Atletica - Le specialità: la maratona
È la regola 240 a stabilire le caratteristiche che devono essere rispettate nell'approntare il percorso della maratona, la cui misura è di 42,195 km. Nelle maratone internazionali, e in particolare ai Giochi Olimpici, ai Campionati del Mondo, nei Campionati Continentali o nei Giochi di area o regioni (per es. Giochi del Mediterraneo, Giochi Panamericani, Giochi Asiatici, ecc.) e in generale in tutte le maratone direttamente sotto il controllo della IAAF, l'errore di misurazione non può superare lo 0,1%, cioè non deve eccedere i 42 m. L'esatta lunghezza del percorso deve essere certificata dai misuratori ufficiali riconosciuti dalla Federazione internazionale. L'uso del transponder timing system è, ormai, non soltanto permesso ma incoraggiato dalla IAAF, che ha il compito di verificare e approvare il sistema, basato su microchip applicati alla scarpa, o al petto, di ogni atleta. Nella medesima regola si stabilisce anche che una maratona, il cui percorso è da punto-a-punto, non può avere un decremento in altitudine superiore a un metro al chilometro.
La Federazione internazionale di atletica ha iniziato a riconoscere i record mondiali di maratona dal 1° gennaio 2004; per i periodi precedenti si può pertanto parlare solamente di migliori prestazioni. Recenti disposizioni adottate dalla IAAF hanno altresì stabilito che venga effettuata una partenza separata per uomini e donne. In conseguenza il via per le donne viene ora dato dai 15 ai 30 minuti prima di quello per gli uomini.
La maratona è divenuta negli ultimi decenni del 20° secolo uno degli sport più praticati nel mondo: i maratoneti di maggior prestigio sono tra gli atleti meglio retribuiti e la disciplina attrae migliaia di partecipanti nei cinque continenti. Non c'è ormai zona del globo dove i maratoneti non vadano a sfidarsi: dai deserti africani ai ghiacci del Polo Sud. Le ragioni che spingono tante persone di diversa estrazione sociale ed educazione a cimentarsi con una prova in cui è necessario sfruttare anche l'ultima 'stilla' della propria energia vanno ricercate nel gusto per l'avventura, nella curiosità di confrontarsi con l'ignoto, così da poter misurare le proprie reazioni di fronte all'impegno estremo e all'ambiente più ostile. È il piacere di scoprire, più che la forza dei muscoli e la funzionalità dell'apparato cardiorespiratorio, la potenza della volontà. La maratona è, prima ancora che un evento tecnico o una gara con gli avversari, la sfida con sé stessi.
Il termine maratona è preso in prestito dal nome della località attica, non lontana da Atene, teatro di una famosa vittoria degli ateniesi sui persiani di Dario, ricordata e celebrata come il prevalere della disciplina e del valore sul numero, della civiltà sulla barbarie. Di quella battaglia, svoltasi nel 490 a.C., narra Erodoto: "Mentre i persiani doppiavano il capo Sunio, gli ateniesi corsero a marce forzate in difesa della loro città. Essi partirono da un luogo consacrato a Ercole, a Maratona, e s'accamparono in un altro consacrato al medesimo dio, a Cinosarge". Segue poi il racconto della battaglia, delle tattiche che videro gli ateniesi di Milziade, con i loro alleati, rinforzare le ali dello schieramento assottigliando il centro. I persiani, invece, si erano schierati proprio al centro della piana di Maratona e, quando gli ateniesi si slanciarono di corsa per affrontarli, pensarono di poter vincere facilmente. Ma lo sfondamento delle ali li chiuse in una morsa e la sconfitta fu inevitabile: "alla fine della battaglia 192 cadaveri ateniesi e più di 6400 barbari giacevano al suolo". Erodoto narra che prima della battaglia un messo, Fidippide (o Filippide), fu inviato a Sparta, distante da Atene più di 200 km, per chiedere soccorsi e che vi giunse in meno di due giorni. Subito dopo, l'emerodromo (letteralmente colui che poteva correre ininterrottamente per un giorno intero) tornò indietro per combattere con i suoi commilitoni nella piana di Maratona, percorrendo così circa 450 km in quattro giorni. Erodoto non narra della successiva impresa di Fidippide che, secondo altri scrittori (tra cui Eraclito che lo denomina però Tersippo), portò la notizia della vittoria ad Atene, morendo sull'Acropoli dopo aver dato l'annuncio della disfatta dei persiani.
Questa 'leggenda' fu rivisitata nel 19° secolo, in concomitanza con la celebrazione dell'antichità classica da parte di alcuni studiosi, tra cui Michel Bréal, professore alla Sorbona, insigne filologo e storico della Grecia antica, e amico di Pierre de Coubertin. Bréal propose al barone francese 'reinventore' dell'Olimpiade di inserire nei Giochi una prova che avesse un forte legame con la tradizione classica. De Coubertin accolse con grande interesse l'idea e la maratona si celebrò il 10 aprile 1896, giorno di chiusura della prima Olimpiade moderna. Il percorso non venne disegnato seguendo il difficile sentiero che, 2835 anni e 203 giorni prima, sarebbe stato 'solcato' da un leggendario messaggero di vittoria: 'sfiorava' la stele di Maratona, con incisi i nomi degli ateniesi morti nella battaglia, si dirigeva più a sud e, dopo 40 km, raggiungeva Atene e il marmoreo stadio Olimpico, costruito con contributo del miliardario greco Georgios Averoff. Il vincitore della prova fu Spiridon Louis, un portatore d'acqua di Marussi (o Amarussia), zona allora posta in aperta campagna. Il suo tempo fu più che notevole per l'epoca: 2h58′50″. Alla gara avevano preso parte 17 atleti: di questi, soltanto otto arrivarono al traguardo, fra cui ben sette greci. La prova olimpica era stata preceduta da due gare di selezione per i greci, una delle quali vinta in 3h18′ da Harialos Vasilakos, che il giorno dell'Olimpiade sarebbe terminato secondo. La corsa fu per molti versi drammatica: la pattuglia di stranieri, composta dall'americano Arthur Blake (argento sui 1500 m), dall'australiano Edwin Flack, vincitore degli 800 m e 1500 m, dal francese Albin Lermusiaux e dall'ungherese Gyula Kellner (terzo al traguardo), rimase a lungo in testa. Louis, invece, adottò una tattica prudente, non negandosi neppure una sosta e un bicchiere di vino, e cercando spesso informazioni su quali fossero le posizioni degli avversari. Al 32° chilometro anche Lermusiaux crollò a terra, sopraffatto dalla fatica, e per Louis l'ultimo tratto di gara divenne un'apoteosi. Accolto nello stadio da una folla enorme ‒ 70.000 spettatori ‒ e dal re di Grecia, Giorgio I, ricevette gli onori del trionfo e ricchi premi.
