Atletica - Le specialità: la marcia
Nel suo concetto generale la marcia è un modo di camminare caratterizzato da un passo costante o cadenzato, che è proprio di truppe in movimento o di cortei. Dal punto di vista sportivo rappresenta l'anello di congiunzione fra il camminare e il correre, e come tale deve rispettare principi tecnici e regolamentari. Per questa ragione è stato necessario definire nei particolari il gesto della marcia sportiva per impedire che sfociasse in una sorta di corsa, per quanto atipica. La regola base della marcia è quella che la definisce come "una progressione di passi eseguita in modo da mantenere con il suolo un contatto ininterrotto". Dunque un piede non può lasciare, dopo la spinta, il terreno prima che l'altro lo abbia già toccato (anche per questo i marciatori sono chiamati gli specialisti del 'tacco e punta'). Tale concetto base con il tempo si è mostrato insufficiente a evitare scorrettezze e per questa ragione nel 1952 alcuni illuminati dirigenti sportivi, tra i quali va menzionato l'italiano Giorgio Oberweger, aggiunsero al regolamento della IAAF, due commi (2 e 3) che chiarirono, oltre ogni dubbio, il concetto di marcia sportiva: "I giudici di marcia devono osservare attentamente che il piede avanzato del marciatore prenda contatto con il terreno prima che il piede che si trova dietro abbia lasciato il suolo stesso, e in particolare che, durante la fase di ogni passo in cui un piede sia a contatto con il terreno, la gamba corrispondente sia tesa (cioè non piegata) almeno per un momento".
Il marciatore deve quindi frenare l'istinto che lo porterebbe, pur di superare un avversario o magari un record, ad andare il più forte possibile. Tutto questo comporta un'andatura non propriamente naturale, se si vuole anche bizzarra. Ancora oggi sono numerosi i denigratori della marcia, numerosi coloro che la considerano solo un surrogato della più nobile corsa e ritengono i marciatori una sorta di 'corridori falliti'. Ma la marcia la nobiltà la conquista nella sua natura stessa, come gesto di grande resistenza. Purtroppo necessità organizzative hanno spesso imposto ai marciatori distanze ridotte, una scelta che non ha giovato all'immagine della disciplina.
Oggi ai Giochi Olimpici si gareggia su due distanze, 20 e 50 km, ma sono in molti a ritenere la prima troppo breve, soprattutto per le andature elevate ormai raggiunte dai più grandi specialisti. Le donne, per le quali la disciplina è entrata a far parte del programma olimpico nel 1992 sulla distanza di 10 km, da Sydney 2000 competono anche sui 20 km.
Testimonianze di gare di marcia nel senso attuale del termine si trovano solo all'inizio dell'atletica moderna nelle sfide fra due individui o di un individuo contro il tempo nell'ambito di quel fenomeno popolare che fu il pedestrianism inglese. Esistevano vere e proprie scuderie e vi erano ingaggi e premi, in denaro e non solo.
In tempi più antichi, tuttavia, si trovano tracce di imprese sportive collegate a epiche marce di resistenza. Si ha notizia, per es., che in Francia, nel 1485, si disputò la marcia Semur-Autun-Semur di 140 km. Nel 1583 un irlandese, tale Lengham, impiegò 42 ore per percorrere 240 km fino a Londra. Nel 1589 Sir Robert Carey, per scommessa, camminò da Londra a Berwick (550 km). In Russia fu famoso un tale Vronov che nel 1709 avrebbe percorso a piedi 380 km, la distanza tra Mosca e Smolensk.
Ma i primi marciatori sportivi devono essere considerati i leggendari footmen inglesi, i quali diedero il via alla fine del 18° secolo a una serie di competizioni sportive. Potevano marciare o correre a loro piacimento, anche se date le straordinarie distanze che andavano a coprire l'andatura di marcia, meno dispendiosa di energie, tendeva a prevalere. Nel 1773 Foster Powell, un personaggio la cui resistenza divenne leggendaria, percorse in 5 giorni e 18 ore la distanza da Londra a York e ritorno, per un totale di 402 miglia; vent'anni più tardi, ormai cinquantanovenne, vi impiegò 2 ore e 3/4 in meno. Mitico camminatore fu lo scozzese Robert Barclay Allardice, conosciuto come 'captain Barclay', che fu capace di percorrere nel 1809 1000 miglia in 1000 ore: vi riuscì in 42 giorni, tra il 1° giugno e il 12 luglio, guadagnando una ghinea per ogni miglio. Molto popolari erano anche le sfide sulle 24 ore.
Le imprese podistiche britanniche trovarono presto emuli al di là dell'oceano. Nel marzo del 1861 Edward Payson Weston, per scommessa, percorse 650 km, da Boston a Washington, per assistere alla proclamazione di Abramo Lincoln a presidente degli Stati Uniti. Nel 1867 guadagnò 10.000 dollari coprendo in 26 giorni la distanza (1326 miglia) da Portland a Chicago. Ma l'exploit che rese Weston famoso, e non solo nel suo paese, fu nel 1909 la traversata a piedi dell'America, da New York a San Francisco, compiuta in 101 giorni (secondo altre fonti 105), percorrendo oltre 6000 km: celebrò così il suo settantesimo compleanno. Dopo sei mesi di riposo rifece il percorso a ritroso e arrivò, a New York, in soli 76 giorni, 23 ore e 10′. La via seguita fu più diretta di quella dell'andata ma restarono forti dubbi sulla veridicità del risultato. Weston, che era nato nel 1839 a Providence (Rhode Island), visse fino a 90 anni.
La prima gara ufficiale di marcia veloce ebbe luogo nel 1866 a Londra: nel corso del primo campionato britannico si disputò una prova sulle 7 miglia. Vinse in 59′32″ il ventitreenne John Chambers, che faceva parte della squadra di canottaggio di Cambridge e fu fra i promotori della storica sfida fra le università di Cambridge e Oxford. Queste prove su distanze brevi creavano seri problemi ai giudici. Le cronache dell'epoca riferiscono come spesso la marcia degli atleti si tramutasse in una vera e propria andatura di corsa.
Alla fine dell'Ottocento gare di fondo erano nate un po' in tutta Europa. Grande notorietà raggiunse il francese Louis Ortègue: nel 1892 percorse in 28 giorni la distanza tra Milano e Amsterdam; nel 1893 impiegò 7 giorni e 6 ore per andare da Marsiglia a Parigi (833 km); nel 1895 in 12 giorni percorse, via Marsiglia, i 1100 km da Torino a Barcellona. Fra i protagonisti italiani ci fu Carlo Airoldi, il muratore di Saronno che nel 1896 tentò invano di prendere parte alla maratona di Atene.
