atteggiamenti proposizionali
Locuz. di origine inglese (propositional attitudes) utilizzata nella filosofia analitica per indicare ciò che è espresso da asserzioni della forma «A crede (sa, pensa, desidera, spera, ecc.) che p», in cui p sta per un enunciato. La qualificazione proposizionale deriva dalla tesi che asserzioni di questo tipo esprimerebbero stati psicologici (credenza, desiderio, speranza, ecc.), verso ciò che Russell (che coniò la locuzione) e altri autori hanno chiamato proposizione, ossia il contenuto semantico di un enunciato (per es., lo stato di cose che piove, espresso dall’enunciato «piove»).
Le asserzioni di a. p. hanno suscitato l’interesse di logici e filosofi del linguaggio per il fatto che, come fu messo in evidenza dall’analisi logica del discorso indiretto compiuta da Frege in Über Sinn und Bedeutung (1892; trad. it. Senso e denotazione), in esse non vale il principio della sostitutività dell’identità o legge di Leibniz; le espressioni e gli enunciati in esse occorrenti non sono cioè intercambiabili salva veritate con espressioni coreferenziali e con enunciati equivalenti in valore di verità: per es., da «A crede che la stella del mattino sia un corpo illuminato dal Sole» non segue, nonostante l’identità «stella del mattino = stella della sera», che «A crede che la stella della sera sia un corpo illuminato dal Sole». Il fatto che il valore di verità di tali asserzioni non dipende da quelli degli enunciati componenti e che in esse vengano meno i principi della logica estensionale è stato attribuito al carattere connotativo o intensionale delle espressioni in esse occorrenti: una credenza può infatti riguardare un oggetto in quanto descritto in un modo ma non in un altro. Frege aveva risolto il problema mediante la nozione di denotazione indiretta: in un contesto di credenza (per es., «Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero circolari») l’enunciato subordinato non avrebbe come denotazione un valore di verità ma un senso o pensiero (denotazione indiretta) e sarebbe quindi sostituibile salva veritate solo con enunciati con la stessa denotazione indiretta, cioè con lo stesso senso abituale (in pratica con enunciati sinonimi). Benché la soluzione di Frege fosse stata ripresa da Church negli anni Cinquanta del sec. 20°, essa è apparsa per molti versi artificiosa. Vari autori (in particolare Hintikka e Richard Montague) hanno elaborato soluzioni basate su semantiche di tipo «intensionale», nelle quali il significato delle espressioni e le loro relazioni di identità sono precisati in termini di «mondi possibili», stati del mondo alternativi a quello attuale formalizzabili come insiemi di oggetti su cui si interpretano le costanti, i predicati e gli enunciati di un linguaggio (modello). In questo tipo di semantica, introdotta da Carnap in Meaning and necessity (1947; trad. it. Significato e necessità) come estensione della semantica tarskiana e sviluppata da Kripke per la semantica modale, l’intensione di un’espressione è definita come una funzione che le assegna una denotazione (estensione) in ciascun mondo possibile oltre che in quello reale, denotazione che può variare nei vari mondi. Nella logica epistemica di Hintikka (Knowledge and Belief, 1962; Semantics for propositional attitudes, 1969) un termine descrittivo o un enunciato possono avere denotazioni diverse in particolare nei mondi compatibili con le credenze di un soggetto A, cioè quelli selezionati dalle sue credenze; l’inferenza da «A crede che b è F» a «A crede che c è F» – dove b e c sono termini descrittivi coreferenziali – sarebbe pertanto illegittima qualora b e c avessero denotazioni diverse in qualche mondo compatibile con le credenze di A (cioè per A), il quale, per es., potrebbe credere che «l’autore della Metafisica» sia un filosofo greco (Aristotele), ma, erroneamente e in alternativa al mondo attuale, che «il maestro di Alessandro» sia un matematico egiziano, un individuo diverso da Aristotele (viceversa, l’inferenza è ammessa se i due termini hanno la stessa estensione in tutti i mondi compatibili con le credenze di A). Un orientamento diverso era stato seguito sin dai primi anni Cinquanta da Quine, per il quale vanno respinti i tentativi di risolvere i problemi logici delle asserzioni di a. p. mediante il ricorso a intensioni (concetti e proposizioni), richiedendo ciò una definizione di identità intensionale o sinonimia che, essendo circolare con quella di analiticità, sarebbe logicamente ed empiricamente impossibile. La proposta di Quine si basa su un’interpretazione delle asserzioni di a. p. come «contesti referenzialmente opachi» (comprensivi anche delle asserzioni modali di necessità e di possibilità) nei quali non sono legittime né la sostitutività di espressioni coreferenziali né la quantificazione, in quanto in esse le espressioni hanno un’occorrenza non referenziale (presentando analogie con i nomi e gli enunciati racchiusi tra virgolette).
Nel loro rinviare a un «contenuto» semantico-rappresentativo irriducibile all’ambito del discorso estensionale le asserzioni di a. p. sono state considerate, per es. da Chisholm, caratteristiche distintive e ineliminabili del linguaggio della psicologia e, come tali, esempi tipici, sul piano linguistico, del fenomeno dell’intenzionalità (➔) di cui aveva parlato Brentano. Da questo punto di vista tali asserzioni indicherebbero la specificità e irriducibilità del discorso psicologico rispetto a quello fisico. Nell’ambito della filosofia analitica della mente gli a. p. hanno ricevuto una particolare attenzione sul piano ontologico e su quello esplicativo. Gli a. p. (o stati intenzionali), in particolare quelli del desiderio e della credenza, rappresentano infatti gli stati mentali che forniscono ragioni per l’azione (comportamento finalizzato): generalmente, nel linguaggio comune l’azione viene considerata (secondo un modello già presente nell’Etica Nicomachea di Aristotele) come il mezzo che l’agente crede necessario per soddisfare un desiderio (scopo). Al proposito, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del sec. 20°, è sorto un vasto dibattito sulla questione se desideri e credenze possano essere considerati cause delle azioni, una tesi sostenuta già da Hume e J.S. Mill. Alla prospettiva anticausalista di Wittgenstein e dei filosofi wittgensteiniani si è opposto soprattutto D.H. Davidson, che ha avanzato influenti argomenti a favore del potere causale degli a. p., intesi come cause fisiche (eventi) del comportamento finalizzato (➔ azione, filosofia dell’). Per quanto riguarda il ruolo esplicativo degli a. p. rispetto al comportamento finalizzato, nella riflessione analitica sono stati individuati diversi modelli per l’attribuzione dei desideri e delle credenze a fondamento delle azioni, basati o su norme di razionalità o su regolarità comportamentali o su una simulazione dello stato mentale dell’agente (➔ interpretazione ed empatia).