Alla maratona di Atene avrebbe dovuto partecipare anche Carlo Airoldi, un muratore lombardo (nato a Saronno nel 1869) che nelle corse su strada tra Lecco e Milano, o tra Milano e Cernobbio, allora abbastanza frequenti, aveva sempre sbaragliato la concorrenza. Poiché il Regno d'Italia rinunciò a partecipare ai Giochi, l'unica possibilità per Airoldi fu di chiedere l'iscrizione a titolo individuale. Sponsorizzato dalla neonata Gazzetta dello Sport e dal Comitato della esposizione ciclistica di Milano, partì da Milano il 28 febbraio 1896 per raggiungere Atene a piedi. Percorse in un mese 1338 km, attraversando Iugoslavia e Albania (utilizzò il piroscafo solo da Ragusa a Corfù e da lì a Patrasso). Arrivato a destinazione, il comitato organizzatore dei Giochi, invece di accoglierlo con gli onori che si dovevano a un così appassionato atleta, gli rifiutò l'iscrizione, sostenendo che soltanto un professionista poteva permettersi di rimanere due mesi senza lavoro, dedicando quel tempo all'allenamento.
Gli americani, che avevano avuto tra i maratoneti almeno alla partenza Arthur Blake, furono molto colpiti dall'idea di commemorare con quell'evento un'antica battaglia. Tornati a casa, molti di quegli atleti che erano membri della Boston athletic association, tra i quali Tom Burke, vincitore ad Atene dei 100 m e dei 400 m, pensarono di organizzare una maratona per ricordare la corsa di un eroe della rivoluzione statunitense, Paul Revere, che il 19 aprile 1775 si era precipitato a Boston, a Lexington e Concorde per avvisare le truppe amiche dell'arrivo della flotta inglese. La prima edizione doveva essere disputata nel Patriot's Day, cioè il 19 aprile 1897, in modo da essere la prima maratona al mondo al di fuori della Grecia e ancora oggi i bostoniani considerano la loro come la più antica maratona non olimpica. In verità così non è, perché il 20 settembre 1896 ‒ cioè cinque mesi dopo la gara di Atene ‒ il New York city knickerbocker athletic club organizzò una prova sulle 25 miglia, tra New York e Stamford, nel Connecticut. Risultò vincitore John McDermott che, sulle strade fangose e collinose, impiegò circa mezzora in più del tempo di Louis. Lo stesso McDermott avrebbe vinto, l'anno seguente, la prima edizione della Boston Marathon (24,7 miglia pari a 39,750 km) nel tempo di 2h55′10″, migliore prestazione mondiale.
La maratona bostoniana ‒ su un percorso che ricordava molto quello ateniese, con partenza da Ashland, quindi attraverso Framingham, Natick, Wellesley, Newton Lower Falls e arrivo a Boston ‒ divenne subito un grande avvenimento, con titoli a tutta pagina sui giornali della città e dello Stato e decine di migliaia di persone che si assiepavano lungo il percorso. D'altro canto il Massachusetts, all'inizio del 20° secolo, era uno degli Stati più sviluppati d'America, con circa 3 milioni di abitanti, di cui oltre mezzo milione nella sola città di Boston. In quello stesso periodo di transizione economica anche gli usi e i costumi della gente cominciavano a cambiare: lo sport diventava sempre più parte integrante della cultura dell'epoca e il maratoneta veniva considerato un eroe. Insomma, attorno alla maratona di Boston nasceva anche il business e, in effetti, quella rimase, per lungo tempo, la maratona meglio organizzata e più frequentata al mondo.
Diversa, invece, la storia della maratona olimpica. L'Olimpiade del 1900 a Parigi fu un mezzo fallimento e la maratona ne risentì più delle altre competizioni. Il via alla gara, cui parteciparono 19 concorrenti, venne dato alle 14.30 del 19 luglio, con una temperatura di 39 °C e il vincitore Michel Théato fu informato di esser divenuto campione olimpico soltanto 12 anni dopo. In effetti, molti considerarono la 'Marathon des fortifs', disputata nell'ambito dell'Esposizione Universale, nulla più che un giro delle mura di Parigi (su una distanza di 40,260 km) e all'arrivo nessuna medaglia venne consegnata ai primi classificati. Ma quella non fu la sola confusione: gli atleti commisero molti errori di percorso, per mancanza di indicazioni o per errate segnalazioni. Molto tempo dopo, nel 1920, uno dei partecipanti, l'americano Dick Grant, settimo al traguardo, chiese al CIO di assegnare a lui la medaglia d'oro perché, sostenne, era stato gettato a terra da un ciclista mentre s'accingeva a staccare Théato.
In molte edizioni olimpiche la maratona avrebbe dato luogo a discussioni, nonostante questo tipo di gara stesse diffondendosi rapidamente. Per es., nel 1897 si era disputato un campionato norvegese, vinto da Hallstein Bjerkle; nel 1898 era stata la volta della Danimarca, con la vittoria di Martinus Olsen su 40,2 km in 2h56′20″, e della Germania, dove fu vincitore Arthur Techtow. A Parigi, poi, fin dal 1882 si correva il giro della città, su circa 44 km.
I problemi che la maratona poneva e le discussioni sulla sua regolarità se non, addirittura, sull'opportunità di praticarla erano essenzialmente di due tipi: il primo organizzativo, per la difficoltà di controllare il percorso, informare gli atleti sullo sviluppo della gara e assisterli durante la corsa; il secondo medico-scientifico: nessuno sapeva come prepararsi e, soprattutto, a quali regole igienico-alimentari sottoporsi, sia alla vigilia della gara sia durante la gara stessa. Ciò provocava non pochi collassi agli atleti, facendo nascere l'idea che questa disciplina fosse rischiosa per la salute.
La maratona dei Giochi Olimpici di St. Louis del 1904 è la riprova di questo stato di cose. Inizialmente fu ritenuto vincitore Fred Lorz, un valido fondista di New York, che aveva guidato la corsa per circa 9 miglia quando venne colpito da crampi e fu costretto a ritirarsi. Il camion che seguiva la corsa lo prese a bordo ma dopo altre 10 miglia lo stesso camion si ruppe. Lorz, che si era ripreso, continuò la gara ed entrò nello stadio salutato come vincitore da Alice Roosevelt, la figlia del presidente degli Stati Uniti. Secondo giunse Tom Hicks, inglese naturalizzato americano. Tuttavia i giudici che avevano seguito Hicks sapevano che nessun altro poteva averlo preceduto al traguardo e Lorz fu costretto a confessare il 'trucco'. Ne seguì una squalifica a vita, poi ridotta a otto mesi perché la giustificazione dell'atleta che si trattasse soltanto di uno scherzo venne accettata. Lo stesso Hicks durante la gara era incorso in varie traversie: i suiveurs rifiutarono di dargli da bere, pensando che fosse dannoso, e si limitarono a bagnargli le labbra con una spugna imbevuta di acqua distillata. In compenso, su uno dei mezzi che accompagnavano l'atleta era stata montata una vasca: di tanto in tanto Hicks vi veniva immerso con l'idea che un bagno caldo riducesse il rischio di crampi. Dopo 18 miglia, gli fu somministrata una buona dose di solfato di stricnina, stimolante del sistema nervoso, e poi ancora stricnina mescolata a bianco d'uovo, bianco d'uovo puro e, infine, un bel sorso di brandy.