La marcia fece la sua apparizione olimpica nei Giochi intermedi di Atene del 1906 dove si disputarono due gare sulle distanze di 1500 e 3000 m. Soprattutto la prova più breve fu un caos: i primi due atleti classificati, l'inglese Richard Wilkinson e l'austriaco Eugen Spiegler, vennero squalificati e la vittoria fu assegnata al terzo arrivato, lo statunitense George Bonhag, ma non senza forti contrasti fra i giudici. Sui 3000 m vinse l'ungherese Gyorgy Sztantics, dopo un'altra squalifica (ma stavolta a 50 m dal traguardo) di Wilkinson e Spiegler.
A Londra, nel 1908, la marcia assegnò le sue prime vere medaglie olimpiche. Due le distanze: i 3500 m e le 10 miglia. Entrambe le prove, disputate a quattro giorni una dall'altra, furono vinte dal trentatreenne poliziotto di Brighton George Larner. Ai Giochi di Stoccolma del 1912 fu inserita nel programma solo la prova sui 10 km, vinta dal canadese George Goulding che era stato già quarto nel 1906 sui 3500 m. Goulding sbaragliò il campo (46′28,4″ il suo tempo finale): tre dei dieci finalisti si ritirarono, altri tre furono squalificati. Tra i quattro giunti al traguardo c'era anche un diciannovenne tipografo milanese, Fernando Altimani. Conquistò il bronzo, prima medaglia di quella che sarà una tradizione che ha arricchito, come poche altre discipline, lo sport italiano. Altimani, che si allenava la sera dopo aver lasciato il lavoro, fu autore di diverse migliori prestazioni mondiali, benché mai omologate dalla IAAF. Una ferita riportata in guerra gli impedì di essere presente ai Giochi di Anversa del 1920, ma venne rimpiazzato come meglio non si poteva da un altro giovane milanese, anche lui tipografo, Ugo Frigerio. A 19 anni era già capace di marciare con eleganza e alla fine delle gare era solito ringraziare i giudici che pur avevano scrutato con attenzione la sua azione. Frigerio vinse prima sulla distanza dei 10 km (48′06,2″), con un vantaggio di circa 250 m sul secondo, l'americano Joe Pearman (l'altro azzurro in gara, Donato Pavesi, finì settimo ma venne squalificato). Tre giorni dopo fece il bis sui 3 km in 13′14,2″. Quelle di Frigerio furono le prime medaglie d'oro dell'atletica italiana e, ancor oggi, il tipografo milanese resta il più giovane olimpionico italiano della storia. In Italia le imprese di Frigerio, che per gli appassionati italiani divenne il 'fanciullo di Anversa', regalarono ulteriore popolarità alla marcia che già si era consolidata con una serie di classiche, dalla Cento chilometri, al Giro di Milano, al Giro di Roma. Poi nell'ambito militare nacque il Trofeo Scudo Nelli. Dal 1907 già si disputavano i campionati italiani sui 10 km in pista.
Ai Giochi di Parigi nel 1924 Frigerio conquistò il suo terzo oro in quella che fu la sola prova del programma: la 10 km, nella quale dominò in 47′49″ (secondo il britannico Gordon Goodwin a circa 50″). Ma fu tutta la marcia italiana a dare una straordinaria prova d'assieme: Pavesi, che era diventato grande specialista della Cento chilometri (vinse cinque edizioni), fu quarto; Armando Valente, un genovese di talento, settimo e il diciannovenne Luigi Bosatra ottavo. Ma Parigi fu una tappa funesta per la storia della marcia olimpica: durante le batterie dei 10 km vi furono forti contrasti fra i giudici e si decise di cancellare la marcia dai Giochi successivi, quelli di Amsterdam del 1928.
I marciatori azzurri continuarono a farsi onore: Frigerio, nel 1925, venne invitato negli Stati Uniti per una tournée e partecipò a una serie di riunioni indoor. Era considerato una star alla pari del grande mezzofondista finlandese Paavo Nurmi, presente anche lui in terra americana. Nel 1926, a Bologna, Valente conquistò il record mondiale sui 20 km in pista con 1h39′20,4″, tempo che nel giro di poco meno di un anno venne migliorato da Attilio Callegari (1h38′53,2″) e poi da Pavesi (1h37′42,2″). Valente si riprese il record nella sua Genova il 25 ottobre 1930 con il tempo di 1h36′34,4″. A settembre, a Parigi, era diventato anche il primatista sulle 2 ore con 24,277 km che un anno dopo, sempre a Parigi, divennero 24,373.
La marcia olimpica fu nuovamente inclusa nei Giochi nell'edizione del 1932 a Los Angeles: una sola prova, quella sui 50 km. Al via si presentò anche il trentunenne Frigerio nonostante tre anni prima avesse deciso di ritirarsi. L'ex fanciullo di Anversa, su una distanza non sua, fece comunque una gara di grande coraggio terminando al terzo posto. La vittoria andò, con un vantaggio di oltre 7′ sul secondo classificato (il lettone Janis Dalins), al trentottenne ferroviere britannico Thomas Green, la cui vittoria apparve tanto più sorprendente in quanto Green, a causa di una malattia, non aveva potuto camminare fino all'età di 5 anni e si era iscritto alla sua prima gara di marcia solo nel 1926 a 32 anni. In California si classificò quinto un altro italiano di valore, Ettore Rivolta, anche lui milanese (nato nel 1904). Rivolta conquistò la medaglia di bronzo ai primi Europei del 1934 e quattro titoli italiani sulla lunga distanza. Anche nel 1936 a Berlino si disputò solo la 50 km e vinse ancora un britannico, il trentaduenne meccanico d'auto Harold Whitlock, nonostante una grave crisi di stomaco lo avesse colpito a 12 km dall'arrivo. Whitlock, che si aggiudicò nel 1938 anche il titolo europeo, si ripresentò alla partenza di una 50 km olimpica nel 1952, a Helsinki: aveva 49 anni ma finì la gara con un onorevole undicesimo posto.
La guerra fermò le Olimpiadi ma non la marcia sportiva. Figura di spicco fu il finlandese Werner Hardmo che tra il 1943 e il 1945 stabilì 29 primati mondiali (non tutti omologati) su distanze tra i 3000 m e le 10 miglia, senza tuttavia riuscire a raccogliere allori nelle grandi competizioni. Il suo stile lasciava perplessi i giudici che lo squalificarono sia ai Campionati Europei di Oslo nel 1946 sia ai Giochi di Londra nel 1948. In Italia emerse il triestino Giuseppe Kressevich, vincitore tra il 1939 e il 1945 di sei titoli italiani sui 10 km in pista e di uno sulla 50 km su strada.
