Atletica - Le specialità: la velocità
Il termine velocità comprende tutte quelle gare di corsa piana che, genericamente, richiedono da parte degli atleti lo sforzo massimo, più o meno prolungato.
La corsa e la velocità costituiscono un binomio quasi inscindibile nella sfida dell'uomo con sé stesso e con gli altri esseri che popolano il pianeta. Il fascino di poter essere considerato 'il più veloce del mondo' ha sempre vinto su ogni altra sfida. La corsa veloce, quella che in inglese è chiamata sprint, è quindi non solo alla base dell'atletica, ma dello sport in genere ed è in assoluto la più alta espressione delle capacità fisiche dell'uomo. Non a caso il primo olimpionico di cui è stato tramandato il nome era un velocista. Si chiamava Koroibos, era nato in Elide, e nel 776 a.C., data ufficiale dell'inizio dei Giochi Olimpici antichi, vinse la corsa veloce, o 'stadio', che corrispondeva a una distanza in linea retta di 192,28 m. Inizialmente fu l'unica gara inserita nel programma che successivamente si arricchì di altre prove, tra cui il diaulos, una distanza doppia rispetto allo 'stadio' e quindi progenitrice dei moderni 400 metri.
Nei primi anni dell'Ottocento le gare veloci divennero lo strumento più naturale per stimolare, soprattutto nei paesi anglosassoni, lo spirito sportivo, ma contemporaneamente alimentarono anche quel fenomeno popolare che furono le scommesse. A quei tempi i regolamenti delle gare di velocità erano molto approssimativi, così come approssimativo era il cronometraggio. Tutto questo ha portato a giudicare con giustificato scetticismo una serie di tempi riferiti dalle cronache, come per es. l'impossibile 9″ attribuito all'inglese Jem Wantling sulle 100 yards o i 20″ che un altro inglese, Peter Cook, avrebbe fatto registrare sulle 200 yards (182,88 m) nel 1806.
Di certo conquistò fama di grande velocista, negli anni Quaranta del 19° secolo, l'americano del Connecticut George Seward. Atleta professionista, non molto alto (1,68-1,70 m), Seward gareggiò quasi sempre in Inghilterra e nel 1844 a Hammersmith, a 27 anni, corse le 100 yards in 9″1/4, un risultato che nessuno riuscì ad avvicinare per alcuni decenni. Per oltre trent'anni sulle classiche 100 yards i 10″ rappresentarono infatti un muro invalicabile. A un certo momento gli esperti del tempo decisero di non dare più valore al clamoroso risultato di Seward, anche perché, dopo poco meno di mezzo secolo da quell'impresa, un testimone oculare sostenne che era stata realizzata su una strada in discesa e con una partenza lanciata, cosa tutt'altro che eccezionale in quei tempi.
Per lungo tempo si corse su strada o su percorsi in erba, utilizzando soprattutto gli ippodromi. In seguito si cominciarono a utilizzare piste in cenere. All'inizio non esisteva nessuna valutazione oggettiva sull'intensità del vento e i giudici consideravano soltanto la direzione della brezza, per capire se era o no a favore dell'atleta. Solo nel 1936 la IAAF, accogliendo una proposta della Federazione tedesca, decise che un primato poteva essere omologato unicamente con vento favorevole entro i 2 m/s. In seguito, sulla base di attenti studi compiuti sull'incidenza del vento nelle gare di velocità considerando un atleta di taglia media, si è calcolato che una velocità di 2 m/s già comporta un vantaggio di 16 centesimi di secondo.
Uno dei maggiori problemi dello sprint del 19° secolo era rappresentato dalla partenza, che avveniva con varie modalità. Quando la competizione era limitata a due concorrenti, il giudice si metteva sulla linea di partenza e gli atleti indietreggiavano di una ventina di passi; poi avanzavano affiancati uno all'altro sfiorandosi reciprocamente le dita delle mani fino a quando non arrivavano all'altezza del giudice, il cui corpo interrompeva il contatto delle mani: questo era il segnale del via. Un metodo di partenza molto usato era quello 'per mutuo consenso': i concorrenti (solitamente due, ma anche più) si piazzavano tra la linea di partenza e una seconda linea posta circa 20 piedi prima e si davano reciprocamente il via, che diventava regolare quando una parte del corpo di ognuno toccava la linea reale di partenza. Non era un metodo semplice poiché spesso un atleta che poneva per primo il piede sulla linea di partenza reale non veniva imitato dal rivale e così era costretto a tornare indietro. Quasi sempre ci voleva molto tempo prima che si potesse concretizzare una partenza regolare, mentre gli atleti esperti usavano espedienti e atteggiamenti che potevano in qualche modo avvantaggiarli. Allora si decise che, se gli atleti non fossero partiti per mutuo consenso entro il limite massimo di un'ora, si sarebbe fatto uso di un colpo di pistola, metodo che poi divenne la scelta primaria.
All'inizio gli atleti partivano per lo più in piedi. La partenza su quattro appoggi (crouching start), inventata con ogni probabilità in Scozia nel 1884 da Bobby McDonald di origine maori, fu introdotta da uno studente dell'Università di Yale, Charles Sherrill, allievo di un famoso tecnico dell'epoca, Mike Murphy. Quando la tecnica divenne di uso generale si prese l'abitudine di scavare delle buchette sulla pista in terra o cenere per migliorare la base di appoggio dei piedi ai fini della spinta. Solo nel 1927 apparvero i blocchi di partenza (starting blocks; v. sopra: Aspetti tecnici).
I metodi di cronometraggio erano i più svariati. Si prendeva il tempo con i cronografi dell'epoca e con le più diverse frazioni di secondo: i mezzi, i quarti, i quinti e poi, finalmente, i decimi di secondo. Dal 1977 la IAAF decise che per le distanze fino ai 400 m potevano essere omologati solo tempi automatici registrati al centesimo di secondo. Il rilevamento automatico dei tempi, con la pistola che allo sparo faceva scattare il cronometraggio, che si interrompeva quando l'atleta varcava la linea di arrivo, fu usato in modo sperimentale dal 1952 a Helsinki e, in maniera più collaudata, a partire dai Giochi di Tokyo del 1964, anche se allora i tempi furono dati in prima istanza ancora al decimo di secondo. Ma già a Stoccolma nel 1912 era apparsa una rudimentale forma di cronometraggio elettrico e di photofinish. I cronometri partivano con lo sparo ma venivano fermati a mano. Qualcosa di meglio si fece ad Amsterdam 1928, quando nella foto dell'arrivo c'era anche un quadrante con i tempi.
Attualmente ai Giochi Olimpici e ai Mondiali la velocità include i 100, i 200, i 400 m e le due staffette 4x100 e 4x400 m. Sono le uniche gare in cui la IAAF riconosce il primato del mondo. Nelle gare indoor si corrono distanze più brevi, gare di sprint puro: quella classica, sparite le distanze in yards, è rappresentata dai 60 m. Ma si riconoscono i primati mondiali anche sui 50, 200 e 400 m.
Se negli anni della sua nascita e della sua crescita, l'atletica moderna ha visto velocisti in grado di primeggiare sulle distanze più varie, oggi l'alto grado di specializzazione lo consente assai di rado. I centometristi possono, con struttura fisica e allenamento adeguati, correre con buoni risultati anche i 200 m. Nella storia olimpica l'ultima doppietta (100 e 200 m) in campo maschile è stata ottenuta da Carl Lewis, nel 1984 a Los Angeles, mentre tra le donne a Sydney 2000 Marion Jones ha conquistato entrambi gli ori. Molto più difficile ipotizzare un atleta in grado di correre con successo i 200 e i 400 m: in tempi recenti vi è riuscito solo un fenomeno come Michael Johnson, ad Atlanta 1996. I 400 m rappresentano il confine estremo della velocità. Per primeggiare sul giro di pista è necessario possedere soprattutto spiccate doti di resistenza agli alti ritmi. Nel 1976 il cubano Alberto Juantorena vinse l'oro olimpico a Montreal 1976 sia nei 400 sia negli 800 m. Fu il primo atleta a realizzare l'impresa, ma è stato anche l'ultimo.
Oggi sui 100, 200 e 400 m si ottengono tempi una volta impensabili. Ma è anche vero che nel 1936 Jesse Owens era capace di correre i 100 m in 10,2″ con cronometraggio manuale (circa 10,4″ con rilevamento automatico). In molte altre specialità, come per es. il mezzofondo, i progressi sono stati molto più marcati. La domanda classica resta dunque di attualità: velocisti si nasce o si diventa? Per eccellere nello sprint bisogna possedere qualità naturali che l'allenamento può evidenziare e addirittura esaltare, ma in modo nettamente inferiore rispetto, per es., alla resistenza o alla stessa forza. La velocità richiede qualità fisiologiche che fanno parte dell'essenza più profonda dell'atleta, ossia un'elevata capacità di reazione del sistema nervoso e una qualità specifica delle fibre muscolari, ovvero la capacità di queste a contrarsi velocemente. La struttura intima delle fibre muscolari non è modificabile con l'allenamento. Quindi velocisti per lo più si nasce, anche se è evidente che, pur avendo le doti necessarie, non si possono raggiungere livelli elevati su nessuna distanza senza un'adeguata preparazione, muscolare, tecnica e psicologica.
Anche per le distanze di sprint puro non si tratta solo di partire dai blocchi e correre il più velocemente possibile: la velocità pone dei problemi tecnici non sempre facili da risolvere e una gara (si prendano per es. i 100 m) può essere divisa in varie fasi. Per quanto riguarda la partenza, l'atleta si pone sui blocchi in modo tale da poter scattare rapidamente allo sparo dello starter, ma soprattutto per poter raggiungere il prima possibile il giusto assetto di corsa. Un eccellente tempo di reazione è intorno ai 150 millesimi di secondo, ricordando che sotto i 100 millesimi scattano i provvedimenti relativi alla 'falsa partenza'. In atleti evoluti solitamente questa fase dell'accelerazione dura fino ai 45-50 m. Fondamentale è la prima parte, quella cosiddetta di 'messa in moto': dopo la reazione allo sparo l'atleta deve essere capace di esprimere, spingendo sul terreno, una grande forza nei primi 10 m, dove si passa da una velocità zero a una velocità di circa 9 m/s, che corrispondono a 32,4 km/h. Successivamente, fino a metà gara circa, l'atleta continuerà ad accelerare, in modo evidentemente più blando. L'atleta toccherà il massimo della sua velocità intorno ai 50 m. I migliori velocisti percorrono il tratto di 10 m più veloce tra i 50 e i 60 m, dove spesso si raggiunge anche la più alta velocità istantanea.
Il tentativo di un atleta di aumentare le frequenze e quindi l'impegno nervoso in tempi troppo brevi può determinare un esito disastroso nella seconda parte di gara. Quindi anche nei 100 m è necessario un controllo, o una distribuzione dello sforzo, almeno dal punto di vista nervoso. In anni recenti sono state fatte interessanti analisi sulla distribuzione dell'impegno nelle gare di alto livello. Nel 1997, ai Mondiali di Atene, Maurice Greene vinse i 100 m battendo il canadese Donovan Bailey, allora campione olimpico e primatista mondiale in carica: 9,86″ e 9,91″ i loro tempi. Entrambi corsero il tratto tra i 50 e i 60 m in 0,85″ a una media di 42,480 km/h. Entrambi raggiunsero la massima velocità istantanea di 42,732 km/h, Greene ai 58,10 m, Bailey ai 62,30 m. La massima velocità di punta registrata è tuttavia rappresentata dai 43,373 km/h (12,048 m/s) che raggiunsero Ben Johnson e Carl Lewis nella finale olimpica di Seul 1988. Johnson vinse con il record del mondo di 9,79″ prima di essere squalificato per uso di sostanze proibite. Lewis corse in 9,92″.
In campo femminile, ad Atene la massima velocità fu toccata dall'ucraina Zanna Pintusevich (seconda in 10,85″) che 54,10 m dopo la partenza raggiunse i 38,592 km/h, mentre Marion Jones (vincitrice in 10,83″) fece registrare ai 58,80 m la velocità di 38,304 km/h. Tuttavia la più alta velocità da parte di una donna (registrata con apposite apparecchiature) fu raggiunta da Florence Griffith, che nel 1998, a Seul, durante la finale dei 100 m (vinta in 10,54″ sia pure con 3 m di vento a favore), toccò una punta di 10,99 m/s, corrispondenti a 39,564 km/h.
Raggiunta la massima velocità (a questo punto la fase di spinta sul terreno dura solo 0,08-0,09 s, tempo brevissimo in cui gioca un ruolo determinante l'elasticità muscolare), un atleta non può mantenerla che per pochi attimi, poi inevitabilmente il sistema nervoso inizia ad andare in difficoltà. Quindi nella parte finale di una corsa di 100 m (ma anche sui 200 m e a maggior ragione sui 400 m) l'unico obiettivo dell'atleta è quello di decelerare il meno possibile. Per ottenere tale scopo è necessario cercare di mantenere l'ampiezza del passo senza incidere sulle frequenze. È quindi opportuno correre gli ultimi metri (30 circa) di una gara nella massima decontrazione possibile, qualità che ha fatto grande Carl Lewis.
Ad Atene 1997 Greene vinse percorrendo i 100 m in 45,8 passi, con una lunghezza media del passo di 2,18 m. Carl Lewis, più alto di Greene (1,88 m contro 1,77 m) era solito impiegare 42-43 passi per coprire i 100 m. Quando vinse i Mondiali di Tokyo nel 1991 con il record mondiale di 9,86″, impiegò 43 passi (lunghezza media di 2,32 m) con una frequenza di 4,36 passi ogni secondo. A Seul 1988 Lewis aveva impiegato 43,6 passi (Johnson ne aveva effettuati 46,6), per una lunghezza media di 2,29 m (ma di 2,65 m nel tratto tra i 60 e i 90 m) e una frequenza di 4,40 passi al secondo. La frequenza del Johnson 'dopato' fu di 4,76 passi al secondo e la loro lunghezza media fu di 2,15 m. È evidente come Johnson, più piccolo di statura di Lewis, cercasse di compensare la minor lunghezza di ogni singolo passo con una maggiore frequenza.
Ad Atene 1997 Marion Jones percorse i 100 m con 47,5 passi, in pratica gli stessi (47,6) che Griffith (più bassa di Jones) impiegò nel 1988 a Seul. In quell'occasione Griffith ebbe una frequenza di 4,52 passi per secondo e una lunghezza media per passo di 2,10 m, che fu di 2,40 nella fase tra i 60 e i 90 m. Alta appena 1,70 m, Griffith sfruttava al meglio la capacità di correre ampia e decontratta nella fase cruciale della gara.
Il regolamento prescrive che la classifica di una gara venga stilata valutando l'ordine in cui il torso degli atleti raggiunge il piano verticale passante per la linea di arrivo. Quindi testa, collo, braccia, gambe, mani e piedi non fanno classifica. L'abilità e la prontezza con cui un atleta si getta in avanti sono fondamentali per determinare l'ordine di arrivo di una gara di velocità, dove spesso le differenze sono nell'ordine dei millesimi di secondo.
Se i 100 m richiedono un controllo tecnico preciso, questo deve essere ancora maggiore nei 200 m e soprattutto nei 400 m. Poiché la distanza dei 200 m non si può coprire al massimo della velocità assoluta, un duecentometrista di alto livello deve saper distribuire le energie lungo tutta la gara, sapere come vincere in curva la forza centrifuga (il busto viene leggermente piegato all'interno, le braccia restano più basse) e soprattutto, una volta raggiunta la più alta velocità consentita (tra i 50 e i 100 m), riuscire, con la massima decontrazione, a limitare l'inevitabile perdita di velocità. Per raggiungere risultati significativi è fondamentale un rapporto ottimale tra lunghezza del passo e frequenza. Di solito uno sprinter è considerato anche un buon duecentometrista se riesce a correre la distanza doppia rispettando questa formula: il suo primato sui 100 m moltiplicato per due, meno 20 centesimi di secondo. Ciò significa che un atleta con un primato personale di 10,20″ sui 100 m dovrebbe correre i 200, se preparato nel modo giusto, in almeno 20,20″.
Pietro Mennea fu un maestro nella capacità di gestire lo sforzo lungo tutti i 200 m. Ma il capolavoro fu compiuto ai Giochi Olimpici di Atlanta del 1996 da Michael Johnson, che portò il record del mondo a 19,32″. Ebbe un tempo di reazione di 161 millesimi di secondo, impiegò in totale 91 passi (con una lunghezza media di 2,20 m), corse i primi 100 m con curva in 10,12″ (35,574 km/h) e i secondi 100 m lanciati in 9,20″ (39,130 km/h), con una differenza tra le due metà gara di 0,92″, in pratica ottimale; come fu ottimale il differenziale (0,94″) che ottenne nel 1979, a Città del Messico, Pietro Mennea, quando realizzò il mondiale di 19,72″ (un primato che avrebbe resistito 24 anni): 10,34″ nei primi 100 m, 9,38″ nella seconda metà della gara. Perfetta fu anche la prova di Florence Griffith a Seul 1988, quando corse la distanza in 21,34″: 11,18″ più 10,16″, con un differenziale di 1,30″. Griffith impiegò 91,8 passi della lunghezza media di 2,17 m, registrando una frequenza di 4,30 passi per secondo. L'americana costruì l'impresa tra i 50 e i 150 m quando, lanciata, fu capace di coprire quei 100 m in 9,81″.
Oggi i migliori quattrocentometristi del mondo corrono il giro di pista in tempi intorno ai 44″. Si tratta dunque di percorrere quattro volte di seguito i 100 m a una media di 11″ o poco inferiore. Nei 400 m la distribuzione dello sforzo assume un ruolo fondamentale, anche perché la gara va a incidere su un meccanismo fisiologico che produce acido lattico e che quindi intossica i muscoli.
Nella storia di questa specialità si è sempre dibattuto su quale fosse la migliore tattica di gara: una prima metà veloce per poi gestire per quanto possibile il vantaggio, oppure una prima metà più lenta con la possibilità di ritrovare energie negli ultimi 100 m ed eventualmente rimontare avversari che a quel punto sono in forte debito di ossigeno? Nel passato ci sono stati atleti, come il giamaicano Herbert McKenley, che hanno scelto la prima strada con passaggi a metà gara non lontano dal proprio record sui 200 m e con un differenziale tra le due metà anche di 4″, ovviamente a sfavore della seconda parte. Altri invece hanno sempre scelto avvii più prudenti. Oggi si ritiene che il differenziale tra la prima metà gara e la seconda dovrebbe aggirarsi intorno ai 12-14 decimi di secondo, ma è una valutazione legata anche alle caratteristiche tecniche, agonistiche e strutturali di ogni singolo atleta. Michael Johnson, il più grande quattrocentometrista di sempre, nonostante la sua velocità, che lo ha reso primatista del mondo e campione olimpico dei 200, ha indicato chiaramente qual è la strada da percorrere. Johnson non ha mai forzato il passaggio a metà gara. Nella gara in cui ai Mondiali di Siviglia, nel 1999, realizzò il record del mondo di 43,18″ fu esemplare: percorse i primi 200 m in 21,22″ e i secondi in 21,96″ (passaggio ai 300 m in 31,66″), quindi con un differenziale di 0,74″. Coprì il tratto più veloce, tra i 50 e i 100 m, in 4,96″. In tutto impiegò 182 passi con una lunghezza media per passo di 2,20 m. Nella sua ultima grande vittoria, i Giochi di Sydney 2000, Johnson conquistò l'oro in 43,84″: transitò ai 200 m in 21,60″, per percorrere la seconda metà in 22,24″ con un differenziale di appena 0,64″.
Per quasi tutto il 19° secolo le 100 yards (91,44 m) furono la distanza di riferimento dello sprint e contro la barriera rappresentata dai 10″ per decenni si arrestarono gli sforzi dei migliori velocisti del tempo. Tra questi meritano di essere citati lo studente dell'Università di Cambridge Charles Absalom, gran giocatore di cricket, che ottenne 10″ nel 1868, l'americano René La Montagne (10″ nel 1878) e l'altro americano Lawrence 'Leo' Myers, figura mitica per l'atletica del tempo, che ebbe risultati eccellenti in tutte le distanze ma lasciò il segno soprattutto dalle 440 yards in su. In Europa ebbe buona fama l'inglese Harry Hutchens, giovane apprendista di un libraio, che si fece notare da un allenatore mentre correva per le strade di Londra. Divenne uno dei più forti professionisti del tempo e nel 1885 fu capace di correre le 220 yards in rettilineo in 21″4/5. Tra le decine di tempi di 10″ ottenuti negli anni sulle 100 yards, il primo risultato davvero attendibile fu quello realizzato a Londra il 3 luglio 1886 dall'inglese di origine giamaicana Arthur Wharton.
Negli ultimi dieci anni del secolo la velocità fu segnata da tre importanti eventi: il primo risultato ufficiale sulle 100 yards inferiore ai 10″; il primo risultato ufficiale sui 100 m inferiore agli 11″; la sfida del secolo tra l'inglese Charles Bradley e l'americano Bernard Wefer. Il primo 'amateur' a scendere sotto i 10″ nelle 100 yards fu John Owen, uno sprinter arrivato alla soglia dei 30 anni, allievo di quel Mike Murphy che aveva perfezionato la partenza su quattro appoggi di Sherrill. L'11 ottobre 1890 Owen vinse ai Campionati americani che si svolsero ad Analostan Island, Washington D.C., in 9″4/5. In quella occasione batté Luther Cary che un anno dopo (il 4 luglio), a Parigi, sulla pista in erba nel Bois de Boulogne, si prese la soddisfazione di correre per primo, in condizioni ritenute regolari, i 100 m in meno di 11″, per l'esattezza in 10,75″. La grande sfida tra Bradley e Wefers avvenne il 21 settembre 1895, quando il Manhattan Field di New York ospitò lo storico incontro tra il New York A.C. e il London A.C. Vinse Wefers, ventiduenne del Massachusetts, in 9″4/5, mentre Bradley, 25 anni, finì a un metro. Wefers in quell'occasione corse e vinse anche le 220 yards in linea retta in 21″3/5, tempo che nel 1896 portò a 21″1/5. Allora le 220 yards si correvano soprattutto in rettilineo. Solo nel 1951 la IAAF decise di omologare unicamente i primati ottenuti sui 200 m con curva. Il tempo di Wefers restò comunque imbattuto per venticinque anni. Wefers, atleta ben strutturato (1,82 m per 74 kg) non era un grande partente, ma era dotato di un'accelerazione insuperabile. Non fu però lui a vincere il primo oro olimpico sui 100 m. Ad Atene infatti partecipò solo un gruppetto di atleti dell'Università di Princeton e della Boston athletic association. Uno degli atleti appartenenti a quest'ultimo gruppo era Thomas Burke che nel 1895 aveva vinto il titolo americano sulle 440 yards proprio davanti a Wefers. Ad Atene, Burke vinse oltre ai 400 anche i 100 m, peraltro con un modesto 12″.
Quattro anni dopo, ai Giochi di Parigi, la gara dei 100 m ebbe un'altra dimensione: gli americani Frank Jarvis e John Walter Tewksbury eguagliarono nei turni preliminari il mondiale di 10,8″. In finale vinse Jarvis su Tewksbury (che però trionfò nei 200 m in 22,2″). I due furono avvantaggiati anche dall'infortunio capitato al favorito della vigilia, Arthur Duffey della Georgetown University. Duffey fu il primo grande velocista del nuovo secolo. Nato nel 1879, era alto 1,70 m e pesava 62 kg: conquistò vittorie su vittorie sia in America sia in Europa e il 31 maggio 1902, a New York, batté il record delle 100 yards correndo in 9,6″, un tempo che resistette per ventiquattro anni, ma che ufficialmente fu cancellato quando la Federazione americana radiò Duffey dai ranghi dilettantistici, accusandolo di aver percepito soldi per gareggiare. Duffey, che continuò a correre da professionista, portò avanti anche lo studio della tecnica di corsa.
Intanto cominciarono a emergere velocisti di altri paesi: lo svedese Knut Lindberg che nel 1906 portò a 10,6″ il primato mondiale dei 100 m, il canadese di origine irlandese Robert Kerr e il giovane impiegato sudafricano Reggie Walker. Entrambi trionfarono ai Giochi di Londra 1908: Walker vinse i 100 m in 10,8″, Kerr i 200 m in 22,6″.
Ai Giochi Olimpici del 1912 a Stoccolma Ralph Craig, uno studente del Michigan, vinse sia i 100 sia i 200 m, come aveva già fatto nel 1904 a Saint Louis l'americano Charles Archie Hahn, 'la meteorite del Milwaukee', il quale vinse anche nei 60 m, gara che poi sarebbe scomparsa dal programma olimpico. A Stoccolma non corse la finale dei 100 m, per un infortunio patito in batteria, Howard Drew, considerato il primo velocista di colore di classe mondiale. Arrivò terzo Donald Lippincott, che però in batteria aveva ottenuto il tempo di 10,6″, primo record omologato sui 100 m dalla neonata IAAF.
La fine della Prima guerra mondiale portò alla ribalta un personaggio che avrà un ruolo di spicco nella storia dello sprint e che fu il migliore velocista del ventennio, Charles Paddock. Ai Giochi Olimpici di Anversa del 1920 vinse i 100 m e la staffetta 4x100 e fu secondo nei 200 m. Partecipò anche ai Giochi del 1924 e del 1928, raccogliendo però solo un argento nel 1924 sui 200 m. Paddock stabilì 19 primati mondiali anche se solo 11 di questi vennero omologati. Corse le 100 yards in 9,5″, fu il primo a correre i 100 m in 10,4″, il 23 aprile 1921 a Redlans. Ma l'impresa più strabiliante la realizzò il 18 giugno 1921 quando a Pasadena coprì le 110 yards (100,58 m) in 10,2″. Il tempo fu 'registrato' dalla Federazione americana ma non venne mai considerato come un vero e proprio primato dei 100 m perché la distanza era più lunga. Paddock, che non era alto e sfruttava una solida struttura muscolare, fu anche il primo vero personaggio della velocità mondiale: vestiva indumenti di seta, si autopubblicizzava prima delle gare e soprattutto divenne famoso per il suo salto finale: a circa 3-4 m dal traguardo compiva un vero e proprio balzo in avanti, una scelta tecnica che forse non lo favoriva del tutto ma che certo poteva influenzare i giudici.
Paddock fu solo quinto nella finale di Parigi 1924 e tutti gli americani, compreso il quotatissimo Jackson Scholz (che però vinse i 200 m in 21,6″), furono sconfitti da un britannico che era nato a Bedford il 15 dicembre 1899, Harold Abrahams. Alla figura di questo inglese di religione ebraica, che diventò in seguito commentatore radiofonico, avvocato, scrittore, giornalista e presidente della Federazione britannica di atletica, si ispirò il film Chariots of fire (Momenti di gloria) che nel 1982 vinse l'Oscar.