L'Olimpiade del 1908, a Londra, fu invece ben organizzata. E lo fu anche la maratona, il cui percorso fu allungato, per desiderio della famiglia reale, a 26 miglia e 385 yards: la distanza compresa tra il Castello di Windsor, dal quale i regnanti avrebbero potuto assistere alla partenza, e la tribuna reale nello Sheperd's Bush Stadium. Questa distanza, corrispondente a 42,195 km, diventerà la misura standard della gara, ottenendo però il riconoscimento definitivo da parte della IAAF solo nel 1921 (e dal CIO nel 1924), durante il Congresso di Ginevra presieduto da J. Sigfrid Edström: ciò spiega perché le maratone olimpiche di Stoccolma 1912 e Anversa 1920 furono ancora disputate su distanze diverse.
Al via della gara londinese, dato dalla principessa del Galles Maria, partirono 56 atleti, tra i quali favoriti venivano indicati l'indiano-canadese Tom Longboat, il sudafricano Charles Heffron, gli inglesi Jack Price, Fred Lord e Robert Duncan, gli americani John Hayes, Alton Welton e Joseph Forshaw. Nessuno, per la verità, teneva in gran conto l'italiano Dorando Pietri, sebbene non mancassero a quest'atleta buoni riferimenti agonistici sulle lunghe distanze. La gara andò diversamente da come gli esperti avevano previsto. Longboat correva in maniera bizzarra, con sprint e soste, poi ancora un allungo e un'altra sosta. Al 28° chilometro tracannò una bottiglia di champagne terminando la corsa in auto. Pietri, invece, correva prudente, in progressione, e recuperò minuti su minuti al sudafricano Heffron, raggiungendolo al 38° chilometro. A questo punto l'italiano commise un grave errore: invece di rallentare e amministrare le ultime energie, si lasciò trascinare dall'incitamento dei suoi accompagnatori, e forse anche da un'eccessiva dose di stricnina, e accelerò. La crisi arrivò di colpo, come gli ultimi zuccheri furono bruciati, mentre alle sue spalle avanzava sempre più l'americano Hayes. Pietri entrò nello stadio vacillando, ma ancora primo. La regina d'Inghilterra Alessandra si alzò in piedi per applaudirlo: mancavano ormai meno di 300 yards. In stato ormai agonico, Pietri oscillava come sbattuto dal vento, rigirandosi su sé stesso sino a prendere la direzione sbagliata. Richiamato, tornava sui suoi passi. Cadeva. Si rialzava. Quand'era a 20 m dal traguardo, Hayes entrò a sua volta nello stadio. Pietri, cercando di reagire, finì invece di nuovo a terra. Un giudice lo aiutò a risollevarsi, sospingendolo sulla linea di arrivo, che Pietri tagliò un istante prima di Hayes. La squalifica era inevitabile. Pietri ‒ che aveva impiegato 9′46,4″ a percorrere gli ultimi 350 m ‒ perdeva la medaglia d'oro, ma il suo dramma diventava il simbolo perenne della fatica del maratoneta. Il giorno successivo, dopo la cerimonia di consegna delle medaglie, la regina gli donò una coppa d'oro, con questa incisione: "Per P. Dorando. In ricordo della maratona da Windsor allo stadio. Da parte della regina Alessandra".
Il seguito della storia sportiva di Pietri vide molte corse e non poche sfide con Hayes, molte delle quali ebbero luogo sulla pista indoor, in legno, dell'antico Madison Square Garden di New York, da percorrere 260 volte. La prima si tenne nel novembre dello stesso 1908 e Pietri vinse. Tre settimane dopo, sempre al Madison Square Garden, affrontò Longboat. Gli atleti vennero compensati con 3750 dollari ciascuno. Le gare si ripeterono, gli ingaggi si moltiplicarono, ma in alcune di queste corse Pietri collassò ancora, proprio come a Londra.
Si riteneva dunque che la maratona fosse 'la gara che uccide' perché superiore all'umana capacità di sopportazione, specie in riferimento a come la gara veniva affrontata. L'idea di un allenamento specifico si sarebbe sviluppata soltanto negli anni Venti, sull'esempio della scuola finlandese. Successivamente, nel secondo dopoguerra, toccò agli atleti dell'Europa dell'Est, i sovietici in particolare, pianificare un tipo di preparazione su base scientifica, mentre Emil Zatopek metteva il suo talento e la sua straordinaria volontà al servizio del progresso scientifico delle corse di fondo. Nonostante i suoi rischi, la maratona richiamava un numero sempre più vasto di praticanti e le gare si moltiplicavano. Di particolare importanza il Marathon Derby, al New York Polo Club, con un montepremi di 10.000 dollari e un imponente giro di scommesse. Lo stesso accadde in Inghilterra, dove nel 1909 fu lanciata la Polytechnic Harriers Marathon. A Boston di anno in anno andava crescendo l'attenzione, e la partecipazione, alla maratona rievocativa di Paul Revere e della guerra d'indipendenza.
Proprio a Boston, nel 1910, si rivelò un giovane americano, Clarence De Mar, che giunse secondo (in 2h29′52″) alle spalle del canadese Fred Cameron (2h28′52″). De Mar sarebbe stato, nei seguenti vent'anni, una figura di riferimento, alla quale tutti i maratoneti moderni devono molto. Nel 1911 vinse la maratona di Boston in 2h21′39″, migliore prestazione sul percorso, dopo aver studiato accuratamente come ci si doveva preparare a questa corsa. Nell'inverno aveva praticato il cross country per l'Università del Vermont, coprendo in allenamento circa 100 miglia la settimana per un paio di mesi, aggiungendovi, di tanto in tanto, 20 miglia a ritmo leggero, da scampagnata. Nel 1912 fece parte della squadra americana alle Olimpiadi di Stoccolma, dove terminò però dodicesimo in 2h50′46″, ben lontano dal vincitore, il sudafricano Kenneth McArthur (2h36′54,8″). Decise poi di interrompere la carriera agonistica in quanto gli avevano diagnosticato un 'soffio al cuore'. Nel 1917, tuttavia, volle riprovare e partecipò alla maratona di Boston, piazzandosi terzo e superando, addirittura, Hannes Kolhemainen, il grande finlandese trionfatore a Stoccolma su 5000 m e 10.000 m, e futuro vincitore della maratona olimpica di Anversa 1920 (nella quale l'italiano Valerio Arri terminò terzo). De Mar però era preoccupato per le campagne di stampa attorno alla pericolosità della maratona e alla minaccia che essa costituiva per la salute, e si fermò di nuovo. Nel novembre del 1921, dopo che una tempesta di nevischio aveva reso difficile la circolazione in tutto il Massachusetts, si trovò a coprire di corsa la distanza fra la sua abitazione a Melrose e il lavoro a Medford e constatò che lo sforzo non lo aveva danneggiato. Proseguì nell'allenamento e a fine dicembre decise che, in aprile, avrebbe partecipato alla maratona di Boston. Iniziava l'era De Mar, soprannominato dalla stampa 'Mister Maratona'. Il 19 aprile 1922 vinse in 2h18′10″, miglior prestazione mondiale, battendo il finlandese Willie Ritola. Aveva 34 anni, e due anni più tardi sarebbe arrivato terzo alla maratona olimpica di Parigi, alle spalle del finlandese Albin Stenroos e dell'italiano Romeo Bertini.