Alla ripresa delle grandi manifestazioni internazionali, che coincise con gli Europei del 1946, disputati a Oslo, ci si accorse della nascita di una nuova grande scuola, quella svedese, emersa sull'onda dell'entusiasmo suscitato dai grandi campioni del mezzofondo. I marciatori svedesi gettarono le basi per quella che sarebbe diventata l'azione tecnica moderna: niente passi ampi, ma ricerca di equilibrio tra frequenza e ampiezza. A primeggiare furono John Mikaelsson e John Ljunggren. Il primo trionfò nella 10 km europea e poi due anni dopo conquistò anche il titolo olimpico nei risorti Giochi del 1948 a Londra. La stessa cosa fece nella 50 km Ljunggren che vinse l'oro a Oslo nel 1946 e a Londra nel 1948. Poi nel 1952 a Helsinki, Mikaelsson concluse la sua straordinaria carriera a 39 anni (al suo attivo ci furono anche 14 primati mondiali ufficiali) vincendo ancora il titolo olimpico sui 10 km. In quella gara finì secondo lo svizzero Fritz Schwab, figlio d'arte: il padre Arthur aveva vinto l'argento a Berlino nel 1936 sulla 50 km.
Nella 10 km di Helsinki furono inflitte, tra batterie e finale, molte squalifiche e questo indusse i dirigenti a cancellare la prova dal programma olimpico, per sostituirla, a partire dal 1956, con la 20 km. A Melbourne, conquistò il bronzo sulla 50 km Ljunggren che a Helsinki nel 1952 era stato soltanto nono. Nel 1960, a Roma, ormai quarantunenne, Ljunggren tagliò il traguardo al secondo posto, a pochi metri dal vincitore, il britannico Donald Thompson. Si presentò al via anche ai Giochi di Tokyo 1964 (due anni prima era stato quinto agli Europei di Belgrado) e finì con un onorevole sedicesimo posto e un tempo migliore di quello che nel 1948 gli aveva regalato l'oro olimpico.
Nel dopoguerra, accanto alla scuola svedese, si rinnovarono quelle già ricche di tradizione come l'italiana e la britannica e iniziò a emergere quella sovietica, che colse i primi successi con Vladimir Ukhov, campione europeo della 50 km di Berna 1954, e con Leonid Spirin, campione della debuttante 20 km olimpica a Melbourne 1956. Un successo, questo, completato dal secondo posto del sovietico-lituano Antanas Mikenas, dal terzo del sovietico-estone Bruno Junk (già secondo nel 1952 sui 10 km) e dall'argento di Yevgeni Maskinskov sulla 50 km. Ma il più grande interprete della marcia sovietica, che stilisticamente non rinnegò la ricerca del passo ampio, fu l'ucraino di Sumy, Vladimir Golubnichy, uno dei più grandi marciatori di ogni epoca. Sui 20 km la sua andatura dinoccolata non conosceva pause: a 24 anni vinse l'oro ai Giochi Olimpici di Roma 1960; a 28 il bronzo a Tokyo 1964; a 32 anni ancora l'oro a Città del Messico 1968 (avendo la meglio sull'idolo di casa, José Pedraza, allo sprint); a 36 anni l'argento a Monaco 1972 e infine, ormai quarantenne, fu settimo a Montreal 1976, con un tempo (1h29′24,6″) di circa 4 minuti e mezzo inferiore a quello con cui aveva vinto l'oro 16 anni prima a Roma. Agli Europei Golubnichy conquistò un oro (Roma 1974), un argento (Budapest 1966) e un bronzo (Belgrado 1962). Fu inoltre primatista mondiale sulla 20 km e il suo record stabilito nel 1958 (1h27′05″) resistette 11 anni.
Anche la scuola italiana nel dopoguerra seppe riproporsi ai vertici mondiali, soprattutto con due atleti: prima il piacentino Giuseppe ('Pino') Dordoni e poi l'istriano di Fiume, Abdon Pamich. Dordoni, che si esprimeva con una marcia di grande eleganza, fu presente a quattro edizioni dei Giochi Olimpici e a tre dei Campionati Europei. Dopo il nono posto ai Giochi di Londra sulla 10 km, dove fu ottavo il siciliano Gianni Corsaro, Dordoni ebbe il suo triennio di massima gloria tra il 1950 e il 1952. Capace di dare il meglio sulla 50 km, vinse gli Europei di Bruxelles del 1950 (nono il palermitano Salvatore Cascino che fece meglio nei 10 km finendo al quarto posto) e poi conquistò, a 26 anni, l'oro olimpico a Helsinki 1952, dove arrivò al traguardo con 2 minuti di vantaggio sul cecoslovacco Josef Dolezal e con un nuovo primato olimpico di 4h28′07,8″. In una giornata piovosa, nonostante seri problemi ai piedi, Dordoni aveva saputo dosare al meglio lo sforzo, ma dopo il traguardo ebbe una vera crisi da cui tuttavia si riprese rapidamente. In seguito Dordoni partecipò, con molta meno fortuna, ad altre due Olimpiadi: fu nono sulla 20 km a Melbourne 1956 e settimo sulla 50 km a Roma 1960. L'anno dopo si ritirò per restare nel mondo della marcia come tecnico di riconosciuto valore.
Dordoni aveva ormai passato il testimone a Pamich, che interpretò la marcia con una dedizione quasi ascetica e secondo i classici canoni tecnici che privilegiavano l'ampiezza del passo alle frequenze. Pamich fece la sua prima importante apparizione internazionale a 21 anni, agli Europei di Berna del 1954 giungendo settimo nella 50 km, la sua distanza di battaglia. Nel 1956 partecipò alla prima delle sue cinque Olimpiadi: quarto sulla 50 km e undicesimo sulla 20 km. A Roma 1960, dopo aver vinto la medaglia d'argento agli Europei del 1958, non riuscì a coronare il sogno di vittoria: si arrese a Thompson e al leggendario Ljunggren ma non mancò comunque di salire sul podio. L'oro arrivò quattro anni più tardi a Tokyo. Il successo fu annunciato dalle vittorie nel 1961 e 1963 nel Trofeo Lugano (una neonata manifestazione che divenne un nuovo importante appuntamento internazionale per i marciatori), dai record mondiali stabiliti il 19 novembre 1961 nello Stadio Olimpico di Roma sulle 30 miglia (4h04′56,8″) e sui 50 km (4h14′02,4″), e infine dal titolo europeo vinto nel 1962 a Belgrado (nel 1966 vi fu il bis a Budapest). A Tokyo, in un giorno di pioggia, fu una sfida serrata tra Pamich e il britannico Paul Nihill. Per Pamich, ormai trentunenne, tutto sembrò compromesso quando, a causa di una bevanda gelata, intorno al 38° km fu colpito da una colica intestinale che lo costrinse a fermarsi. Ripartito, riuscì ad arrivare sul traguardo precedendo l'inglese di 18,8″ e strappò, con un gesto più liberatorio che rabbioso, il filo di lana: il sogno di una carriera si era avverato.
