tanto che nessun italiano risultò presente al congresso costitutivo della IAAF tenutosi a Berlino nell'agosto del 1913. Il nuovo organismo provvide a definire lo status del dilettante, ma anche a imporre regolamenti tecnici omogenei, a riscrivere in senso moderno i programmi olimpici (con l'abolizione dei salti da fermo e i lanci a due braccia, esercizi dal sapore circense), a stabilire i pesi e le misure di attrezzi e ostacoli, a compilare la prima tabella di punteggio. Tutte novità che ebbero un'eco ovattata in Italia, il cui movimento atletico restava inguaribilmente casalingo.
Gli anni precedenti la Prima guerra mondiale produssero in Italia almeno tre talenti di rispettabile livello internazionale. Il più noto resta Dorando Pietri, interprete involontario dell'episodio più drammatico dell'intera storia dei Giochi Olimpici. Pietri arrivò sorprendentemente primo sul traguardo della maratona del 1908, ma venne squalificato per essere stato aiutato a traversarlo. Da quell'infortunio derivò la sua fortuna. Passato professionista, infatti, Pietri si trasferì in America dove continuò a gareggiare per diversi anni guadagnando somme notevoli in sfide su lunghe distanze. A Londra era presente anche il ligure Emilio Lunghi il quale destò grande impressione sui 1500 m, tanto da ricevere un invito a trasferirsi in America per continuare la sua carriera. Dotato di grande classe naturale e in possesso di notevoli mezzi fisici, ma sregolato nella vita come nello sport, raggiunse il suo culmine nel 1909 quando, a Montreal, stabilì il primato mondiale delle 880 yard (1′52″4/5), un risultato ignorato in Italia e omologato come record nazionale solo venti anni più tardi. Più tranquilla fu la carriera del marciatore Ferdinando Altimani, un tipografo che si allenava di sera sui bastioni milanesi, il quale conquistò una medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici del 1912 e l'anno seguente si impossessò del primato mondiale dell'ora.
Alla ripresa dell'attività, volendo potenziare il settore in vista dei Giochi Olimpici del 1920, il CONI fece arrivare in Italia l'allenatore americano Platt Adams, al quale va ascritto il merito di aver diffuso nella penisola le prime organiche cognizioni tecniche. I riscontri olimpici che ne derivarono furono soddisfacenti: tra i 24 atleti recatisi ad Anversa figurava il diciannovenne Ugo Frigerio che riuscì a imporsi nelle gare di marcia dei 3 e dei 10 km (la spedizione riportò anche due medaglie di bronzo nei 3000 m siepi con Ernesto Ambrosini e nella maratona con Valerio Arri). Subito dopo, però, malgrado quegli innegabili successi, l'intera organizzazione atletica andò incontro a un periodo di confusa e difficile gestione.
Nel novembre 1922 un congresso straordinario tenuto a Milano elesse alla presidenza Giuseppe Fusinato, trasferendo la sede federale a Venezia. Fusinato rimase in carica solo 78 giorni, facendosi da parte alla vigilia di un nuovo congresso indetto nel gennaio 1923 a Bologna dal quale emerse nuovo presidente un generale dell'esercito, Pietro Belloni. Il 1924 fu un anno molto travagliato per l'intero sport italiano alle prese con una profonda crisi del CONI e una drammatica carenza di fondi, pur se le società erano salite a 511. In quelle condizioni la partecipazione ai Giochi Olimpici di Parigi si preannunciava densa di difficoltà: malgrado tutto, Frigerio riuscì a ripetere la vittoria sui 10 km di marcia e Romeo Bertini ribadì la predisposizione italiana per le lunghe distanze con un secondo posto nella maratona.
Nel dicembre di quel 1924 le società ligure e lombarda, insoddisfatte della gestione federale, uscirono dalla FISA per costituire una antitetica Unione italiana sport atletici. Si trattava di una decisione sofferta che lacerò l'intero movimento, dando origine a polemiche roventi che durarono per mesi. La vertenza si concluse l'anno seguente quando un congresso pacificatore, indetto a Roma dal commissario straordinario della FISA, il conte veneto Antonio Revedin, provvide a comporre il dissidio portando alla presidenza il mecenate bolognese Alberto Buriani.