Ma il suo vero campo di gara era Boston: vi trionfò ancora nel 1923, 1924, 1927, 1928 e nel 1930, a 41 anni, quando compì l'ultima impresa sensazionale, in 2h34′48″. Continuò poi a correre. Nel 1931, sempre a Boston, terminò quinto, a causa dell'eccessivo calore, il suo più temibile avversario. Nel 1932 fu diciottesimo, nel 1933 ottavo, nel 1934 sedicesimo, nel 1935 di nuovo diciottesimo e di nuovo sedicesimo nel 1936 (in 2h48′08″). Nel 1942, all'età di 54 anni, De Mar era ancora in grado di correre a Boston in 2h58′14″; nel 1946 terminò trentaduesimo in 3h09′55″. Nel 1947, alla sua venticinquesima maratona di Boston, fu costretto al ritiro da crampi. Si può dunque affermare che De Mar abbia contribuito in maniera determinante a far cambiare opinione alla medicina sportiva sulla corsa di resistenza. Osservando questo straordinario atleta e studiandone ogni reazione, l'Harvard fatigue laboratory scoprì che De Mar non aveva problemi cardiaci ma, al contrario, era dotato di uno stupefacente sistema cardiovascolare, che si era andato costruendo e migliorando con il tempo, con la pratica rigorosa dell'allenamento e l'attenzione all'alimentazione, tanto che a 66 anni De Mar portava a termine la sua centesima maratona.
Era dunque evidente che la maratona non era un'attività micidiale come molti medici del tempo sostenevano, basandosi anche sul caso di un atleta portoghese di 21 anni, Francisco Lazaro, collassato durante la maratona olimpica del 1912 e morto il giorno successivo in ospedale; in realtà la causa di quel decesso andava ricercata nell'eccesso di calore, che aveva provocato nel giovane maratoneta un'abbondante perdita di liquidi e un fatale aumento della temperatura corporea.
Gli anni Venti e Trenta furono fondamentali per lo sviluppo della disciplina. In questo periodo la maratona si trasformò da avventura romantica a gara alla quale ci si doveva preparare con rigore. Il contributo finlandese, con il tecnico Lauri Pinkala, e quello americano, attraverso personaggi come De Mar, e l'organizzazione professionale dei grandi eventi portarono alla specializzazione: Hannes Kolehmainen e Willi Ritola, introducendo per primi il concetto di resistenza alla velocità, dimostrarono che si poteva essere campioni in pista e su strada.
La maratona conquistava la fantasia di atleti di ogni parte del mondo: nel 1928, per es., la vittoria nella prova olimpica, ad Amsterdam, andò a un atleta di nascita francese e ascendenza algerina, Boughera El Ouafi, primo africano a conquistare una medaglia d'oro. Quattro anni dopo, a Los Angeles, fu il turno di un sudamericano, l'argentino Juan Carlos Zabala, scoperto da un insegnante di educazione fisica scozzese, Andrew Stirling, che non soltanto lo aveva allenato ma lo aveva anche allevato dall'età di 13 anni, quando era rimasto orfano. Sotto la guida di Stirling, Zabala era diventato campione sudamericano dei 10.000 m a 20 anni. Per preparare i Giochi di Los Angeles si era poi trasferito in Europa dove, a Kosice, in Polonia, aveva battuto il record del mondo sui 30 km.
Nel 1936, a Berlino, il titolo olimpico fu vinto da Sohn Kee-chung, un coreano costretto a correre sotto bandiera e nome giapponese, essendo la Corea occupata dal Giappone. Aveva appena 21 anni, ottime referenze sui 5000 e 10.000 m, e certamente uno straordinario talento se, in quella sua prima esperienza internazionale, non gli fu difficile dominare in 2h29′12,2″ l'inglese Ernest Happer e il suo concittadino Nam Seung-yong. Sohn divenne in Corea un autentico eroe, simbolo della resistenza ai giapponesi. Nel 1948 ebbe l'onore di portare il vessillo della Corea del Sud alle Olimpiadi di Londra e nel 1988, a Seul, il comitato organizzatore lo scelse, già settantaseienne, come ultimo tedoforo, incaricato di accendere il fuoco nel tripode dello stadio olimpico.
La moderna maratona ‒ moderna non soltanto nell'organizzazione e nella standardizzazione dei percorsi, ma soprattutto nei sistemi di preparazione ‒ nacque però con Emil Zatopek, che fu certamente la figura dominante nella corsa dopo la Seconda guerra mondiale: in pista rivoluzionò i 5000 e 10.000 m, vinse titoli europei e olimpici, stabilì record del mondo. La sua interpretazione della corsa, la sua capacità di cambiare ritmo e di stroncare gli avversari con violente accelerazioni a metà gara e, se del caso, con un travolgente démarrage, fanno di lui un anticipatore di quanto sarebbe diventato regola trent'anni dopo. Ma il capolavoro, tuttora inimitato, di Zatopek si compì all'Olimpiade di Helsinki 1952 quando, dopo aver conquistato i titoli sui 5000 e 10.000 m, trionfò anche nella maratona, stabilendo la migliore prestazione olimpica con 2h23′03,2″. Il risultato fu tanto più sorprendente in quanto Zatopek, ormai trentenne, non aveva mai disputato questo genere di gara. Ma la sua capacità di resistenza, coltivata con allenamenti che nessuno all'epoca aveva ancora osato affrontare, era tale da rendergli facile anche quell'impresa, al punto di surclassare e costringere al ritiro l'inglese Jim Peters, che deteneva la miglior prestazione mondiale sulla distanza.
L'apparizione dell'etiope Abebe Bikila, trionfatore della maratona olimpica di Roma nel 1960 ‒ la sua agile corsa a piedi scalzi sulle pietre dell'Appia Antica rimarrà per sempre una delle immagini più significative di questo sport ‒, segnò l'affermazione in questa specialità dell'Africa. La gara si svolse essenzialmente tra Bikila e il marocchino Rhadi Ben Abdesseldem. Bikila sferrò l'ultimo attacco a un miglio dalla linea di arrivo, fissata all'Arco di Costantino, nei pressi dell'obelisco di Axum, trasferito a Roma durante gli anni della conquista etiope. Concluse in 2h15′16,2″, miglior prestazione mondiale, sino ad allora detenuta dal sovietico Sergei Popov che in quella stessa gara terminò soltanto quinto. Bikila si sarebbe ripetuto quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Tokyo, in 2h12′11,1″, anche in questo caso stabilendo la miglior prestazione mondiale. Dopo aver tagliato il traguardo, rifiutando l'aiuto dei servizievoli giapponesi, sorprese i 75.000 spettatori ripetendo una serie di esercizi ginnici.
Negli anni seguenti la maratona parve essere ormai saldamente appannaggio di atleti etiopi. Bikila fu costretto prima al ritiro per una frattura da fatica a una gamba e poi all'immobilità per un incidente automobilistico che dal 1969 lo obbligò a vivere in carrozzella, ma ai Giochi del 1968 trionfò un altro maratoneta appartenente alla sua stessa tribù, gli Oromo: Mamo Wolde, che già aveva conquistato la medaglia d'argento sui 10.000 m. Soltanto un atleta degli altipiani come lui era in grado di correre senza problemi nelle difficili condizioni ambientali di Città del Messico: giunse al traguardo in 2h20′26,4″, con oltre 3′ di vantaggio sul giapponese Kenji Kimihara.
