Atteggiamento
Una prima approssimazione al significato del concetto proviene dai suoi usi più generici e meno specialistici. Taluni comportamenti animali, ad esempio, sono comunemente detti - e in modo non improprio - atteggiamenti: così, si parla nel linguaggio corrente di atteggiamento aggressivo oppure, a seconda dei casi, amichevole, o sottomesso, non solo nell'uomo ma anche in un cane o in un gatto. Nella specie umana è possibile - e sempre nel linguaggio comune - identificare, a seconda della mimica e della postura, atteggiamenti già più complessi come quello 'complice', oppure 'di sfida', o 'ambivalente', oppure 'seduttivo'. In questa prospettiva, gli atteggiamenti possono essere contingenti e perfino di brevissima durata; altre volte però essi si rivelano molto più stabili nel tempo, come ad esempio certi atteggiamenti di disponibilità amicale o di diffidenza pregiudiziale. Gli atteggiamenti di breve durata sono l'aspetto più esteriore di aspettative e di stati di preparazione all'azione. L'atteggiamento è infatti - in generale - un tipo particolare di stato disposizionale, o anche più potenzialmente (e meno precisamente) di stato intenzionale (v. Searle, 1983). Questo esiste 'socialmente' in quanto viene reso evidente all"esterno', cioè all'osservatore, a partire dalla mimica, o dalla postura, dall'azione corporea, o a partire da procedure comunicative di tipo dichiarativo.
Viceversa, 'all'interno', cioè per l'interessato, l'atteggiamento è uno stato psicofisiologico di cui il soggetto può essere reso o meno consapevole attraverso l'introspezione, o anche attraverso la mediazione di razionalizzazioni autodescrittive, o mediante l'uso di informazioni retroattive provenienti dall'ambiente esterno. L'atteggiamento non è necessariamente autoconsapevole nel soggetto umano che lo vive, così come non lo è verosimilmente mai nell'animale.In senso più tecnico, e cioè nell'ambito culturale specialistico che tipicamente gli compete, che è quello della psicologia sociale, il concetto di atteggiamento si differenzia dall'uso comune del termine in quanto viene sempre usato per designare una disposizione duratura nel tempo. Un atteggiamento è qui, ma ancora in una definizione semplificata, una tendenza, o una disposizione durevole, a reagire in modo favorevole o sfavorevole a un particolare oggetto o a una categoria di oggetti (v. Oskamp, 1977). Il termine atteggiamento indica dunque - più precisamente - la presenza di una disponibilità strutturata atta a facilitare una data classe di azioni (come ad esempio, nei casi più semplici, le azioni di attacco o di fuga); come tale esso si forma e si stabilizza in rapporto a valutazioni che il soggetto ha compiuto - autoconsapevolmente o meno - su aspetti del suo mondo di vita. Questa potenzialità è sì relativamente stabile, ma dipende anche sempre in qualche misura dai mutamenti storico-culturali o dalle forme interattive di un dato ambito interpersonale.
Essa non è dunque una potenzialità connaturata all'individuo (o a quell'individuo): in tal caso si parlerebbe infatti piuttosto di attitudine o di tratto della personalità. In termini ancor più pragmatici, dunque, l'atteggiamento è uno stato selettivo e duraturo, ma non di per sé indefinitamente permanente, di preparazione a una data categoria di azioni (e non quindi a un'azione data volta per volta) che, elaborato sulla base di esperienze precedenti, è tale da indurre il soggetto a reagire a una data categoria di stimoli e situazioni - in genere situazioni sociali - secondo schemi comportamentali che appaiono dotati di una propria descrivibile tipicità.
Non si può però non far riferimento fin da ora a qualche ambiguità di collocazione del concetto. Infatti, il ruolo scientifico-culturale spettante all'atteggiamento nella psicologia sociale moderna non è sempre chiaramente definito ed è talora controverso; ne è esempio il fatto che alcune trattazioni sistematiche moderne ignorano il tema e perfino il vocabolo. Le cause di questo fatto sono complesse. In primo luogo occorre menzionare qui talune significative sfasature semantiche fra una lingua e l'altra. Nella letteratura internazionale infatti, dominata dalla lingua inglese, il termine che corrisponde ad 'atteggiamento', cioè attitude, copre un'area semantica nettamente più vasta del termine italiano, comprendendo una parte importante del concetto di attitudine: ma soprattutto occorre sottolineare che nella concettualizzazione anglosassone, fortemente pragmatica, la separazione fra potenzialità e azione è molto meno netta che nella nostra cultura.
Così - per assumere un esempio che è di importanza centrale nella nostra tematica - il termine aggression significa sia 'aggressione' (cioè comportamento attivamente aggressivo) sia 'aggressività' (come disposizione): di conseguenza la definizione stessa di un'aggressività come stato d'animo e azione potenziale, cioè come atteggiamento, è priva in inglese di un lessico definito e perfino - in parte - di una concettualizzazione adeguata.