Nel 1925 si tenne il primo incontro internazionale: gli azzurri affrontarono a Praga la squadra cecoslovacca dalla quale subirono una sonora sconfitta. Le condizioni tecniche di gara ‒ perimetri e fondi delle piste, cronometraggio, attrezzature ecc. ‒ potevano dirsi ancora primordiali, molto in ritardo rispetto agli altri paesi europei e quei primi contatti con realtà più avanzate produssero effetti benefici sull'intera organizzazione.
Nel corso del Congresso di Firenze del 12 dicembre 1926, tenuto a Palazzo Vecchio, venne accettata la proposta di Lamberto Heinz e modificata la dizione federale nell'attuale Federazione italiana di atletica leggera (FIDAL). Venne anche stabilito che il Consiglio direttivo restasse in carica un quadriennio, decisione presto sconfessata dai criteri di elezione per le cariche sportive decise dal nuovo segretario del Partito fascista, Augusto Turati. Fu stabilito che d'allora in poi sarebbe stato Turati stesso a nominare i presidenti delle Federazioni, "sentito il Presidente del CONI", a sua volta nominato dal Capo del governo. Così nel marzo del 1927 dal Foglio d'Ordini del PNF si apprese che presidente della FIDAL (e, contemporaneamente, della Federazione italiana giuoco calcio) era stato nominato l'on. Leandro Arpinati, potente federale di Bologna.
Con queste premesse si affrontò la nuova edizione dei Giochi Olimpici in programma ad Amsterdam nel 1928. Le stesse soluzioni logistiche proposte apparivano improvvisate, tanto che l'intera squadra olimpica venne ospitata su un piroscafo ancorato in un canale della città olandese. I risultati confermarono le apprensioni della vigilia. I 24 atleti inviati tra cui ‒ per la prima volta ‒ figuravano anche 5 donne, non ottennero risultati degni di nota e anche l'atletica contribuì al bilancio negativo che portò all'allontanamento di Lando Ferretti, ultimo presidente del CONI eletto democraticamente.
Il miglior atleta di quei convulsi anni Venti fu il piemontese Luigi Facelli, primo ostacolista italiano di nome e alfiere della nazionale. Sui 400 m con barriere Facelli ‒ che da giovane era stato soffiatore di vetro ‒ figurò tra i migliori del mondo dal 1924 al 1935, toccando il suo apice nel 1929 quando risultò il primo al mondo con un record europeo di 52,4″. Facelli, che disputò anche tre finali olimpiche, ebbe il suo più fiero rivale nell'inglese David Cecil, lord Burghley e più tardi marchese di Exeter, poi presidente della stessa IAAF: gli accesi duelli tra il nobile inglese e il povero soffiatore italiano vennero portati per anni come esempio dei contenuti democratici dello sport.
Assieme a Facelli, per quel periodo meritano una citazione il modenese Ettore Tavernari, che nel 1929 conquistò il primato mondiale dei 500 m (1′02,9″); lo specialista lombardo del fondo Carlo Speroni, che nel 1924 fu tra i primi al mondo correndo i 10.000 m in 32′03,8″; il veneto Virgilio Tommasi, primo saltatore di classe internazionale con i 7,41 m nel salto in lungo raggiunti nel 1929; il lanciatore emiliano Armando Poggioli che ai Giochi del 1928 si classificò quarto nel lancio del martello. La marcia ebbe il suo epigono nel genovese Armando Valente che nel periodo 1926-30 stabilì quattro primati mondiali di buona risonanza.
L'ingresso della struttura sportiva nell'orbita del PNF produsse alcuni innegabili vantaggi. Per l'atletica i più vistosi riguardarono la valorizzazione del parco atleti e un rapido arricchimento di impianti. All'origine si erano utilizzati a Milano l'Arena settecentesca, a Roma l'anello di Piazza di Siena. Poca fortuna avevano avuto i due giganteschi stadi costruiti a Torino e a Roma nel 1911, in occasione dei cinquant'anni del regno, e mai completati del tutto. In seguito si era ripiegato sugli impianti militari, che avevano il difetto di essere di scarsa qualità e quasi mai disponibili. Nel biennio 1928-29, avocando a sé le funzioni di presidente del CONI e di commissario delle federazioni, Turati impostò un piano per costruire in ogni città un Campo del Littorio, un impianto sportivo comprendente un terreno di calcio, una pista di atletica a quattro corsie e una piccola tribuna con spogliatoio. Il progetto tipo venne elaborato da un ingegnere napoletano, Amedeo D'Albora, per anni vicepresidente della FIDAL. I costi sarebbero stati sostenuti dalle amministrazioni comunali con il supporto, non sempre disinteressato, dei privati. Fu un successo che in pochi anni coprì la penisola di numerosi e ottimi impianti. Poco più tardi prendeva l'avvio la costruzione dei grandi stadi di calcio per i quali era obbligatorio dotarsi di una pista di atletica.