Negli anni Settanta l'idea della distanza non spaventava più gli atleti. Il cambiamento era frutto di una rinnovata cultura sportiva. Percy Cerutty e Arthur Lydiard, rispettivamente in Australia e in Nuova Zelanda, avevano sviluppato il concetto del correre a lungo come base indispensabile per avere successo in qualunque gara di mezzofondo. La determinazione nel prepararsi ai grandi appuntamenti, sacrificando tutto il resto a quel solo obiettivo, fu rappresentata al meglio da un atleta della Germania Est, Waldemar Cierpinski, che vinse l'Olimpiade di Montreal nel 1976 e si ripeté nel 1980 a Mosca ‒ unico con Bikila ad aver replicato il trionfo olimpico in maratona ‒ ma si impose solo in sette delle diciassette maratone disputate in carriera: quattro nella Germania dell'Est, due ai Giochi Olimpici e una in Cecoslovacchia, gara non competitiva. Cierpinski era arrivato alla maratona dal mezzofondo, in particolare dai 3000 m siepi: un percorso che diventava sempre più comune perché più nessuno si stupiva nel vedere specialisti degli 800 e 1500 m svolgere allenamenti su distanze anche di 30 km. Il marathon training era il nuovo concetto da applicare da parte di chiunque non fosse uno sprinter.
Nel 1970 vi erano soltanto 700 americani che avevano corso una maratona in meno di tre ore. Nel 1973 la cifra era raddoppiata. Il numero degli iscritti alla maratona di Boston crebbe vertiginosamente: nel 1978 presero il via 4500 corridori e almeno altri 2000 parteciparono non ufficialmente. La vittoria dello statunitense Frank Shorter all'Olimpiade di Monaco del 1972 ‒ un'Olimpiade nella quale la squadra USA complessivamente aveva ottenuto scarsi risultati ‒ contribuì a portare nuovi adepti a questa disciplina. La corsa di resistenza veniva anche considerata come valido contributo alla cura della salute, in un momento in cui la sedentarietà cominciava a essere indicata, insieme all'alimentazione sbagliata, quale principale causa delle malattie cardiocircolatorie e dell'obesità. Si moltiplicarono le pubblicazioni che illustravano i benefici degli sforzi 'aerobici', cioè del jogging: oltre ad Arthur Lydiard, scrissero libri importanti sui vantaggi di una pratica fisica costante e faticosa Bill Bowermann dell'Università dell'Oregon e Kenneth Cooper.
Nel 1970, Fred Lebow ‒ un rumeno di origine ebraica sfuggito ai campi di concentramento e divenuto cittadino americano ‒ organizzò per la prima volta la New York City Marathon, da corrersi attorno al Central Park: vi parteciparono 126 atleti. Nel 1976 la maratona si disputò attraverso i cinque grandi quartieri della città con arrivo al Central Park e gli iscritti furono 2000. Dagli anni Ottanta il fenomeno delle maratone divenne travolgente: i partecipanti a New York salirono a 30-35.000, lo stesso accadde a Chicago, mentre nel 1981 iniziò l'avventura della maratona di Londra, oggi divenuta la più ricca e frequentata al mondo. Le maratone erano ormai organizzate nelle principali città di ogni parte del mondo: da Fukuoka, in Giappone, dove nel 1967 l'australiano Derek Clayton stabilì la migliore prestazione mondiale, in 2h09′36,4″, ad Anversa, dove nel 1969 sempre Clayton migliorò il suo tempo con 2h08′33,6″, e poi a Stoccolma, Montreal, Francoforte, Arusha, San Francisco, Mosca, Pechino, Honolulu, Berlino, Auckland, Budapest, Melbourne, Rotterdam, Ginevra, Roma, Marrakech, Milano, San Diego, Madrid, Barcellona, Belgrado, Tokyo, Osaka, Città del Messico.
Si registrò un continuo miglioramento delle prestazioni: correre la maratona in tempi dell'ordine di due ore e dieci minuti negli anni Ottanta era diventata la normalità. L'australiano Robert de Castella (2h08′18″ a Fukuoka nel 1981 e vincitore del primo titolo mondiale di maratona, nel 1983 a Helsinki), l'inglese Steve Jones (2h08′05″ a Chicago nel 1984) ma soprattutto il portoghese Carlos Lopes (2h07′12″ nel 1985 a Rotterdam), campione olimpico nel 1984 a Los Angeles, furono tra i maggiori protagonisti di questa inarrestabile progressione.
Gli anni Ottanta videro l'Italia in prima fila negli studi sulla preparazione scientifica del maratoneta attraverso l'allenamento di mezzofondo e fondo, grazie soprattutto a un ricercatore di grandi capacità, Francesco Conconi, ordinario di biochimica e poi rettore dell'Università di Ferrara, e a tecnici quali Gianpaolo Lenzi e Luciano Gigliotti. Proprio da Ferrara dovevano arrivare i primi importanti risultati. Massimo Magnani, allenato da Lenzi, nel gennaio del 1984 alla maratona di Houston dette vita a uno sprint all'ultimo respiro con l'inglese Charles Spending, che terminò in 2h11′54″ per entrambi. Le discussioni per stabilire il vincitore, mancando il photofinish, furono alla fine troncate dalla giuria che attribuì all'inglese la vittoria, assieme ai 20.000 dollari del premio. Altro atleta italiano di successo fu Orlando Pizzolato, vincitore a New York nel 1985, in 2h11′34″, terzo a Boston nel 1986 e quarto ancora a New York in quello stesso anno. Anche il bresciano Gianni Poli ottenne ottimi risultati in giro per il mondo ma, soprattutto, permise a un altro ricercatore, Gabriele Rosa, di affinare le sue teorie sulla preparazione del maratoneta. Rosa sarebbe diventato poi uno tra i più importanti promotori della maratona in Africa, dove fondò nella Rift Valley, in Kenya, molti centri di allenamento.
Questi primi successi italiani furono i prodromi della prestigiosa vittoria olimpica di Gelindo Bordin, nel 1988 a Seul. Allenato da Gigliotti, Bordin era stato un discreto corridore in pista e un buon crossista rivelandosi infine un grande maratoneta. Preparò il successo olimpico con un allenamento meticoloso, durissimo, fatto di una media di 30-35 km al giorno a ritmi sostenuti, completato, nel mese precedente i Giochi, al Sestrière a 2200 m di altitudine, spingendosi talvolta anche su percorsi oltre i 2600-2700 m al fine di stimolare la produzione dei globuli rossi nel sangue, fondamentali trasportatori di ossigeno. La prima affermazione internazionale di Bordin era avvenuta a Stoccarda nel 1986, dove aveva conquistato il titolo europeo. In questa edizione degli Europei l'affermazione della scuola di mezzofondo e fondo italiana era stata davvero imponente: alle spalle di Bordin si era piazzato difatti Pizzolato, mentre Poli era arrivato tredicesimo. Dopo aver conquistato la medaglia di bronzo ai Campionati del Mondo di Roma del 1987, nel 1990 Bordin trionfò a Boston in 2h08′9″ e si riconfermò campione europeo a Spalato (secondo fu Poli e quarto Salvatore Bettiol).