Pamich fu poi presente a Città del Messico nel 1968 dove però, debilitato da una gastroenterite, dovette ritirarsi. Andò ancora peggio nel 1972 a Monaco, quando ormai trentanovenne venne squalificato. La sua passerella finale era stata quella degli Europei di Atene 1969 con il sesto posto nella 20 km, dove trionfò Nihill, il suo rivale di Tokyo. Pamich continuò a lungo a gareggiare, con successo, tra i veterani. Intanto nuovi specialisti azzurri si erano messi in luce, tra cui il 'regolare' pescarese Vittorio Visini, già sesto sulla 50 km, a Città del Messico e poi settimo sempre sulla 50 km a Monaco 1972, mentre sulla 20 km finì ottavo, piazzamento ripetuto a Montreal 1976.
Intanto in campo internazionale c'era stata la prepotente avanzata degli specialisti della Repubblica Democratica Tedesca che avevano avuto in Dieter Lindner (quarto a Roma e secondo a Tokyo sulla 20 km) un precursore. I tedeschi dell'Est esasperarono la scelta di alte frequenze a discapito della lunghezza del passo e limitarono anche il movimento delle anche. Una scelta felice: in tre edizioni dei Giochi Olimpici (1968, 1972 e 1976) i marciatori della RDT vinsero tre ori (con Christoph Hohne la 50 km a Città del Messico, con Peter Frenkel la 20 km a Monaco 1972, con Hartwig Gauder la 50 km a Mosca 1980), un argento (con Hans Reimann nella 20 km a Montreal 1976) e tre bronzi (ancora con Reimann nel 1972, poi con Frenkel sulla 20 km nel 1976 e infine con Roland Wieser nel 1980 ancora nella 20 km). Arrivarono anche i titoli europei di Hohne nel 1969 e 1974 (sulla 50 km) e di Wieser nel 1978 (sulla 20 km). Negli anni Settanta i tedeschi dell'Est fecero anche incetta di primati del mondo.
Nel frattempo era già emersa una nuova scuola, quella messicana, nata grazie all'abilità di un ingegnere polacco di Danzica, Jerzi Hausleber, che la Federazione messicana chiamò a organizzare una squadra per i Giochi Olimpici del 1968. Hausleber andò subito a segno con l'argento conquistato da José Pedraza. Ma era solo l'inizio. Il tecnico polacco si trovò a disposizione atleti per lo più bassi di statura ma assai agili e per loro 'inventò' una nuova tecnica che, grazie all'incremento della forza e alla mobilità degli arti inferiori, potesse privilegiare l'ampiezza del passo. A Montreal 1976 arrivò l'oro olimpico, il primo per il Messico nell'atletica leggera, di Daniel Bautista che, con il tempo di 1h24′40,6″ (nuovo primato dei Giochi), precedette un terzetto di specialisti della RDT: Reimann, Frenkel e Karl-Heinz Stadtmuller. Quinto fu un altro messicano, Raul Gonzalez, che certamente sarebbe finito sul podio della 50 km se la commissione tecnica del CIO non avesse deciso di togliere la gara dal programma olimpico con una decisione assai criticata dal mondo dell'atletica, tanto da costringere il Comitato Olimpico a tornare sui suoi passi. La Federazione internazionale di atletica decise di far disputare, nello stesso 1976, una gara a cui fu data l'etichetta di Campionato del Mondo: il 18 settembre a Malmö vinse uno dei più forti specialisti dell'epoca, il sovietico Venyamin Soldatenko, in 3h54′40″.
Gonzalez, dopo un sesto posto conquistato ancora nella 20 km a Mosca 1980, dove nella 50 km fu solo diciassettesimo, si sarebbe rifatto, a 32 anni, a Los Angeles 1984 con l'oro conquistato con quasi sei minuti di vantaggio sullo svedese Bo Gustafsson. Gonzalez fu sul punto di vincere anche l'oro della 20 km, dove invece fu secondo a 7″ dal connazionale Ernesto Canto che nel 1983 aveva già trionfato nell'edizione inaugurale dei Campionati Mondiali, a Helsinki. Gonzalez vinse anche tre edizioni del Trofeo Lugano e migliorò due volte il mondiale in pista della 50 km portandolo nel 1979 a 3h41′39″. In ambito olimpico Bautista si dovette accontentare dell'oro a Montreal. In quell'occasione la sua azione, dove spesso non mancava un'accentuata fase aerea, documentata anche da immagini fotografiche, ricevette forti critiche che pagò a Mosca 1980, quando venne squalificato a 2500 m dall'arrivo mentre era al comando.
A Mosca vi fu invece il trionfo della marcia italiana grazie a un tenace ragazzo piemontese, Maurizio Damilano. La marcia azzurra si era già fatta onore a Monaco e Montreal con i piazzamenti di Vittorio Visini. Damilano, che era allenato dal fratello maggiore Sandro, si era messo in luce agli Europei di Praga 1978, quando era finito al sesto posto in una gara dove avevano brillato anche lo studente romano di architettura Roberto Buccione (ottavo) e il fiorentino Alessandro Pezzatini (dodicesimo). A Mosca andò alla partenza accompagnato dal gemello Giorgio, che terminò con un onorevole undicesimo posto. Maurizio si trovò nel finale la strada spianata dalle squalifiche di Bautista e del sovietico Anatoly Solomin. Damilano, che allora aveva 23 anni, non riuscirà più a vincere l'oro olimpico, ma la sua carriera, che concluse nel 1992, gli riservò altre grandi soddisfazioni, facendo di lui un personaggio di spicco in tutta la storia dell'atletica italiana. L'azione tecnica di Damilano seguì le innovazioni già proposte dal finanziere Armando Zambaldo (sesto a Montreal nella 20 km dopo il quarto posto conquistato agli Europei di Roma 1974). Il tentativo fu quello di allungare i tempi della fase di doppio appoggio grazie a un leggero spostamento laterale delle anche. Tuttavia Damilano si trovò con seri problemi tecnici agli Europei del 1982, quando toccò a lui la squalifica, un'amarezza che aveva già provato nel Trofeo Lugano del 1979. Ma con l'aiuto del fratello Sandro riuscì a superare il momento difficile e a riequilibrare il suo gesto tecnico.
Intanto la marcia conquistò nuovi palcoscenici. Come già ricordato, nel 1983 si disputò a Helsinki la prima edizione dei Campionati Mondiali di atletica. Sempre nel 1983 la IAAF decise di tramutare il Trofeo Lugano in Coppa del Mondo. Successivamente la marcia trovò spazio anche nei Mondiali indoor che partirono dal 1987 con un'edizione introduttiva disputata nel 1985 a Parigi. Il numero delle gare, la diffusione sempre maggiore della marcia ma soprattutto l'inevitabile tentativo di aumentare, insieme alla resistenza, la rapidità del passo, crearono alla disciplina negli anni seguenti nuovi e grandi problemi d'immagine, tanto da mettere a rischio anche la sua permanenza nell'ambito olimpico.