Furono anni molto favorevoli allo sviluppo dell'atletica che trovò mezzi per affermarsi e uomini decisi a sostenerla. Essa si impose come disciplina di base accolta di buon grado nelle scuole secondarie e nelle università (nerbo delle attività sportive dei GUF), sostenuta dalle organizzazioni giovanili del PNF (che organizzavano i ludi giovanili), diffusa dai mezzi di informazione come la 'regina delle Olimpiadi'. All'alba degli anni Trenta, finalmente la FIDAL poteva uscire dalle difficoltà e affacciarsi su uno dei periodi più floridi della sua storia, interrotto solo dal nuovo conflitto. Tra le città più attive figuravano Firenze (con l'ASSI Giglio Rosso), Bologna (con la Virtus) e Milano (con la Pro Patria).
Merito principale del cambio di rotta va dato al marchese fiorentino Luigi Ridolfi da Terrazzano che, nominato presidente nel 1930, seppe imprimere alla Federazione un notevole slancio sia organizzativo sia tecnico, non di rado attingendo alle proprie sostanze. Sul piano organizzativo, nel 1934, l'Italia ospitò la prima edizione dei Campionati Europei; sul piano tecnico, mentre si ampliavano le basi del reclutamento, Ridolfi affrontò il problema promuovendo dapprima l'ingaggio di istruttori del Nord Europa e quindi, a partire dal 1935, chiamando in Italia un allenatore americano di notevole capacità e personalità, il californiano Boyd Comstock.
Comstock seppe costruire una nazionale di atletica tra le più complete d'Europa (e, quindi, del mondo se si considera che, fuori del vecchio continente, di atletica si poteva parlare soltanto per gli Stati Uniti e il Giappone), inferiore sul piano tecnico solo alla formazione tedesca. I migliori atleti italiani di quegli anni figuravano tra i primi nel mondo in molte distanze di corsa e in diverse specialità tecniche quali lungo e disco. Comstock riuscì a individuare molti talenti naturali affinandone con successo le qualità nel suo quartiere di allenamento di Rapallo, dove teneva anche corsi di specializzazione che crearono una intera generazione di allenatori.
Ai Giochi di Los Angeles del 1932 il milanese Luigi Beccali, in stretta simbiosi con il suo allenatore Dino Nai ‒ un volitivo veterinario vicentino che travasava in atletica nozioni apprese sulle piste dei cavalli ‒, aveva vinto il titolo olimpico dei 1500 m completando l'opera l'anno seguente con un doppio primato mondiale. Era il segnale di quanto l'atletica italiana fosse matura per un ulteriore salto di qualità, che puntualmente trovò conferma nei Giochi di Berlino del 1936 dove gli azzurri figurarono tra i maggiori protagonisti con Mario Lanzi (secondo negli 800 m), lo stesso Beccali (terzo nei 1500 m), la staffetta 4x100 m (seconda alle spalle degli Stati Uniti), Giorgio Oberweger (terzo nel disco), Arturo Maffei (quarto nel lungo, a pari misura con il terzo). Anche da Berlino l'atletica tornò con un titolo olimpico, ma al femminile (un settore creato praticamente dal nulla, dal 1929, quando l'autonoma e modesta Federazione italiana sport femminile era stata inglobata nella FIDAL): negli 80 m a ostacoli si impose la bolognese Trebisonda, detta Ondina, Valla, mentre al quarto posto si classificò la sua concittadina Claudia Testoni, capace in seguito di migliorare più volte il primato mondiale della distanza.