Verso la fine degli anni Venti emerse sulla scena mondiale una serie di velocisti di alto valore: nel 1926 Roland Locke corse le 220 yards in rettilineo in 20,5″; nel 1928 il giovane Frank Wykoff (che vincerà tre medaglie d'oro olimpiche con la staffetta 4x100) dominò con 10,6″ i Trials olimpici, mentre il ventenne di Vancouver Percy Williams vinse 100 e 200 m ai Giochi di Amsterdam del 1928 ricevendo al suo ritorno in Canada accoglienze trionfali. Nel 1929 Williams vinse negli Stati Uniti 21 gare su 22 e il 9 agosto 1930, a Toronto, corse i 100 m in 10,3″. Solo e afflitto dall'artrite si uccise a 74 anni.
Ma erano ormai arrivati i giorni delle 'saette nere': Eddie Tolan, Ralph Metcalfe e, soprattutto, Jesse Owens, il più grande di tutti. Tolan, nato a Denver e poi trasferitosi con la famiglia a Detroit, era un brevilineo (1,67 m di altezza) dotato di un grandissimo finish. Soprannominato 'l'espresso di mezzanotte', fu il primo a correre ufficialmente le 100 yards in 9,5″ e fu il primo atleta di colore a detenere il record mondiale dei 100 m (nel 1929 corse due volte in 10,4″ e poi nel 1932 si portò a 10,3″) e, soprattutto, a vincere l'oro olimpico sui 100 m. Accadde ai Giochi di Los Angeles del 1932 in una delle più controverse finali della storia olimpica. Sul traguardo Tolan finì sulla stessa linea del suo grande rivale Metcalfe, un ventiduenne di colore di Atlanta, alto (1,80 m), potente e dotato di una grande accelerazione. Metcalfe, che tra il 1933 e il 1934 eguaglierà tre volte il primato mondiale a 10,3″, è stato il primo atleta ad aver corso i 100 m in 10,2″. Lo fece vincendo nel 1932 i Campionati universitari: il tempo però, per le stranezze burocratiche di quei tempi, venne riconosciuto come primato dei college ma non come record americano e tanto meno mondiale. Stessa fine fece anche il 20,3″ che ottenne sulle 220 yards in rettilineo. Metcalfe aveva già battuto Tolan ai Trials sui 100 e 200 m. Ma ai Giochi di Los Angeles, dopo che i giudici avevano visionato per ore il filmato dell'arrivo dei 100 m, la vittoria fu data a Tolan (pare per 2,5 cm di differenza), in base al regolamento di allora che considerava vincitore chi oltrepassava per primo la linea del traguardo (per il regolamento attuale vince invece chi raggiunge per primo la linea del traguardo). Fino alla sua morte, avvenuta nel 1978, Metcalfe, che probabilmente sul traguardo era del tutto allineato a Tolan, fu convinto di aver vinto quella gara o comunque di non averla persa. Tolan a Los Angeles conquistò anche l'oro nei 200 m (21,2″); Metcalfe arrivò solo terzo, ma dopo aver corso, per un errore dei giudici, un metro in più. L'atleta decise di non fare reclamo.
Metcalfe dominò le competizioni degli anni seguenti e sognava di vincere l'oro olimpico a Berlino 1936. Si imbatté tuttavia in Jesse Owens, il grande atleta nativo dell'Alabama soprannominato 'l'antilope d'ebano', le cui grandi imprese si svolsero tra il 1935 e il 1936. Il 25 maggio 1935, al Ferry Field di Ann Arbor, nel Michigan, durante il Big Ten (la sfida tra le maggiori dieci università del Middle West), realizzò nel giro di 45 minuti tre record del mondo dopo averne eguagliato un quarto (9,4″ sulle 100 yards). Saltò in lungo 8,13 m, corse le 220 yards in rettilineo in 20,3″ e le 220 yards ostacoli in rettilineo in 22″6 (questi due ultimi tempi miglioravano anche i primati sulle distanze metriche, quindi in effetti furono cinque i primati migliorati). Nel 1936 Owens fu imbattibile: il 20 giugno, a Chicago, portò il mondiale dei 100 m a 10,2″, prologo di ciò che sarebbe accaduto ai Giochi Olimpici di Berlino, dove dal 2 al 9 agosto scese in pista 12 volte vincendo i 100 m in 10,2″ con vento a favore (Metcalfe si accontentò dell'argento), il lungo con 8,06 m (sempre con vento oltre i limiti), i 200 m in 20,7″ (il miglior tempo mai corso sulla distanza con curva) e infine la 4x100, festeggiando (stavolta partecipò anche Metcalfe) con il nuovo record del mondo di 39,8″. Dopo i Giochi Owens fu accolto trionfalmente solo nella sua Cleveland, dove era cresciuto e viveva; per il resto gli americani rimasero un po' freddi nei suoi confronti: non ricevette dalla Casa Bianca neppure due righe di congratulazioni e i dirigenti della federazione addirittura lo sospesero per non aver partecipato a una tournée in Scandinavia. Owens decise di ritirarsi e andò in giro a guadagnare dollari in squallide esibizioni contro cavalli, cani e motociclette. Uscì di scena anche Metcalfe. Fra gli atleti sfortunati di quel periodo deve essere ricordato Eulace Peacock, che come Owens eccelse nella velocità e nel lungo ma che di Owens fu la 'bestia nera', visto che nel 1935, tra gare di salto in lungo e di velocità, incontrò il rivale dieci volte vincendo in sette occasioni. Tuttavia, Peacock s'infortunò prima dei Trials per Berlino 1936 e non riuscì a qualificarsi.
Intanto nel 1934 l'Europa aveva iscritto il nome del suo primo rappresentante nell'elenco dei primatisti dei 100 m: l'olandese Christiaan Berger, che il 26 agosto 1934 corse ad Amsterdam in 10,3″. Agonisticamente più valido fu il connazionale Martinus Osendarp, che a Berlino 1936 conquistò il bronzo sui 100 m alle spalle di Owens e Metcalfe e agli Europei di Colombes del 1938 vinse 100 e 200 m. Pur non essendo mai sceso sotto i 10,4″ nei 100 m e sotto i 21,1″ nei 200 m, può essere considerato come il più forte velocista espresso dall'Europa fino alla Seconda guerra mondiale.
In Italia il migliore sprinter fu sicuramente il milanese Orazio Mariani (nato nel 1915, morto nel 1981) che vinse la medaglia d'argento sui 100 m ai Campionati Europei del 1938, anno in cui portò il record nazionale prima a 10,6″ e poi a 10,4″. Il primo tempo sotto gli 11″ era stato ottenuto dall'istriano di Pola Vittorio Zucca, che il 20 settembre 1922, a Busto Arsizio, corse in 10,8″.
Il periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale espresse un solo grande velocista degno dei predecessori, Harold Davis, californiano di Salinas, che fu considerata la risposta 'bianca' a quello che era stato lo strapotere degli sprinter neri per quasi tutti gli anni Trenta. Mediocre partente, Davis era dotato di un grande finish. La guerra, cancellando i Giochi del 1940 e 1944, gli tolse la possibilità di conquistare almeno un oro olimpico. Tra il 1940 e il 1943 vinse però sette titoli USA, eguagliò i primati delle 100 yards (9,4″) e dei 100 m (10,4″) e ottenne un 20,4″ sulle 220 yards in rettilineo. Nei suoi anni d'oro venne sconfitto solo tre volte in 80 gare ufficiali.
Quando i Giochi Olimpici ripresero, con l'edizione del 1948, c'erano tre atleti pronti a lottare per il primo oro postbellico dei 100 m: il californiano Melvin Patton (alto e leggero, aveva realizzato il 15 maggio a Fresno il primo 9,3″ della storia sulle 100 yards), il panamense Lloyd LaBeach, diventato sprinter prima in Giamaica e poi in USA (con 10,2″ eguagliò il mondiale dei 100 m) e infine il collaudato americano Barney Ewell, che all'età di 30 anni aveva vinto i Trials eguagliando anch'egli il mondiale dei 100 m. Ma a Londra si ebbe uno dei risultati più sorprendenti nella storia olimpica dei 100 m: vinse Harrison Dillard, il più grande ostacolista dell'epoca, che aveva fallito la qualificazione sui 110 m ostacoli e si era meritato il viaggio in Gran Bretagna solo grazie al terzo posto conquistato sui 100 m. Dillard, nato a Cleveland, la città dove era cresciuto Owens, sul traguardo batté Ewell, almeno secondo quanto decisero i giudici dopo una lunga e attenta analisi della foto dell'arrivo. Ewell, che prima del verdetto dei giudici aveva esultato credendosi il vincitore, finì secondo anche sui 200 m. Stavolta fu battuto da Melvin Patton ma sempre per pochissimi centimetri (21,1″ il tempo dei due). L'anno dopo Patton ottenne a Westwood uno spettacolare 9,1″ sulle 100 yards, ma l'anemometro indicò un vento favorevole di 2,9 m/s. Subito dopo Patton corse le 220 yards in rettilineo in 20,2″ e stavolta fu record.
Nel 1951 Emmanuel McDonald-Bailey, nativo di Trinidad ma trasferitosi in Inghilterra, dopo aver già rappresentato la Gran Bretagna ai Giochi di Londra, eguagliò il mondiale di 10,2″ sui 100 m.
Nel 1951 la IAAF decise finalmente di fare un po' d'ordine sui 200 m, riconoscendo solo i primati ottenuti con curva su una pista di 400 m. La lista fu inaugurata da uno dei migliori velocisti di quegli anni, il nero del New Jersey Andy Stanfield, un atleta alto e potente che il 26 maggio 1951, a Filadelfia, corse le 220 yards (ovviamente con curva) in 20,6″, un risultato che replicò nel 1952, quando vinse meritatamente anche il titolo olimpico a Helsinki. In Finlandia sui 100 m ci fu invece un'altra grande sorpresa: l'oro premiò Lindy Remigino, un atleta del Connecticut di origine piemontese. Era finito solo terzo ai Trials, approfittando anche del fatto che Stanfield aveva puntato solo sui 200 m e che il migliore dei centometristi, Jim Golliday, era stato messo fuori causa da un infortunio. A Helsinki, Remigino riuscì a beffare McKenley, il giamaicano specialista dei 400 m, McDonald-Bailey e lo statunitense Dean Smith. A tutti fu attribuito il tempo di 10,4″, ma il cronometraggio automatico diede un centesimo di distacco tra Remigino e McKenley: 10,79″ contro 10,80″.
Sulla strada verso i Giochi Olimpici di Melbourne si distinsero l'atleta di Trinidad Michael Agostini, l'australiano Hector Hogan (che ottenne 9,3″ sulle 100 yards e 10,2″ sui 100 m ma in una gara mista a vantaggi) e il tedesco Heinz Fütterer. Fütterer, abbandonato il calcio, diede slancio alla velocità tedesca: vinse, agli Europei di Berna del 1954, i 100 e 200 m e il 31 ottobre dello stesso anno corse in Giappone, a Yokohama, i 100 in 10,2″, eguagliando il primato mondiale.
A Melbourne 1956, però, il palcoscenico della velocità fu occupato da Bobby Morrow, con Paddock il più forte velocista bianco espresso dall'atletica americana. A 20 anni l'atleta texano era già in grado di far fruttare la sua potenza: 10,3″ sui 100 m e 20,7″ sui 200 con curva. Nel 1956, prima dei Giochi di Melbourne, per tre volte in poco più di un mese eguagliò il mondiale di 10,2″ sui 100 m. Il record durava dal 1936 ed era arrivato il momento di aggiornarlo. Tra il 3 agosto 1956 e il 27 ottobre dello stesso anno tre americani di colore corsero in 10,1″. Il primo fu Willie Williams, a Berlino, durante lo svolgimento delle batterie dei Campionati internazionali militari. In semifinale il risultato fu eguagliato da Ira Murchison, il più piccolo (era alto soltanto 1,57 m) tra i grandi sprinter dell'atletica moderna. Nel 1956 aveva già corso due volte in 10,2″ e si era guadagnato un posto per le Olimpiadi alle spalle di Morrow. Williams invece non aveva potuto partecipare alle selezioni olimpiche a causa di un infortunio. In ottobre Leamon King corse due volte nel giro di una settimana in 10,1″, prima a Ontario, poi a Santa Ana. Anche King aveva mancato la qualificazione olimpica nella gara individuale, ma in Australia corse e vinse con la staffetta.
Alle Olimpiadi australiane Morrow faticò un po' per battere sui 100 m il connazionale Thane Baker (10,5″ per entrambi ma controvento; Murchison arrivò quarto), meno per vincere l'oro dei 200 m in 20,6″, eguagliando il primato del mondo. Portò all'oro e al record anche la staffetta. Sui 100 m ebbe la fortuna di non trovare, oltre ai neoprimatisti mondiali Williams e King, anche Dave Sime, al quale cinque mesi prima un infortunio aveva impedito di partecipare alle selezioni. Sime era un altro bianco di grandissimo talento. Alto 1,88 m, sapeva correre con grande fluidità. Nel giugno 1956 aveva ottenuto uno straordinario 20″ sulle 220 yards in rettilineo. Sperava di rifarsi della delusione per la mancata partecipazione olimpica nell'edizione successiva di Roma 1960, ma nel quadriennio avvennero molti fatti nuovi. Nella primavera del 1959 un possente californiano di colore, Ray Norton, corse i 100 m in 10,1″ e poi nella primavera del 1960 due volte i 200 m in 20,6″, record mondiale che nel 1958 era stato eguagliato anche dal tedesco Manfred German, velocista europeo d'élite negli anni Cinquanta (era stato già quinto nei 100 m a Melbourne).
Ma a scuotere lo sprint mondiale fu un altro tedesco, Armin Hary. A 21 anni aveva vinto il titolo europeo non senza scatenare le prime polemiche. Hary era un eccezionale partente, tanto da far ritenere a molti che fosse uno scaltro 'ladro' di partenze, capace di ingannare gli starter di tutto il mondo. In realtà Hary era dotato di riflessi di prim'ordine, ma la sua arma segreta era nella messa in moto, nei primi metri di avvio. Il 6 settembre 1958 Hary corse a Friedrichshafen, sul lago di Costanza, i 100 m in 10,0″; ma il tempo non venne omologato perché la corsia dove aveva effettuato la prestazione fu trovata lievemente in discesa. L'appuntamento era solo rinviato: il 21 giugno 1960, sulla pista del Letzigrund di Zurigo, Hary ottenne nuovamente 10,0″. Lo starter però ammise di aver sbagliato a non sparare il secondo colpo perché la partenza di Hary era falsa; l'atleta tedesco riconobbe di essere partito prima, ma chiese una seconda chance. Dopo mezz'ora ottenne ancora una volta il tempo di 10,0″. Stavolta sembrò tutto regolare e Hary passò alla storia. Lo imitò, meno di un mese dopo, il ventenne canadese Harry Jerome, studente all'Università dell'Oregon, che realizzò il tempo in patria, vincendo le selezioni canadesi.
Molte novità si ebbero anche sui 200 m, anche in questo caso con gli europei in primo piano. Nel maggio 1960 il ventunenne inglese Peter Radford, che aveva passato due anni della sua infanzia su una sedia a rotelle a causa di una malattia, a Wolverhampton impiegò 20,5″. Dopo di lui ai Trials olimpici corsero in 20,5″ sia il ventenne Stonewall Johnson sia Ray Norton. In ambito europeo, oltre a Radford, si mise in evidenza un riservato ragazzo torinese che correva con gli occhiali, Livio Berruti. Nato il 19 maggio 1939, alto 1,80 m, con la sua corsa esprimeva fluidità e leggerezza piuttosto che potenza. Nel 1958 aveva migliorato il record italiano sui 100 m con 10,3″ e nel 1959 aveva battuto Hary sui 100 m e il quotato senegalese Seye sui 200 m. Ma la vittoria che gli diede attenzione internazionale fu il successo che ottenne su Norton in agosto, a Malmö, dove realizzò il tempo di 20,8″ con curva completa (in giugno a Milano, con curva parziale aveva ottenuto 20,7″).
All'Olimpico di Roma, in settembre, vi fu il trionfo dello sprint europeo. Prima della finale dei 100 m, lo starter bolognese Primo Pedrazzini sembrava più nervoso degli atleti, ma non sbagliò: rilevò subito una falsa partenza di Hary e di Sime, poi sparò due volte senza sanzionare nessuno. Infine il via regolare: Hary partì alla sua maniera, ponendosi subito al comando. Nel finale riuscì a contenere la rimonta di Sime: 10,2″ per entrambi. Terzo Radford, solo sesto Norton, in precarie condizioni di forma. Berruti, che in maggio aveva portato il record italiano dei 100 a 10,2″, aveva deciso di puntare tutto sui 200 m, dove però era stato battuto prima dei Giochi da Radford. A Roma il piemontese corse la semifinale, senza spingere oltre misura nel tratto conclusivo, in 20,5″, eguagliando il record del mondo. La sua corsa fu accompagnata da un augurale volo di colombe. Si lasciò alle spalle Norton, Johnson e Radford, gli altri tre primatisti del mondo, l'inglese addirittura escluso dalla finale, che era in programma due ore dopo. Tutti andarono al campo per riscaldarsi e trovare la concentrazione, Berruti andò solo a osservare gli avversari. In finale trovò la quinta corsia, avendo davanti Norton: percorse la curva in modo magistrale, entrò primo in rettilineo e sul traguardo contenne il ritorno di Lester Carney, il terzo degli americani. Il tempo fu ancora di 20,5″. Era la prima volta che alle Olimpiadi la gara sui 200 m veniva vinta da un atleta non nordamericano.
Dopo la delusione subita a Roma, dove persero anche la 4x100 m per squalifica, gli statunitensi cominciarono a preparare la rivincita. Nel 1963 il record mondiale dei 200 m fu migliorato da Henry Carr. Nel 1963 corse le 220 yards con curva (la gara in rettilineo ormai si disputava sempre meno) prima in 20,3″ e, un anno dopo, in 20,2″. Anche i 100 m trovarono un nuovo grande campione, Bob Hayes, poderoso sprinter nato a Jacksonville, in Florida, che corse quattro volte le 100 yards in 9,1″ anche se uno solo di questi tempi fu omologato come primato mondiale.
Hayes e Carr si presentarono ai Giochi di Tokyo come i grandi favoriti delle due gare. Hayes, che non perdeva sulle 100 yards e sui 100 m da 48 gare consecutive, vinse la semifinale in 9,90″ (9,91″ secondo il cronometraggio automatico), ma con un vento favorevole di oltre 5 m/s. In finale non ebbe rivali e vinse in 10,0″, mondiale eguagliato (10,06″ al cronometraggio automatico). Il cubano Enrique Figuerola finì a 2 m da Hayes, poco avanti al canadese Henry Jerome che conquistò il bronzo. Sui 200 m Carr controllò senza troppi problemi il suo rivale più quotato, Paul Drayton, che lo aveva battuto ai Trials olimpici. Per Carr il tempo fu 20,3″ (20,36″), per Drayton 20,5″ (20,58″). Berruti, quinto in 20,8″, fu il primo bianco e il primo degli europei. All'ottavo posto si classificò il ventiduenne milanese Sergio Ottolina, che in giugno aveva tolto con 20,4″ il record italiano ed europeo a Berruti. Hayes e Carr passarono, subito dopo Tokyo, al football americano.
Il record di 10,0″ sui 100 m (ma in realtà a Tokyo Hayes con il suo 10,06″ era diventato il vero primatista mondiale) fu eguagliato da diversi atleti. Era ormai arrivato il momento per realizzare il primo tempo inferiore ai 10″. Realizzò l'impresa Jim Hines, un nero dell'Arkansas dal fisico compatto (1,83 m per 81 kg), che all'inizio della carriera seguì anche i consigli del grande Bobby Morrow. Nel 1967 Hines eguagliò i primati delle 100 yards (9,1″) e poi dei 100 m (10,0″).
Il 1968 fu dunque un anno di rivolgimenti non solo sociali. A ottobre si sarebbero tenuti a Città del Messico i Giochi Olimpici, per la prima volta in altura, quindi con evidente vantaggio per le gare brevi e di salto, e per la prima volta si sarebbe corso su una pista in materiale sintetico, allora chiamato tartan. In giugno a Sacramento, durante i Campionati USA, vi fu una serie di risultati eccezionali. Hines in batteria corse con vento superiore a 2,8 m/s in 9,8″, ma in semifinale trovò le condizioni giuste per iscrivere nell'albo dei record il primo 9,9″ ufficiale. Prima di lui avevano ottenuto un tempo di 10,0″ regolare l'americano Charles Greene e Roger Bambuck, francese della Guadalupa, campione europeo in carica dei 200 m. Ma il 9,9″ di Hines non restò isolato: il tempo di 9,9″ fu generosamente attribuito anche a Ronnie Ray Smith, giunto dietro di lui, e nell'altra semifinale Greene lo eguagliò a sua volta. La finale fu poi vinta da Greene su Hines (10,0″ con vento oltre i limiti).
Ma prima di Città del Messico anche nei 200 m si videro importanti novità, soprattutto per la presenza di un atleta formidabile, uno dei più grandi velocisti di sempre, Tommie 'Jet' Smith, un texano di 1,90 m per 84 kg, cresciuto in California, all'Università di San José, sotto la guida di un tecnico esperto come Bud Winter. Smith nel 1966 aveva fatto sensazione correndo le 220 yards in rettilineo in 19,5″ e in seguito, a Sacramento, aveva ottenuto sulla distanza con curva 20,0″, un tempo che, rapportato alla distanza metrica, poteva costituire il primo risultato della storia inferiore ai 20 secondi. Ai Trials di Echo Summit, località a oltre 2000 m di quota, Smith fu sconfitto in modo netto da John Carlos, un nero nativo di New York: per Carlos 19,7″ (19,92″ al cronometraggio automatico), per Smith 20,0″ (20,18″). Nessuno dei due tempi venne omologato perché entrambi gli atleti usarono scarpette con una sessantina di piccoli chiodi, che la IAAF giudicò irregolari. La sfida di Città del Messico fu vinta da un travolgente Smith che affiancò Carlos in rettilineo, lo superò per andare a vincere a braccia alzate, rallentando vistosamente, in 19,8″: il nuovo record del mondo al centesimo era 19,83″, tempo che sarebbe poi stato registrato come il primo primato con cronometraggio automatico dei 200 m. Non meno travolgente fu Jim Hines che vinse la finale dei 100 m, dove per la prima volta non trovò posto nessun velocista bianco, in 9,9″ (9,95″ al centesimo di secondo, un record che durò quindici anni). Sul podio Smith e Carlos manifestarono a favore della gente di colore: chinarono il capo durante l'inno alzando il pugno rivestito da un guanto nero. Fu uno scandalo e i due atleti vennero espulsi dal villaggio. Dopo Città del Messico ci fu chi ritenne opportuno distinguere i primati ottenuti ad alta quota da quelli realizzati a livello del mare o poco più. Studi approfonditi calcolarono che l'altura del Messico faceva guadagnare sui 100 m circa 11 centesimi, mentre sui 200 m il vantaggio poteva arrivare a 20 centesimi; e addirittura a 36 nei 400 m. Ma la IAAF non prese mai in considerazione la cosa.
Dopo i formidabili risultati delle Olimpiadi del 1968 le discipline di velocità conobbero in America un periodo di crisi. Cominciarono a emergere atleti di altri paesi. Nell'agosto 1971 Donald Quarrie, un giamaicano di Kingston piccolo di statura (1,70 m) ma dal fisico scattante, in occasione dei Giochi Panamericani a Calì (città colombiana situata a oltre 1000 m di quota) corse i 200 m in 19,8″ (19,86″ al centesimo). Intanto ai Campionati Europei di quello stesso anno un giovane ucraino, Valery Borzov, realizzò un'agevole doppietta. Rapido allo sparo, dotato di un perfetto controllo dell'accelerazione e della fase lanciata, Borzov non sembrava mai in affanno, mai alla ricerca di uno sforzo inadeguato. Il fatto che il suo allenatore fosse un fisiologo, Valentin Petrovsky, fece dire a molti che si trattava del primo velocista 'costruito in laboratorio'. C'era attesa per la sfida a Monaco 1972 tra Borzov e gli americani, che avevano trovato ai Trials due sprinter, Eddie Hart e Rey Robinson, in grado di eguagliare il record 'manuale' di 9,9″. Il 1° settembre Borzov vinse i 100 m in 10,14″ (nei quarti di finale aveva ottenuto, con 10,07″, il record europeo in automatico), ma Hart e Robinson non parteciparono alla finale, non avendo preso parte al loro turno di qualificazione: arrivarono tardi allo stadio, in quanto un vecchio programma di gara del loro allenatore prevedeva un diverso orario di inizio dei quarti di finale. Solo Robert Taylor, il terzo americano, che era in lista nel terzo dei quattro turni, riuscì a partire e a qualificarsi, e fu poi secondo dietro a Borzov. L'ucraino dominò anche i 200 m con l'ottimo tempo di 20″, il migliore mai registrato fino ad allora a livello del mare. Superò l'americano Larry Black (Quarrie si era infortunato in semifinale) e un ventenne di Barletta, dotato di una solidità muscolare e agonistica fuori del comune, Pietro Mennea, che si era già messo in luce agli Europei di Helsinki del 1971, quando era finito sesto in 20,88″. A Monaco Mennea conquistò il bronzo correndo in 20,30″, un tempo comparativamente migliore del 20,2″ manuale che, eguagliando il record europeo, aveva realizzato in giugno a Milano (in quella stessa riunione nei 100 m era stato superato di pochissimo da Borzov, ma entrambi avevano eguagliato con 10″ il primato europeo). Sotto la guida di Carlo Vittori, Mennea riuscì ad affinare un talento che sicuramente gli permetteva di correre con agilità, anche se con un'azione non sempre esteticamente piacevole: partì da quella medaglia di bronzo per poi conquistare altri prestigiosi traguardi, dal primato del mondo all'oro olimpico, fino a un record di longevità che lo portò a partecipare a ben quattro finali olimpiche.
Si andava ormai verso Montreal 1976 e in Europa Borzov e Mennea si dividevano gli allori: l'ucraino vinse agli Europei di Roma 1974 i 100 m davanti a Mennea, che fece suoi i 200 m dove però Borzov non si schierò. L'ucraino sembrava ormai preferire la distanza più breve, perché mal sopportava i faticosi allenamenti necessari a eccellere sulla doppia distanza, allenamenti che invece erano il pane quotidiano di Mennea, nel Centro di Formia, dove si allenò e visse in modo quasi monacale per anni. Nel 1975, a Nizza, nella finale di Coppa Europa, Borzov, dopo aver vinto di misura sui 100 m, non poté evitare lo scontro con Mennea sui 200 m e fu nettamente battuto.