Ai Giochi di Los Angeles del 1984 Damilano fu terzo dietro il duo messicano Canto-Gonzalez. Un buon quinto posto, nella 20 km, fu guadagnato dall'altro azzurro Carlo Mattioli, un carabiniere pescarese, già trentenne, mentre un altro bronzo arrivò dalla 50 km con il piazzamento del finanziere di Lanuvio Alessandro Bellucci, che l'anno precedente, alla prima edizione dei Mondiali, era stato settimo. Diede sostanza alla spedizione italiana in California anche il quinto posto, sempre sulla 50 km, del lombardo Raffaello Ducceschi. Damilano tentò anche sulla 50 km ma non riuscì a terminare la gara. Il desiderio dell'azzurro di emergere anche sulla distanza più lunga rimarrà incompiuto.
Damilano trovò gloria soprattutto in sede di Campionati del Mondo: vinse a Roma 1987 e poi a Tokyo 1991. A Roma seppe sconfiggere la resistenza dell'affidabile slovacco Jozef Pribilinec, distanziato alla fine di 22″. Ancora una volta vi fu l'eccellente prova di Mattioli, che giunse di nuovo quinto. A Tokyo 1991, Damilano combatté fino all'ultimo con il sovietico Mikhail Shchennikov, superato alla fine per 9″. I due entrarono insieme nello stadio, Shchennikov scattò non rendendosi conto che mancava un intero giro prima di giungere al traguardo. Damilano non reagì, non perse il controllo della situazione e rimontò il sovietico, ormai senza più energie. Al quarto posto finì il carabiniere pescarese Giovanni De Benedictis, settimo fu il catanese Walter Arena. In sede olimpica Damilano fu ancora terzo nel 1988 e poi quarto a Barcellona 1992. Entrando nello stadio catalano fu salutato da un'ovazione e ringraziò togliendosi il berretto bianco. Alla fine della stagione, ormai trentacinquenne e soprattutto appagato, decise di chiudere la sua avventura sportiva e lo fece nel modo migliore, stabilendo a Cuneo, il 3 ottobre, i primati mondiali delle due ore (29,572 km) e della 30 km (2h01′44,1″).
Un'altra figura di spicco emersa in quegli anni fu quella del cecoslovacco Jozef Pribilinec, che vinse l'argento sui 20 km ai Mondiali del 1983 e del 1987 ma fu campione olimpico a Seul 1988, nella gara che vide la squalifica del messicano Canto, così come era avvenuto ai Mondiali dell'anno prima. Pribilinec fu anche campione d'Europa nell'edizione del 1986.
Era nata nel frattempo anche la scuola spagnola della marcia che aveva avuto come apripista Jorge Llopart, vincitore del titolo europeo sulla 50 km nel 1978 e poi della medaglia d'argento a Mosca, sempre sulla distanza più lunga. Accanto a lui si mise in luce José Marín, validissimo interprete sia della 20 km sia della 50 km: sommando entrambe le distanze, fu tra i primi sei classificati per otto volte tra Mondiali e Olimpiadi, ma mai vincitore (il miglior piazzamento fu l'argento sulla 50 km a Helsinki 1983). Non fallì però la vittoria sui 20 km agli Europei del 1982.
Ai Giochi Olimpici del 1992 a Barcellona sulla 20 km trionfò Daniel Plaza, un ventiseienne nato proprio nella città delle olimpiadi, allenato da Llopart. L'anno prima, ai Mondiali di Tokyo, era stato squalificato 10 minuti dopo essere giunto terzo al traguardo. A Barcellona i giudici punirono invece il suo compagno di squadra Valentí Massana, anche lui di Barcellona e anche lui allenato da un ex-campione, Marín, fermato quando era in seconda posizione a soli 800 m dallo stadio. Nel finale fu squalificato anche il polacco Robert Korzeniowski. Delle squalifiche seppe approfittare il pescarese ventiquattrenne De Benedictis, che era stato già quarto ai Mondiali di Tokyo, e a cui andò alla fine il bronzo. De Benedictis arrivò appena davanti a Damilano in quello che sembrò un ideale passaggio di consegne. Il pescarese rimase a lungo ai vertici della marcia mondiale senza mai cogliere la grande vittoria, neppure dopo essere passato dai 20 ai 50 km: si dovette accontentare dell'argento, sulla distanza più breve, ai Mondiali del 1993.
A Barcellona 1992 il titolo della 50 km andò all'ingegnere siberiano Andrei Perlov, che l'anno prima, ai Mondiali di Tokyo, era stato squalificato addirittura dopo il traguardo dove era giunto prima di tutti. Ma il caso marcia, con gli atleti squalificati dopo aver tagliato il traguardo o in prossimità di esso, emerse in tutta la sua assurdità nel 1993, ai Mondiali di Stoccarda. Massana si rifece della delusione di Barcellona vincendo il titolo sulla 20 km, mentre il successo sulla 50 km premiò un altro spagnolo, il madrileno Angel García. Sulla 20 km sei marciatori furono messi fuori gara negli ultimi 400 m, all'interno dello stadio, davanti a 47.000 spettatori: tra di essi il messicano Daniel García che era secondo, il sovietico Shchennikov che era terzo, il messicano Bernardo Segura che era sesto. Il meccanismo delle squalifiche prevedeva che i giudici lungo il percorso, dopo un certo numero di avvertimenti (segnalati con una paletta bianca dove era simboleggiato il tipo di infrazione commessa), potessero infliggere all'atleta un'ammonizione, che veniva mostrata attraverso un cartellino rosso. Tre cartellini rossi significavano l'espulsione. Un segretario di giuria teneva il conto dei cartellini che, in particolare a Stoccarda, venivano consegnati da ragazzini in bicicletta. Commessa un'infrazione decisiva, spesso passava del tempo prima che questa venisse comunicata all'atleta dal presidente della giuria o da un membro di essa.