La ricca stagione prebellica si concluse nel luglio 1939, all'Arena di Milano, con un confronto tra Italia e Germania rimasto nella storia dello sport. Il piatto forte del match fu la doppia sfida, su 400 e 800 m, tra i migliori europei sulle due distanze: Mario Lanzi e Rudolf Harbig.
La ripresa postbellica prese l'avvio già nel 1946, anno contrassegnato almeno da due avvenimenti di rilievo. La ricostituzione della Federazione ‒ avvenuta a Firenze il 18 marzo ‒ e la partecipazione ai Campionati Europei organizzati in agosto a Oslo, città raggiunta dalla squadra azzurra a bordo dell'ultimo aereo italiano in grado di sollevarsi, un malconcio Savoia Marchetti in legno e tela. L'Europa era un immenso cimitero sul quale era scesa, come la chiamò Churchill, una gigantesca cortina di ferro. La disputa di quei campionati costituiva un segnale di speranza. Per gli sportivi italiani significava la riammissione nella società internazionale, mentre il paese stava ancora trattando le dure condizioni di pace.
La ricostruzione dello sport italiano nel secondo dopoguerra si deve a due uomini la cui stretta collaborazione avrebbe portato l'organizzazione sportiva nazionale al primo posto nel mondo: Giulio Onesti, presidente dal 1946 del CONI democratico, e Bruno Zauli, medico, giornalista, organizzatore sportivo, presidente della FIDAL e poi segretario generale del CONI negli anni a cavaliere dei Giochi Olimpici di Roma. Resta merito precipuo di Zauli aver raccolto le residue energie della Federazione riannodandone i lembi sfilacciati, riempiendo i vuoti e creando nuovi stimoli per quanti, atleti e dirigenti, erano sopravvissuti alla guerra. In quell'opera di ricostruzione gli furono accanto due importanti personalità per tanti versi difformi, ma che si completavano felicemente: il taciturno Pasquale Stassano, abile tessitore di importanti alleanze, e l'estroso Giorgio Oberweger, allievo di Comstock, creatore di tecnica e autorevole mediatore internazionale.
La nuova struttura affrontò il primo esame nel 1948 ai Giochi di Londra e lo superò a pieni voti. L'atletica italiana riportò uno dei suoi maggiori successi olimpici con la conquista di una medaglia d'oro, tre d'argento e una di bronzo. L'acuto venne dalla pedana di lancio del disco dove, in un pomeriggio di pioggia, l'inseparabile coppia formata da Adolfo Consolini e dal corazziere Giuseppe Tosi occupò i primi due posti del podio. I due discoboli, amici-rivali che avevano ceduto alla guerra i loro anni migliori, rimasero a lungo al vertice mondiale della specialità imponendosi anche, sempre nello stesso ordine, in tre edizioni dei Campionati Europei. Le altre due medaglie d'argento vennero vinte da Amelia Piccinini nel peso e da Edera Cordiale nel disco; la medaglia di bronzo fu appannaggio della staffetta maschile 4x100.
Ancora meglio le cose andarono due anni dopo, ai Campionati Europei di Bruxelles, punto d'arrivo della generazione sopravvissuta alla guerra. La pattuglia azzurra tornò a casa con tre medaglie d'oro (ancora Consolini nel disco, Armando Filiput nei 400 m ostacoli e Giuseppe Dordoni nei 50 km di marcia), cinque d'argento e una di bronzo.
In quei primi anni Cinquanta le sorti dell'atletica italiana erano ancora presidiate da un gruppo di atleti di buon livello internazionale, ai primissimi posti europei. Dei discoboli si è detto. Nei lanci si distinguevano anche il pesista Angiolo Proferi e il lanciatore di martello Teseo Taddia, secondo al mondo nel 1950. Quell'anno portò anche il record mondiale delle 440 yards ostacoli di Filiput, un maestro elementare di Ronchi che corse la distanza in 50,1″. Sulla sua scia figurava bene uno dei più grandi talenti che abbiano calcato le nostre piste, il dalmata Ottavio Missoni, che cinque anni di prigionia avevano escluso dai grandi traguardi e che presto fu spinto a lasciare lo sport per tentare la fortuna nella moda. Il piacentino Dordoni proseguiva la tradizione italiana della marcia: dopo il titolo europeo avrebbe vinto la medaglia d'oro ai Giochi di Helsinki (1952). Sulla sue orme cresceva intanto un altro campione: Abdon Pamich.