Bordin fu l'ultimo europeo a conquistare il titolo olimpico di maratona: dopo di lui, difatti, venne il tempo degli atleti africani e asiatici, preannunciato dai successi del keniota Douglas Wakiihuri, vincitore del titolo mondiale a Roma nel 1987 e giunto secondo a Seul, alle spalle di Bordin, con soltanto 15″ di distacco.
A partire dagli anni Novanta larga parte della storia della maratona non è stata più scritta alle Olimpiadi o ai Campionati del Mondo. La diffusione di gare in ogni parte del globo e l'importanza economica che esse hanno assunto hanno cambiato completamente l'attitudine degli atleti. Gli appuntamenti sono ormai rappresentati dalle maratone 'private', dove si possono monetizzare le estenuanti fatiche degli allenamenti, gli anni di preparazione silenziosa e i crescenti sacrifici. Le maratone delle principali città d'Europa (Londra, Rotterdam, Berlino), degli Stati Uniti (Chicago, New York, Boston) e del Giappone (Fukuoka, Osaka) hanno acquistato sempre più prestigio ed è in queste corse ‒ il cui tracciato viene disegnato per garantire un buon risultato cronometrico ‒ che si realizzano prestazioni eccezionali. Inoltre, dato che non sono più di un paio le maratone ad alto impegno agonistico che un atleta possa permettersi in un anno, è sempre più frequente che gli atleti preferiscano le gare 'a ingaggio' individuale a quelle dove si rappresenta il proprio paese. Questo fenomeno viene registrato particolarmente tra gli atleti africani, che soprattutto nell'Africa orientale (Kenya, Etiopia, Tanzania, Gibuti) attraverso la maratona inseguono la promozione sociale ed economica che è assicurata da altri sport professionistici quali, per es., il calcio; ma lo stesso avviene anche in altri paesi del mondo come il Marocco, la Corea, il Messico, il Giappone e persino la Spagna.
In Spagna negli anni Novanta si è sviluppata un'ottima scuola di maratoneti e mezzofondisti, per certi versi erede della declinante scuola italiana. Con Martín Fiz (1995) e Abel Antón (1997 e 1999), gli spagnoli dominarono tre Campionati del Mondo consecutivi. Insieme al Portogallo, la Spagna vantava inoltre alcuni dei migliori risultati cronometrici: il portoghese Antonio Pinto, vincitore a Londra nel 2000, corse difatti in 2h06′36″ mentre lo spagnolo Fabián Roncero, giunto secondo nel 1999 a Rotterdam, segnò il tempo di 2h07′23″.
Nessun paese al mondo, tuttavia, può vantare tanti eccellenti maratoneti come il Kenya: ben 24 atleti capaci di correre in meno di 2h08′ a fine 2002. Ma, per le considerazioni sopra svolte ‒ il preferire, cioè, le gare 'private' alle corse per un titolo ‒ nessuno di loro è riuscito ad affermarsi in un'Olimpiade. Nel 1996 ad Atlanta vinse, succedendo al coreano Hwang Young-cho, campione a Barcellona, un quasi sconosciuto sudafricano di colore, Josia Thugwane, mentre nel 2000, a Sydney, fece irruzione un nuovo campione etiope, il ventiduenne Gezahegne Abera che, trionfando anche ai Campionati del Mondo di Edmonton dell'anno successivo, divenne il primo maratoneta ad aver vinto Olimpiade e titolo mondiale. Proprio in quei campionati del mondo canadesi tra i favoriti era indicato un marocchino naturalizzato statunitense: Khalid Khannouchi.
Nato il 22 dicembre 1977 a Meknes, Khannouchi cominciò a praticare atletica in Marocco. Nel 1993 rappresentò il suo paese alle Universiadi di Buffalo, vincendo il titolo sui 5000 m. Da Buffalo, però, Khannouchi non rientrò più in patria dove "non si sentiva considerato come atleta". Si stabilì quindi a Brooklyn, dove lavorò come lavapiatti, cercando intanto di guadagnare qualcosa nelle ricche e numerose corse su strada. Nel 1997 si cimentò per la prima volta con la maratona a Chicago, terminando con un tempo di 2h07′10″. Nel 1999, sempre a Chicago, ottenne la migliore prestazione in 2h05′42″ e guadagnò un premio di 165.000 dollari. Nel 2000 divenne cittadino statunitense, ma non in tempo per poter disputare i Trials olimpici. Nel 2001, reduce da alcuni problemi ai tendini, fu costretto a ritirarsi dalla maratona mondiale. Tuttavia, il 14 aprile 2002, a Londra, fu protagonista e trionfatore della più spettacolare e veloce maratona. Alla corsa erano anche stati invitati due grandi del mezzofondo in pista: l'etiope Haile Gebrselassie, al suo esordio in maratona, e il keniota Paul Tergat, alla sua terza gara. La sfida era contro il cronometro e contro Khannouchi. Nessuno dei tre atleti cedeva di un centimetro, nonostante il ritmo elevato: 1h02′42″ a metà gara. A 3 km dall'arrivo, Gebrselassie si accostò a un rifornimento per bere, perdendo 5 m da Khannouci e Tergat. Il distacco si allargò: la lotta era ormai tra il marocchino e il keniota. Agli ultimi 500 m, Khannouchi operò l'ultimo sforzo: Tergat perse alcune decine di metri. L'ordine di arrivo fu: Khannouchi in 2h05′38″, miglior prestazione mondiale; Tergat in 2h05′48″, terza miglior prestazione della storia dell'atletica; Gebrselassie in 2h06′35″, il più veloce esordio in maratona; Abdelkader El Mouaziz, marocchino, il vincitore dell'edizione 2001, in 2h06′52″. Sesto l'italiano Stefano Baldini, in 2h07′29″, che si confermava uno dei migliori maratoneti del mondo, dopo il titolo europeo del 1998.
Quella corsa entrò, di buon diritto, nella storia della maratona non soltanto per i progressi tecnici che aveva mostrato, ma anche per l'impatto economico: due milioni di spettatori per le strade londinesi, un budget in premi di 3 milioni di dollari, e un guadagno totale per il vincitore di 255.000 dollari e di poco meno per Tergat e Gebrselassie, il cui ingaggio era stato di 200.000 dollari ciascuno. Ma la gara aveva anche posto in evidenza come la maratona sia una disciplina alla quale non è facile passare, neppure per fuoriclasse dei 10.000 m in pista o della stessa mezza maratona. Nessuno al mondo, difatti, poteva confrontarsi con Gebrselassie e Tergat su queste distanze ma Khannouci prevalse su entrambi sui 42,195 km. La ragione sta in una diversa distribuzione dello sforzo: il segreto del maratoneta è correre in economia, dato che le riserve energetiche non sono infinite. Al contrario, il motore di un mezzofondista è costruito sì per esser resistente ma, soprattutto, veloce e velocità significa alto dispendio energetico. Cosicché negli ultimi chilometri della maratona il più lento Khannouci aveva ancora riserve in serbatoio, mentre i possenti 'motori' di Tergat e Gebrselassie avevano già prosciugato le loro. La costruzione del maratoneta è dunque opera di pazienza. E proprio la pazienza avrebbe permesso a Tergat di arrivare alla perfezione, con il record del mondo ottenuto nella maratona di Berlino, il 20 settembre 2003, con il tempo di 2h04′55″.