In USA, intanto, era all'apice un velocista di valore come Steve Williams. Nato a New York il 13 novembre 1953, 1,89 m d'altezza e 89 kg di peso, nel 1972 era stato messo fuori gioco da un infortunio. Nel 1973 aveva corso le 100 yards in 9,1″ e tra il 1974 e il 1976 ottenne per quattro volte 9,9″ sui 100 m. Nel 1975, pur battuto da Quarrie, registrò 19,9″ sulle 220 yards. Un nuovo infortunio lo tagliò fuori dalla possibilità di qualificarsi per i Giochi di Montreal. Qui gli americani si presentarono con una serie di buoni velocisti fra i quali il migliore sui 100 m era certamente Harvey Glance, un ragazzo di 19 anni che nella primavera preolimpica aveva corso per due volte in 9,9″. Ma a Montreal, anche se non arrivò per un infortunio il forte cubano Silvio Leonard (9,9″ nel 1975), non ci fu scampo per gli statunitensi. Hasely Crawford, un poderoso ed esperto atleta di Trinidad che a Monaco si era fermato in finale per problemi muscolari, vinse in 10,06″ precedendo di un centesimo Quarrie. Borzov fu terzo in 10,14″, Glance solo quarto. Per la seconda volta, dopo il 1928 (ma lì aveva vinto il canadese Percy Williams), nessun atleta statunitense salì sul podio. Quarrie, beffato sui 100 m, si rifece sui 200, dove con il tempo di 20,22″ sconfisse la coppia americana Hampton-Evans. Mennea fu quarto in 20,54″, un buon risultato ma inferiore alle aspettative sue e del suo tecnico: dopo il bronzo del 1972, a Montreal l'obiettivo era quanto meno un nuovo posto sul podio. Vittori non si diede pace e dichiarò poi di aver scoperto che il suo atleta, generosamente, si era allenato di nascosto, per cercare di ottenere il massimo. Dopo i Giochi Mennea realizzò il tempo di 20,23″ al meeting di Viareggio, poi il 2 luglio 1977, a Milano, portò il record italiano dei 200 m a 20,11″, ma fu secondo in Coppa del Mondo con lo stesso tempo di Clancy Edwards (20,17″).
Nel 1978 Mennea ebbe una stagione straordinaria: agli Europei di Praga, pur con condizioni atmosferiche proibitive, vinse i 100 m in 10,27″ dopo avere stabilito il nuovo record italiano, in batteria, di 10,19″. Nei 200 m vinse con 4 m di vantaggio sul secondo in 20,16″, nonostante un leggero vento contrario. Nel 1979 il pugliese finalizzò buona parte della sua stagione alle Universiadi, in programma in settembre a Città del Messico. In agosto, nella finale di Coppa Europa, a Torino, migliorò con 10,15″ il record italiano dei 100 m, che un mese dopo, sfruttando già l'altura messicana in una gara di rodaggio, portò a 10,01″, strappando così il primato europeo a Borzov. Ma Pietro Mennea pensava ai 200 m e, alle Universiadi, dopo aver corso le batterie in 19,96″ e le semifinali in 20,04″, vinse la finale in 19,72″, cancellando così dopo undici anni il record di Tommie Smith. Era il 12 settembre, il vento a favore fu nei limiti: 1,8 m/s. Vittori, autentico perfezionista, non fu del tutto soddisfatto: riteneva che Mennea fosse nelle condizioni di ottenere un tempo intorno ai 19,60″.
Mentre in USA non emersero figure di primissimo piano (l'età dei velocisti in attività tendeva sempre più ad allungarsi e i vari Quarrie, Leonard rimanevano sempre in prima linea), in Europa si fece notare lo scozzese Allan Wells, rimasto nell'anonimato fino a 26 anni. Nel 1978 ai Giochi del Commonwealth fu battuto da Quarrie nei 100 m (10,03″ contro 10,07″) e vinse i 200 m in 20,12″, ma entrambe le gare sfruttarono un vento oltre il limite. Il boicottaggio degli americani, e non solo, lasciò spazio agli sprinter europei per i Giochi di Mosca 1980. Comunque gli USA, che fecero disputare egualmente i loro Trials (nei 100 m finì quarto il diciannovenne Carl Lewis) non avevano atleti che potessero garantire medaglie sicure. A Mosca sui 100 m Wells bruciò per pochi centimetri (10,25″ per entrambi) Silvio Leonard. Mennea, inaspettatamente, fu eliminato in semifinale con un modestissimo 10,58″. La prova creò insicurezza nell'atleta che fu sul punto di disertare la finale dei 200 m, ma poi si presentò al via, in ottava corsia. La sua vera gara cominciò dopo la curva, dalla quale uscì nettamente in ritardo, mentre Wells sembrava lanciato verso la vittoria; gli ultimi 75 m di Mennea furono straordinari, l'atleta raggiunse e superò uno dopo l'altro diversi avversari e a 5 m dal traguardo sopravanzò anche lo scozzese, vincendo una meritata medaglia d'oro con il tempo di 20,19″ (20,21″ il tempo di Wells, al terzo posto arrivò Quarrie). Dopo Mosca Mennea realizzò un'eccezionale serie di tempi, il migliore dei quali fu il 19,96″ ottenuto nella sua Barletta.
Negli anni Ottanta crebbero, attraverso il proliferare di meeting importanti e in particolare grazie alla nascita dei Mondiali (la prima rassegna iridata si disputò a Helsinki nel 1983), le occasioni di confronto tra i migliori velocisti del mondo. Proprio nel 1983 Calvin Smith, un americano che faceva dell'agilità e della tenuta le sue armi più efficaci, migliorò dopo quindici anni, all'altura di Colorado Springs, il record mondiale sui 100 m piani appartenente a Hines, da 9,95″ a 9,93″. Intanto cominciavano a emergere alcuni velocisti che avrebbero tenuto a lungo la scena. Il più grande è stato Carl Lewis, che, grazie alla sua duttilità tecnica e a una carriera lunga e ricca di successi (100 m, 200 m, salto in lungo), sarebbe stato definito l'atleta del secolo. Considerato già nel 1981 il numero 1 nei 100 m e nel salto in lungo, nel 1983, appena ventiduenne, fu la star dei Mondiali di Helsinki: dopo aver vinto i 100 in 10,07″ davanti a Smith, a cui lasciò i 200 m (in questa gara Mennea, tornato alle gare dopo un primo ritiro, fu terzo), conquistò l'oro nel salto in lungo e nella staffetta. Ma il capolavoro fu realizzato ai Giochi Olimpici di Los Angeles del 1984, dove Lewis fece quello che Owens (peraltro legato d'amicizia con il padre) aveva fatto a Berlino nel 1936: vinse i 100 e i 200 m, il salto in lungo e contribuì alla vittoria statunitense nella staffetta 4x100. Nei 100 m concluse in 9,99″, nei 200 m ottenne 19,80″. L'anno prima, a Indianapolis, quindi a livello del mare, aveva corso i 200 m in 19,75″, a soli 3 centesimi dal primato ufficiale di Mennea. Nella sua carriera da velocista Lewis ottenne due ori olimpici (1984 e 1988) e tre titoli mondiali (1983, 1987, 1991) nei 100 m, un oro olimpico (1984) e un bronzo al Mondiale (1993) nei 200 m. Realizzò anche due primati del mondo sulla distanza più breve: 9,92″ a Seul 1988 e 9,86″ a Tokyo 1991.
Negli anni d'oro, Lewis trovò sulla sua strada una serie di sprinter di altissimo livello: oltre ai connazionali Calvin Smith, Dennis Mitchell e Leroy Burrell, suo compagno di scuderia, il britannico di origine giamaicana Linford Christie, il giamaicano Ray Stewart, il namibiano Frank Fredericks e nei 200 m l'altro compagno di allenamento Joseph DeLoach, che ebbe il suo giorno d'oro nella finale di Seul, dove, con il tempo di 19,75″, sconfisse Lewis. Ma nella seconda metà degli anni Ottanta il vero rivale di Lewis fu un canadese nato in Giamaica nel 1961, Ben Johnson. Dotato di una corporatura media (altezza 1,78 m) ma scattante, Johnson si era messo in luce nella finale olimpica dei 100 m a Los Angeles, dove aveva conquistato il bronzo. Poi, tra il 1985 e il 1986, era progredito fino a correre i 60 m indoor in 6,50″ e i 100 m in 9,95″. Lewis e Johnson si affrontarono a Roma, nella finale dei Mondiali, nell'agosto 1987. Johnson, che in quell'anno aveva già battuto Lewis a Siviglia, schiacciò il rivale correndo sulla pista dell'Olimpico in 9,83″, frantumando il record del mondo. Lewis fu secondo in 9,93″, tempo che eguagliava il vecchio primato di Calvin Smith. La rivincita fu uno degli eventi più importanti dei Giochi Olimpici di Seul 1988. Ben Johnson, che il 17 agosto aveva perso contro Lewis a Zurigo (9,93″ contro 10″), il 24 settembre sulla pista coreana fu imprendibile: una volata straordinaria conclusa in 9,79″. Lewis si batté ma fu secondo in 9,92″. Quando ancora il mondo celebrava l'impresa del giamaicano-canadese, l'atleta che dalla povertà aveva raggiunto la gloria sportiva ed economica, arrivò la notizia che Johnson era stato trovato positivo al controllo antidoping: uso prolungato di uno steroide anabolizzante, lo stanozololo. Johnson, dopo aver restituito la medaglia, lasciò Seul di nascosto. Il mondo dello sport, ma non solo quello, fu scosso dalla vicenda. Lewis divenne campione olimpico e primatista del mondo. Johnson venne squalificato per due anni e il governo canadese aprì un procedimento durante il quale l'atleta confessò, pentito, di aver fatto uso di anabolizzanti e di altri prodotti proibiti fin dal 1981. La IAAF gli tolse anche l'oro e il record che aveva conquistato ai Mondiali di Roma del 1987. Johnson tornò alle gare nel 1991, ma senza ottenere risultati di rilievo. Nella stagione indoor del 1993 sembrò aver recuperato smalto, ma al controllo antidoping, dopo il meeting indoor del 17 gennaio a Montreal, fu nuovamente trovato positivo, ancora una volta per uso di stanozololo, e venne radiato dalla IAAF. La squalifica di Johnson a Seul portò all'argento il ventottenne Linford Christie, ma anche lui fu trovato positivo per uso di uno stimolante, l'efedrina. Si giustificò dicendo di aver preso dosi eccessive di una sostanza contenente ginseng. Con un voto assai controverso la Commissione medica del CIO lo assolse.
Tre anni dopo, sempre in Asia, ai Mondiali di Tokyo del 1991, si corse forse la più grande gara sui 100 m della storia: il giamaicano Raymond Stewart, che era stato finalista olimpico nel 1984 e nel 1988 e ai Mondiali del 1987 era giunto secondo davanti a Christie, con il tempo di 9,96″ fu appena sesto; vinse Carl Lewis in 9,86″, nuovo record del mondo; al secondo posto con 9,88″ arrivò il suo delfino Leroy Burrell (nato a Filadelfia il 21 febbraio 1967, era stato il miglior sprinter del 1990 con 19 vittorie su 22 gare ed era arrivato a Tokyo imbattuto, ma soprattutto da primatista del mondo, avendo vinto la finale dei Campionati americani del giugno 1991 in 9,90″); terzo fu Dennis Mitchell (nato in North Carolina nel 1967, ebbe una carriera di una regolarità straordinaria, giungendo terzo ai Giochi Olimpici nel 1992 e quarto nel 1988 e nel 1996, terzo ai Mondiali nel 1991 e nel 1993; ebbe la sfortuna di competere in quasi tutte le occasioni con atleti eccezionali, ma si rifece in parte con le staffette).
Christie, dopo la delusione di Tokyo, dove pur giungendo quarto in 9,92″ aveva migliorato il record europeo, pensò anche al ritiro, ma poi proseguì l'attività agonistica e si presentò agguerrito alle Olimpiadi di Barcellona, dove ebbe la fortuna di non trovare Carl Lewis: colpito da una forma virale nel corso dei Trials, lo statunitense aveva fallito la qualificazione olimpica alla gara dei 100 m, guadagnando solo quella per il salto in lungo e la staffetta. Christie vinse l'oro olimpico in 9,96″ davanti a Fredericks e Mitchell.
Nei 200 m il favorito era un texano che correva in modo piuttosto strano, impettito, con le ginocchia basse e il passo piuttosto corto, Michael Johnson. Era il più quotato anche nei 400 m, mentre l'anno prima, a Tokyo, aveva vinto il titolo mondiale dei 200 m e ai Trials olimpici per Barcellona era arrivato primo in 19,79″. Johnson però, giunto nella città catalana in condizioni precarie per un'intossicazione alimentare, non riuscì a superare le semifinali e lasciò via libera a Michael Marsh, velocista del club del Santa Monica guidato da Carl Lewis. Marsh vinse in 20,21″, davanti a Fredericks che si guadagnò un'altra medaglia d'argento. Ma Marsh lasciò Barcellona con un rimpianto, quello di aver buttato al vento un record del mondo: infatti aveva vinto la semifinale in 19,73″, a un centesimo dal record di Mennea, frenando in modo abbastanza vistoso negli ultimi metri. Fredericks (classe 1967), che aveva lasciato la Namibia per studiare negli USA, alla Brigham Young University, aveva conquistato già un secondo posto l'anno prima a Tokyo, dietro a Michael Johnson. In seguito vinse l'oro mondiale sui 200 m a Stoccarda nel 1993, un altro argento sulla stessa distanza a Göteborg nel 1995 e altri due argenti olimpici, sui 100 e 200 m, ai Giochi di Atlanta del 1996. Ai Mondiali di Atene 1997 fu quarto nei 100 m e ancora secondo sui 200. Le sue vittorie, i suoi tempi (9,86″ sui 100 m e 19,68″ sui 200, ottenuti ad Atlanta 1996) e la sua signorilità (mai una polemica, mai una scusa, mai una parola fuori posto) furono motivo d'orgoglio per l'atletica africana.
A metà degli anni Novanta cominciò a emergere una nuova generazione di velocisti canadesi. Ai Mondiali di Göteborg vinse l'oro dei 100 m Donovan Bailey, nato anche lui in Giamaica (il 16 dicembre 1967) e anche lui trasferitosi in Canada da adolescente. In Svezia superò in finale Bruny Surin, un ex lunghista nato a Haiti, ripropostosi nella velocità e giunto al quarto posto a Barcellona 1992. Intanto il 6 luglio 1994, a Losanna, Leroy Burrell si era ripreso il record del mondo dei 100 m correndo in 9,85″, un centesimo in meno del tempo realizzato da Lewis a Tokyo. Ma ad Atlanta 1996 Bailey, che era arrivato in Georgia non immune da sconfitte, si dimostrò in gran forma e vinse l'oro realizzando il nuovo primato del mondo di 9,84″. Era da Messico 1968 che un atleta non conquistava contemporaneamente vittoria e record in una finale olimpica dei 100 m. Ad Atlanta, dietro a Bailey e Fredericks, arrivò Ato Boldon, un ragazzo di Trinidad dal fisico statuario che era cresciuto negli USA e aveva fatto il salto di qualità alla scuola di John Smith, a Los Angeles. Boldon finì terzo anche nei 200 m, nella gara che segnò l'autentica impresa di Michael Johnson, il nuovo record di 19,32″. Il texano, che ai Mondiali dell'anno prima aveva vinto a Göteborg con 19,79″ (conquistando anche la vittoria nei 400 m), aveva già strappato, dopo diciassette anni, il primato a Mennea, nel corso dei Trials olimpici svoltisi sempre ad Atlanta, dove aveva vinto in 19,66″. Era il logico favorito anche se in luglio, dopo 21 vittorie di fila, era stato battuto a Oslo da Fredericks. Johnson corse i 200 m dopo aver già conquistato l'oro dei 400 m: aveva convinto la IAAF a cambiare il programma di Atlanta per permettergli il doppio tentativo di vittoria riuscitogli ai Mondiali dell'anno prima. In finale Johnson fu strepitoso: corse una curva magistrale percorrendo i primi 100 m in 10,12″; il rettilineo fu quasi una passerella trionfale. Fredericks, pur con l'ottimo tempo di 19,68″, finì a 4 m di distanza. Da quel momento Johnson trascurò i 200 m per puntare solo al primato mondiale dei 400 m che ancora gli mancava, obiettivo che centrò nel 1999. Lewis, dopo aver vinto l'oro di Atlanta nel salto in lungo, abbandonò la scena. Con Fredericks ormai trentenne, insieme a Boldon che nel 1997 vinse il titolo mondiale dei 200 m emerse un nuovo velocista, Maurice Greene. Nato a Kansas City nel 1974, dopo i Giochi di Atlanta si trasferì a Los Angeles per farsi allenare da John Smith e mai scelta fu più saggia: in tre edizioni dei Campionati Mondiali (1997, 1999 e 2001) vinse quattro volte l'oro (tre sui 100 m e una volta sui 200 m, nel 1999); ma soprattutto conquistò la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Sydney del 2000 in 9,87″, dopo aver stabilito ad Atene, il 16 giugno 1999, il nuovo primato del mondo, portandolo da 9,84″ a 9,79″.
Ai Mondiali di Edmonton 2001 Greene vinse con un eccellente 9,82″ e alle sua spalle si classificò in 9,85″ un americano del South Carolina, Tim Montgomery. Si era messo in luce nel 1994 a 19 anni quando aveva corso i 100 m in 9,94″, un tempo che per il cattivo posizionamento dell'anemometro non fu mai omologato come titolo mondiale juniores. Montgomery finì poi terzo nei 100 m ai Mondiali del 1997, dietro a Greene e Bailey. Nel 2002, al meeting di Parigi del 14 settembre, Montgomery con 9,78″ strappò a Greene il primato mondiale.
La corsia dei 200 m lasciata libera da Michael Johnson fu sorprendentemente occupata da un atleta greco, Kostadinos 'Kosta' Kederis, che aveva abbandonato i 400 m per dedicarsi alla distanza più breve. Il greco, nato a Mitilini l'11 giugno 1973, vinse, tra la sorpresa generale, i Giochi Olimpici di Sydney, battendo con 20,09″ il britannico di colore Darren Campbell e Boldon. Kederis, che appariva solo nelle grandi manifestazioni, replicò ai Mondiali del 2001 quando superò in 20,04″ il giamaicano Williams e il duo (fu dato un ex aequo) formato dallo statunitense Shawn Crawford e da Kim Collins, un atleta che si allenava in Texas ma era nato nelle isole caraibiche di Saint Kitts & Nevis, un piccolo Stato con soli 45.000 abitanti. Come nel 1999 trovò un posto nella finale dei 200 m anche l'americano Kevin Little, una mosca bianca nel panorama di uno sprint USA ormai tutto di colore. Nei 100 m dei Mondiali di Parigi del 2003, con Montgomery fuori condizione, Greene in cattiva forma ed eliminato in semifinale, e con un gruppo di velocisti ancora in cerca di identità, Collins vinse l'oro in 10,07″, il tempo più lento nella storia dei Mondiali. Montgomery fu solo quinto. Sui 200 m prevalse l'americano John Capel con 20,30″, il tempo con cui, esattamente trentun anni prima, Mennea aveva vinto il bronzo ai Giochi olimpici di Monaco.
I velocisti italiani. Sulla spinta di Mennea, negli anni Settanta e Ottanta l'Italia produsse una generazione di eccellenti velocisti ma, Mennea a parte, nessuno è mai più riuscito a trovare posto in una finale olimpica. In chiave mondiale da segnalare invece il settimo posto conquistato nel 1983 sui 200 m dal ravennate Carlo Simionato, mentre nel 1987 a Roma Pierfrancesco Pavoni, un romano del 1963, arrivò ottavo sui 100 e settimo sui 200 m. Per la verità Pavoni, bersagliato poi da molti infortuni, sembrava destinato a una carriera ancora più brillante quando, a 19 anni, da juniores, arrivò secondo sui 100 m ai Campionati Europei di Atene, con il tempo di 10,25″. Vinse anche la medaglia di bronzo sui 60 m ai Mondiali indoor del 1987 e poi del 1989. Nelle gare indoor si segnalò anche l'altro romano Stefano Tilli, che nel 1983 vinse a sorpresa il titolo europeo sui 60 m e poi, nel 1985, quello dei 200 m. Tilli, anche lui spesso colpito da infortuni, soprattutto ai tendini, ebbe una lunghissima carriera che lo portò a partecipare a quattro edizioni delle Olimpiadi e a ben cinque Campionati del Mondo. A Los Angeles sui 100 e 200 m e poi a Seul sui 200 m arrivò alle semifinali. In tutto, tra gare sui 100 e sui 200 m, vinse ben nove titoli italiani. Ottenne i suoi primati nel 1984: 10,16″ nei 100 e 20,40″ nei 200 m. Alle soglie dei quarant'anni era ancora in pista. Degli altri meritano di essere ricordati per i 100 m il bergamasco Vincenzo Guerini, il veneto Luciano Caravani, il siciliano Antonio Ullo, bravissimo nelle gare indoor; e per i 200 m l'emiliano Pasqualino Abeti, il toscano Luigi Benedetti e il sardo Stefano Floris, che vinse anche un titolo europeo indoor. All'inizio degli anni Novanta si misero in luce il ligure Ezio Madonna e i sardi Giorgio Marras e Giovanni Puggioni, successivamente si formò un'altra generazione di sprinter che ebbe nel catanese Francesco Scuderi l'uomo di punta sui 100 m (con cinque titoli italiani) e nella coppia formata dal romano Marco Torrieri e dall'altro siciliano Alessandro Cavallaro, i migliori sui 200 m: entrambi sono arrivati in semifinale in un'edizione dei Mondiali, il primo a Edmonton nel 2001, il secondo a Parigi nel 2003.
All'inizio del 20° secolo, nella dura battaglia che le donne affrontarono per avere riconoscimenti ufficiali della loro attività sportiva, un contributo importante fu fornito, se non altro come immagine, dalle atlete che si cimentavano nelle gare di velocità. A quei tempi spesso le giovani che facevano sport non potevano esimersi, comunque, dal praticare anche le prove di sprint. Un esempio per tutti fu Mary Lines, ex crocerossina inglese, protagonista delle prove di velocità, ma non solo di quelle, ai primi Giochi femminili internazionali che si tennero nel 1921 a Montecarlo. Lines tra il 1921 e il 1923 realizzò 29 primati, dai 60 m alle 880 yards, dagli ostacoli alle staffette (solo 13 riconosciuti ufficialmente). Tra le prestazioni più importanti nella velocità ci furono il tempo di 11″3/5 sulle 100 yards (1922), quello di 12″4/5 sui 100 m (1922), quello di 26″4/5 sulle 220 yards (1922), e la misura di 62″2/5 realizzata sulle 440 yards.
Di risultati femminili in gare di velocità si ha traccia già nei primissimi anni del Novecento. Nel 1903, a Poughkeepsie, nello Stato di New York, Agnes Wood, un'allieva del Vassar College (scuola privata femminile fondata nel 1861), corse le 220 yards in 30″3/5. Ma nel 1895 fu registrato già il 36″1/4 dell'americana Helen Haight, sempre a Poughkeepsie, durante il Field Day, una sorta di festa sportiva che da quell'anno iniziò a svolgersi presso il Vassar College. Nel 1910 l'americana Marie Thornton ottenne a Painsville sulle 100 yards il tempo di 12″. Per quanto riguarda le distanze metriche risalgono al 1913 sia il tempo di 13,1″ ottenuto a Kiev dalla russa Nina Popova sui 100 m sia quello di 29,7″ della finlandese Lisie Nystrom sui 200 m.
Il primo risultato sui 100 m inferiore ai 13″ appartiene alla tedesca Maria Kiessling che il 29 agosto 1920 corse a Monaco in 12,9″. Tra il 1925 e il 1926 la canadese Rosa Grosse ottenne numerose volte il tempo di 11,0″ sulle 100 yards. La Grosse fu velocista completa e di talento, capace di realizzare, nel 1926, anche la misura di 25″1/5 sulle 220 yards in linea retta. Ma l'inglese Eileen Edwards ebbe il merito di far suo il primo record ufficiale sui 200 m inferiore ai 26″: 25,4″, ottenuto nel 1927.
La vera svolta si ebbe a partire dal 1928, quando anche alle donne furono aperte le porte dei Giochi Olimpici, anche se fino al 1948 le gare di velocità furono limitate ai soli 100 m e alla staffetta. La prima campionessa olimpica dei 100 m fu la diciassettenne americana Elizabeth 'Betty' Robinson. Frequentava ancora la high school nell'Illinois e aveva gareggiato per la prima volta solo il 30 marzo dell'anno olimpico, in un meeting indoor, convinta da un suo insegnante che l'aveva vista correre velocissima per tentare di prendere il treno. Robinson vinse in 12,2″ davanti a due canadesi. Ma prima dei Giochi, il 2 giugno 1928 a Chicago, aveva portato il record del mondo a 12″, in quella che era stata la sua seconda gara in assoluto. Robinson ottenne poi una serie di record sulle brevi distanze, ma tre anni dopo ad Amsterdam rimase gravemente ferita nella caduta di un piccolo velivolo. Rimase in coma per sette settimane e per due anni non riuscì a camminare in modo normale. Ma tornò alle gare e nel 1936 fece parte del quartetto americano che vinse la medaglia d'oro ai Giochi di Berlino.
Gli anni Trenta, che coincisero anche con la decisione della IAAF (del 1935) di omologare finalmente i record delle donne, compito che a partire dal 1921 era toccato alla Federazione sportiva femminile internazionale, furono dominati da due atlete che, per una serie di motivi, non solo sportivi, scrissero pagine importanti nella storia della velocità: Stanislawa Walasiewicz e Helen Stephens. Walasiewicz era nata a Rypin, in Polonia, nel 1911, ma ancora bambina fu portata dai genitori a Cleveland, nell'Ohio, e visse sempre negli Stati Uniti di cui nel 1947 diventò cittadina; era conosciuta come Stella Walsh. Vinse 41 titoli americani (tra cui alcuni nel salto in lungo, nel lancio del disco e nel pentathlon), l'oro olimpico sui 100 m a Los Angeles nel 1932 (con 11,9″ eguagliò il primato mondiale che aveva stabilito l'olandese Tollien Schuurman) e la medaglia d'argento a Berlino nel 1936; ottenne, tra gare all'aperto e indoor, 37 primati del mondo, ma solo pochi furono quelli riconosciuti dalla IAAF. Nell'elenco ufficiale figura il record di 11,7″ sui 100 m ottenuto a Varsavia il 26 agosto 1934 e quello di 11,6″ realizzato a Berlino nel 1936. Sui 200 m è suo il tempo di 23,6″ con cui si aprì la lista dei primati IAAF: lo stabilì a Varsavia nel 1935, in una gara mista. Tra i primati mai riconosciuti, a parte il tempo di 10,8″ che realizzò sulle 100 yards, vanno citati l'11,5″ del 1936 e addirittura l'11,2″ che ottenne a 34 anni, nel 1945. Sui 200 m, nel 1952 a 41 anni, corse in 23,4″. A causa dei tratti mascolini di Walsh, molti dubitavano della sua identità sessuale. Quando morì in seguito a una rapina a Cleveland fu sottoposta ad autopsia ed emerse che tali dubbi erano fondati: un'anomalia genetica aveva causato la presenza di caratteri sessuali sia maschili sia femminili.