Ma l'implacabile passaggio delle generazioni stava ponendo in luce la mancanza di rincalzi adeguati. La FIDAL, anche in vista dei Giochi Olimpici del 1960 assegnati a Roma, corse ai ripari. Zauli approntò un grande piano di rilancio dell'atletica nelle scuole che incontrò l'incondizionato favore di docenti e studenti. Per favorirlo il CONI avviò anche un programma di costruzione di impianti scolastici che venivano via via ceduti ai Provveditorati (Zauli morì nel 1963, a Grosseto, proprio mentre tagliava il nastro del settantacinquesimo campo di quel grande progetto). Nella stessa epoca, nel 1955, era stata inaugurata a Formia ‒ in una splendida ex residenza reale ‒ la Scuola nazionale di atletica leggera, che avrebbe ospitato i migliori studenti-atleti in vista dei Giochi Olimpici di Roma del 1960. L'atletica imboccava una stagione d'oro. Dalle continue leve studentesche emersero a getto continuo grandi personalità atletiche quali il velocista Livio Berruti (futuro campione olimpico e primatista mondiale dei 200 m), il giavellottista Carlo Lievore (primatista mondiale nel 1961), l'ostacolista Salvatore Morale (primatista mondiale dei 400 m a ostacoli), il triplista romano Giuseppe Gentile (destinato a un doppio record del mondo nel 1968 in Messico, purtroppo non sufficiente per l'oro), l'ostacolista aostano Eddy Ottoz (due volte campione d'Europa sui 110 m): solo alcuni nomi per significare una fioritura di campioni con pochi precedenti.
Dopo che Zauli aveva lasciato la presidenza federale per assumere in prima persona l'organizzazione delle Olimpiadi, presidente della FIDAL era diventato Gaetano Simoni, un generale della Finanza d'origine abruzzese che aveva consolidato l'importante tradizione atletica presso le Fiamme Gialle, primo esempio di concreta presenza dei militari nello sport. A Simoni successe, nel 1961, il capitano di marina Giosuè Poli chiamato a gestire le profonde trasformazioni della società negli anni Sessanta, che ebbero notevoli riflessi sulle classi giovanili e, di conseguenza, sul loro interesse per lo sport.
Nel dicembre del 1969, alla morte di Poli, la presidenza della FIDAL venne assunta da Primo Nebiolo, un dirigente dello sport universitario la cui concezione sportiva era in antitesi, quando non in contrasto, con quella dei suoi predecessori. Nebiolo aveva una visione molto più pragmatica dell'organizzazione sportiva e seppe apportare, nella sua gestione, elementi innovativi di livello manageriale. La FIDAL, che si era sempre considerata la federazione privilegiata del CONI, 'la federazione', come la chiamava Onesti, assunse un atteggiamento spavaldo, quasi di rivolta, a fronte del Comitato olimpico dal quale dipendeva in toto per i contributi. Sotto la guida di Nebiolo, che si avvaleva di un gruppo di validi collaboratori che ne condividevano le scelte, la Federazione imboccò la strada di una totale indipendenza non solo ideologica, ma anche economica con il ricorso a fonti di finanziamento esterne provenienti principalmente da pubblicità e contratti televisivi. Era una rottura con i vecchi metodi e l'apertura di una nuova strada, più 'professionale', meno condizionata dalla tradizione e dalle consuetudini, e probabilmente più consona ai tempi.
Una delle trovate di Nebiolo che meglio rispondevano alla sua visione moderna dello sport fu il lancio dell''atletica-spettacolo': un prodotto da proporre al pubblico degli appassionati, ma anche al semplice sportivo o curioso. Fu un successo insperato, un'esplosione di entusiasmo e di popolarità. Il profeta di questa nuova filosofia divenne, casualmente, un giovane italiano nato in Sudafrica, figlio di un prigioniero di guerra che aveva scelto di non tornare in Italia, Marcello Fiasconaro, grande talento naturale, un quattrocentista che correva d'istinto negli intervalli lasciatigli dallo sport che preferiva, il rugby. L'arrivo di Fiasconaro in Italia ‒ nel maggio 1971 ‒ fu un evento mediatico senza precedenti: nel giorno del suo esordio sulla pista dell'Olimpico, lo stadio appariva gremito da oltre 70.000 spettatori. Non era mai successo per l'atletica, che da quel giorno imboccò la via della piena maturità.