La prima esperienza di maratona femminile debitamente cronometrata risale al 3 ottobre 1926, quando l'inglese Violet Percy coprì il classico percorso tra Windsor e Chiswick in 3h40′22″. Già nel 1896, però, esistevano donne intenzionate a percorrere la strada accidentata della maratona: si racconta che una greca di nome Melpomene avesse chiesto di poter prendere parte a questa gara durante i Giochi Olimpici di Atene. Probabilmente venne considerata pazza, o provocatrice, dai membri del CIO. Di tanto in tanto, in seguito, si registrarono tentativi femminili sulle lunghe distanze, come quello della francese Marie-Louise Ledru che, nel 1918, terminò il Giro di Parigi in un tempo di circa quattro ore.
Era inevitabile, però, che il blocco posto dal CIO e dalla IAAF alla partecipazione femminile in gare che non fossero di sprint ‒ dopo l'Olimpiade di Amsterdam 1928, nella quale era stata inclusa una prova di 800 m ‒ generasse una diffusa incultura. La credenza che l'organismo femminile fosse fisiologicamente inadatto alle prove di resistenza sopravvisse a lungo.
La grande spinta al cambiamento venne dagli Stati Uniti dove, nel 1963, Merry Lepper portò a compimento una prova cronometrata a Culver City, alla periferia di Los Angeles, in 3h37′7″. Nel 1964 l'inglese Dale Greig corse la maratona dell'isola di Wight in 3h27′45″: risultato che, nel giro di pochi mesi, fu migliorato dalla neozelandese Midred Sampson, in patria ad Auckland, con 3h19′33″. Tuttavia si trattava di partecipazioni semiclandestine, dato che la IAAF continuava a interdire alle donne l'accesso alla maratona.
L'episodio più clamoroso avvenne nella seconda metà degli anni Sessanta a Boston. La prima donna che partecipò alla maratona di Boston fu, nel 1966, Roberta Gibb; in quell'edizione, come nelle due successive, l'atleta corse però senza numero. Nel 1967, un'altra donna, Kathrine Switzer, inviò la sua iscrizione sotto il nome di K. Switzer, senza specificare nel modulo il sesso, dato che ciò non era previsto. Il giorno della gara, il suo allenatore Arnie Briggs ritirò il numero di gara (261) dagli organizzatori, insieme a quelli degli altri componenti la squadra. Durante la corsa, però, alcuni fotografi, che avevano saputo che una donna con regolare numero era in gara, riconobbero Kathrine, la accostarono e cominciarono a mitragliarla di flash. Il direttore di gara Will Cloney intervenne cercando di farsi restituire il numero. Switzer resistette. In suo soccorso arrivarono l'allenatore e il fidanzato dell'atleta, il giocatore di football e lanciatore di martello Tom Miller. Ne scaturì una rissa, ma Kathrine riuscì a divincolarsi e a giungere al traguardo in 4h20″. Roberta Gibb aveva portato a termine la maratona in 3h27′17″, tempo rilevato da lei stessa. L'episodio provocò titoli su tutti i giornali d'America e il New York Times scrisse che Switzer non aveva concluso la gara. L'atleta, offesa, chiamò il giornale, chiarendo ogni aspetto della questione, compreso il fatto di aver portato a compimento la maratona. Sostenne inoltre che Gibb aveva sbagliato a correre senza il numero, perché le donne avevano il diritto a esser maratonete come gli uomini.
Nel 1971 l'australiana Adrienne Beames fu la prima donna a scendere sotto le tre ore: a Werribee finì la gara in 2h46′30″. La spinta al progresso, che significava anche un maggior afflusso di donne alla pratica della corsa lunga, si manifestò rapidamente con una serie di miglioramenti nelle prestazioni. La francese Chantal Laglance corse, nel 1974, in 2h46′24″ e nel 1975, a Eugene, nell'Oregon, Jacqueline Hansen segnò un tempo di tutto rispetto: 2h38′19″.
Però il balzo in avanti avvenne alla fine degli anni Settanta con Grete Waitz. La norvegese, grande specialista del cross ma ottima anche in pista dove poteva vantare 8′31,75″ sui 3000 m, chiese a Fred Lebow, il patron della maratona di New York, di potervi partecipare. Con il numero di gara 1173, Waitz concluse la gara in 2h32′30″; l'anno seguente migliorò il tempo: 2h27′33″. Nel 1980, terza partecipazione e terza vittoria in 2h25′42″. Il fenomeno Waitz, così come quello della maratona femminile, esplodeva dunque là dove si erano prodotte tutte le grandi trasformazioni negli ultimi cinquant'anni. Era un fenomeno di partecipazione collettiva, di interesse economico, di accorrere di sponsor e di curiosità di giornali e televisioni. Era, anche, il crescere di una disciplina sotto l'aspetto tecnico. La IAAF non poteva più non tenerne conto: la maratona femminile fu inserita, prima ai Campionati Europei di Atene del 1982, successivamente ai Mondiali di Helsinki del 1983 e, infine, ai Giochi Olimpici di Los Angeles del 1984. Anche in questo radicale mutamento di regole e costumi, un ruolo decisivo lo giocarono i due nuovi presidenti del CIO, lo spagnolo Juan Antonio Samaranch, e della IAAF, l'italiano Primo Nebiolo, che si accordarono affinché ogni nuova prova, in atletica, venisse inserita nel programma olimpico soltanto dopo che si fosse disputata ai Campionati del Mondo. A sua volta, la IAAF decise che, per esser inclusa nei Mondiali, la disciplina candidata passasse attraverso la sperimentazione continentale.
Ai Campionati d'Europa del 1982 la prima maratona femminile si disputò sul classico percorso, con arrivo nell'antico stadio olimpico: vincitrice fu la portoghese Rosa Mota, mentre l'italiana Laura Fogli si aggiudicò la medaglia d'argento. L'atleta italiana avrebbe ottenuto lo stesso risultato quattro anni più tardi, a Stoccarda, sempre dietro Mota; in questa occasione si aggiudicarono buoni piazzamenti anche Alba Milana, quarta, e Rita Marchisio, decima. A Waitz, che intanto aveva continuato imperterrita a trionfare a New York (collezionando, a fine carriera, nove vittorie in dieci anni) non poteva mancare il primo titolo mondiale: quello del 1983 a Helsinki, mentre le sarebbe sfuggito quello olimpico. Nel 1984, a Los Angeles, la prima maratona olimpica femminile fu vinta da Joan Benoit, minuscola maratoneta del Maine, di lontane origini francesi. La gara di Los Angeles fu un successo ‒ le prime otto atlete sotto le 2h30′ ‒ nonostante la svizzera Gabrielle Andersen-Schiess facesse ricordare, entrando nel Coliseum sotto un sole a picco, l'antica disavventura di Dorando Pietri. La svizzera, difatti, fu colpita da ipotermia, dovuta a disidratazione, cosa che era successa, attorno al 30° chilometro, anche alla neozelandese Ann Audain. Ma nulla, in quella maratona, accadde che potesse in qualche modo far risorgere dubbi sulle qualità di endurance delle donne.