Il presidente della IAAF Primo Nebiolo chiese allora a una commissione di 'saggi della marcia' che includeva, tra gli altri, Damilano, Llopart e Gonzalez, di trovare delle contromisure per dare nuova credibilità alla disciplina. Molte delle proposte della commissione furono accolte: si stabilì di cancellare le brevi gare di marcia dai programmi indoor (le piste sopraelevate non consentivano un giudizio corretto sull'azione dei marciatori), di portare la gara delle donne da 10 a 20 km, di riorganizzare tutto il sistema delle giurie e soprattutto di evitare squalifiche degli atleti che avessero già tagliato il traguardo. Ma la decisione più importante riguardò l'essenza stessa della marcia. Studi fatti dai norvegesi avevano dimostrato che a ritmi intorno ai 4′ al chilometro era praticamente impossibile evitare sempre un'azione aerea. Ai giudici fu chiesto dunque di non considerare più obbligatorio per l'atleta il contatto con il suolo, ma piuttosto di valutare quanto si cercasse di mantenere il contatto stesso. In pratica non doveva esserci un'espressa volontà di evitare il contatto e comunque la fase aerea non doveva essere visibile a occhio nudo. Successivamente la IAAF diede anche una nuova, più restrittiva, interpretazione di quella regola che era diventata la madre di tutte le squalifiche: l'arto doveva essere bloccato al ginocchio fin dal suo primo contatto con il terreno e non solo al momento della posizione 'verticale', ovvero quando il piede si trova perfettamente in linea con la verticale del corpo. Attualmente la definizione di marcia scritta nel regolamento internazionale recita: "La marcia è una progressione di passi eseguiti in modo tale che l'atleta mantenga il contatto con il terreno, senza che si verifichi una perdita di contatto visibile (all'occhio umano). La gamba avanzante deve essere tesa (cioè non piegata al ginocchio) dal momento del primo contatto con il terreno sino alla posizione verticale".
I Campionati Mondiali successivi, che avevano ormai preso una cadenza biennale, si svolsero a Göteborg nel 1995 e l'Italia vinse nuovamente la medaglia d'oro grazie a un giovane milanese, il ventiduenne di Quarto Oggiaro Michele Didoni, allenato dal tecnico Pietro Pastorini, che festeggiò anche l'argento conquistato sui 50 km da un altro suo allievo, il già esperto Gianni Perricelli. L'anno seguente, ai Giochi di Atlanta, le speranze azzurre nate in Svezia non si concretizzarono: Didoni finì addirittura trentaquattresimo, mentre Perricelli si dovette accontentare del tredicesimo posto sulla 50 km e del sedicesimo sulla 20 km. Su quest'ultima distanza vi fu la vittoria, sicuramente non pronosticabile, dell'ecuadoregno Jefferson Leonardo Pérez Quezada, che ai Mondiali dell'anno precedente era stato appena trentatreesimo (al suo attivo aveva però la vittoria ai Campionati Mondiali juniores del 1992). Con il successo olimpico Pérez divenne in Ecuador, che non aveva mai vinto una medaglia olimpica, un eroe nazionale. Gli dedicarono un francobollo, una canzone e una poesia. Lo Stato gli regalò una casa, un'auto e gli garantì un vitalizio. Perez precedette di 9″ il russo Ilya Markov, che nel 1999 trionferà ai Mondiali di Siviglia, e il messicano Segura, che nel 1994 in Norvegia, a Bergen, aveva portato il record mondiale dei 20 km su pista allo straordinario tempo di 1h17′25,6″.
Non fu invece una sorpresa il successo nella 50 km del polacco Korzeniowski, già ottavo nella 20 km. Korzeniowski, piccolo e compatto, praticava una marcia che dava spazio soprattutto alle frequenze. Da alcuni anni viveva in Francia, a Tourcoing, vicino alla frontiera con il Belgio. Per il polacco il successo di Atlanta 1996 (l'Italia applaudì il quarto posto ottenuto dal napoletano Arturo Di Mezza) fu solo la partenza per una marcia trionfale. Korzeniowski vinse, sempre sulla 50 km, anche i Mondiali di Atene 1997 (Di Mezza finì ottavo) e compì il suo capolavoro ai Giochi Olimpici di Sydney 2000 dove, primo atleta nella storia olimpica, vinse il 22 settembre l'oro sulla 20 km e sette giorni dopo quello sulla 50 km. L'anno dopo, nel 2001, conquistò nuovamente, a Edmonton, in Canada, il titolo mondiale sulla 50 km. Nel 2002 a Monaco non mancò l'appuntamento con il titolo europeo, già vinto quattro anni prima a Budapest, e infine a Parigi 2003 vinse nuovamente il titolo sulla 50 km stabilendo con 3h36′03″ il primato mondiale, risultato che gli valse un 'bonus' di 100.000 dollari. Tornò al successo sulla 20 km anche Pérez che concluse la gara in 1h17′21″, record del mondo a partire dal 1° gennaio 2004, data stabilita dalla IAAF per il riconoscimento ufficiale delle prestazioni su strada come primati del mondo ufficiali.
Sul finire del secolo 20° la marcia azzurra aggiunse, in modo alquanto inusuale, un'altra medaglia d'oro nella sua già ricca bacheca, quella del ventitreenne finanziere milanese Ivano Brugnetti, fino allora solo un promettente giovane nel panorama della marcia italiana. Il milanese, allenato da Antonio La Torre, vinse il titolo sulla 50 km ai Mondiali di Siviglia del 1999, dove Di Mezza si piazzò bene con il suo sesto posto. In realtà era arrivato secondo, dietro il russo German Skurygin e 24″ prima di Nykolay Matyukhin. A distanza di due anni, dopo un lungo procedimento, la Federazione internazionale decise di sospendere per due anni Skurygin, che a Siviglia era stato trovato positivo, per uso di testosterone, al controllo antidoping, e Brugnetti divenne il campione del mondo. Ai Giochi di Sydney Brugnetti fu coinvolto nella débâcle della squadra nella 50 km: si ritirò come Di Mezza e Perricelli. Nella 20 km né Alessandro Gandellini (un altro milanese), nono, né Didoni, undicesimo, riuscirono a lottare per le medaglie. Ai Mondiali di Edmonton 2001, Brugnetti non gareggiò: Marco Giungi, un finanziere nato in Finlandia, fu ottavo nella 50 km. Non andarono meglio le cose ai Mondiali di Parigi 2003: il migliore fu Lorenzo Civallero, appena undicesimo sui 20 km, meglio di Didoni solo sedicesimo.
La marcia si è aperta ufficialmente alle donne solo in tempi recenti. Il primo record mondiale risale al 24 luglio 1981: 22′50″ realizzato dalla sovietica Aleksandra Dyeverinskaya sui 5 km in pista. Nello stesso anno, il 17 ottobre, la svedese Anne Jansson coprì i 10 km, sempre in pista, in 47′58,2″. Fu il primo record omologato su questa distanza. Oggi la IAAF riconosce anche il record sulla 20 km.
Non a caso a mettersi in luce in quella che si può considerare l'alba della marcia donne è stata una svedese. Infatti furono le svedesi, e in genere le scandinave, le prime a proporre la marcia come gesto sportivo adatto anche alle donne. Sebbene si abbia notizia che la francese Albertine Regel abbia percorso a Parigi, l'11 novembre 1926, 10 km in 58′01″, negli anni Trenta e Quaranta furono le specialiste della Svezia a cimentarsi già con buoni tempi su gare in strada. Nel 1942 Stina Lindberg percorse i 10 km in 51′11″. Solo nel 1972 fu registrato un tempo migliore (48′53″) grazie a Margarita Simu, la dominatrice di quegli anni che poi diede il cambio alla norvegese Thorill Gylder capace, il 15 settembre 1979, di ottenere un tempo di 47′24″. Ma ormai la marcia femminile, grazie anche al forte contributo di atlete russe e australiane, aveva vinto la sua battaglia.