Helen Stephens fu l'unica in grado di batterla e questo accadde anche nella finale di Berlino del 1936 dove Stephens vinse con il tempo di 11,5″ favorito anche dal vento e Walasiewicz-Walsh fu seconda (11,7″). Soprannominata 'tornado del Missouri', Stephens ebbe una carriera breve, di circa 30 mesi, un periodo durante il quale corse molto e non venne mai sconfitta. Stabilì 16 primati: corse i 100 m due volte in 11,5″ e tre volte in 11,6″ (a parte una prestazione di 11,4″ favorita dal vento), le 100 yards in 10,4″ e le 220 yards in rettilineo in 23,2″; nessuno dei suoi primati trovò mai posto nella lista ufficiale della IAAF. Lasciata l'atletica si diede al professionismo: si cimentò anche contro Jesse Owens e poi per sette anni giocò con due squadre professionistiche di basket.
Chiuso il capitolo Walasiewicz-Stephens, bisognò attendere undici anni e tutta la Seconda guerra mondiale per migliorare ufficialmente il record della polacca sui 100 m e ben diciassette anni per far cadere quello sui 200 m. I riflettori si spostarono sull'Europa, pur devastata dal conflitto, e soprattutto in Olanda. Nel 1936 a Berlino si era messa in luce, giungendo sesta nel salto in alto e quinta con la staffetta veloce del suo paese, l'olandese Francina 'Fanny' Blankers. Quando nel 1948 le Olimpiadi tornarono a vivere con l'edizione di Londra, Fanny Blankers Koen (nel 1940 aveva sposato il suo allenatore Jan Koen, ex 'triplista' di valore), già trentenne e madre di due bambini, era primatista mondiale delle 100 yards (10,8″), dei 100 m (11,5″ ottenuto ad Amsterdam il 13 giugno 1948), degli 80 m ostacoli (11,0″), del salto in alto (1,71 m), del salto in lungo (6,25 m) e delle staffette 4x100 m e 4x200 m; nel 1951 fu primatista anche di pentathlon. Agli Europei di Oslo del 1946 (aveva avuto da poco la seconda figlia) si era schierata in quattro gare e aveva vinto gli 80 m ostacoli e la staffetta 4x100 m. A Londra, nel giro di sei giorni conquistò quattro medaglie d'oro: il 2 agosto vinse i 100 m in 11″, il 4 agosto gli 80 m ostacoli in 11,2″, il 6 agosto i 200 m (distanza sulla quale le donne gareggiavano per la prima volta ai Giochi Olimpici) in 24,4″ e il 7 agosto la 4x100 m con l'Olanda. Quando tornò in patria ebbe accoglienze trionfali: sfilò per le strade di Amsterdam in una carrozza tirata da quattro cavalli bianchi. Qualche mese dopo ebbe un terzo figlio. Nel 1950 vinse altre tre medaglie d'oro agli Europei e poi, a 34 anni, la 'mamma volante' tentò anche a Helsinki 1952, ma nella finale degli 80 m ostacoli colpì le prime due barriere e si fermò.
Dopo Londra, in una tournée in Australia, Blankers Koen era stata sconfitta due volte dalla sconosciuta diciottenne Marjorie Jackson, che arrivava da Lithgow, una cittadina rurale del Nuovo Galles del Sud. Jackson andava a rafforzare un gruppo di già valide velociste australiane guidate da Shirley Strickland (a Londra era finita terza sui 100 m e quarta sui 200 m), che poi ebbero la loro campionessa in Elizabeth Cuthbert. Jackson si presentò ai giochi di Helsinki del 1952 come una delle favorite, anche se la sua esperienza internazionale era limitata. Comunque nel 1950 aveva vinto due medaglie d'oro ai Giochi del Commonwealth e soprattutto aveva portato il record delle 100 yards prima a 10,7″ e poi a 10,4″. I suoi concittadini, per farla preparare nel miglior modo possibile, le avevano costruito una pista in cenere, come quella che più o meno avrebbe trovato in Finlandia, visto che a quei tempi in Australia si correva soprattutto sull'erba. A Helsinki la ventunenne Jackson vinse i 100 m in 11,5″, eguagliando il primato mondiale di Blankers Koen e i 200 m in 23,7″; nei turni preliminari aveva anche eguagliato il vecchio e discusso record di Walasiewicz e successivamente lo aveva migliorato portandolo a 23,4″. Perse la terza medaglia, quella della staffetta, perché durante il cambio con Winsome Cripps il testimone cadde: Jackson lo raccolse, ma non riuscì a far meglio del quinto posto. A 23 anni si ritirò, ma per i Giochi di Melbourne 1956 l'Australia non ebbe problemi a trovare una degna sostituta. Poteva già contare su una campionessa come Shirley Strickland che a Helsinki (oltre alla gara sugli 80 m ostacoli) aveva vinto la medaglia di bronzo sui 100 m, e poi, il 4 agosto 1955, a Varsavia, aveva portato il record del mondo dei 100 m a 11,3″: una neoprimatista di 30 anni con due figli e due medaglie d'oro conquistate nelle gare a ostacoli. A Strickland si affiancò nel 1956 Betty Cuthbert. Pressoché sconosciuta, fu annunciata prima dei Giochi dal nuovo primato mondiale sui 200 m: 23,2″, conseguito in settembre. Alle Olimpiadi vinse i 100 m in 11,5″, i 200 m in 23,4″ e contribuì alla vittoria e al record mondiale della staffetta 4x100 m (44,5″). Divenne per tutta l'Australia la 'ragazza d'oro' (Golden girl sarà anche il titolo della sua autobiografia). Fuori pista non riuscì a gestire tanti successi che le portarono popolarità e onori, ma anche un forte stress. Tornò ai vertici solo nel 1964 quando a Tokyo vinse la medaglia d'oro nei 400 m.
Ma una nuova stella era già nata dall'altra parte del mondo, la statunitense Wilma Rudolph, ricordata come la 'gazzella nera' per l'eleganza e l'armonia che sapeva offrire la sua corsa. A 16 anni fu già selezionata per i Giochi Olimpici di Melbourne. Eppure aveva cominciato a correre solo a 11 anni, quando aveva potuto levarsi l'apparecchio ortopedico che teneva alla gamba sinistra da quando a quattro anni la scarlattina, aggravata da una polmonite, le aveva procurato una paralisi di origine reumatica. A 20 anni, già madre di una bambina, si presentò ai Giochi di Roma del 1960 e oltre alla medaglia di bronzo vinta a Melbourne con la staffetta, aveva già conseguito il record del mondo sui 200 m (22,9″, il 9 luglio 1960 a Corpus Christi). A Roma dominò i 100 m con il tempo di 11,0″ realizzato con un vento a favore di 2,8 m/s (in semifinale aveva eguagliato il record del mondo con 11,3″), vinse i 200 m con il tempo di 24″ conseguito controvento (ma in batteria aveva raggiunto i 23,2″) e contribuì alla vittoria della staffetta 4x100 m (44,5″ il tempo realizzato). L'anno dopo portò a Stoccarda il primato dei 100 m a 11,2″. A 22 anni si ritirò.
Ai Giochi di Roma si mise in gran luce anche l'italiana Giuseppina 'Giusi' Leone. Di corporatura media (1,68 m per 58 kg), era una velocista di sicuro talento: a 18 anni, nel 1952, aveva eguagliato con il tempo di 12,0″ il record italiano sui 100 m, detenuto dal 1939 da Claudia Testoni, ed era diventata anche primatista dei 200 m con il tempo di 24,9″: in pochi anni e più tappe porterà i due primati rispettivamente a 11,4″ e 23,7″. A 20 anni era stata quarta agli Europei di Berna sui 100 m e ai Giochi di Melbourne del 1956 aveva conquistato il quinto posto sempre sui 100 m, la sua distanza preferita. A Roma era ovviamente la punta di diamante della squadra femminile italiana e non fallì il suo obiettivo: arrivò terza sui 100 m, dietro la Rudolph e all'inglese Dorothy Hyman che segnò lo stesso tempo dell'azzurra (11,3″ in una gara, come si è detto, favorita dal vento). Nei 200 m Leone, già paga, si accontentò di accedere alla finale, dove finì sesta. L'anno dopo lasciò l'attività per dedicarsi alla famiglia.
Rudoplh passò il testimone ad altre due atlete di colore che come lei studiarono alla Tennessee State University sotto la guida di Ed Temple: Edith McGuire e Wyomia Tyus. Erano nate entrambe in Georgia, McGuire nel 1944 e la Tyus un anno dopo. La prima, che eccelleva soprattutto nei 200 m ma fu anche un'ottima 'lunghista', tenne per un po' di tempo nell'ombra la più giovane compagna di college. Ma a Tokyo le due si divisero le medaglie: Tyus, che aveva solo 19 anni, vinse la medaglia d'oro nei 100 m in 11,4″ (11,49″), non prima di aver eguagliato nel secondo turno con 11,2″ il primato mondiale di Rudolph; McGuire dopo la medaglia d'argento nei 100 m vinse quella d'oro nei 200 m con l'eccellente tempo di 23″ (23,05″). Insieme le due furono seconde con la staffetta 4x100 m americana. Tokyo divenne il trampolino di lancio soprattutto per Tyus, che il 31 luglio 1965, a Kiev, durante il classico confronto URSS-USA, vinse i 100 m in 11,1″. Pochi giorni prima, al Memorial Rosicky, Irena Kirszenstein, una diciannovenne polacca (nata però a Leningrado, nel 1946) che a Tokyo si era già conquistata l'oro nella staffetta e l'argento nei 200 m e nel salto in lungo, aveva già corso i 100 m in 11,1″ e lo stesso tempo era stato ottenuto dalla connazionale Ewa Klobukowska, sua coetanea, che però successivamente fu squalificata per aver fallito il controllo sulla femminilità e nel 1970 vide cancellati i suoi record dalla IAAF. Kirszenstein (che nel 1967 dopo il matrimonio con Janusz Szewinsk prese il nome Szewinska), nell'agosto 1965 a Varsavia, nel confronto Polonia-USA, nei 200 m batté non solo Klobukowska, ma anche McGuire e Tyus. Nell'occasione conseguì anche il nuovo record del mondo: 22,7″, due centesimi in meno di Rudolph (nel 1964 il primato era stato eguagliato dall'australiana Margaret Burvill, frenata poi dagli infortuni). Per Szewinska furono i primi due di 12 primati mondiali (quelli ottenuti con la staffetta veloce furono poi cancellati per colpa di Klobukowska) realizzati nel corso di una carriera senza pari, che la vide presente in cinque edizioni dei Giochi Olimpici con sette medaglie vinte in cinque diverse specialità.
A Città del Messico, nel 1968, la sfida con le americane finì in parità, almeno individualmente. Tyus conquistò, prima donna della storia olimpica, il secondo oro sui 100 m. Corse in finale in 11,0″, nuovo record del mondo che nella sua versione centesimale di 11,08″ inaugurò poi, dal 1977, la lista dei record con rilevazione automatica. Superò la compagna Barbara Ferrell (che corse in 11,15″) e Szewinska (che impiegò 11,19″). La polacca si rifece nei 200 m, dove l'avversaria più temibile fu l'australiana Raelene Boyle. Una partenza lenta fu bilanciata, oltre che dall'altitudine, anche da un vento favorevole al limite del regolamento (2 m/s) e arrivò il record mondiale di 22,5″ (22,58″). Tyus, appagata dal successo sui 100 m, fu solo sesta impiegando 23,8″; dopo Messico 1968 si ritirò e fece alcune apparizioni con il gruppo professionistico della ITA.
Lungo il cammino verso Monaco 1972 fece la sua apparizione un'atleta asiatica, la cinese di Formosa Chi Cheng, nata a Taipeh nel 1944, ma cresciuta atleticamente in California. A 16 anni era stata già presente ai Giochi di Roma, dove però era stata subito eliminata nelle batterie degli 80 m a ostacoli. Vince Reel (che poi sarebbe diventato suo marito), ex ostacolista che allenava in California, nel 1962 la convinse a trasferirsi negli Stati Uniti, ma a Tokyo, alle Olimpiadi del 1964, non fece molto di più: eliminata in batteria nella gara a ostacoli e solo diciassettesima nel pentathlon. In Messico, nonostante un infortunio, raccolse i primi importanti frutti: settima nei 100 m e medaglia di bronzo nella gara a ostacoli. Divenne praticamente imbattibile nel 1969 e nel 1970 (su 154 gare ne perse solo una): portò il record delle 100 yards a 10,0″, eguagliò nei 100 m il primato di 11″ di Tyus (ma a Vienna, a livello del mare) e poi con 22,4″ migliorò sui 200 m il tempo di Szewinska. Sempre nel 1970 divenne anche primatista dei 100 e dei 200 m con ostacoli. Guardava con fiducia a Monaco 1972, ma un infortunio a una gamba la bloccò. Furono messe sotto accusa le tante competizioni disputate e nessuna terapia riuscì a rimetterla in condizione di gareggiare. Nel marzo del 1972 annunciò che non avrebbe partecipato ai Giochi di Monaco, nel 1973 venne il suo ritiro definitivo. Tornò a Taipeh, dove divenne un'importante dirigente sportiva internazionale.
Intanto in Europa aveva cominciato a primeggiare lo squadrone della Repubblica Democratica Tedesca. La velocità, in particolare, si avvaleva dell'esperienza tecnica di Horst-Dieter Hille. Agli Europei del 1969 ad Atene vinse i 100 e i 200 m Petra Vogt. Nei 200 m fu seconda la diciannovenne Renate Meissner, un'atleta ben strutturata, senza pecche tecniche, che con il nome da sposata Stecher, dominò, due anni dopo, l'edizione continentale di Helsinki. Nel 1970 a Berlino Stecher ‒ che dall'agosto di quell'anno fino al giugno del 1974 rimase imbattuta all'aperto per 90 gare consecutive ‒ aveva eguagliato con 11,0″ il primato mondiale sui 100 m, tempo che ripeté nel luglio del 1971 e poi nel giugno del 1972, alla vigilia dei Giochi di Monaco, dove arrivò da grande favorita. A Monaco non fallì e vinse sia la gara sui 100 m, in 11,07″ (nuovo miglior tempo automatico sulla distanza), sia quella sui 200 m, 22,40″, tempo che formalmente eguagliava il mondiale con cronometraggio manuale. La sua avversaria più tenace fu l'australiana Raelene Boyle, seconda su entrambe le distanze: due medaglie d'argento che si andarono a sommare a quella già conquistata in Messico. Nei 200 m al terzo posto si classificò Szewinska. Stecher nel 1973 corse prima a Ostrava in 10,9″ (ufficialmente era la prima donna a scendere sotto gli 11″) e poi a Dresda, il 20 luglio, durante i campionati della Repubblica Democratica Tedesca, addirittura in 10,8″ (il cronometraggio elettronico, che era di supporto, diede un 11,07″ esattamente il tempo con cui aveva vinto a Monaco). Il giorno dopo vinse i 200 m in 22,1″ (in automatico 22,38″). Ma Szewinska, pur avviata ormai verso i 400 m, non era ancora intenzionata a farsi da parte sui 200 m e nel giugno del 1974 interruppe l'imbattibilità della rivale a Potsdam: la polacca vinse in 22″, con un cronometraggio automatico di 22,21″, tempo che poi, dal 1977, aprì la lista dei record al centesimo di secondo. Agli Europei di Roma del 1974 Szewinska fu formidabile: non solo batté ancora la Stecher sui 200 m (22,51″ contro 22,68″, con un forte vento contrario), ma le inflisse anche una sonora sconfitta sui 100 m (11,13″ contro 11,23″). Fu un bene per Stecher che la polacca, in vista di Montreal 1976, decidesse di puntare sui 400 m.
Ma in Canada per Stecher non ci fu il grande riscatto: nei 100 m si piazzò tra due tedesche occidentali, Annegret Richter, prima in 11,08″ (ma in semifinale aveva corso in 11,01″, nuovo record del mondo) e Inge Helten, terza in 11,17″ (alla vigilia di Montreal aveva portato il record a 11,04″). Avevano entrambe 26 anni ed entrambe erano allenate da Wolfgang Thiele. Sui 200 m Richter, a sua volta, fu sconfitta da una ventunenne tedesca dell'Est, Bärbel Eckert, che aveva preferito la velocità agli ostacoli dove eccelleva da giovanissima. In seguito Eckert puntò, a discapito dei 100 m, sui 200 m e in tale gara vinse la medaglia d'oro anche a Mosca nel 1980, con il nome da sposata, Wöckel. Senza americane e tedesche federali le atlete della DDR guardavano con fiducia alle Olimpiadi 1980, condizionate dal boicottaggio di alcuni paesi occidentali, anche perché la squadra, persa Stecher, si era rafforzata con Marlies Ölsner, poi sposata Göhr, che nel 1977 a Dresda aveva fatto fermare i cronometri a 10,88″, e Marita Koch, che diventò la 'gran sovrana' dei 400 m, senza tuttavia mai trascurare i 200. Proprio su questa distanza Koch tra il 1978 e il 1979 migliorò tre volte il primato del mondo, portandolo prima a 22,06″, poi a 22,02″ e infine a Karl-Marx-Stadt il 10 giugno 1979 a 21,71″ (in quell'occasione Wöckel fu seconda in 21,85″). A Mosca la DDR non fallì sui 200 m, dove vinse Eckert, ma nella gara sui 100 m Göhr fu beffata sul traguardo per un centesimo dalla russa Lyudmila Kondratyeva. Göhr, che aveva solo 22 anni, perse così la grande occasione: quattro anni dopo sarebbe rimasta a casa per colpa del boicottaggio dei paesi comunisti. Nel 1982 eguagliò il record mondiale di 10,88″ e nel 1983, a Dresda, lo portò a 10,81″.
Ma negli anni Settanta e Ottanta l'atletica statunitense non si era fermata e nella velocità aveva tra l'altro espresso una minuta (1,65 m per 52 kg) ma esplosiva velocista della Louisiana, Evelyn Ashford, che all'età di 19 anni, nel 1976, era stata già quinta nella finale olimpica dei 100 m a Montreal. Nel 1979 si sposò con Ray Washington, un ex cestista, e decise di fare atletica a tempo pieno, raccogliendo subito ottimi risultati: nella Coppa del Mondo di Montreal del 1979 inflisse una dura sconfitta a Göhr sui 100 m e a Koch sui 200 m. La delusione di Ashford per la mancata partecipazione degli USA alle Olimpiadi di Mosca fu forte, ma dopo un momento di sconforto l'atleta, che era ancora giovane, decise di guardare avanti. La prima edizione dei Mondiali del 1983 era alle porte. Ashford arrivò a Helsinki da primatista del mondo: il 3 luglio aveva approfittato dell'altura di Colorado Springs (2195 m) per correre i 100 m in 10,79″. A Helsinki non ebbe fortuna: in finale s'infortunò, cadde a terra dolorante e in lacrime, e lasciò via libera a Göhr (il tempo fu di 10,97″) e a Koch, che poi vinse l'oro sui 200 m. Ma il giorno di Ashford arrivò a Los Angeles 1984 dove, con le tedesche dell'Est fuori causa, conquistò l'oro vincendo in 10,97″. Ai Trials, per un nuovo infortunio, aveva rischiato di non qualificarsi e per questo aveva rinunciato anche ai 200 m. Questa gara fu vinta da Valerie Brisco Hooks, un'americana che nel 1982, a 22 anni (era nata a Greenwood nel Mississippi il 6 luglio 1960), senza grandi prospettive davanti a sé si era ritirata ed era diventata mamma. Poi era stata convinta a tornare, scoprendo che la maternità l'aveva resa un'atleta ancora più forte: a Los Angeles oltre alla gara sui 200 m (con il tempo di 21,81″) vinse anche le medaglie d'oro nei 400 m e nella staffetta 4x400 m. Ashford ribadì la propria superiorità quando, il 22 agosto 1984, affrontò a Zurigo Göhr e la sconfisse, portando anche il record del mondo a 10,76″. Si seppe in seguito che questo splendido risultato, che l'aveva incoronata senza più dubbi come donna più veloce del mondo, era stato conseguito quando l'atleta era già in attesa di un figlio.
Ai Mondiali di Roma del 1987 vinse i 100 e i 200 m una nuova velocista della DDR, Silke Gladisch, la prima gara in 10,90″ e la seconda in 21,74″, un risultato superiore di soli tre centesimi al primato mondiale che Koch aveva ripetuto nel 1984 e che nel 1986 era stato eguagliato per ben due volte da un'altra tedesca dell'Est, Heike Drechsler; quest'ultima avrebbe raccolto le soddisfazioni maggiori nel salto in lungo, ma in quella circostanza fu comunque seconda nei 100 m davanti alla giamaicana Merlene Ottey, che vinse anche il bronzo nei 200. Ottey, un'atleta giramondo (a 43 anni era ancora in pista con la maglia della Slovenia) è stata la più longeva velocista della storia. Per 18 stagioni trovò un posto tra le migliori dieci sprinter del mondo vincendo ben 35 medaglie nelle manifestazioni più importanti, ma senza mai conquistare un oro olimpico. La vittoria la premiò due volte in ambito mondiale quando vinse i 200 m prima a Stoccarda nel 1993 e poi a Göteborg nel 1995. Sui 100 m arrivò a correre in 10,74″ (1986) e sui 200 in 21,64″ (1991). Sul podio della velocità ai Mondiali di Roma 1987 vi fu una sola americana, Florence 'Flo' Griffith: arrivò seconda nei 200 m in 21,96″, lo stesso piazzamento che aveva già ottenuto ai Giochi di Los Angeles 1984. Fu lei ad affermarsi clamorosamente l'anno dopo.
Per Griffith a lungo l'atletica aveva rappresentato solo un diversivo rispetto al lavoro. Fu Bob Keerse, il tecnico che era anche il marito della campionessa di salto in lungo ed eptathlon Jackie Joyner, a convincerla a fare le cose sul serio in vista dei Giochi di Los Angeles, soprattutto dopo l'incoraggiante quarto posto che aveva già ottenuto, sempre sui 200 m, ai Mondiali di Helsinki nel 1983. Nel 1987 si ripresentò potenziata e motivata. Era di certo un personaggio stravagante, un obiettivo privilegiato dei media: ai Mondiali corse con una sorta di body dai colori sgargianti, ma soprattutto fecero effetto le lunghissime unghie della sua mano sinistra. A ottobre del 1987 sposò Al Joyner, il fratello di Jackie, campione olimpico in carica del salto triplo. Il 16 luglio 1988, ai Trials olimpici che si disputarono a Indianapolis, nei quarti di finale, dopo aver ottenuto in batteria un 10,60″ largamente favorito dal vento (3,2 m/s), Griffith fece bloccare i cronometri dell'Omega su tempo che lasciò pensare inizialmente a un errore: 10,49″, inferiore di 27 centesimi al mondiale di Ashford. L'anemometro che vigilava sulla pista diede un responso di vento nullo. Si pensò subito a un cattivo funzionamento, anche perché sull'adiacente pedana del salto triplo si era registrata una brezza favorevole di oltre 4 m/s. L'Omega presentò un dettagliato rapporto alla IAAF dove si ribadiva la correttezza del dato che riguardava il vento. Nel rapporto si parlò di un vento superiore alla norma ma che soffiava trasversalmente alla pista. L'indagine di un fisico australiano, Nicholas Linthorne, asserì invece che Griffith aveva sfruttato un vento di almeno 5,5 m al secondo. Il tempo, nonostante tante perplessità, fu omologato dalla IAAF come nuovo record del mondo. In finale Griffith dimostrò comunque la sua straordinaria condizione vincendo in 10,61″ con un vento di 1,2 m/s. Sui 200 m si qualificò correndo in 21,85″ dopo aver portato nei quarti di finale il record americano a 21,77″. A Seul fu imbattibile. Sui 100 m ottenne 10,88″ in batteria, 10,62″ nei quarti di finale, 10,70″ (in favore di vento) in semifinale; in finale vinse l'oro in 10,54″, con il supporto di vento favorevole pari a 3 m/s. Ashford finì seconda a più di 3 m. Nei 200 m Griffith fu ancora più devastante: impiegò 22,51″ in batteria, 21,76″ nei quarti di finale, 21,56″ in semifinale (nuovo record del mondo) e 21,34″ in finale, con un passaggio a metà gara di 11,18″. La giamaicana Grace Jackson fu seconda in 21,72″, davanti a Drechsler, che aveva già vinto la medaglia di bronzo nei 100 m. Furono le Olimpiadi del caso Johnson e accuse di doping furono rivolte anche alla Griffith, che a Seul vinse pure la medaglia d'oro con la staffetta 4x100 m e puntò al successo anche con la staffetta 4x400 m, conquistando il secondo posto. La IAAF a fine stagione, per frenare in qualche modo il dilagante fenomeno del doping, decise di attuare i controlli a sorpresa. Il 25 febbraio 1989 Griffith annunciò il suo ritiro, ridando così voce a chi riteneva i suoi primati aiutati farmacologicamente. L'atleta morì improvvisamente a 38 anni, nel settembre del 1998, durante il sonno. L'autopsia individuò la causa in un male congenito che aveva al cervello.
Presto si cominciò a parlare di una Griffith bianca, la tedesca dell'ex Germania dell'Est, Katrin Krabbe. Era nata a Neubrandenburg il 22 novembre 1969, e nel 1988, quando Griffith dominava la scena, era diventata, indossando ancora la maglia della DDR, primatista mondiale juniores dei 100 m con 10,89″. Nel 1990 vinse tre medaglie d'oro agli Europei: 100 m, 200 m e staffetta 4x100. Si ripeté l'anno dopo, nelle due gare individuali, ai Mondiali di Tokyo: prima nei 100 m in 10,99″ e prima nei 200 m in 22,09″. La classifica delle prime quattro in entrambe le gare fu ‒ caso più unico che raro ‒ la stessa: dopo Krabbe l'americana Gwendolyn Torrence, poi Ottey e infine la russa Irina Privalova, che durante la stagione indoor aveva vinto il titolo mondiale sui 60 m. Ma il futuro di Krabbe fu legato a un nuovo, complesso e clamoroso caso di doping. Krabbe con il suo allenatore Thomas Springstein e altre atlete, tra cui Silke Gladisch, la quattrocentista Brit Breuer e l'ottocentista Sigrun Grau decisero di preparare i Giochi di Barcellona trasferendosi all'inizio del 1992 in Sudafrica. Il 24 gennaio, su richiesta della IAAF, medici sudafricani le sottoposero a un controllo antidoping a sorpresa. Le urine vennero analizzate da Manfred Donike, uno specialista dell'antidoping, nel centro di Colonia. Il risultato fu clamoroso: il test diede esito negativo, ma i campioni di urine risultarono tutti appartenenti a una stessa persona. Il 15 febbraio la Federazione tedesca sospese le atlete per quattro anni con l'accusa di aver manipolato il test. Krabbe e le compagne si appellarono al tribunale giudicante della Federazione e si rivolsero anche alla magistratura ordinaria e Krabbe chiese un risarcimento pari a 7 miliardi di lire. Si fece presente che Krabbe era stata sottoposta in 12 mesi a 37 controlli antidoping, tutti con esito negativo, ma Donike scoprì che in uno di questi le urine della Krabbe e di Breuer risultavano identiche. Il 4 aprile comunque la commissione giudicante della Federazione sospese la squalifica per motivi tecnico-procedurali. Il 13 giugno Krabbe corse ai Campionati tedeschi nelle batterie dei 100 m in 11,70″, poi diede forfait per la finale. Il 31 maggio 1992 il consiglio della IAAF affidò il caso al tribunale d'arbitrato, che il 28 giugno annullò inaspettatamente e definitivamente la squalifica di 4 anni. Nella sentenza si affermava che non si poteva dimostrare che erano state le atlete a manipolare le urine. Krabbe poteva così correre ai Giochi di Barcellona, ma incapace di trovare una condizione accettabile decise di rinunciare alle Olimpiadi. In luglio durante un nuovo controllo a sorpresa Krabbe, Breuer e Manuela Derr, un'altra quattrocentista dell'ex Germania dell'Est, vennero trovate positive per uso di clenbuterolo, una sostanza usata per combattere l'asma e assente nell'elenco delle sostanze proibite della IAAF. Le atlete vennero sospese e poi squalificate per quattro anni dopo che il dottor Donike riuscì a dimostrare l'effetto anabolizzante del clenbuterolo preso in dosi multiple (la sostanza fu subito inserita nell'elenco dei prodotti vietati). A fine marzo 1993 la commissione d'appello tedesca ridusse la squalifica a un anno, anche per non entrare in contrasto con la legislazione ordinaria del paese, che prevede che un lavoratore non possa venir fermato per più di 12 mesi. Ma la IAAF impugnò la decisione e nell'agosto del 1993 inflisse all'atleta, con una sorta di escamotage, altri due anni di squalifica per comportamento antisportivo. Una decisione poi confermata, il 19 novembre, dalla commissione d'arbitrato della IAAF. Krabbe avrebbe potuto tornare a gareggiare solo nell'agosto del 1995. Ma nel dicembre del 1994 decise di abbandonare l'atletica: si era sposata con il suo avvocato ed era diventata mamma.