Muovendo dalla poltrona della FIDAL, Nebiolo venne eletto nel 1981 presidente della potente IAAF. Più tardi divenne presidente dell'Associazione delle Federazioni olimpiche estive e, nel 1992, fu nominato membro del CIO. La sua rapida carriera internazionale coincise con una espansione senza precedenti dell'atletica nel mondo, cui Nebiolo aprì nuove strade, molto spesso inesplorate. Il dirigente piemontese incappò solo in una battuta d'arresto quando, nel 1987, tentò la scalata al CONI e venne battuto ‒ si disse, per una congiura di palazzo ‒ da un dirigente molto meno conosciuto, Arrigo Gattai. Un infortunio che lo sospinse, in qualche maniera, verso il declino.
Gli epigoni della sua atletica, in Italia, furono Pietro Mennea e Sara Simeoni, due tra gli ultimi prodotti delle leve scolastiche, simboli dell'atletica degli anni Settanta e Ottanta. Il primo ‒ un ombroso velocista di Barletta costruito in lunghi inverni di preparazione solitaria trascorsi con l'allenatore Carlo Vittori ‒ fu per molti anni uno dei maggiori sprinter del mondo: vincitore del titolo olimpico dei 200 m nel 1980, sulla stessa distanza aveva stabilito nel 1979 un record mondiale (19,72″) destinato a durare un quarto di secolo. La seconda, una più solare e comunicativa veronese strappata alla danza classica, si elevò nel 1978 al record mondiale dell'alto (2,01 m) conquistando a sua volta il titolo olimpico a Mosca.
Ma il gruppo dei 'ragazzi' di Nebiolo ‒ portato a maturità dall'intuito e dal carisma del commissario tecnico Enzo Rossi ‒ è stato ricco di molte individualità di spicco, potendo spaziare dal mezzofondo alla maratona (Salvatore Antibo, Gelindo Bordin, Alberto Cova, Gennaro Di Napoli, Gabriella Dorio, Alessandro Lambruschini, Stefano Mei, Francesco Panetta), dalla marcia (Maurizio Damilano, Sandro Bellucci, Giuseppe De Benedictis, Elisabetta Perrone) al lancio del peso (Alessandro Andrei, primatista mondiale con 22,91 m nel 1987), al salto in lungo (Giovanni Evangelisti).
Come presidente della FIDAL Nebiolo venne sostituito nell'aprile 1989 dal colonnello della Finanza Gianni Gola che era stato tra i suoi collaboratori prima, tra i suoi avversari dopo, e che da allora è rimasto ininterrottamente in carica. I risultati degli ultimi quindici anni non sono stati pari a quelli precedenti. Nonostante la presenza di alcune buone individualità (Fabrizio Mori, Michele Didoni, Annarita Sidoti, Stefano Baldini, Fiona May, Nicola Vizzoni), la disciplina ha visto molto ridimensionato il suo potere mediatico e l'impatto sulla pubblica opinione per diverse cause. Si può parlare, in senso lato, di un generale regresso dello sport olimpico in Italia, schiacciato dalla prepotente invadenza del calcio, pesantemente spalleggiato dalle televisioni pubbliche e a pagamento. Si può tener conto dell'esplosione del jogging, non più una moda ma tradotto in termini agonistici da una incontrollabile pletora di corse su strada, i cui primi posti sono sempre appannaggio di atleti africani che in Italia esercitano, a tempo pieno, il 'mestiere' di corridori. Ci si può riferire a un cambiamento epocale di abitudini e situazioni sociali intervenuto negli ultimi decenni. Ma si deve anche sottolineare l'incapacità, da parte della Federazione, di saper proporre ai giovani l'atletica quale irrinunciabile tappa di educazione motoria e appropriata scelta agonistica. Una carenza che non può certo essere colmata dal ricorso ad atleti d'origine straniera, per lo più 'importati' per matrimonio.
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