Per quanto riguarda l'Italia, l'annuario della Federazione riporta come primo dato della marcia femminile il 61′34,1″ ottenuto da Emanuela Perina, il 13 maggio 1979 a Voghera. Precedette di circa 4 mesi il risultato sui 5 km (25′55,1″) che Giuliana Salce realizzò a Forlì, l'8 settembre. Salce, nata a Roma il 16 giugno 1955, è stata la pioniera della marcia italiana. Il primo titolo nazionale lo conquistò tuttavia la milanese Paola Pastorini, che a Torino, nel 1981, vinse in 27′28,5″ i 5 km su pista.
A livello internazionale la marcia donne fece la sua apparizione nel Trofeo Lugano del 1979, con una prova su strada di 5 km che fu vinta, a Eschborn, dalla britannica Marion Fawkes (Salce arrivò diciottesima) in 22′51″. Nel 1985 la IAAF fece disputare una prova indoor sui 3 km nell'ambito dei primi Giochi Mondiali al coperto (dal 1987 sarebbero diventati stabilmente i Mondiali indoor), svoltisi a Parigi. Furono vinti da Salce in 12′43,2″. In quello stesso anno la marcia donne entrò anche nel programma degli Europei juniores, con una gara sui 5 km, distanza che dal 2001 è stata raddoppiata.
Il CIO ammise ai Giochi Olimpici le marciatrici solo dal 1992 con una gara sui 10 km in strada. La IAAF aveva però precorso i tempi inserendo la disciplina già dall'edizione 1987 dei propri Mondiali disputati a Roma. Ma a giocare davvero d'anticipo era stata la Federazione europea che l'anno prima, agli Europei di Stoccarda, aveva già assegnato un titolo sui 10 km. Assenti le italiane, il primo oro continentale fu vinto dalla giovanissima spagnola (aveva 17 anni) Maria Cruz Diaz, la stessa che nel 1985 aveva vinto il primo titolo europeo juniores e che ai Mondiali di Roma del 1987 avrebbe tenuto tutti con il fiato sospeso per la grave crisi che subì dopo aver tagliato il traguardo al quarto posto, esausta per la sforzo, reso più duro dall'afosa giornata romana. Non fu la sola a stramazzare al suolo dopo l'arrivo. Nacquero subito critiche e polemiche sull'opportunità di far compiere alle donne una tale fatica, un copione che lo sport al femminile ha ben conosciuto nella sua storia. Ma ormai il cammino era iniziato. La donna, che per sua natura ha elevate potenzialità di resistenza e una notevole mobilità di bacino, ha saputo far registrare nella marcia tempi di valore assoluto: alla fine del 2003 il miglior tempo ottenuto sui 10 km in strada è stato quello di 41′04″ ottenuto a Sochi nel 1996 dalla russa Yelena Nikolayeva. Nel 1952 ai Giochi di Helsinki il grande marciatore svedese John Mikaelsson aveva vinto l'ultima gara olimpica disputata su tale distanza con un tempo di circa 4 minuti superiore a quello di Nikolayeva.
Nel settore femminile furono soprattutto russe e cinesi a monopolizzare il settore. Ma trovò subito spazio anche la scuola italiana che diede continuità agli sforzi di Salce, che era riuscita a vincere l'argento ai Mondiali indoor di Indianapolis del 1987. Ai Mondiali all'aperto del 1991 a Tokyo, la russa Alina Ivanova, ventiduenne che successivamente si sarebbe dedicata alla maratona (2h25′35,4″ nel 2001), replicò il successo ottenuto quattro anni prima a Roma dalla connazionale Irina Strakhova. A Tokyo si misero in luce anche la maestra veneta di Noale (n. 16 gennaio 1962) Ileana Salvador (settima) e la piccola siciliana di Gioiosa Mare (Messina) Annarita Sidoti (n. 25 luglio 1969) che finì nona. Entrambe avevano già raccolto risultati significativi. Salvador era emersa soprattutto a livello indoor: era stata terza ai Mondiali al coperto del 1989 e del 1991, seconda agli Europei, sempre indoor, del 1989 e del 1990. All'aperto aveva conquistato agli Europei di Spalato del 1990 la medaglia di bronzo, nella gara vinta proprio da Sidoti, la quale, nello stesso anno, era stata terza alla rassegna continentale indoor.
C'erano ovviamente forti aspettative per la prima sfida olimpica, quella di Barcellona, ma le ragazze azzurre non furono fortunate, soprattutto Salvador. La gara fu vinta dalla cinese Chen Yueling (44′32″) che seppe del successo dentro lo spogliatoio. Infatti a tagliare per prima il traguardo, grazie a una furiosa rimonta, era stata la russa Ivanova che fu poi squalificata. Stessa sorte toccò a Salvador che, quarta al traguardo, si ritrovò al collo la medaglia di bronzo per poi essere infine squalificata. L'argento andò alla russa Nikolayeva, il bronzo a Li Chunxiu, che in realtà aveva tagliato il traguardo come quinta. Settima arrivò Sidoti. L'esordio olimpico della marciatrici non fu dunque tra i più fortunati: come era avvenuto per la prova maschile sui 20 km vi furono accese polemiche. Da ricordare che la terza azzurra in gara, la ventiquattrenne piemontese di Biella Elisabetta ('Betty') Perrone, un'ex-mezzofondista, giunse diciannovesima, ma per lei fu solo l'inizio.
Salvador si rifece l'anno dopo ai Mondiali di Stoccarda dove conquistò addirittura l'argento, dopo aver creduto di essere giunta terza e apprendendo solo dalla televisione del secondo posto dovuto alla squalifica decisa dai giudici per la svedese Madelein Svensson. Stoccarda fu una tappa significativa per le marciatrici azzurre: quarta Perrone, nona Sidoti. In aprile a Monterrey le italiane avevano vinto anche la Coppa del Mondo. A Stoccarda il successo premiò la trentaduenne finlandese di padre marocchino Sari Essayah che aveva iniziato la sua carriera come specialista di cross. Già ai vertici da un paio di stagioni (terza a Tokyo), era allenata da Juha Vaatainen, ex campione europeo dei 5000 e 10.000 m. Nel 1994 la finlandese vinse anche il titolo europeo davanti a Sidoti, con Perrone settima e Salvador, oppressa da problemi personali, solo undicesima. Ai Mondiali del 1995 sul gradino più alto del podio tornò una russa, la diciottenne di Saranski Irina Stankina, laureatasi l'anno prima campionessa mondiale juniores. Senza una vera dominatrice, con valori e prestazioni fin troppo condizionati dalle valutazioni dei giudici, la marcia donne si presentò ai Giochi di Atlanta senza pronostico. La realtà della gara premiò tuttavia una delle atlete più regolari in circolazione, la russa Nikolayeva, che aveva vinto l'argento a Barcellona, ed era arrivata quinta ai Mondiali del 1987 e terza agli Europei del 1994 oltre a essere primatista mondiale dei 10 km. Nikolayeva si portò subito in testa con la giovane campionessa del mondo Stankina che però, dopo metà gara, venne squalificata. Nikolayeva gestì il suo vantaggio senza fatica. Fu invece impegnativo per Perrone contenere la cinese Wang Yan. Vi riuscì conquistando l'argento a 23″ da Nikolayeva. Era la prima medaglia olimpica di una marciatrice italiana. Alle sue spalle si fece onore, con il quinto posto, un'altra piemontese, Rossella Giordano, ventiquattrenne di Asti, che però, anche per problemi fisici, in seguito non riuscì più a esprimersi a tali livelli. Sidoti fu solo undicesima ma preparò con cura la sua rivincita.