Tra i Giochi di Barcellona 1992 e quelli di Atlanta 1996, passando per due edizioni dei Mondiali (Stoccarda 1993 e Göteborg 1995) i 100 m trovarono una nuova inattesa campionessa, Gail Devers, che come Griffith era allieva di Bob Keerse, e come Blankers Koen era anche grande ostacolista. Devers raccolse attenzione non solo per la sua capacità di eccellere in due specialità, ma anche per la storia drammatica che aveva alle spalle. Dopo Seul era stata colpita da una grave malattia alla tiroide, il morbo di Graves. L'esatta diagnosi le fu fatta con ritardo e si dovette sottoporre a una cura di cobaltoterapia che le devastò il fisico: ingrassò di 12 kg, perse i capelli, le si aprivano ferite sulla pelle, rischiò perfino l'amputazione di un piede. Tornare a fare atletica sembrava davvero un'illusione, ma a poco a poco, aiutata anche da Keerse, riprese ad allenarsi e nel 1991, ai Mondiali di Tokyo, fu medaglia d'argento sui 100 ostacoli. Ai Giochi Olimpici di Barcellona, ai Mondiali del 1993 e ai Giochi Olimpici di Atlanta del 1996 vinse le gare sui 100 m. A Barcellona beffò per un centesimo la giamaicana Juliet Cuthbert, a Stoccarda la solita Ottey in uno degli arrivi più contrastati nella storia dell'atletica: dopo infinite discussioni i giudici decisero che Devers aveva vinto per un millesimo di secondo, 10,811″ contro 10,812″. Ai Giochi di Atlanta del 1996 Devers superò ancora una volta, e ancora una volta in un arrivo contrastatissimo, Ottey, che era stata seconda anche ai Mondiali del 1995, battuta da Torrence. Devers fu dichiarata nuovamente campionessa olimpica dei 100 m (prima di lei il bis era riuscito solo a Tyus nel 1964 e 1968) per appena due centimetri di differenza. Anche stavolta il reclamo della giamaicana non cambiò l'esito della sfida.
Ottey trovò maggiori soddisfazioni sui 200 m, gara in cui vinse la medaglia d'oro ai Mondiali del 1993 e del 1995. Nel secondo successo fu senza dubbio fortunata: la vittoria in realtà era andata a Gwendolyn Torrence, longeva velocista che aveva vinto l'oro olimpico a Barcellona sui 200 m in 21,81″ dopo essere stata terza sui 100 m. A Göteborg Torrence, dopo aver trionfato sui 100 m, si stava godendo il bis sui 200 quando il tabellone luminoso segnalò la sua squalifica, assegnando la vittoria a Ottey. I giudici l'avevano vista toccare in curva la linea interna alla corsia, cosa vietata dal regolamento. Ottey era stata battuta di 4 m e il vantaggio che aveva potuto 'rubare' la Torrence era forse di pochi centimetri. Torrence era nata ad Atlanta e avrebbe voluto chiudere la carriera vincendo ancora l'oro olimpico nella sua città, ma a 31 anni si dovette accontentare del bronzo sui 100 m (a 20 millesimi da Devers e a 18 millesimi da Ottey), aggiungendovi il successo nella staffetta 4x100 m, mentre nei 200 m non si era qualificata ai Trials. Lasciò l'atletica con un bottino tale da farle meritare un posto tra le grandi, anche se non ebbe la popolarità di altre velociste: alle Olimpiadi tre medaglie d'oro (una nei 200 m e due con la staffetta), una d'argento (con la 4x400 m a Barcellona), una di bronzo (nei 100 m ad Atlanta), oltre a un quarto e un quinto posto sempre sui 100 m (rispettivamente nel 1992 e nel 1988); ai Mondiali si guadagnò tre medaglie d'oro (100 m e staffetta 4x100 nel 1995, staffetta 4x400 nel 1993), 4 medaglie d'argento (100 e 200 m nel 1991, 200 m e staffetta 4x100 nel 1993) e una di bronzo (100 m nel 1993).
I 200 m ai Giochi Olimpici del 1996 furono vinti dalla francese della Guadalupa Marie-José Perec, grande quattrocentista, che in Georgia sognava una storica doppietta, così come Michael Johnson. Dopo aver già fatto sua la medaglia d'oro sui 400 m, corse i 200 m con tranquillità. Assenti Torrence e Irina Privalova (malata) vinse sfruttando anche l'insicurezza di Ottey che sembrava avere la strada ormai spianata per la sua prima vittoria olimpica.
Con Atlanta si chiuse un ciclo e se ne aprì un altro, quello di Marion Jones. Californiana di Los Angeles (la madre era originaria del Belize) apparve presto come un talento di assoluta rarità. Nel 1991, ancora quindicenne (era nata il 12 ottobre 1975), si classificò quarta sui 200 m ai Campionati USA. Ma presto preferì il basket all'atletica e con la North Carolina conquistò anche un titolo universitario. Tornò a fare velocità nel 1997 e ai Mondiali di Atene trionfò nei 100 m con un eloquente 10,83″. Superò l'ucraina Zhanna Pintusevich che però, assente Jones, vinse la gara sui 200 m. Jones, che nel 1998 all'altura di Johannesburg aveva corso i 100 m in 10,65″, fece il bis iridato nel 1999 a Siviglia, correndo in 10,70″, il tempo più veloce di sempre a livello del mare dopo quelli di Griffith. Ai Giochi di Sydney 2000 non tradì il suo ruolo di superfavorita: vinse i 100 m in 10,75″, con oltre 4 m di vantaggio sulla seconda, la greca Ekatherini Thanou, e i 200 m in 21,84″, lasciando a circa 5 m Pauline Davis Thompson, atleta delle Bahamas. Vinse anche una medaglia d'oro con la staffetta 4x400 m e due di bronzo (salto in lungo e staffetta 4x100 m). Jones, che aveva nella fase lanciata il suo punto di forza, ebbe l'unico passo falso nella finale dei 100 m ai Mondiali del 2001 a Edmonton, sorpresa dalla potenza della Pintusevich: l'ucraina vinse in 10,82″ (contro 10,91″). Nei 200 m la Jones non mancò il successo. Nell'inverno del 2002 fece scalpore la notizia che Marion Jones e il velocista Tim Montgomery, legati sentimentalmente, avevano deciso di lasciare l'esperta guida tecnica di Trevor Graham per affidarsi, seppure in maniera all'inizio camuffata, a Charlie Francis, il tecnico che aveva allenato Ben Johnson negli anni dello scandalo-doping. Su pressione della stampa ma anche degli sponsor, i due rinunciarono all'idea. Jones dopo poco sospese l'attività per diventare madre.
Ai Mondiali di Parigi del 2003, assente la Jones, trovò spazio una ventiseienne di Oakland, Kelly White. Figlia d'arte (la madre gareggiò con la staffetta giamaicana ai giochi del 1972), aveva dominato sia i 100 m (10,85″) sia i 200 m (22,05″), prima di incorrere in un complicato caso di doping. Fu trovata positiva al controllo dopo il successo sui 100 m: nelle urine c'erano tracce di medofenile, uno stimolante che però non era inserito nella lista dei prodotti proibiti della IAAF. White si giustificò affermando di usare il prodotto per combattere la narcolessia, un disturbo che avevano anche altri componenti della sua famiglia.
Le velociste italiane. Giusi Leone è stata non solo l'unica velocista italiana ad aver conquistato una medaglia in una Olimpiade, ma anche la sola che abbia guadagnato un posto di finale in una grande manifestazione, Giochi Olimpici o Campionati del Mondo. Dopo di lei passarono diversi anni prima che l'Italia ritrovasse una velocista di discreta caratura: fu la piacentina Cecilia Molinari, che nel 1971 eguagliò il tempo di 11,4″ stabilito da Leone sui 100 m, mentre nel 1973 portò a 23,6″ il record sui 200; un record che Rita Bottiglieri, atleta di grande duttilità che conquistò anche una medaglia di bronzo agli Europei indoor nei 60 m, abbassò fino a 23,13″. Poi arrivò l'era di Marisa Masullo, una combattiva velocista milanese che dominò il settore: tra il 1978 e il 1992 conquistò ben 21 titoli italiani individuali, 11 sui 100 e 10 sui 200 m. Masullo portò il primato dei 100 a 11,29″ e quello dei 200 m a 22,88″, partecipò a tre edizioni dei Giochi olimpici (conquistando le semifinali dei 200 m a Los Angeles 1984) e a tre edizioni dei Mondiali (fu semifinalista a Roma 1983 sempre sui 200). Alla fine degli anni Novanta la leadership della velocità fu presa da Manuela Lavorato (nata a Dolo, Venezia, il 16 marzo 1977), che ha portato a misure accettabili a livello internazionale sia il primato italiano sui 100 m (11,14″ nel 2001) sia quello sui 200 m (22,60″ nel 1999). Semifinalista ai Mondiali del 1999 e 2001, ai Campionati Europei del 2002, disputatisi a Monaco, riuscì a vincere la medaglia di bronzo sia sui 100 sia sui 200 m: piazzamenti che la velocità femminile aspettava da 41 anni, dal bronzo olimpico di Leone.
I 400 m derivano dalle 440 yards (402,34 m) a loro volta derivanti del miglio, di cui rappresentano la quarta parte. Negli Stati Uniti il quarto di miglio si corse per decenni, nell'Ottocento e oltre, come una gara di mezzofondo, cioè con partenza alla corda. Questo comportò un tatticismo che probabilmente incise sui tempi. D'altra parte anche i terreni di gara furono all'inizio i più vari: si corse in strada, sull'erba, su circuiti dalle misure più strane, in rettilineo o con una sola curva.
La prima importante gara sulla distanza si disputò nel 1849, tra due professionisti, l'inglese Henry Reed e lo statunitense George Seward. La gara si svolse su strada, a Hounslow, nel Middlesex, e Reed vinse in 48″1/2, un tempo che va annotato nelle statistiche storiche con molta cautela. Un significativo risultato sulle 440 yards con curva fu ottenuto nel 1865 a Londra dall'inglese Charles Guy-Pym che, in una sfida privata per vincere un piatto d'argento, superò con 50″1/4 Percy Thornton di 8 yards.
Il primo dilettante a correre le 440 yards sotto i 50″ fu Robert Philipot, uno studente di Cambridge che il 7 marzo 1871 fece fermare i cronometri su 49″3/4. Il primo importante quattrocentista fu però Lawrence 'Leo' Myers, un americano della Virginia (ma visse a lungo a New York), che spaziò con successo dalle 50 yards al miglio, ma che ebbe nel quarto di miglio e nel mezzo miglio le sue gare preferite. Nato nel 1858, con un fisico tutt'altro che atletico (morì ancora giovane, probabilmente di tisi), Myers nel 1879 corse in 49″1/5, ma due anni dopo, a Birmingham, il 15 ottobre, ruppe per primo il muro dei 49″ fermando i cronometri su 48″3/5. La pista fu trovata leggermente in discesa e il record non ebbe una sua ufficialità. Myers, comunque, nel 1885, ancora dilettante, corse poi in 48″4/5.
Alle soglie del 20° secolo il miglior risultato tra gli amateurs era il 48″1/2 ottenuto da due inglesi, Lenox Tindall nel 1889 ed Edgar Bredin nel 1895. Il primo titolo olimpico era stato vinto con un tempo modestissimo, 54,2″, da quel Thomas Burke, studente di Boston, che qualche giorno dopo conquistò anche la medaglia d'oro dei 100 m. Burke era soprattutto un buon quattrocentometrista e aveva vinto il titolo americano in 48″4/5. Nel 1900 emerse una figura importante, quella di Maxwell 'Maxey' Long, un ventiduenne che studiava alla Columbia University di New York. In luglio vinse in 49,4″ i Giochi di Parigi, in una gara dove tre concorrenti americani decisero di non prendere il via perché si correva di domenica. Long scese in pista con i colori della sua università (il blu e il bianco), che erano simili a quelli del Racing di Parigi. Molti spettatori pensarono che fosse un francese e tifarono per lui. Long il 29 settembre, a New York, su una pista di 352 yards vinse una gara di 440 yards 'a handicap' in 47″4/5 (47,8″), tempo che divenne il primo record del mondo e rimase imbattuto per 16 anni. Cinque giorni più tardi, nell'ippodromo di Guttenberg, nel New Jersey, corse una gara in rettilineo con il tempo di 47″, con un passaggio a metà gara di 22″1/2.
Un altro americano, Harry Hillman, nato a Brooklyn, vinse a St. Louis (1904) una gara che vide al via 13 concorrenti. Hillman conquistò altre due medaglie d'oro nelle corse a ostacoli, sui 200 e 400 m. Invece, nella finale di Londra 1908, alla partenza si presentò un solo atleta, il ventiseienne tenente scozzese Wyndham Halswelle. Una prima finale era stata corsa due giorni prima con Halswelle e tre americani, John Taylor (primo atleta di colore di buon livello sul giro di pista), John Carpenter e William Robbinson. Vinse Carpenter, ma i giudici annullarono la gara accusando l'americano di aver danneggiato il britannico. Carpenter fu anche squalificato e quando due giorni dopo si tornò in pista, i due americani superstiti decisero di non presentarsi: per Halswelle fu un assolo concluso in 50,0″.
Nel 1912, dopo i fattacci di quattro anni prima, ma anche per altri controversi episodi verificatisi in semifinale, i giudici decisero di far correre la finale in corsia e da allora non si tornò più indietro. A Stoccolma vinse ancora un americano, Charles Reidpath, in 48,2″. Il tempo fu omologato come primato dei 400 m nonostante sulla più lunga distanza delle yards fosse stato realizzato da Long un tempo inferiore. Nella gara di Stoccolma, tradito da un avvio troppo veloce, finì quarto James 'Ted' Meredith (nato a Chester Heights, in Pennsylvania, il 14 novembre 1891), che quattro giorni prima aveva trionfato negli 800 m con il nuovo record del mondo. Nel 1915 Meredith corse le 440 yards in linea retta in 47,0″, come Long. Ma i giudici dissero che c'era troppo vento. Il 27 maggio 1916, a Cambridge, Massachusetts, su una pista con una sola curva, migliorò con 47″2/5 (47,4″) il primato mondiale ufficiale di Long. Qualche giorno dopo, il 3 giugno a Chicago, il tempo fu eguagliato da Henry 'Binga' Dismond, un atleta di colore che poi divenne un importante medico e poeta.
Nel 1924 a Parigi vinse il titolo olimpico un personaggio che ricevette ulteriore fama dal già citato film Momenti di gloria. Si trattava dello scozzese Eric Liddell, nato in Cina, dove il padre era missionario. Liddell, devoto cristiano, era un velocista di collaudata fama, ma a Parigi decise di correre i 200 m (fu terzo) e i 400 m perché la finale dei 100 m era prevista per la domenica, giorno dedicato al Signore. Liddell, che allora era appena ventiduenne, ottenne con 47,6″ un nuovo record del mondo sulla distanza metrica. L'anno dopo si fece missionario e si recò anch'egli in Cina. Morì nel 1945, in un campo di concentramento giapponese.
Ad Amsterdam 1928 il titolo fu vinto da un robusto specialista dell'Arkansas, Ray Barbuti. In quella gara non fu presente colui che era diventato, il 12 maggio dello stesso anno, a Palo Alto, nell'Università di Stanford, il nuovo primatista del mondo: Emerson Spencer, un atleta che anticipò di anni la moda di correre con gli occhiali da sole. Spencer, che ebbe a metà gara un passaggio assai veloce (22,0″), chiuse in 47,0″ sulla distanza metrica. Poi fallì ai Trials olimpici finendo appena quinto.
Ormai i tempi erano maturi per portare il record a livelli migliori. L'occasione fu offerta dalla rivalità tra due eccellenti specialisti bianchi: il californiano Benjamin 'Ben' Eastman e lo studente della Pennsylvania William 'Bill' Carr. Il 26 marzo 1932 Eastman sorprese tutti correndo a Palo Alto, sulla pista della sua università di Stanford il quarto di miglio in 46,4″, un tempo inatteso per quell'epoca. Eastman passò a metà gara a gran ritmo, in 21,3″. Chiuse la gara molto provato, ma conseguì il primato. Alle selezioni olimpiche, disputate sempre a Palo Alto, Carr, più potente ma anche più saggio nell'amministrare le forze, prevalse su Eastman in 46,9″ contro 47,1″. Ma la vera sfida fu quella olimpica, che si svolse al Coliseum di Los Angeles: ancora una volta vinse Carr, che con 46,2″ realizzò il nuovo primato mondiale. Eastman fu secondo con 46,4″. Carr chiuse con l'atletica l'anno dopo, quando rimase vittima di un incidente automobilistico. Il primato di Carr fu battuto nel 1936, l'anno delle Olimpiadi di Berlino, da Archibald 'Archie' Williams, un californiano, il primo grande specialista nero: il 19 giugno, a Chicago, in una batteria dei Campionati universitari, Williams corse le 440 yards in 46,5″ ma il passaggio ai 400 m fu cronometrato in 46,1″. Williams poi, sia pure faticando, non fallì ai Giochi tedeschi, dove vinse in 46,5″ sull'inglese Godfrey Brown, studente di Cambridge nato in India. A Berlino con 46,7″ Brown diventò il primo europeo a correre in meno di 47″. Ma altri specialisti europei cominciavano a proporsi autorevolmente nella specialità: tra questi soprattutto il tedesco di Dresda Rudolph Harbig e l'italiano Mario Lanzi, nato a Castelletto Ticino (Novara). Entrambi furono anche grandi specialisti degli 800 m e il tedesco, che rese famoso un suo metodo di preparazione che poi si diffuse in tutto il mondo, l'interval training, divenne addirittura primatista mondiale di entrambe le specialità. A Milano, sulla pista di 500 m dell'Arena, il 15 luglio 1939 Harbig, già campione europeo degli 800 m, vinse questa gara con il primato di 1′46,6″ (il tempo di Lanzi fu di 1′49″). Il giorno successivo la rivincita sui 400 m vide prevalere ancora Harbig, ma per entrambi il tempo fu di 46,7″ (primato europeo eguagliato). Meno di un mese dopo, il 12 agosto a Francoforte, i due si ritrovarono nei 400 m e stavolta Harbig fu strepitoso vincendo in 46,0″, con passaggio a metà gara a 22,0″. Lanzi pagò l'avvio troppo rapido (21,7″ a metà percorso) e finì in 47,2″. Harbig era il primo europeo primatista del mondo. La guerra tolse al tedesco non solo la possibilità di diventare campione olimpico, ma anche la vita: morì sul fronte orientale nel 1944. Lanzi nel 1940 corse di nuovo i 400 in 46,7″ e il suo primato venne battuto da un italiano dopo ventisei anni. Il record di Harbig fu eguagliato nel 1941 dal californiano Grover Klemmer. Il 29 giugno a Filadelfia si corse partendo alla corda e su una pista con una sola curva. Klemmer ottenne sulla distanza metrica 46,0″, altri cinque atleti scesero sotto i 47″.
I primi anni postbellici fecero emergere il talento del giamaicano Herbert McKenley. Atleta veloce (fu anche secondo ai Giochi Olimpici del 1952 sui 100 m), era cresciuto atleticamente al Boston College e poi all'Università dell'Illinois. Alto (1,85 m) e leggero, adottava sui 400 m una tattica che molti ritenevano 'suicida', con passaggi velocissimi a metà gara, tanto che venne soprannominato hustling Herb, "il frettoloso Herb". Per lui correre sotto i 47″ era la norma e riuscì per primo a rompere anche il muro dei 46″. Nel 1946 aveva corso le 440 yards in 46,2″ (20″9 a metà gara), nel 1948 (Berkeley, 5 giugno) migliorò il record sul quarto del miglio ed eguagliò quello sulla distanza metrica in 46,0″. Infine il 2 luglio, a Milwaukee, portò il primato mondiale a 45,9″ (21″ il tempo intermedio). Ma ai Giochi di Londra McKenley, forse troppo sicuro di sé, fu beffato dal connazionale Arthur Wint, nato a Manchester, in Giamaica, il 25 maggio 1920. Alto 1,94 m, Wint amava misurarsi soprattutto sugli 800 m (a Londra fu anche secondo in tale gara) e arrivò ai Giochi con un primato sulle 440 yards di appena 47,4″. Ma nel finale bruciò McKenley: 46,2″ contro 46,4″. A Londra si fermò alle semifinali un altro giamaicano, più giovane degli altri due, George Rhoden (Kingston, 13 dicembre 1926), che poi sull'esempio dei compagni si trasferì negli Stati Uniti. Il 22 agosto 1950, durante un meeting disputato a Eskilstuna, in Svezia, Rhoden portò il primato mondiale a 45,8″. Vinse anche la medaglia d'oro nel 1952 a Stoccolma battendo a pari tempo (45,9″) l'ormai trentenne McKenley, che con l'età era diventato più saggio. Stavolta la rimonta finale toccò a lui, ma non bastò. Wint, che invece partì veloce, finì quinto.
Nel 1955 i 400 m conobbero i grandi benefici dell'altitudine. Il 18 marzo a Città del Messico si corse la finale valida per i Giochi Panamericani e il ventitreenne di colore Lou Jones batté con il tempo di 45,4″ il bianco Jim Lea (45,6″). Jones, un anno dopo, dimostrò di non essere diventato primatista del mondo solo grazie all'altitudine: a Los Angeles, durante i Trials olimpici per Melbourne, vinse in 45,2″. Intanto in Europa, nel 1955, il sovietico Ardalion Ignatiev aveva corso in 46,0″ eguagliando l'ormai annoso primato europeo di Harbig.
A Melbourne Jones finì solo quinto nella gara vinta dal connazionale Charles Jenkins. Il muro dei 45″ sembrava ormai prossimo a cadere, ma l'appuntamento con lo storico record fu rinviato ai Giochi del 1960. Nel tempo trascorso tra le Olimpiadi di Melbourne e quelle di Roma si erano messi in luce due americani, Glenn Davis ed Edward 'Eddie' Southern, grandissimi anche nelle gare a ostacoli, nelle quali a Melbourne erano stati rispettivamente primo e secondo. Davis nel 1958 corse i 400 in 45,5″ e le 440 yards in 45,7″. Southern si fermò a 45,8″ sul quarto di miglio. Sulla strada di Roma Glenn Davis decise di tentare ancora nella gara a ostacoli. In Europa intanto si era messo in grande evidenza un tedesco nato a New York il 25 marzo 1936, Karl Kaufmann, che aveva lasciato le gare di velocità pura per dedicarsi ai 400 m. Kaufmann si presentò a Roma da detentore del record europeo di 45,4″. Ma si preannunciavano competitivi anche specialisti di altri continenti, come il sudafricano Malcolm Spence (45,9″ sulle yards) e l'indiano Milkha Singh (45,9″ sui 400 m). La risposta statunitense fu affidata a un altro Davis, Otis, un nero dell'Alabama (era nato nel 1932) che studiava in Oregon e che era emerso l'anno prima dopo aver rinunciato al basket, la sua prima passione. Davis si presentò a Roma con un primato di 45,6″ sulla distanza metrica. La finale all'Olimpico di Roma si disputò il 6 settembre 1960. Fu la prima volta, dal 1912, che si decise di non far correre nello stesso giorno semifinali e finali. La gara fu entusiasmante, forse la più bella nella storia dei Giochi. Spence partì velocissimo (21,2″ a metà percorso), ma all'altezza dei 300 m era in testa Davis, mentre Kaufmann era solo quarto. Il tedesco recuperò bene nel rettilineo finale, ma non tanto da vincere la gara. Davis conquistò la medaglia d'oro e il nuovo primato del mondo, di 44,9″ (45,07″ il suo tempo rilevato 'in automatico'), Kaufmann si aggiudicò la medaglia d'argento e lo stesso record (44,9″ che era in realtà un 45,08″). Spence fu terzo, Singh quarto.
Negli anni seguenti il primato di 44,9″ fu eguagliato due volte: il 25 maggio 1963 da Adolph Plummer, che a Tempe ottenne il risultato sulla distanza in yards (era dunque un 44,6″ 'metrico'), e il 12 settembre 1964 da un insegnante di 31 anni, Mike Larrabee, in occasione dei Trials olimpici sui 400 m. Larrabee vinse poi in 45,1″ (45,15″) la medaglia d'oro di Tokyo. Fu l'ultimo americano non di colore a riuscirvi.