Benoit, che aveva già ottenuto la miglior prestazione mondiale in 2h22′43″ e se l'era vista togliere dalla norvegese Ingrid Kristiansen con 2h21′6″, mostrò ancora una volta la sua straordinaria forza morale vincendo la maratona di Chicago nel 1985 in 2h21′21″, prima che i problemi alle ginocchia, alle articolazioni e ai tendini, ma soprattutto le insistenze dei medici, la convincessero a ridurre il suo impegno. Ciò tuttavia non le impedì di correre, a 43 anni, la maratona di Columbia in 2h39′59″.
Kristiansen, quarta a Los Angeles, aveva mostrato di avere qualità eccezionali di resistenza: ex sciatrice di fondo, passata all'atletica e divenuta primatista del mondo dei 10.000 m, decise di sfidare la gloria di Waitz sulla maratona. Collezionò innumerevoli vittorie, anche se in maratona non le riuscì di vincere né un titolo olimpico né uno mondiale (lo vinse, invece, sui 10.000 m). Tuttavia, fu l'unica atleta a poter vantare, nello stesso tempo, il possesso dei record del mondo dei 5000 m, 10.000 m e maratona.
In quegli stessi anni Rosa Mota non inseguiva primati ma vittorie. Certamente fu una delle più grandi tra le pioniere della maratona: tre titoli europei di seguito, quello mondiale nel 1987, il titolo olimpico nel 1988, e soprattutto un'imbattibilità stupefacente. Tra il 1984 e il 1988, difatti, fu sconfitta soltanto una volta, a Chicago, nel 1985. Nel suo paese diventò un simbolo: eletta 'campione dei campioni' del Portogallo nel 1988, membro del Parlamento nel 1995, onorò in modo perfetto la scuola portoghese di fondo, quella che tra gli uomini si intitola a Carlos Lopes.
L'Africa entrò in scena sul finire degli anni Novanta, condividendo i momenti di gloria con le atlete giapponesi Junko Asari, Hiromi Suzuki, Yuko Arimori. L'etiope Fatuma Roba vinse la maratona olimpica ad Atlanta 1996 davanti alla russa Valentina Yegorova (vincitrice nel 1992). Se attraverso l'atletica si operò anche una rivoluzione importante nel costume delle donne di quel continente, il merito fu però soprattutto di una keniota della Rift Valley, Tegla Loroupe, che mostrò grande forza d'animo e determinazione nel conquistarsi il suo diritto a correre e a costruirsi un avvenire agiato. Loroupe, all'inizio degli anni Novanta, aveva lasciato il Kenya per Detmond, in Germania, dove era andata a vivere presso il suo trainer, Volker Wagner, seguendo meticolose e durissime tabelle di allenamento. Gareggiò ovunque, su strada e su pista, spostandosi freneticamente da un capo all'altro del mondo per non mancare gli appuntamenti con le competizioni e accumulare, nel breve periodo della vita atletica, una fortuna tale da garantire in seguito, a lei e alla sua famiglia, un'esistenza senza problemi economici. Tra i suoi migliori risultati, il record dell'ora, con 18,340 km e quello della maratona: 2h20′47″ nel 1998 a Rotterdam e 2h20′43″ nel 1999 a Berlino. In gara trionfò in grandi maratone come New York (1994, 1995), Rotterdam (1997, 1998, 1999), Berlino (1999), Roma (2000), Londra (2000).
A Berlino, nel 2001, toccò a una giapponese, Naoko Takahashi, abbattere il 'muro' delle 2h20′, riuscendo là dove Loroupe aveva fallito per una manciata di secondi: il nuovo tempo fu 2h19′47″. Soltanto una settimana dopo fu migliorato da un'altra atleta del Kenya, Catherina Ndereba: 2h18′47″.
Questa ascesa non solo agonistica, ma anche simbolica contro preconcetti e limiti psicologici, ha conosciuto un momento di grande fulgore all'inizio del terzo millennio. Il 13 aprile 2003 l'atleta inglese Paula Radcliffe ha portato a compimento la maratona di Londra in 2h15′25″, stabilendo non soltanto il nuovo primato mondiale femminile, ma raggiungendo il risultato di Abebe Bikila, il vincitore della maratona di Roma 1960. Lungo tutto il percorso, milioni di persone avevano applaudito Radcliffe, mentre due corridori, Samson Loywapet e Christopher Kandie, fungevano da pace makers, imprimendo alla gara il ritmo programmato: 32′01″ ai 10 km, 1h04′28″ ai 20 km e 1h08′02″ a metà gara. Il finale diventò ancora più rapido: 1h07′23″ nei secondi 21,97 km. Il risultato non era soltanto la misura del temperamento e del talento di Radcliffe ma anche il segno di un costume che equiparava la fatica dell'uomo e della donna non soltanto nei compensi (Radcliffe si è aggiudicata premi per 250.000 dollari), ma nell'ammirazione della gente. Prima della maratona di Londra 2003 Radcliffe aveva conquistato il titolo mondiale di mezza maratona a Veracruz nel 2000 (successo poi ripetuto nel 2001), e per la prima volta la maratona di Londra nel 2002 (magnifica vittoria, a un soffio dal primato, in 2h18′56″); la sua prestazione era migliorata ulteriormente nell'ottobre 2002, quando a Chicago aveva corso la maratona in 2h17′18″. Nel frattempo Radcliffe dimostrò che l'allenamento per la maratona aveva anche potenziato le sue qualità di resistenza alla velocità. In pista, difatti, migliorava il primato, suo e nazionale, sui 3000 m e, agli Europei di Monaco del 2002, sui 10.000 m dominava avversarie e cronometro sotto una pioggia battente, sfiorando il record del mondo. L'allenatore Mihaly Igloi, che negli anni Cinquanta aveva portato la scuola ungherese alla fama mondiale, sosteneva che il segreto di ogni progresso, specialmente nel mezzofondo e fondo, consisteva nel migliorare i punti forti, senza curarsi di quelli deboli. Esattamente questo principio fu applicato da Radcliffe in quell'inverno 2002: raddoppiò il numero di chilometri percorsi ogni settimana, badando più alla distanza che alla velocità e ponendo da parte l'insistenza su ritmi troppo elevati, così come la ricerca dello sprint. Certamente la sua soglia anaerobica si elevò di molto, permettendole di reggere, senza pagare con un debito d'ossigeno, impegni più onerosi per le gambe.
Con Radcliffe l'evoluzione della maratona femminile poteva dirsi finalmente compiuta, essendosi colmato il distacco al quale l'incultura sociale aveva a lungo condannato le donne. E in questa corsa al progresso, è doveroso sottolinearlo, non è mai mancato l'apporto delle atlete italiane. Fra queste l'ultima da ricordare è Maria Guida che ha conquistato, agli Europei di Monaco 2002, la prima medaglia d'oro in una grande competizione internazionale.
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