L'anno seguente, sulla pista dello stadio Olimpico di Atene, nella gara dei 10 km svoltasi per la prima volta in pista con tanto di batterie, Sidoti vinse il titolo iridato. Fu l'ultima gara sulla breve distanza: era stato già deciso il raddoppio sia in ambito mondiale sia olimpico. L'atleta italiana sfruttò la sua caratteristica tecnica migliore, la capacità di tenere alte le frequenze del passo, favorita in ciò dal fatto di aver gareggiato in pista. La siciliana chiuse la sua prova in 42′55,49″ controllando il ritorno della russa Olympiada Ivanova, che poi venne squalificata per due anni per aver fatto uso di steroidi anabolizzanti. Invece la campionessa uscente Stankina, che aveva cercato di rendere dura la vita alla piccola azzurra, era stata messa fuori gioco, come già accaduto ad Atlanta, dalla propria azione tecnicamente scorretta. Quinta, a conti fatti, fu Erica Alfridi, una ventinovenne veronese, già competitiva a vent'anni, che rimasta a lungo inattiva era tornata atleta di alto livello l'anno precedente, mentre la Perrone fu solo undicesima. In un primo tempo Sidoti non era stata inserita nella squadra per Atene ed era considerata dal selezionatore Sandro Damilano solo una riserva di lusso. Le era stata preferita, oltre a Perrone e Alfridi, anche Giordano. Ma un infortunio impedì a quest'ultima di allenarsi al meglio come aveva invece continuato a fare Sidoti.
Ai Mondiali del 1999, svoltisi a Siviglia, si gareggiò, come detto, sui 20 km, una distanza che non premiava le caratteristiche di Sidoti che fu costretta a ritirarsi. Sesta fu Alfridi, ventunesima Perrone e ventisettesima Giordano. Un bilancio non esaltante nella gara che vide emergere la cinese di turno, Liu Hongyu. Questa aveva alle spalle un ottavo posto del 1995, anno in cui aveva anche stabilito con 1h27′30″ il primato mondiale sui 20 km in pista, e un quarto posto del 1997. Va citata la medaglia di bronzo vinta a 38 anni dall'australiana Kerry Saxby Junna che aveva già conquistato l'argento a Roma nel 1987 e l'oro nei Mondiali indoor nel 1989. Dotata di un'azione tecnica non sempre limpida, Saxby fece registrare dal 1988 al 1996 un numero considerevole di primati e migliori prestazioni.
Le cinesi non fallirono neppure ai Giochi di Sydney 2000. L'oro andò alla ventiquattrenne Wang Liping (1h29′05″), ma avrebbe dovuto premiare la classe e la volontà di Perrone, squalificata dai giudici mentre a 2 km dal traguardo sembrava avviata verso la vittoria. Fu un episodio senza precedenti nel pur difficile, e talvolta drammatico, rapporto tra giudici e marciatori. Al sedicesimo chilometro era stata squalificata la cinese Liu Hongyu. Al diciassettesimo Perrone, che era al comando, dopo aver staccato l'australiana di Sydney Jane Saville, si trovò davanti un giudice con la paletta rossa che le urlava: "Two, two, four, five, stop!" (numero 2-2-4-5 fermati!). Perrone rimase incredula non avendo ricevuto ancora nessuna ammonizione e, inoltre, aveva il numero 2241. L'azzurra prese allora il giudice per un braccio, lo trascinò davanti al tabellone dove erano riepilogate le ammonizioni di ciascuna atleta e, dopo avergli fatto notare che accanto al suo nome non c'era indicato nulla, ripartì. Dopo aver ripreso e staccato di nuovo Saville, Perrone ripassò davanti al tabellone e vide che era stata squalificata: in soli 700 m, quasi contemporaneamente, le erano arrivate tre proposte di squalifica. Tra le lacrime, sentendosi vittima di un complotto, fu costretta a fermarsi. Stessa sorte, con grande delusione del pubblico australiano, toccò a Saville mentre stava imboccando il sottopassaggio che portava allo stadio. E fu così che Wang Liping si trovò campionessa olimpica. Alfridi concluse una gara coraggiosa al quarto posto.
L'anno dopo, ai Mondiali di Edmonton, con le cinesi messe tutte fuori gioco dalla giuria, vi fu la rivincita delle russe: Ivanova, in forma smagliante dopo i due anni di squalifica, trionfò con un eccezionale 1h27′48″. A marzo aveva portato la miglior prestazione mondiale nei 20 km su strada a 1h24′50″. Poi a settembre, dopo la vittoria di Edmonton, percorse i 20 km su pista (il 5 a Brisbane) in 1h26′52,3″, altro primato del mondo. A Edmonton, Ivanova staccò di oltre un minuto la bielorussa Valentina Tsybulskaya, Perrone vinse la medaglia di bronzo, mentre Alfridi arrivò ancora al quarto posto.
Agli Europei del 2002 finalmente Alfridi riuscì a conquistare una medaglia, seppur di bronzo, terza dietro l'imbattibile Ivanova e la regolarissima Nikolayeva, sesta Perrone, ottava Sidoti. Ai Mondiali di Parigi 2003 ci fu finalmente anche il trionfo iridato per Nikolayeva, che a 37 anni inoltrati, undici anni dopo l'argento di Barcellona e sette dopo l'oro di Atlanta, non trovò nessuna in grado di reggere il suo ritmo, nonostante l'impegno dell'irlandese Gillian O'Sullivan, poi arrivata seconda. Perrone, attesa almeno sul podio, fu costretta al ritiro per problemi di stomaco a metà gara. Giordano tornò competitiva con il suo sesto posto, dopo il quinto che aveva conquistato nel 1996 ad Atlanta sui 10 km.
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