Si avvicinavano le Olimpiadi di Messico 1968, caratterizzate anche dai 2248 m di altitudine e dalle nuove piste realizzate in tartan. Intanto il 20 maggio 1967, sulla pista di San José, il californiano Tommie Smith, che pure aveva come specialità preferita i 200 m, corse le 440 yards in 44,8″ (impiegando 21,7″ al passaggio intermedio delle 220 yards e 33,5″ a quello delle 330); il tempo di percorrenza della distanza metrica fu di 44,5″: due strepitosi primati del mondo resi ancora più importanti dal nome dello sconfitto, Lee Evans (nato nel 1947, mentre Smith era del 1944), suo compagno di allenamento alla San José State University sotto la guida del famoso Lloyd 'Bud' Winter. Evans sembrava destinato a diventare il migliore atleta della specialità: a 19 anni aveva già corso in 45,2″ sulla distanza metrica. Nella gara in cui venne sconfitto da Smith, Evans chiuse comunque sulle yards in 45,3″. Smith decise poi di puntare decisamente sui 200 m. Nel 1968, in settembre, ai Trials olimpici che si disputarono all'altura di Echo Summit, vinse Evans (aveva appena 21 anni) in 44,0″ (sui 400 m), nuovo primato del mondo che però la IAAF rifiutò di omologare perché l'atleta corse con scarpette 'a grattugia', con una sessantina di piccoli chiodi nella suola. Il regolamento non lo permetteva e così il record passò al secondo classificato, Larry James, che aveva corso in 44,1″ (44,06″ il tempo centesimale di Evans, 44,19″ quello di James). Anche James aveva appena 21 anni. A Città del Messico, nella finale che si corse il 18 ottobre Evans, che aveva una corsa potente e nella parte conclusiva riusciva a trovare più energie degli avversari, effettuò dei passaggi intermedi velocissimi (21,1″ ai 200 m e addirittura 32,2″ ai 300). Nel tratto conclusivo soffrì ma non si fece raggiungere da James. Per Evans il tempo fu di 43,8″ (43,86″ il tempo centesimale), nuovo primato del mondo, che resistette vent'anni; James impiegò 43,9″ (43,97″). Ron Freeman, un altro ragazzo del 1947, fu terzo in 44,41″. Il polacco Andrzej Badenski finì settimo pur avendo corso in 45,42″. Tra gli europei meglio di lui fece il tedesco Martin Jellinghaus (45,01″), che nei turni preliminari con 44,9″ aveva ufficialmente eguagliato il record continentale di Kaufmann. L'unico che poteva attaccare il record di Evans, forse anche a livello del mare, era Tommie Smith (per il suo coach Bud Winter era in grado di scendere sotto i 43″), ma dopo l'espulsione dal villaggio per aver manifestato sul podio a favore dei diritti razziali, Smith preferì lasciare l'atletica e passare al professionismo con il football.
Nel 1971 si fece notare un altro Smith, John, che poi divenne un tecnico di grande fama: corse le 440 yards in 44,5″, nuovo primato del mondo. Adottava, come ormai facevano molti specialisti, la tattica della partenza prudente: corse le due metà gara quasi nello stesso tempo, 22,1″ e 22,4″. In finale ai Giochi di Monaco si fermò a causa di un infortunio, già patito in precedenza, e ci fu via libera per Vincent Matthews, che vinse in 44,66″ davanti al connazionale Wayne Collett (44,80″). Quest'ultimo era arrivato primo ai Trials di Eugene in 44,1″, miglior tempo di sempre a livello del mare.
In Italia l'ormai datato primato nazionale di Lanzi era stato battuto nel 1965 dal milanese Sergio Ottolina, eccellente specialista dei 200 m. A Sassari, in una delle sue sporadiche apparizioni nei 400 m, corse in 46,2″, un tempo che fu accompagnato da molte perplessità (ci fu il sospetto che per errore Ottolina fosse partito più avanti del dovuto). Qualche tempo dopo su invito della FIDAL (Federazione italiana di atletica leggera) giunse in Italia Marcello Fiasconaro, un ragazzo dal gran fisico nato a Città del Capo il 19 luglio 1949 ma che aveva anche il passaporto italiano. Fiasconaro, che in Sudafrica alternava l'atletica al rugby, prima di diventare primatista del mondo degli 800 m si espresse bene anche nei 400 m: nel 1971 portò il record nazionale a 46,0″, poi a 45,8″, 45,7″ e infine a 45,5″, tempo che ripeté nella finale degli Europei a Helsinki, dove venne battuto, nonostante una strepitosa rimonta, dal diciannovenne scozzese Dave Jenkins. Un problema al piede gli tolse la possibilità di competere a Monaco 1972.
In Germania mancò per poco la finale un poderoso atleta di Cuba, Alberto Danger Juantorena. Alto 1,88 m per 84 kg, era nato il 21 novembre 1950 a Santiago di Cuba. Nel 1974 divenne il migliore al mondo correndo in 44,7″. Si andava verso Montreal 1976, dove Juantorena tentò, riuscendovi, di vincere sia nei 400 sia negli 800 m. 'El caballo', come era stato soprannominato per la sua falcata imperiosa, nel 1975 aveva subito un'operazione a un piede, ma prima dei Giochi aveva corso in Messico in 44,3″, mentre a livello del mare aveva ottenuto a Ostrava il tempo di 44,70″. Gli americani gli opposero un gruppo di buoni specialisti, ma invano. Juantorena vinse in 44,26″ davanti a Fred Newhouse (44,40″). Per la prima volta la medaglia d'oro dei 400 m veniva vinta da un atleta non di lingua inglese. Nel 1980 il cubano (che a Montreal era diventato primatista del mondo degli 800 m), subì l'ennesima operazione e si presentò ai giochi 'dimezzati' di Mosca in condizioni non eccelse. Assenti americani, kenyoti e tedeschi dell'Ovest, vinse il sovietico Viktor Markin in 44,60″, stabilendo il record europeo. Juantorena fu quarto con 45,09″.
Negli anni Ottanta cominciarono a emergere nuovi specialisti, nessuno però in grado di lasciare una traccia importante: i primi Mondiali di Helsinki furono vinti dal ventiquattrenne giamaicano Bert Cameron, le Olimpiadi di Los Angeles 1984 premiarono il talento dello statunitense Alonzo Babers (primo in 44,27″), mentre i Mondiali di Roma del 1987 furono appannaggio di un tedesco dell'Est di 22 anni, Thomas Schoenlebe, che portò il record europeo a 44,33″ (l'anno prima ai Campionati continentali si era affermato il britannico Roger Black). Agli americani rimase solo la medaglia di bronzo conquistata da un atleta di 23 anni dal fisico statuario, Harry 'Butch' Reynolds, un gigante di 1,93 m che prima di Roma aveva ottenuto i tre migliori tempi mai corsi a livello del mare: 44,10″ il 3 maggio a Columbus, 44,13″ il 6 giugno a Baton Rouge, 44,15″ il 10 luglio a Londra. Nel 1988 Reynolds riuscì finalmente a battere il record di Evans: dopo aver fallito per un solo centesimo ai Trials disputati in luglio a Indianapolis, dove vinse in 43,87″ (21,41″ a metà gara; secondo finì Danny Everett con 43,98″ e terzo il diciannovenne Steve Lewis con 44,37″, dopo il 44,11″ in semifinale), il 17 agosto del 1988 a Zurigo Reynolds concluse la sua gara in 43,29″ (21,4″ il tempo di passaggio ai 200 m, 32,1″ quello sui 300 m).
A Seul Reynolds arrivò come il grande favorito, ma non vinse lasciando l'oro olimpico a Steve Lewis, che fece una gara di attacco e fu premiato vincendo in 43,87″. Per Reynolds il tempo fu di 43,93″, la medaglia di bronzo andò a Everett (44,09″ il suo tempo). Non accadeva dalle Olimpiadi messicane del 1968 che sul podio salissero solo atleti statunitensi.
Negli anni Novanta i 400 m salirono prepotentemente alla ribalta della scena atletica mondiale per due motivi: la vicenda legata al doping che coinvolse Reynolds, innescando il più complesso caso giudiziario nella storia dello sport; e l'arrivo sulle piste di Michael Johnson, colui che diventò il più grande quattrocentista della storia.
Reynolds, che aveva solo 24 anni a Seul, cercò di dimenticare la delusione patita in Corea. Ma fu trovato positivo al nandrolone (uno steroide) al controllo antidoping del meeting di Montecarlo del 12 agosto 1990. L'americano gridò la sua innocenza, ma la IAAF lo sospese per due anni. Reynolds non si arrese e mise in campo una serie di avvocati per dimostrare di non essere colpevole e soprattutto che il controllo, eseguito dal laboratorio di Parigi, era stato irregolare: secondo i suoi legali le urine incriminate non erano di Reynolds, ma di un'atleta tedesca. Il 3 dicembre 1991 la Federazione americana chiese di cancellare la squalifica di Reynolds. Cinque mesi dopo la corte d'arbitrato della IAAF respinse l'appello e informò la Federazione americana che qualsiasi atleta avesse corso con Reynolds sarebbe stato squalificato. A fine maggio 1992 un giudice di Colombus, Ohio, concesse a Reynolds di correre per ottenere il 'minimo' necessario per i Trials. Reynolds scese due volte in pista, ma la IAAF squalificò, come aveva minacciato, chi aveva corso con lui. Allora i migliori atleti americani dei 400 m, da Lewis a Everett, si opposero alla presenza di Reynolds ai Trials, temendo di venir fermati a loro volta e di non poter disputare le Olimpiadi. Il 19 giugno, un giorno prima dell'inizio delle batterie dei 400 m (le gare si svolgevano a New Orleans), un giudice d'appello dell'Ohio diede torto a Reynolds. I suoi avvocati si rivolsero subito alla Corte suprema degli Stati Uniti che ordinò alla Federazione di far correre Reynolds. In un caos mai visto prima per una gara di atletica fu deciso, per prendere tempo, di rinviare le batterie di alcuni giorni. Infine la IAAF, che non poteva impedire a Reynolds di correre, comunicò che non ci sarebbe stata squalifica per chi avesse disputato la gara con lui. Reynolds ottenne il tempo di 44,14″, ma la pressione di quei mesi si fece sentire in finale, dove non riuscì a far meglio del quinto posto. Poteva andare a Barcellona, ma solo come riserva della staffetta. Il Comitato olimpico americano però non lo inserì nell'elenco. Successivamente la IAAF allungò la squalifica di Reynolds fino a tutto il 1992. Nel dicembre di quell'anno una corte dell'Ohio stabilì che l'americano aveva diritto a un risarcimento di ben 27,3 milioni di dollari da parte della Federazione internazionale. In appello la sentenza venne poi annullata. Reynolds tornò alle gare nel 1993, vincendo anche il titolo mondiale indoor e guadagnandosi la medaglia d'argento ai Mondiali di Stoccarda, dietro a Michael Johnson. Fu ancora secondo nell'edizione iridata di Göteborg 1995, poi tentò la carta olimpica. Nel 1996 corse in 43,91″, si classificò secondo ai Trials per Atlanta, ma ai Giochi non riuscì a concludere la semifinale a causa dei crampi.
I Mondiali del 1991 erano stato vinti un po' a sorpresa da Antonio Pettigrew, che arrivava dalla Georgia e che era stato già campione americano nel 1989, a 22 anni. Fu l'unica importante vittoria individuale di questo atleta, che fu finalista in altre tre edizioni dei Mondiali e che, a 33 anni, fu ancora settimo ai Giochi di Sydney. Nella caotiche vicende delle selezioni olimpiche americane per Barcellona 1992 trovarono la qualificazione Danny Everett, vincitore con 43,81″ (in Catalogna però si bloccò in semifinale, afflitto da problemi al tendine di Achille), il campione olimpico Steve Lewis e il giovane Quincy Watts, un ventiduenne di Detroit che studiava alla Southern California ed era allenato da John Smith. Watts alla high school sognava di diventare un bravo giocatore di basket (era alto 1,90 m), poi aveva cominciato a fare velocità e aveva optato per i 400 m solo nel 1991, arrivando terzo ai Trials per i Mondiali di Tokyo, dove però non fu in grado di correre per un'infezione alla gola. Vinse la medaglia d'oro a Barcellona con il tempo di 43,50″, il secondo di sempre dopo il record di Reynolds. Lewis finì 6 m dietro il rivale.
Watts, con il suo fisico prestante, sembrava davvero l'uomo nuovo della specialità, colui in grado di superare la barriera dei 43″. Ma fu solo un'illusione. L'anno dopo fu quarto ai Mondiali di Stoccarda, poi subentrò il declino. L'uomo nuovo era un altro, un texano dal fisico tutt'altro che strepitoso, quel Michael Johnson ben noto anche per i 200 m, l'altra specialità di cui divenne il dominatore. Con il suo passo non ampio, tanto meno armonioso, Johnson sapeva affrontare i 400 m non solo con una naturale distribuzione dello sforzo (non volle mai abusare della sua eccezionale velocità sui 200 m), ma anche con una limitata dispersione di energie. Sui 400 m fu praticamente imbattibile: non conobbe sconfitte dal 24 febbraio 1989, quando a New York finì secondo nei Campionati americani indoor alle spalle di Antonio McKay (47,03″ contro 47,22″), fino al 25 giugno 1997, quando a Parigi, in cattive condizioni fisiche, si arrese, terminando quinto in 45,74″, nella gara vinta da Pettigrew. Tra quelle due date ci furono 57 gare di finale vittoriose. Johnson seppe anche superare momenti difficili. I faticosi recuperi della migliore condizione atletica dopo gli infortuni del 1988 (frattura da stress alla tibia) e del 1989 (stiramento al quadricipite della gamba destra) e l'intossicazione alimentare che nel 1992 gli portò probabilmente via la medaglia d'oro dei 200 m hanno costituito altre importanti prove nella carriera di questo leggendario atleta. Difficilissimo fu soprattutto il 1997, quando, in giugno, s'infortunò durante la sfida contro Bailey sui 150 m. Poi si sommarono altri guai che lo portarono a perdere l'imbattibilità e solo grazie a una wild-card offertagli dal presidente della IAAF Primo Nebiolo poté partecipare ai Mondiali di Atene. Fu forse la sua vittoria più difficile: solo 25 centesimi di vantaggio sull'ugandese Davis Kamoga, che aveva vinto la medaglia di bronzo ad Atlanta. Da ricordare che ad Atene prima di vincere Johnson aveva rischiato una brutta figura: afflitto dai tanti problemi e desideroso di non sprecare inutili energie, corse un quarto di finale sottovalutando gli avversari, finendo quarto e qualificandosi per la fase successiva solo grazie al buon tempo ottenuto. Tra la medaglia d'oro vinta ad Atlanta (dove arrivò secondo in 44,41″ il combattivo atleta britannico Roger Black) e quella conseguita a Sydney, vi fu il quarto titolo mondiale, vinto a Siviglia nel 1999. In Spagna Johnson andò con un solo scopo, diventare primatista del mondo anche sui 400 m, l'unico traguardo che ancora gli mancava. Il 26 agosto portò a termine una gara superba chiudendo in 43,18″, 11 centesimi in meno di quanto Reynolds aveva ottenuto 11 anni prima a Zurigo. Johnson riuscì a dominare contemporaneamente i 200 e 400 m anche perché, soprattutto in questa seconda specialità, non trovò mai avversari di altissimo livello: Reynolds fu 'soffocato' dalla vicenda doping, Watts era tramontato inspiegabilmente troppo presto. Dal 1988 a tutto il 2003, nessuno fu mai in grado, a parte lui, Reynolds, Watts e Steve Lewis, di correre almeno una volta i 400 in meno di 44 secondi. Gli americani, sconfitti ai Mondiali 2001 da Avard Moncur delle Bahamas (44,64″), si rifecero a Parigi 2003 con Jerome Young (44,50″).
I quattrocentometristi italiani. Dopo Fiasconaro, l'Italia trovò un valido specialista nel milanese Mauro Zuliani, un atleta elegante e leggero che nel 1981 portò il record italiano prima a 45,34″ poi, nella Coppa del Mondo di Roma, a 45,26″. Ci furono altri discreti specialisti, ma tempi al di sotto dei 46″ furono piuttosto rari. Pietro Mennea fece alcune apparizioni sui 400 m, offrendo anche importanti contributi alla staffetta del miglio. Ottenne il suo record nel 1977, a Formia, quando corse in 45,87″.
Per lungo tempo i 400 m furono considerati una distanza non adatta alle donne. La Federazione internazionale cominciò a riconoscerne il record solo a partire dal 1959 e solo dal 1964 la gara fu introdotta nel programma olimpico femminile, anche se aveva fatto parte del programma dei campionati nazionali di alcuni paesi assai prima. In URSS i 400 m si corsero nella prima edizione dei Campionati sovietici, nel 1922, e trovarono nuovamente posto nel 1928. Si disputavano negli anni Venti anche in Inghilterra (e in altri paesi anglosassoni) e in Giappone; in Italia, prima di un lungo periodo in cui la specialità fu totalmente trascurata, fu assegnato un titolo nazionale nel 1925 (vinse Pizzini della 'Forza e Coraggio' di Milano in 69″3/5), poi nel 1926, nel 1928 e nel 1929. Una sorta di primo record nazionale fu il 71″1/5 realizzato dalla milanese Giuseppina Ferri il 26 agosto 1923 a Milano.
Il risultato più antico di cui si è trovata traccia è il 71,5″ della finlandese Lydia Malm, a Maaria, il 5 settembre 1909. Nel 1922, a Parigi, nel corso dei primi Giochi mondiali femminili si corse una prova sui 300 m che fu vinta, in 44″4/5, da Mary Lines. Nello stesso anno Lines aveva già corso le 440 yards in 64″2/5 e nel 1923 fece segnare un 62″2/5. Il primo risultato sotto il minuto è attribuito alla giapponese Kinuye Hitomi (che correva i 100 m in 12″, ma era anche ottima ottocentista e saltatrice in lungo), la quale il 9 maggio 1928, a Miyoshino, fece fermare i cronometri sui 59,0″. Un bel passo in avanti fu fatto grazie all'inglese Nellie Halstead, che il 9 luglio 1932, a Londra, corse la distanza in yards in 56″4/5.
Bisognò aspettare il 1951 per trovare il risultato di 56,0″ della sovietica Zoya Petrova (Mosca, 15 luglio). Nel 1955 il primato fu avvicinato e ritoccato più volte, assumendo maggiore significato tecnico, grazie soprattutto alla sovietica Maria Itkina, capace di correre in 53,9″.
Quando la IAAF, il 1° gennaio 1957, aprì la lista dei record ufficiali, la prima prestazione da inserire fu il tempo di 57,0″ realizzato sulle 440 yards dall'australiana Marlene Willard-Mathews, che approfittò, il 6 gennaio 1957, della favorevole circostanza fornita dall'estate australe. All'apertura della stagione europea si ripropose autorevolmente Maria Itkina. Nata nel 1932 a Smolensk, nella Russia occidentale, Iktina era la migliore velocista sovietica dei 100 e 200 m (fu quarta ai Giochi di Roma 1960 su entrambe le distanze) e divenne anche la più forte sui 400 m a livello mondiale: corse prima in 54,0″ e poi in 53,6″. Nel 1958 si portò due volte a 53,4″ e conquistò il primo titolo europeo della distanza, vincendolo di nuovo nel 1962. Ma già nel 1960 avevano fatto sensazione i tempi ottenuti dalla nordcoreana Sin Kim Dan. Prima fu capace di correre in 53,0″, poi nel 1964, dopo una serie di miglioramenti, in 51,2″. Sempre nel 1964 portò il tempo sugli 800 m a 1′58″: ma la Corea del Nord non era riconosciuta dagli organismi internazionali e tanto meno dalla IAAF, quindi dei tanti strabilianti primati di Sin Kim Dan, che era nata nel 1938, venne omologato solo il 51,9″ che il 23 ottobre 1962 ottenne a Pyongyang.
Nel 1964 Itkina, già trentaduenne, cercò di conquistare la prima medaglia d'oro sulla distanza, messa in palio a Tokyo, ma fu solo quinta. L'onore andò a un'altra veterana delle piste, l'australiana Betty Cuthbert, che ai Giochi di Melbourne 1956 aveva vinto tre medaglie d'oro (100 m, 200 m e staffetta 4x100). Il suo allenatore la convinse a tentare per Tokyo la carta della nuova gara: vinse in 52,0″, battendo la britannica Ann Packer, che si rifece vincendo gli 800 m.
Nel 1968 non bastarono neppure l'altura e le piste in tartan di Città del Messico per cancellare il 51,9″ di Sin Kim Dan: il record fu solo sfiorato dalla francese Colette Besson, un'insegnante di educazione fisica nata il 7 aprile 1946 a St. Georges de Didonne. Arrivò a Città del Messico con un primato personale di 53,8″ e ripartì con l'oro olimpico e il record europeo di 52,0″ (52,03″ il tempo centesimale), avendo superato sul traguardo, dopo un avvio prudente, la giovanissima britannica Lillian Board (che corse in 52,12″). Nel 1970 Board si ammalò di cancro e morì poco dopo aver compiuto 22 anni.
Il record mondiale cadde l'anno dopo, durante la memorabile finale dei Campionati Europei che si svolsero ad Atene. Fu una sfida tutta francese e Besson venne sconfitta per pochi centimetri da una connazionale, Nicole Duclos, ventiduenne di Périgueux. A entrambe fu assegnato il risultato di 51,7″, nuovo primato del mondo. I tempi centesimali furono di 51,72″ per Duclos e 51,74″ per Besson. Ad Atene finì sesta la bolognese Donata Govoni, la miglior quattrocentometrista che l'Italia abbia mai avuto, in un panorama però piuttosto modesto: mai una finalista, ma neppure una semifinalista, ai Giochi Olimpici o ai Mondiali. Dopo Govoni, solo la laziale Patrizia Spuri nel 1998, con un ben diverso approccio internazionale, riuscì a entrare tra le prime otto agli Europei. Govoni, nata velocista pura, portò negli anni Settanta il record italiano da un modesto 56,3″ a un dignitoso 53,2″.
L'anno dopo gli Europei di Atene, il 23 luglio a Edimburgo, Marilyn Neufville, una giamaicana che non aveva ancora compiuto 18 anni, vinse i Giochi del Commonwealth correndo in 51,0″. Neufville si era trasferita in Inghilterra con la famiglia all'età di otto anni, aveva presto dimostrato eccellenti qualità di velocista, ma rifiutò di gareggiare con la Giamaica ai Giochi di Messico 1968: cominciò a correre con i colori della patria adottiva, poi cambiò idea e decise di rappresentare il paese di origine a Edimburgo. Partì assai veloce (23,8″ a metà gara) e nonostante una seconda parte percorsa in 27,2″ abbassò il record delle due francesi. Una serie di infortuni le precluse la partecipazione ai Giochi di Monaco 1972. Intanto si proponevano diverse atlete della Repubblica Democratica Tedesca: Helga Seidler aveva vinto gli Europei del 1971 e a Monaco la medaglia d'oro toccò a Monica Zehrt, una ventenne, che il 4 luglio a Parigi aveva eguagliato il record della Neufville; in Baviera vinse con il tempo di 51,08″.
Una svolta decisiva per i 400 m fu la decisione della polacca Irena Kirszenstein Szewinska di dedicarsi, alla soglia dei 30 anni, a questa specialità. Dotata di un fisico slanciato e veloce e di grande coordinazione, dopo aver già ottenuto grandi soddisfazioni nella velocità pura e nel salto in lungo, iniziò ad allenarsi anche sui 400 m ottenendo subito risultati di rilievo. Alla sua seconda gara su tale distanza, il 22 giugno 1974, a Varsavia, corse in 49,9″. Nel 1974, ai Campionati Europei di Roma, si dedicò esclusivamente alle gare dei 100 e 200 m, vincendole entrambe, mentre nei 400 m trionfò abbastanza sorprendentemente la finlandese Riitta Salin in 50,14″, risultato che fu poi omologato come primo record mondiale in automatico. Dopo Roma Szewinska imboccò senza più indugi la strada dei 400 m: tra il 1974 e il 1978 non fu più battuta per 34 finali consecutive. Il 22 giugno 1976 portò il primato mondiale a 49,75″ e poi, il 29 luglio, ai Giochi di Montreal, sconfisse le temibili avversarie della Repubblica Democratica Tedesca correndo in 49,29″.
Ma erano ormai arrivati i giorni di Marita Koch, di 11 anni più giovane della polacca (era nata a Wismar il 18 febbraio 1957). Rapida e muscolarmente solida, già a Montreal, a 19 anni, con il suo primato personale di 50,46″ avrebbe potuto puntare al podio, ma un problema muscolare la mise fuori causa in semifinale. Nel 1977 diede vita a una bellissima sfida con Szewinska, in Coppa del Mondo a Düsseldorf: la polacca vinse ancora. Ma nel 1978 la Koch, allenata da Wolfgang Meier, che poi divenne suo marito, apparve inarrestabile: migliorò più volte il primato del mondo portandolo da 49,19″ a 49,03″ e poi, agli Europei del 1978 a Praga, addirittura a 48,94″ nella finale che interruppe la lunga imbattibilità della polacca. Szewinska tentò ancora ai Giochi Olimpici del 1980, ma un infortunio al tendine di Achille la fermò in semifinale. Niente invece fermò Koch che nel 1979 portò il record prima a 48,89″ e poi, nella finale di Coppa Europa disputatasi a Torino, a 48,60″. Vinse anche la medaglia d'oro a Mosca in 48,88″, ma in finale fu duramente impegnata da una ventinovenne atleta cecoslovacca, la poderosa Jarmila Kratochvilova, che poi la superò a Roma, nel 1981, in Coppa del Mondo, in 48,61″. Koch rispose l'anno dopo quando vinse gli Europei di Atene, chiudendo in 48,16″, ennesimo record del mondo; Kratochvilova fu seconda in 48,85″. Nel 1983, ai primi Mondiali disputati a Helsinki, le due rivali scelsero strade diverse: Koch preferì le gare sui 100 e 200 m (nelle quali si classificò, rispettivamente, seconda e prima); Kratochvilova optò per i 400 e gli 800 m, vincendo su ambedue le distanze. Nella gara sui 400 m, disputata il giorno dopo aver vinto gli 800 m, corse in 47,99″, togliendo il record del mondo a Koch.
Entrambe poi furono costrette dal boicottaggio dei paesi comunisti a rinunciare ai Giochi di Los Angeles. In occasione della Coppa del Mondo, che si svolse a Canberra nell'ottobre del 1985, Koch stravinse, correndo in appena 47,60″ (22,4″ il passaggio a metà gara). Kratochvilova, ormai trentaquattrenne e in declino, fu solo quinta. Koch vinse, nel 1986, il suo terzo titolo europeo prima di chiudere una carriera in cui aveva collezionato anche un oro olimpico, sette primati del mondo e 15 tempi inferiori ai 49″.
Nel 1984 intanto il boicottaggio aveva portato per la prima volta sul gradino più alto del podio olimpico un'atleta americana, Valerie Brisco Hooks, che vinse anche sui 200 m e nella staffetta 4x400 m e che nei 400 m conseguì pure, con 48,83″, il record olimpico e americano. Non riuscì mai più, però, a migliorarsi. A Seul 1988 dovette arrendersi alle atlete dell'Europa dell'Est e giunse quarta. Vinse l'ucraina Olga Bryzgina in 48,65″ davanti alla tedesca orientale Romy Müller e alla russa Olga Nazarova. L'anno prima Bryzgina aveva vinto, sempre davanti a Müller, anche il titolo iridato a Roma. Negli anni Novanta tempi come quelli di Koch furono irraggiungibili, ma il decennio fu segnato da due personaggi di grande spessore tecnico e che seppero coinvolgere, anche per motivi extrasportivi, i media di tutto il mondo: la francese Marie-José Pérec e la nativa australiana Cathy Freeman.
Pérec aveva grande talento. Era nata nel 1968 a Basse-Terre, un'isola della Guadalupa, e nel 1987 si era trasferita definitivamente a Parigi. Dotata di un fisico longilineo (1,80 m per 60 kg, gambe lunghissime), si impegnò all'inizio soprattutto sui 200 m, ma dal 1991 divenne l'atleta più forte nei 400 m: vinse l'oro ai Mondiali di Tokyo 1991 e poi a Barcellona dominò Bryzgina in 48,83″ (49,05″ il tempo dell'ucraina). Quando, in conferenza stampa, le fu chiesto se avrebbe mai battuto il primato di Koch rispose senza esitazione che il vero record del mondo dei 400 m era quello da lei stabilito quel giorno, in quanto raggiunto senza far ricorso all'aiuto di alcun preparato. Era un chiaro atto di accusa a una generazione di quattrocentometriste. In seguito Pérec divenne anche personaggio da copertina, sfilando tra l'altro come modella, prima di trasferirsi in California per allenarsi con John Smith a Los Angeles e prepararsi sia sui 200 m sia sui 400 in vista delle Olimpiadi del 1996. Intanto nel 1995 a Göteborg aveva di nuovo vinto i Mondiali. Ad Atlanta vinse il 29 luglio la gara dei 400 m (con il tempo di 48,25″) e tre giorni dopo conquistò la medaglia d'oro nei 200 m. Sui 400 m superò la resistenza di Cathy Freeman, aborigena di 23 anni che si batteva per i diritti dei nativi d'Australia e che a 17 anni aveva vinto sui 200 m il suo primo titolo nazionale. Nel 1995 aveva sfiorato il podio ai Mondiali di Göteborg. Freeman, ben più bassa di Pérec (1,64 m per 52 kg), impegnò la francese oltre ogni previsione e chiuse con l'eccellente tempo di 48,63″: era la prima medaglia olimpica mai vinta da un aborigeno. Ad Atlanta l'australiana fece il giro d'onore sventolando la bandiera della sua gente, così come aveva fatto dopo aver vinto i Giochi del Commonwealth, gesto che suscitò contrastanti reazioni politiche. Pérec, dopo Atlanta, abbandonò i 400 m e nel 1998 rimase ferma a causa di un virus. Freeman ebbe via libera e trionfò ai Mondiali di Atene del 1997 e poi a quelli di Siviglia del 1999. Per Sydney 2000 si preparava la più attesa delle sfide e i motivi di interesse furono alimentati anche dalla decisione di affidare a Freeman il compito di accendere il fuoco olimpico nella cerimonia di apertura: una nazione aveva fatto di questa atleta il simbolo della riconciliazione tra la comunità bianca e il popolo dei nativi. Arrivata a Sydney, Pérec avvertì subito il clima teso della vigilia e le pressioni della stampa, dichiarò anche di aver ricevuto minacce di morte e prima dell'inizio della manifestazione decise di lasciare Sydney e di non gareggiare. Non scese più in pista. A Freeman fu sufficiente il tempo di 49,11″ per vincere la medaglia d'oro dei 400 m, superando la giamaicana Lorraine Graham Fenton e un altro gruppo di specialiste solo discrete. Stressata dalla pressione e da delicate vicende personali, l'atleta decise in seguito di sospendere per un anno l'attività agonistica. Tornò a fare qualche gara nel 2002 senza risultati importanti e poi a metà luglio del 2003 abbandonò definitivamente l'atletica.
Ai Mondiali del 2001 di Edmonton sul podio erano salite tre atlete poco attese: prima la senegalese Amy Mbacke Thiam, seconda Lorraine Graham Fenton e terza la messicana Ana Guevara. Proprio quest'ultima, una ragazza nata nel 1977 a Nogales, al confine con gli Stati Uniti, sarebbe diventata la leader della specialità. Dopo quella gara non perse più e ai Mondiali di Parigi del 2003 conquistò il titolo mondiale correndo con 48,89″ sotto la barriera dei 49″, impresa che non era più riuscita a nessuna atleta dopo il 1996.
Le staffette sono un prodotto dell'atletica moderna. La loro nascita viene fatta risalire agli anni intorno al 1880, come sorta di imitazione delle corse per beneficenza organizzate dai vigili del fuoco di New York nel corso delle quali veniva passato di mano in mano ogni 300 yards un bastone con un gagliardetto rosso. La prima gara si tenne all'Università di Berkeley, nel 1883, con quattro atleti impegnati su una distanza totale di due miglia. Ma gli storici considerano come atto ufficiale di nascita delle staffette, con quattro atleti che si passavano un bastoncino, le gare disputate su frazioni di 440 yards (quindi per un totale di un miglio) all'Università di Pennsylvania a Filadelfia. Gli inventori furono due dirigenti dell'Athletic Association di quel college, Frank B. Ellis e H. Laussat Geyelin. Nel 1893, al primo esperimento agonistico, parteciparono due squadre e vinse un quartetto dell'Università della Pennsylvania in 3′25,2″. Dal 1895 fu disputato il Pennsylvania Relay Carnival, manifestazione che si tiene ancor oggi, nell'ultimo week-end di aprile, con il nome di Penn Relays e che coinvolge migliaia di giovani studenti. Altre manifestazioni imperniate unicamente su gare a staffetta si svolgono da tempo in altre località.
Le staffette fecero il loro ingresso alle Olimpiadi di Londra del 1908 con una prova che prevedeva due frazioni di 200 m, una di 400 m e una di 800 m. A quei tempi non ci si passava un bastoncino ma ci si dava il cambio toccandosi la mano. Della squadra statunitense vincitrice faceva parte anche John Taylor, ricordato come il primo atleta di colore ad aver conquistato un oro olimpico. Dal 1912 nel programma dei Giochi sono incluse solo la 4x100 m e la 4x400 m. In campo femminile la staffetta 4x100 m fu introdotta nel 1928 e la 4x400 m nel 1972.
Oggi la IAAF riconosce i primati mondiali delle seguenti staffette: 4x100 m, 4x200 m, 4x400 m, 4x800 m e la 4x1500 m maschile. A parte la 4x100 m e la 4x400 m, chiamata anche staffetta del miglio perché originariamente le frazioni erano di 440 yards per un totale, appunto, di un miglio, le altre prove si disputano piuttosto raramente.
La filosofia delle staffette è quella di far arrivare al traguardo prima possibile un bastoncino che i frazionisti si debbono passare di mano in mano in un'apposita zona di cambio lunga 20 m, la metà della quale costituisce l'ipotetica linea di partenza. È evidente che l'azione di cambio assume una importanza fondamentale soprattutto nella 4x100 m. Il regolamento prescrive che il bastoncino, detto testimone, sia un tubo vuoto liscio, di metallo o di legno, di lunghezza compresa tra i 28 e i 30 cm, di diametro tra i 12 e i 13 cm e di peso non inferiore ai 50 g.
La 4x100 m (e se possibile la 4x200 m) deve essere corsa interamente in corsia, invece nella 4x400 m corre in corsia solo il primo frazionista, mentre il secondo percorre in corsia la prima curva per rientrare poi alla corda. Per quanto riguarda la 4x100 m, prima del 1926 l'atleta che doveva ricevere il testimone poteva partire anche al di fuori della zona, pur essendo obbligato, pena la squalifica, a ricevere il cambio all'interno di essa. Dal 1926 al 1963 il regolamento obbligò l'atleta che doveva ricevere il testimone ad avviarsi entro la zona. Dal 1963 è stata creata una prezona di 10 m entro la quale l'atleta può partire, fermo restando che il cambio deve avvenire all'interno dei 20 m della zona vera e propria. Ovviamente tutti gli staffettisti di buon livello sfruttano la prezona per acquisire la maggiore velocità possibile prima del cambio.
Una staffetta è squalificata se il testimone viene passato al di fuori della zona: il bastone deve essere in possesso esclusivo di chi lo deve ricevere, non conta quindi la posizione del corpo o degli arti, ma unicamente quella del testimone. Se durante il cambio, o la corsa in genere, il testimone cade, l'atleta che l'ha perduto può fermarsi a recuperarlo: non verrà squalificato a meno che non abbia danneggiato altri concorrenti.
La 4x100 m uomini. La composizione ottimale di una staffetta 4x100 m, detta anche staffetta veloce, è un'operazione meno semplice di quanto possa sembrare: non si tratta solo di prendere i quattro atleti più veloci e metterli insieme. Il buon esito dipende molto dall'efficacia dei cambi, che debbono essere rapidi e avvenire con l'atleta ricevente già lanciato a una buona velocità: bisogna evitare che il testimone rallenti, perché è proprio quello l'elemento di gara che deve andare il più veloce possibile. È anche importante che ogni uomo sia al posto giusto, perché nella staffetta veloce non tutte le frazioni sono uguali (due si corrono in curva) e ognuna richiede atleti con caratteristiche diverse. Un cambio ottimale è quello che avviene circa 3-4 m prima della fine della zona. Il primo frazionista deve essere un buon partente dai blocchi e un buon curvista; può essere anche il velocista che tiene meno la distanza, visto che la sua frazione è la più corta (i suoi 100 m più i 6 m circa della parte di zona dove avviene il cambio). Il secondo frazionista deve essere abile nel cambio (riceve e consegna) e deve essere un velocista capace di esprimersi con alto rendimento 'sul lanciato' per almeno 126 m (i suoi 100 m, più i 10+10 m di pre-zona e zona, più gli ipotetici 6 m della frazione successiva). Il terzo frazionista compie anch'egli 126 m circa, riceve e consegna ma deve essere anche un buon curvista. Infine il quarto frazionista, che corre per 120 m non essendoci alla fine nessun cambio, è di solito il velocista più forte o comunque quello dotato di maggior carica agonistica, un atleta capace di battersi fino all'ultimo metro per recuperare un eventuale svantaggio o di mantenere il vantaggio senza timore di essere raggiunto dagli avversari.
Chi corre in curva deve farlo all'interno della propria corsia per non percorrere una distanza maggiore. Per questo tiene il testimone nella mano destra e lo consegnerà nella sinistra del compagno, che si troverà in una posizione sfalsata e verso l'esterno della corsia per evitare possibili urti. Il cambio deve avvenire alla cieca soprattutto se è stato calcolato alla perfezione il sincronismo: cioè il momento in cui chi riceve deve partire per essere raggiunto 3-4 m prima della fine della zona, distanza considerata come ottimale. Se il cambio avviene troppo presto chi riceve non avrà ancora raggiunto un'alta velocità e il testimone rallenterà al passaggio da un atleta all'altro. Talvolta, soprattutto nei turni eliminatori, si preferiscono cambi in sicurezza per evitare inutili rischi. Quando lo staffettista che ha il testimone giudicherà di essere a distanza giusta per il cambio, con un segnale della voce richiamerà il compagno che, senza girarsi, distenderà all'indietro il braccio con la mano solitamente bene aperta e rivolta verso l'alto per ricevere rapidamente il testimone. Esiste anche un'altra tecnica, meno usata, che prevede un cambio da sotto, quindi con la mano che deve ricevere il testimone rivolta verso il terreno.
Nella 4x100 m e nella 4x400 m i record sono stati spesso migliorati nelle grandi manifestazioni, nelle Olimpiadi in primo luogo, quando cioè si affrontavano le migliori squadre. Ai Giochi Olimpici il dominio degli Stati Uniti nella 4x100 m è stato assoluto: il quartetto americano ha vinto, fino all'edizione di Sydney 2000, 15 volte su 20 finali. Ha perso arrivando al traguardo solo una volta, a opera del Canada nel 1996, ad Atlanta. In altre tre occasioni (1912, 1960 e 1988) la squadra è stata squalificata e nel 1980 non ha partecipato a causa del boicottaggio.
Nel 1912 a Stoccolma gli Stati Uniti vinsero la propria semifinale in 42,2″, ma vennero squalificati per un cambio fuori zona. La stessa cosa capitò, non senza una dura contestazione, alla Germania in finale. I tedeschi, che comunque erano arrivati secondi, si consolarono con il record del mondo di 42,3″ (il primo dell'era IAAF), ottenuto in semifinale. La medaglia d'oro andò alla Gran Bretagna. Un miglioramento consistente del record fu realizzato in occasione delle Olimpiadi parigine del 1924, quando gli Stati Uniti vinsero la finale in 41,0″, eguagliando il tempo già ottenuto in semifinale. Prima dei Giochi il primato era fermo da quattro anni a 42,2″. Il primo tempo al di sotto dei 41,0″ (40,8″) fu ottenuto da un quartetto tedesco il 3 settembre 1928. A Los Angeles 1932 gli Stati Uniti arrivarono a 40,0″ con un quartetto privo di due star come Tolan e Metcalfe, giunti rispettivamente primo e secondo nella gara dei 100 m.
A Berlino 1936 arrivò il primo tempo inferiore ai 40″. La squadra americana composta da Owens, Metcalfe, Foy Draper e Wykoff vinse stabilendo il record del mondo di 39,8″, tempo che sarebbe stato migliorato solo vent'anni più tardi. La composizione della squadra americana fu accompagnata da forti polemiche perché il selezionatore Lawson Robertson non voleva all'inizio schierare Owens e Metcalfe, che a suo dire si erano già guadagnati nelle gare individuali la loro porzione di gloria. Poi cambiò idea ed escluse Sam Stoller e Marty Glickman, precedentemente scelti, che erano i soli due ebrei della squadra statunitense e furono gli unici che alla fine non gareggiarono; quell'Olimpiade doveva essere nelle intenzioni dei tedeschi una sorta di palcoscenico del nazismo e qualcuno ritenne inopportuno il repentino cambiamento di Robertson.
Frank Wykoff si è guadagnato uno spazio tutto suo nella storia delle staffette olimpiche, poiché è l'unico ad aver vinto (e sempre con il record mondiale) tre edizioni: nel 1928, a 19 anni, nel 1932 e nel 1936. A Berlino arrivò secondo, seppure staccatissimo (41,1″), il quartetto italiano composto da Orazio Mariani, Gianni Caldana, Elio Ragni e Tullio Gonnelli. La tradizione azzurra in questa disciplina, che durerà nel tempo, era stata inaugurata già a Los Angeles con la medaglia di bronzo conquistata da Giuseppe Castelli, Ruggero Meregatti, Gabriele Salviati ed Edgardo Toetti. Il titolo italiano era stato assegnato a partire dal 1921. L'Italia conquistò una nuova medaglia olimpica anche nella prima edizione postbellica, nel 1948 a Londra: Michele Tito, Enrico Perucconi, Antonio Siddi e Carlo Monti finirono terzi alle spalle di Stati Uniti e Gran Bretagna. In un primo tempo gli Stati Uniti erano stati squalificati per cambio fuori zona, ma dopo tre giorni, esaminato con attenzione il film della gara, i giudici restituirono agli americani il primo posto.
Il record di Berlino 1936 fu battuto nel 1956 in occasione dei Giochi di Melbourne. Il quartetto americano, guidato in ultima frazione da Bobby Morrow, chiuse in 39,5″ davanti a URSS, Germania e Italia: il quartetto azzurro, composto da Franco Galbiati, Giovanni Ghiselli, Luigi Gnocchi e Vincenzo Lombardo perse la medaglia di bronzo per pochi centimetri.
Il record di Morrow e compagni fu eguagliato in seguito ben tre volte dalla Germania, prima nel 1958 e poi nel turno eliminatorio e nella finale dei Giochi Olimpici di Roma. Sul traguardo giunse per prima la squadra americana, ma il primo cambio tra Frank Budd e Ray Norton era avvenuto fuori zona. La Germania, che poteva contare sul campione olimpico dei 100 m Hary (schierato in seconda frazione), vinse con merito. Quarta l'Italia di Livio Berruti (con lui corsero Armando Sardi, Piergiorgio Cazzola e Salvatore Giannone), che però avrebbe avuto diritto al bronzo: un chiaro filmato dimostrò che anche la Gran Bretagna, finita terza, era da squalificare.
Nel 1964 a Tokyo gli Stati Uniti vinsero con il nuovo primato di 39,0″ (39,06″ in automatico), schierando in ultima frazione Bob Hayes che aveva ricevuto il cambio addirittura in quinta posizione. Il tempo 'lanciato' di Hayes fu valutato tra gli 8,6″ e gli 8,9″. L'Italia, con Berruti, Ennio Preatoni, Sergio Ottolina e Pasquale Giannattasio, concluse al settimo posto in 39,5″. In luglio ad Annecy, in Francia, il quartetto aveva portato il record italiano a 39,3″. Il primo tempo sotto ai 39″ arrivò nel 1967, a Provo, per merito della formazione dell'Università della Southern California composta dall'ostacolista Earl McCullouch e da Fred Kuller, O.J. Simpson e Lennox Miller, che corse la 4x110 yards in 38,6″. Il tempo fu omologato come primato mondiale nonostante la presenza in squadra del giamaicano Miller. Solo in seguito la IAAF decise di non accettare più primati di staffetta con quartetti non composti da atleti di uno stesso paese. O.J. Simpson, in seguito divenuto un famoso giocatore di football americano, negli anni Novanta fu al centro di un clamoroso giallo: accusato dell'uccisione della moglie, fu poi assolto.
Il record della Southern California fu frantumato ai Giochi di Città del Messico prima dalla Giamaica (38,3″, con Miller in squadra), poi dal formidabile quartetto statunitense composto da Charlie Greene, Melvis Pender, Ronnie Ray Smith e Jim Hines. Gli Stati Uniti ottennero 38,2″ (38,24″ il tempo centesimale) davanti a Cuba e alla Francia (che stabilì il record europeo con 38,43″). Ancora settima l'Italia che con Ottolina, Preatoni, Angelo Sguazzero e Berruti portò il record nazionale a 39,2″ (39,22″ il tempo centesimale), peraltro già ottenuto in semifinale con Ippolito Giani al posto di Sguazzero. Il record mondiale venne battuto quattro anni dopo a Monaco dalla squadra statunitense: 38,2″, che al cronometraggio automatico erano 38,19″. L'Italia, che agli Europei di Helsinki 1971 era finita terza presentando in formazione il diciannovenne Mennea, concluse all'ottavo posto.
Bisognerà aspettare la prima edizione dei Mondiali, quelli del 1983 a Helsinki, per vedere infrangere il muro dei 38″. In Finlandia il quartetto americano, composto da Eammon King, Willie Gault, Calvin Smith e dall'allora ventiduenne Carl Lewis, vinse in 37,86″. Al secondo posto una straordinaria Italia (Stefano Tilli, Carlo Simionato, Pierfrancesco Pavoni e Pietro Mennea), che portò il record nazionale a 38,37″. Il record realizzato dagli Stati Uniti a Helsinki fu migliorato (37,83″) già ai Giochi di Los Angeles dell'anno dopo da un quartetto in cui erano rimasti solo Smith e Lewis (King e Gault furono sostituiti da Sam Graddy e Ron Brown). L'Italia non seppe ripetere la buona prova di Helsinki, ma la squadra composta da Antonio Ullo, Giovanni Bongiorni, Tilli e Mennea ottenne un onorevole quarto posto con il tempo di 38,37″.
Ai Giochi di Seul 1988 gli Stati Uniti conobbero forse la più dolorosa umiliazione: non riuscirono neppure a raggiungere la finale. Furono squalificati in batteria quando la riserva Lee McNeill, schierata per tutelare la freschezza atletica dei titolari in funzione della finale, sbagliò il cambio con Calvin Smith. L'oro olimpico andò ai sovietici (38,19″), l'Italia fu quinta con Ezio Madonia, Sandro Floris, Pierfrancesco Pavoni e Tilli nel tempo di 38,54″. Per gli Stati Uniti fu un campanello d'allarme: negli anni Novanta vi furono altri clamorosi insuccessi. Intanto agli Europei di Spalato del 1990 un quartetto francese composto da Max Morinière, Daniel Sangouma, Jean-Charles Troubal e Bruno Marie-Rose stabilì con 37,79″ il nuovo record del mondo, con l'Italia al terzo posto. Ma gli americani fecero presto a tornare in vetta: ci riuscirono prima con il quartetto del Santa Monica (Michael Marsh, Leroy Burrell, Floyd Heard, Carl Lewis), che l'anno dopo l'impresa francese, a Monte Carlo, eguagliò il primato e pochi giorni dopo, a Zurigo, con la squadra nazionale (stesso organico del Santa Monica con Dennis Mitchell al posto di Heard), che portò il record a 37,67″. Ai Mondiali di Tokyo del 1991, Andre Cason prese il posto di Marsh e gli americani portarono il primato a 37,50″. L'Italia fu quinta. Lo stesso quartetto statunitense l'anno dopo trionfò ai Giochi Olimpici di Barcellona correndo in 37,40″. In Catalogna Carl Lewis, solo sesto nei 100 m ai Trials, era una riserva. Fu schierato in finale dopo che Mark Witherspoon, suo compagno al Santa Monica, si era infortunato gravemente nelle semifinali dei 100 m. L'anno dopo gli Stati Uniti eguagliarono il primato di 37″40 vincendo ai Mondiali di Stoccarda con un quartetto privo di Lewis (Jonathan Drummond, Cason, Mitchell, Burrell). Poi per gli americani arrivarono dure sconfitte: ai Mondiali di Göteborg 1995 gli statunitensi sbagliarono di nuovo in batteria e furono squalificati. Vinse il quartetto canadese (con il tempo di 38,31″), mentre l'Italia vinse sorprendentemente la medaglia di bronzo con Giovanni Puggioni, Ezio Madonia, Angelo Cipolloni e Sandro Floris.
Era il momento del Canada, che ad Atlanta 1996 inflisse agli Stati Uniti la prima autentica sconfitta nella storia olimpica con Robert Esmie, Glenroy Gilbert, Bruny Surin e il campione olimpico dei 100 m Donovan Bailey (37,69″ contro 38,05″). Nei giorni prima della corsa si era a lungo discusso soprattutto sull'opportunità o meno di dare la possibilità a Carl Lewis, già vincitore della gara di salto in lungo e alla sua ultima olimpiade, di vincere la decima medaglia d'oro della sua carriera con la staffetta. Alla fine non corse e il Canada in 37,39″ superò il quartetto statunitense (38,05″). Il Canada, ormai lanciatissimo, vinse l'oro anche ai Mondiali di Atene del 1997, con gli americani squalificati ancora una volta in batteria per l'errore compiuto da Brian Lewis e dal giovanissimo Tim Montgomery.
Lasciatisi alle spalle il periodo nero, gli Stati Uniti vinsero poi ai Mondiali del 1999, del 2001 e del 2003, ma soprattutto ai Giochi Olimpici di Sydney 2000 con il quartetto guidato da Maurice Greene. L'Italia fu finalista e finì al settimo posto con il gruppo formato da Francesco Scuderi, Alessandro Cavallaro, Maurizio Checcucci e Andrea Colombo (il tempo fu di 38,67″).
La 4x200 m uomini. La staffetta 4x200 m, come peraltro accade per quelle del mezzofondo, si corre ormai raramente. A tutto il 2003 il primato della 4x200 m era ancora saldamente in mano a una formazione di club, sia pure un po' particolare trattandosi del prestigioso Santa Monica. Con Lewis schierato in ultima frazione, Marsh, Burrell e Heard corsero, il 17 aprile 1994 a Walnut, in 1′18,68″ (il Santa Monica era stata la prima squadra, nel 1989, a superare il muro dell'1′20″), quindi con una media per frazione inferiore ai 19,7″ (i parziali furono: Marsh 20″, Burrell 19,6″, Heard 19,7″, Lewis 19,4″). Nella storia della specialità furono spesso squadre di college statunitensi a migliorare il primato che, in ogni caso, fu quasi sempre appannaggio di atleti americani. Solo una volta, a parte l'iniziale record ufficiale che gli svedesi dell'AIK Stockholm ottennero nel 1908, il mondiale fu nelle mani di un'altra nazione: il 21 luglio 1972 a Barletta, un quartetto nazionale italiano, con Franco Ossola, Luigi Benedetti, Pasqualino Abeti e Pietro Mennea, migliorò con 1′21,5″ il primato della Texas University (1′21,7″ ottenuto però sulla distanza in yards). L'Italia, che ebbe sempre ottimi duecentometristi, a tutto il 2003 deteneva ancora il primato europeo della specialità: il 29 settembre 1983 Stefano Tilli, Carlo Simionato, Giovanni Bongiorni e Pietro Mennea corsero a Cagliari in 1′21,10″.
La 4x100 m donne. In campo femminile il primo risultato di cui si ha conoscenza fu un modesto 62″1/5 ottenuto da quattro ragazze finlandesi del Maaria Pyrkiva a Turku nel 1905. Ma dall'anno dopo, altre squadre di club finlandesi fecero rapidamente progredire il primato portandolo al 55,6″ ottenuto dalle atlete del Turun Urheiluliitto nel 1915. Il primo record al di sotto dei 50″ fu quello di 49,8″ realizzato il 29 agosto 1926, a Göteborg, da una squadra nazionale britannica. Un tempo che venne spazzato via in occasione dell'esordio olimpico della staffetta 4x100 m donne, ad Amsterdam 1928. Vinsero le canadesi in 48,4″ davanti agli Stati Uniti. Al sesto posto finì un quartetto di giovani azzurre (Luisa Bonfanti, Matilde Moraschi, Derna Palazzo, Vittorina Vivenza), che concluse la gara con un modesto 53,6″. In Italia il primo record (57″) fu realizzato nel 1923 dalla Pro Patria et Libertate di Busto Arsizio.
A Los Angeles 1932 vinse con il nuovo record di 46,9″ il quartetto americano. Il primato fu migliorato quattro anni dopo, a Berlino 1936, dalla Germania, che in semifinale corse in 46,4″: questo tempo rimase imbattuto per 16 anni. In finale però le tedesche sbagliarono l'ultimo cambio e gli Stati Uniti ebbero via libera, vincendo in 46,9″. Nel quartetto americano c'era anche Elizabeth Robinson, prima campionessa olimpica dell'atletica femminile. L'Italia di Lydia Bongiovanni, Ondina Valla, Fernanda Bullano, Claudia Testoni fu quarta con il tempo di 48,7″. In semifinale questa squadra aveva corso in 48,6″, abbassando di un secondo netto il primato nazionale. Bisognerà aspettare Helsinki 1952 per vedere un miglioramento del record del 1936 e l'abbattimento del limite dei 46″. Questa impresa riuscì sia agli Stati Uniti, che vinsero la medaglia d'oro con il tempo di 45,9″, sia alle tedesche, seconde con lo stesso risultato. In batteria era stata l'Australia a correre per prima, con 46,1″, sotto l'ormai antico primato. Le australiane erano anche le favorite della finale e all'ultimo cambio erano in testa di un metro, ma il testimone, già in mano a Marjorie Jackson (che aveva vinto le gare sui 100 e 200 m), urtò il ginocchio della compagna Winsome Cripps con cui stava cambiando e cadde a terra. Jackson lo raccolse ma la rimonta era ormai impossibile e l'Australia finì quinta in 46,6″. Le australiane si rifecero in casa, a Melbourne, nel 1956: il formidabile quartetto composto da Shirley Strickland, Norma Croker, Fleur Mellor e Betty Cuthbert portò il primato mondiale a 44,5″; già in batteria tra l'altro avevano superato il muro dei 45″ con un tempo di 44,9″ che cancellava la prestazione di 45,2″ realizzata dall'URSS in quello stesso anno a Kiev. Sotto il record andarono anche la Gran Bretagna (44,7″) e gli Stati Uniti (44,9″). L'Italia, con Maria Musso, Letizia Bertoni, Milena Greppi e Giuseppina Leone, concluse al quinto posto.
Bisognerà aspettare Roma 1960 per vedere un quartetto far meglio dell'Australia: all'Olimpico gli Stati Uniti, che erano rappresentati da quattro atlete dell'Università del Tennessee, vinsero, grazie alla rimonta finale di Wilma Rudolph, in 44,5″, ma in semifinale avevano già corso in 44,4″. L'Italia con Bertoni, Sandra Valenti, Piera Tizzoni e Leone finì ancora una volta quinta in 45,6″, nuovo record nazionale. L'anno dopo le statunitensi infransero la barriera dei 44″ correndo in 43,9″ a Mosca, nell'incontro tra USA e URSS. Nel 1968 in Messico il primato mondiale della 4x100 fu superato prima dall'URSS che in una riunione preolimpica lo portò a 43,6″, poi dagli Stati Uniti che, imitati poco dopo dall'Olanda, lo abbassarono a 43,4″; quindi il quartetto statunitense composto da Barbara Ferrell, Margaret Bailes, Mildrette Netter e Wyoma Tyus si aggiudicò la medaglia d'oro in finale con il tempo di 42,8″, registrato poi in 42,88″ come primo primato in automatico.
Con la vittoria agli Europei del 1969 aveva cominciato a emergere in modo prepotente la Repubblica Democratica Tedesca, che non aveva solo grandi velociste ma lavorava sui cambi in modo insistente e metodico come peraltro faceva l'URSS. Le tedesche dell'Est dovettero però fare i conti ancora con la Germania Federale che vinse gli Europei del 1971, ma soprattutto trionfò alle Olimpiadi di Monaco 1972. L'eroina di quella staffetta fu Heide-Marie Rosendahl, che aveva già vinto la medaglia d'oro nel salto in lungo e quella d'argento nel pentathlon. Rosendahl ricevette in ultima frazione il testimone, portato nell'ordine da Christiane Krause Ingrid Mickler e Annegret Richter, con un metro di vantaggio. Ma al suo inseguimento c'era Renate Stecher, la tedesca dell'Est che aveva già vinto le medaglie d'oro dei 100 e dei 200 m. Rosendahl non fu ripresa e vinse tra l'entusiasmo del pubblico di casa. La Germania Federale chiuse in 42,81″, nuovo primato del mondo. Ma quattro anni dopo a Montreal ci fu la rivincita delle tedesche dell'Est, che intanto avevano portato il record prima a 42,51″ (vincendo gli Europei di Roma nel 1974) e poi, nello stesso 1976, a 42,50″. A Montreal Marlies Oelsner, Renate Stecher, Carla Bodendorf, Bärbel Eckert corsero in 42,55″, staccando la Germania federale di soli 9 centesimi.
La Repubblica Democratica Tedesca vinse anche le Olimpiadi 'dimezzate' di Mosca 1980. Romy Müller, Bärbel Eckert, Ingrid Auerswald e Marlies Oelsner portarono il record a 41,60″, nonostante cambi mediocri. Quindici giorni prima le tedesche avevano infranto a Potsdam con 41,85″ il muro dei 42″. La Germania Est fu nuovamente prima ai Mondiali del 1983 e in quell'anno portò il record a 41,53″; due anni dopo, in Coppa del Mondo a Canberra, lo fissò invece, con Silke Gladisch, Sabine Rieger, Ingrid Auerswald e Marlies Oelsner-Göhr, a 41,37″. Assente a Los Angeles, dove trionfarono le americane, prima della riunificazione fu seconda ai Mondiali di Roma 1987 (primi gli Stati Uniti in 41,58″) e seconda ai Giochi Olimpici di Seul 1988 (primi ancora gli Stati Uniti).
Negli anni Novanta emersero nuove nazioni, soprattutto Giamaica, Nigeria e Bahamas. La Giamaica con la veterana Merlene Ottey trionfò ai Mondiali di Tokyo 1991 (settima l'Italia), ma fu superata a Barcellona 1992 a causa di un infortunio in finale di Betty Cuthbert. Gli Stati Uniti (Evelyn Ashford, Esther Jones, Carlette Guidry, Gwen Torrence) ebbero via libera. Per Ashford era la quarta presenza olimpica: dopo il settimo posto di Montreal aveva contribuito alla conquista delle medaglie d'oro di Los Angeles, Seul e Barcellona. Quattro anni dopo ad Atlanta gli Stati Uniti vinsero ancora con Chryste Gaines, Gail Devers, Inger Miller, Gwen Torrence, battendo Bahamas e Giamaica. Ma il quartetto delle Bahamas, con Savathe Fynes, Chandra Sturrup, Paulin Davis-Thompson e Debbie Ferguson, quattro atlete che studiavano negli Stati Uniti in quattro differenti università, vinse i Mondiali di Siviglia del 1999 (41,92″ il tempo), lasciando la squadra statunitense, priva di Marion Jones, al quarto posto; e poi si aggiudicò addirittura l'oro olimpico di Sydney (41,95″ il tempo della gara), davanti a giamaicane e americane (che dal 1984 avevano sempre conquistato l'oro). La presenza di Jones non impedì la vittoria, favorita peraltro da un cambio sbagliato della squadra statunitense, da parte delle atlete caraibiche, che avevano preparato la gara alla meglio quando si incontravano nei vari meeting europei.
Gli Stati Uniti si presero una parziale rivincita (le Bahamas decisero di non correre) ai Mondiali di Edmonton 2001 vincendo in 41,71″. In squadra oltre a Jones c'era anche Inge Miller, figlia del velocista Lennox Miller, il giamaicano argento sui 100 m a Città del Messico. Inge Miller prima di Edmonton con la staffetta aveva già vinto la medaglia d'oro ad Atlanta 1996 e il titolo mondiale ad Atene 1997. La formazione degli Stati Uniti fu meno fortunata ai Mondiali di Parigi del 2003: priva di Jones, diventata mamma in giugno, in finale dovette fare a meno anche di Kelly White, neocampionessa del mondo dei 100 e 200 m, trovata positiva all'uso di uno stimolante peraltro non inserito nella lista dei prodotti proibiti. In ultima frazione Torry Edwards, medaglia d'argento sui 100 m, non mantenne il vantaggio sulla bravissima francese Christine Arron. Le padrone di casa vinsero in 41,78″ contro il 41,82″ delle americane.
La 4x200 m donne. A differenza di quanto accaduto tra gli uomini, la 4x200 femminile fu soprattutto dominio di squadre nazionali britanniche e sovietiche e poi della Germania Est. Ma il 29 aprile 2000, a Filadelfia, gli Stati Uniti onorarono la tradizione del Penn Relay Carnival, stabilendo con un quartetto guidato da Marion Jones un primato mondiale (1′27,46″) che cancellava dopo vent'anni il record di 1′28,15″ ottenuto a Jena dalla DDR di Marlies Oelsner Göhr, Romy Müller, Bärbel Eckert e Marita Koch.
La 4x400 m. La staffetta 4x400 m, figlia della 4x440 yards nacque, alla fine del 19° secolo, sul celebre Franklin Field di Filadelfia. Fu introdotta ai Giochi Olimpici nel 1912 e solo nel 1972 per il settore femminile. Rispetto alla 4x100 m, l'abilità nel cambio riveste un'importanza minore ma può comunque pesare sulla frazione e sull'esito finale. Anche nella 4x400 m è importante inserire con una logica gli atleti nelle varie frazioni, la prima delle quali si corre tutta in corsia. Anche il secondo frazionista deve restare in corsia per percorrere la prima curva e poi rientrare alla corda. Il primo atleta corre la frazione più corta, di 390 m, il secondo quella più lunga di 410 m. Di solito l'atleta più forte viene schierato nella frazione conclusiva. Spesso nelle staffette del miglio vengono anche schierati specialisti degli 800 m: sono atleti abituati al contatto fisico, che sia nei cambi (escluso il primo) sia nella corsa alla corda è spesso duro e richiede scaltrezza e un po' di cattiveria. Il cambio non avviene alla cieca come nella 4x100 m, ma gli atleti del secondo e terzo cambio si piazzano sulla linea di inizio zona (che è lunga 20 m e non prevede una prezona), nella direzione di corsa del compagno che sta arrivando. Si allunga il braccio sinistro guardando il compagno e si agguanta già in movimento il testimone dalla mano destra di chi sta arrivando. Poi, con azione sempre un po' rischiosa, si trasferisce il testimone nell'altra mano.
La 4x400 m uomini. Il primo record ufficiale sulla 4x440 yards, che a fine secolo veniva disputata soprattutto in America in ambito universitario, fu il tempo di 3′18,20″ realizzato dal quartetto americano dell'Irish American Athletic Club nel 1911. La star di quella squadra era Melvin Sheppard, primatista del mondo degli 800 m. Il tempo fu subito migliorato in occasione del debutto della staffetta in ambito olimpico, a Stoccolma nel 1912. Il quartetto americano corse in 3′16,6″. Otto anni dopo ad Anversa 1920 il record resistette all'assalto degli inglesi che vinsero in 3′22″, con gli Stati Uniti solo quarti. Quella di Anversa fu la prima delle tre sole sconfitte subite sul campo dagli atleti in occasione delle Olimpiadi. Persero anche nel 1936 a Berlino, ancora a opera degli inglesi, e nel 1952 a Helsinki, travolti dal formidabile quartetto giamaicano. Nel 1972 a Monaco vinse il Kenya, ma gli americani non corsero la gara. Ovviamente non furono presenti per il boicottaggio neppure nel 1980 a Mosca, quando il titolo andò all'URSS.
A Parigi nel 1924 gli americani vinsero portando il primato del mondo a 3′16″. Sesto finì un quartetto italiano (Guido Cominotto, Alfredo Gargiullo, Ennio Maffiolini, Luigi Facelli). In Italia il primo titolo italiano a staffetta era stato assegnato nel 1907 a piazza di Siena, a Roma. Si corse una gara di 4x1 giro (la distanza totale fu 1481,20 m) e vinse l'Audace di Torino in 3′28″. La prima gara di 4x400 m si corse in realtà sulla distanza in yards nel 1910 a Milano e vide trionfare in 3′43″ il quartetto del Torino Athletic Club.
Il primato mondiale cadde nuovamente in occasione dei Giochi di Amsterdam con il 3′14,2″ ottenuto ancora dal quartetto statunitense. Ma il primo risultato di un consistente valore tecnico fu il 3′08,2″ con cui gli americani Ivan Fuqua, Edgar Ablowich, Karl Warner e William Carr cancellarono, vincendo l'oro ai Giochi di Los Angeles, il tempo di 3′11,8″ che essi stessi avevano ottenuto in batteria. Il nuovo primato sarebbe rimasto imbattuto per venti anni. In quell'occasione tra l'altro gli Stati Uniti non avevano neppure schierato Ben Eastman, probabilmente il secondo miglior atleta al mondo della specialità. Gli inglesi finirono a tre secondi, l'Italia, che era guidata da Luigi Facelli e schierava anche Giacomo Carlini, Giovanni Turba e Mario De Negri, fu sesta con il nuovo primato nazionale di 3′17,8″.
Quattro anni dopo, a Berlino, gli americani decisero di non schierare Archie Williams e James LuValle, gli atleti giunti rispettivamente primo e terzo nella gara individuale, e furono puniti severamente dal quartetto britannico, che vinse in 3′09″, contro il tempo di 3′11″ degli statunitensi. Nella staffetta tedesca, finita terza, fece la sua unica apparizione olimpica Rudolf Harbig, che sarebbe diventato da lì a poco uno dei più grandi specialisti di sempre sui 400 e sugli 800 m. Morirà in guerra nel 1944.
Nel dopoguerra, a Londra 1948, con il record ancora fermo sui 3′08,2″ di Los Angeles (nel 1941 le squadre dell'Università di Berkeley e quella della Southern California avevano entrambe ottenuto sulla 4x440 yards 3′09,4″, equivalente a 3′08,3″ sulla distanza metrica), gli Stati Uniti non sembravano favoriti contro i forti atleti giamaicani (Arthur Wint era finito primo nella prova individuale davanti al connazionale McKenley), ma durante la terza frazione Wint si accasciò dolorante sul prato per un infortunio muscolare.
Nel 1952 a Helsinki non ci fu però nulla da fare né per gli americani né per il record del mondo: Arthur Wint, Leslie Laing, Herbert McKenley e George Rhoden vinsero e, motivati anche dalla tenacia del quartetto americano (giunto poi secondo in 3′04″), portarono il primato a 3′03,9″, un tempo che allora sembrava impossibile. Herbert McKenley baciò sul podio quella che fu l'unica medaglia d'oro di una splendida carriera: la differenza l'aveva fatta proprio lui correndo una frazione da 44,6″. In seguito il dominio giamaicano in questa specialità si ridimensionò e gli Stati Uniti vinsero senza problemi a Melbourne 1956 e poi a Roma 1960, dove il quartetto composto da Jack Yerman, Earl Young, Glenn Davis e Otis Davis, seriamente impegnato dai tedeschi, vinse in 3′02,2″, togliendo alla Giamaica il record di Helsinki. La Germania, con 3′02,7″ ottenne il primato europeo. L'Italia, che era arrivata seconda agli Europei del 1950, a Roma sfiorò soltanto la finale, ma con il tempo di 3′07,7″ migliorò nettamente il record nazionale. Sia il primato mondiale degli Stati Uniti sia quello europeo della Germania durarono un quadriennio olimpico. Furono cancellati a Tokyo 1964 rispettivamente dal nuovo quartetto americano (Ollan Cassell, Mike Larrabee, Ulis Williams, Henry Carr), che vinse in 3′00,7″ e da quello inglese (3′01,6″).
Intanto erano maturati i tempi per la prima prestazione della storia inferiore ai 3′ di tempo. Arrivò in modo inatteso, al di fuori di una grande manifestazione internazionale: il 24 luglio 1966 si disputò al Coliseum di Los Angeles il match Stati Uniti-Commonwealth e un quartetto americano formato da Robert Frey, Lee Evans, Tommie Smith e Theron Lewis corse, praticamente senza avversari (l'Australia infatti arrivò dopo 14″), in 2′59,6″. La frazione di Evans fu cronometrata in 44,5″, quella di Tommie Smith addirittura in 43,8″.
In Messico, nelle Olimpiadi del 1968, gli americani in finale vinsero, favoriti anche dall'altitudine, in 2′56,2″ (2′56,16″ in automatico), un tempo che venne solo eguagliato ben vent'anni dopo e superato addirittura dopo ventiquattro. Il quartetto che fece storia era formato da Vincent Matthews (45″ il suo tempo in frazione), Ronald Freeman (43,2″), Lawrence James (43,8″) e Lee Evans (44,1″). Il Kenya, giunto secondo in quella splendida gara, impiegò 2′59,6″, la Germania e la Polonia (finite nell'ordine) stabilirono il nuovo primato europeo di 3′00,5″. L'Italia con Sergio Ottolina, Giacomo Puosi, Furio Fusi e Sergio Bello fu settima, portando il primato nazionale a 3′04,6″.
A Monaco 1972 gli americani erano nuovamente i favoriti ma non riuscirono a mettere in campo il loro quartetto. Vincent Matthews e Wayne Collett furono squalificati dal CIO per il loro atteggiamento provocatorio sul podio durante la premiazione dei 400 m (erano finiti rispettivamente primo e secondo). E poiché John Smith si era infortunato, gli USA non furono in grado di schierare la squadra. Il più addolorato fu Lee Evans che sperava di chiudere la sua carriera con una nuova medaglia d'oro. Vinse il Kenya, che riuscì a correre sotto i 3′ (2′59,83″). Gli africani non poterono però difendere il titolo, a causa del boicottaggio, quattro anni dopo a Montreal. Gli americani ebbero via libera e dominarono con il tempo di 2′58,65″, il migliore a livello del mare. Il boicottaggio del 1980 tolse dalla competizione della 4x400 m i quartetti degli Stati Uniti, del Kenya e della Germania federale. Ne seppe approfittare l'Italia che per la prima volta salì sul podio olimpico dietro a Unione Sovietica e Repubblica Democratica Tedesca. Il quartetto azzurro, composto da due lombardi, Stefano Malinverni e Mauro Zuliani, un romano, Roberto Tozzi, e dal pugliese Pietro Mennea (la sua frazione fu di 45,2″), si aggiudicò la medaglia di bronzo, con il tempo di 3′04,3″, superando la Francia. In batteria l'Italia aveva corso in 3′03,5″, nuovo record nazionale. Questo tempo fu abbassato l'anno dopo a Zagabria, nella finale della Coppa Europa: Stefano Malinverni, Alfonso Di Guida, Roberto Ribaud e Mauro Zuliani (44,8″ il tempo in frazione di quest'ultimo) vinsero correndo in 3′01,42″.
Gli americani subirono una brutta umiliazione ai Mondiali del 1983 a Helsinki, dove vinsero ancora i sovietici e gli Stati Uniti finirono sesti, dietro agli azzurri; non fallirono però a Los Angeles, nel 1984, dove Sunder Nix, Ray Armstead, Alonzo Babers e Antonio McKay conquistarono l'oro in 2′57,91″. Altri tre quartetti (la Gran Bretagna che conquistò il record europeo con il tempo di 2′59″13, la Nigeria e l'Australia) scesero in quella circostanza sotto i 3′. Gli italiani (Roberto Tozzi, Ernesto Nocco, Roberto Ribaud e Pietro Mennea) conseguirono un quinto posto più che onorevole nel tempo di 3′01,44″. Gli Stati Uniti non fallirono neppure a Seul 1988, dove Dennis Everett, Steve Lewis, Kevin Robinzine e Butch Reynolds eguagliarono con 2′56,16″ lo storico primato di Città del Messico. Tornò a farsi onore la Giamaica, che arrivò seconda. Per cancellare definitivamente il primato messicano bisognò aspettare il nuovo appuntamento olimpico, quello di Barcellona 1992. Gli Stati Uniti schierarono Andrew Valmon, Quincy Watts, Michael Johnson e Steve Lewis. Gli ultimi tre avevano primati personali sotto i 44″ e quindi il nuovo record di 2′55,74″, conseguito con quasi quattro secondi di vantaggio sui cubani, era nelle previsioni della vigilia. L'anno prima, ai Mondiali di Tokyo, gli americani avevano subito una bruciante sconfitta da parte del quartetto britannico che con 2′57,53″ aveva stabilito il record europeo e sconfitto la quotata squadra statunitense per appena 4 centesimi. A Barcellona gli inglesi furono terzi. Gli americani realizzarono un vero capolavoro tecnico ai Mondiali del 1993 a Stoccarda, quando Valmon (44,43″ il suo tempo in frazione), Watts (43,59″), Reynolds (43,23″) e Michael Johnson (42,94″) portarono il record mondiale a 2′54,29″.
Nel 1996, ad Atlanta, gli inglesi tentarono di approfittare delle assenze, in campo statunitense, degli infortunati Michael Johnson e Butch Reynolds. Ma Lamont Smith, Alvin Harrison, Derek Mills e Anthuan Maybank si superarono, correndo in 2′55,99″. Agli inglesi non bastò migliorarsi ancora ottenendo il tempo di 2′56,60″. Nonostante il ritorno della Giamaica e la crescita di nazioni come Bahamas, Nigeria e di una sorprendente Polonia, gli Stati Uniti non sbagliarono più un colpo. Dopo quelli del 1995 vinsero i Mondiali di Atene 1997, in quella che fu una delle più entusiasmanti gare di sempre. Gli americani senza Johnson schierarono Jerome Young, Antonio Pettigrew (43,1″ in frazione), Chris Jones e Tyree Washington. I quattro, nel tempo di 2′56,47″ prevalsero di pochissimo sulla Gran Bretagna (2′56,65″) e sulla Giamaica (2′56,75″).
Nella cronologia del record del mondo, a parte il 3′18,2″ di partenza, solo in due occasioni un primato era stato migliorato al di fuori di una Olimpiade o di un Mondiale (Stoccarda 1993). Ma nel 1998 si svolsero a New York i Goodwill Games e gli americani presero la manifestazione sul serio, tanto che nella 4x400 m schierarono un quartetto molto competitivo. Tutti corsero al meglio: Young impiegò nella sua frazione 44,3″, Pettigrew 43,2″, Washington 43,5″ e Johnson 43,2″, per un totale di 2′54,20″, nove centesimi in meno rispetto alla squadra di Stoccarda 1993 della quale, tra i quattro neoprimatisti, faceva parte solo Michael Johnson. Poi per gli Stati Uniti arrivarono i successi ai Mondiali di Siviglia 1999 (2′56,45″), di Edmonton 2001 (2′57,54″) e di Parigi 2003 (2′58,88″), oltre all'oro olimpico di Sydney. Qui gli americani schierarono la coppia di gemelli Alvi e Calvin Harrison, oltre ai collaudati Pettigrew e Michael Johnson e vinsero con il tempo di 2′56,35″ superando la Nigeria (che corse in 2′58,68″, record africano), la Giamaica (2′58,78″) e il quartetto delle Bahamas (2′59,23″). La prima squadra europea fu la Francia, che si classificò soltanto al quinto posto.
La 4x400 m donne. La staffetta 4x400 m donne fu legata al tardivo riconoscimento ufficiale che ebbe la gara individuale nel programma delle donne, arrivato solo dal 1957. Il primo record della staffetta del miglio fu registrato solo a partire dal 1969, anno in cui la gara fu inserita nei Campionati Europei. Alle Olimpiadi la staffetta fece la sua apparizione dal 1972. Per quanto riguarda i periodi precedenti i dati sono scarni: come alternativa alla 4x400 m si corse per molti anni e fino al 1969 una staffetta femminile 3x800 m, che poi diventò la 4x800 m di cui ancora si riconosce il primato mondiale ufficiale. Un primo record ufficioso della 4x400 risale al 1954, ed è il tempo di 4′09,6″ che ottenne sulla distanza in yards un quartetto inglese, lo Spartan Ladies. Nel 1958 una squadra nazionale inglese corse in 3′49,9″ sempre nella 4x400 yards. Undici anni più tardi fu il 3′47,4″ del Club di Mosca a essere registrato come primo record del mondo dalla IAAF: era il 30 maggio 1969. Nel corso di quello stesso anno quel tempo venne migliorato sei volte, fino al 3′30,8″ ottenuto, il 20 settembre, dalla Gran Bretagna e dalla Francia nella finale degli Europei di Atene. Le inglesi vinsero grazie all'ultima frazione di Lillian Board che stavolta non si fece battere, come era invece avvenuto nella gara individuale a Città del Messico, dalla francese Colette Besson.
Dal 1971 entrarono in scena le specialiste della Repubblica Democratica Tedesca, che monopolizzarono il primato del mondo portandolo dal tempo di 3′29,3″, ottenuto vincendo gli Europei di Helsinki, a quello di 3′15,92″, realizzato a Erfurt nel giugno del 1984. Fu un quartetto della Germania orientale a vincere l'oro olimpico a Monaco (con il tempo di 3′23″) davanti agli Stati Uniti e alla Germania Federale e poi quello di Montreal 1976 con il primo tempo inferiore a 3′20″: 3′19,23″, con una media individuale inferiore ai 50″. Le americane furono distanziate di una trentina di metri.
Poi la Repubblica Democratica Tedesca, nonostante la presenza in squadra di Marita Koch, la miglior quattrocentista della storia, subì in alcune occasioni la solidità del quartetto sovietico, che vinse a Mosca 1980 (3′ 20,2″ contro 3′20,4″). In ultima frazione Koch rimontò a Olga Nazarova solo 9 dei 10 m di svantaggio con cui aveva ricevuto il testimone dalle compagne. A Los Angeles 1984, assenti per boicottaggio DDR e URSS, le americane non ebbero problemi e conclusero in 3′18,29″. Ma intanto era già arrivato il record di 3′15,92″ che la DDR aveva realizzato in giugno, un risultato a cui Koch aveva contribuito con una eccellente frazione individuale percorsa in 47,8″.
La DDR vinse anche le prime due edizioni dei Mondiali, quella di Helsinki 1983 e quella di Roma 1987 (Koch era già uscita di scena). A Helsinki la DDR dovette superare la temibile Cecoslovacchia, che in ultima frazione schierò Jarmila Kratochvilova, già vincitrice dei 400 m (con il tempo di 47,99″) e degli 800 m. Kratochvilova fece una grande frazione, che però non bastò per far vincere la sua squadra, così come l'anno prima, agli Europei di Atene, il suo ottimo tempo in frazione (47,6″) non era stato sufficiente a completare la rimonta su Koch. Dopo il ritiro di quest'ultima le sovietiche riuscirono a vincere sia ai Giochi di Seul sia a quelli di Barcellona, in entrambe le occasioni superando la strenua resistenza delle americane. A Seul l'URSS dovette correre in 3′15,17″, sotto il record del mondo, per avere la meglio sugli Stati Uniti. Nazarova e Olga Bryzgina (terza e prima nella prova individuale) impiegarono rispettivamente, nelle loro frazioni, 47,82″ e 47,80″. Bryzgina resistette a Florence Griffith che 40 minuti prima aveva vinto, con la 4x100 m, il suo terzo oro olimpico. L'americana corse la sua frazione in 48,08″ e le statunitensi, con il tempo di 3′15,51″, andarono anch'esse sotto il vecchio primato.
Seconde dietro all'URSS ai Mondiali del 1991, le americane vinsero poi i Mondiali di Stoccarda 1993 e di Göteborg 1995, e le Olimpiadi di Atlanta 1996. Ai Mondiali di Atene 1997 si affermò la Germania Federale, che schierò anche due ex tedesche dell'Est, Anke Feller e Grit Breuer, quest'ultima coinvolta in precedenza, insieme a Krabbe, in un clamoroso caso di doping. Ai Mondiali del 1999 vinsero le russe (ma ormai i tempi al di sotto dei 3′20″ erano un ricordo). Le atlete degli Stati Uniti, che erano state seconde negli ultimi due Campionati Mondiali, non si fecero però scappare l'oro olimpico di Sydney 2000, impiegando 3′22,62″ (per la verità il peggior tempo di sempre in sede olimpica dopo il 3′23″ del 1976); schierarono anche Marion Jones che con una frazione da 49,40″ si guadagnò il terzo oro e la quinta medaglia in assoluto. Al secondo posto la Giamaica, che poi conquistò l'oro ai Mondiali di Edmonton 2001 approfittando anche di un errore delle americane a cui cadde il bastone. Ai Mondiali di Parigi 2003 gli Stati Uniti tornarono sul gradino più alto del podio con un quartetto molto affiatato che concluse nel tempo di 3′22,63″, superiore di appena un centesimo a quello, vincente, di Sydney.
L'Italia non ha mai avuto staffette di spessore internazionale: il miglior risultato è il quinto posto di Los Angeles 1984 (favorito anche dal boicottaggio dei paesi comunisti), ottenuto dalle atlete Patrizia Lombardo, Cosetta Campana, Marisa Masullo, Erica Rossi. Ai Mondiali il quartetto italiano ha conseguito l'ottavo posto sia nel 1997 sia nel 1999; in quest'ultimo anno in Coppa Europa, a Parigi, la squadra composta dalle azzurre Danielle Perpoli, Patrizia Spuri, Francesca Carbone e Virna De Angeli portò il record nazionale al discreto tempo di 3′26,69″.
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