Ma il motivo principale del carattere controverso dello spazio da attribuire oggi al concetto di atteggiamento riguarda alcuni aspetti dell'evoluzione moderna generale della psicologia sociale, e in parte anche della sociologia. Tali aspetti consistono nel tentativo di rendere più rigorosamente scientifica l'indagine sul comportamento umano mediante una sua de-soggettivizzazione, e quindi mediante il ricorso molto esteso a concetti descrittivi 'oggettivi' come struttura e funzione, ruolo e azione. Di qui l'utilizzazione oggi prevalente di strumenti esplicativi di tipo strutturale-relazionale, anziché di tipo disposizionale-intenzionale. In questa prospettiva l'atteggiamento, come concetto ancorato sia a una potenzialità, sia a una soggettività o interiorità, si trova a perdere rilevanza a vantaggio di categorie più pragmaticamente comportamentali e sistemiche. Come osserva Luciano Gallino (v., 1978, p. 559), già Talcott Parsons ha trasformato quella che in Max Weber era una tipologia di atteggiamenti in una tipologia di relazioni di ruolo.
Il carattere di (relativa) strutturazione e stabilità nel tempo dell'atteggiamento è legato sia a fattori sociali, sia a fattori attitudinali. I fattori sociali che rendono coerente nel tempo l'atteggiamento sono rinforzi, che possono assumere l'aspetto della salienza (v. Taylor, 1981) soprattutto quando siano legati all'attenzione iterata verso messaggi che formalizzano il contenuto ideologico dell'atteggiamento (ad esempio slogan).
I fattori attitudinali che strutturano e stabilizzano l'atteggiamento, viceversa, sono connaturati alla personalità dell'individuo e derivano sia da fattori genetici sia da fattori educativi, questi ultimi relativi soprattutto alle esperienze precoci del bambino. I vari tipi di atteggiamento non vanno peraltro confusi con i tipi di personalità: ad esempio il problema dell'atteggiamento autoritario non coincide con quello della personalità autoritaria. Nel primo caso, infatti, si ritiene che l'atteggiamento sia dovuto soprattutto a fattori interpersonali o storico-sociali, che sono attivi nel periodo di osservazione (o nel periodo immediatamente precedente) e che contribuiscono a organizzare uno stile comportamentale strettamente legato alla situazione sociale e al suo oggetto definito. In pratica dunque, l'atteggiamento autoritario - in senso stretto - sarebbe incomprensibile se fosse considerato in astratto, cioè separato dal contesto sociale concreto in cui si trova il soggetto, o in cui egli si è trovato in tempi recenti: esso è sempre diretto a un oggetto particolare o a una ben definita classe di oggetti. In pratica, e anche per definizione, non esiste dunque mai un atteggiamento autoritario 'in generale' o 'in astratto' o 'senza oggetto definito'.
Al contrario, la personalità autoritaria è definita da uno stile comportamentale (e, in subordine, da una ideologia razionalizzante) tale da caratterizzare un dato individuo nel corso dell'intero arco della sua vita e tale quindi da presentarsi di volta in volta, reiteratamente, nelle situazioni sociali e con gli oggetti più diversi. Beninteso, si può precisare che - per mantenerci nell'esempio - atteggiamenti autoritari si manifestano più facilmente e con maggiore continuità in soggetti portatori di personalità autoritaria, e anche - ma già in modo meno netto - in numerosissimi soggetti che, pur senza essere così classificabili, sono comunque portatori di aspetti della personalità che in qualche modo facilitano l'assunzione di atteggiamenti autoritari strutturati. In altre parole, una tendenza generale ad assumere concreti atteggiamenti autoritari può essere identificabile, per motivi di personalità, in un numero assai grande di soggetti, e quindi in una popolazione molto più vasta rispetto a quella data dagli individui che siano suscettibili di venir propriamente designati ed etichettati come 'personalità autoritarie' per la presenza in loro di un autoritarismo (e anche di una particolare rigidità e di un tipico rispetto per l'autorità altrui) così spiccato da contraddistinguere in modo permanente tutto il loro stile comportamentale.Il rapporto generale fra atteggiamento e personalità diviene più stretto quando si prenda in considerazione non già l'atteggiamento singolo, ma la totalità degli atteggiamenti di una persona.
Questo insieme di atteggiamenti è - in genere - complesso, e può anche rivelarsi contraddittorio, benché tenda sempre a esser strutturato secondo interconnessioni dominate da legami di contiguità, continuità e - in parte - coerenza: esso può essere comunque sempre descritto come un sistema di atteggiamenti. Al suo interno è però talora possibile rintracciare sia sottosistemi o raggruppamenti (clusters) di atteggiamenti, sia, a volte, singoli atteggiamenti isolati, apparentemente non collegati agli altri. Ad esempio può accadere che un individuo mantenga per qualche motivo un atteggiamento fortemente tradizionalista su questioni di fede o sull'etica sessuale, ma progressista nei campi del gusto artistico o della vita politica e civile. Quando il sistema globale degli atteggiamenti venga considerato non solo nel suo aspetto sincronico, ma anche in quello diacronico, e soprattutto quando sia proiettato sull'intero arco di vita di un dato individuo, esso si trova in pratica a sovrapporsi largamente allo stile personale (di comportamento, reazioni affettive, opinioni, ecc.) tipico di quel soggetto umano attraverso lo scorrere dei decenni, e quindi tende a confondersi con la sua personalità.
La separazione concettuale fra atteggiamenti e personalità va però mantenuta anche qui, oltre che per i motivi già delineati, anche per altre considerazioni. Occorre infatti sottolineare che la personalità definisce ciò che differenzia psicologicamente un individuo dall'altro, e perciò coincide con l'identità psicologica del soggetto: in sostanza, quindi, la personalità viene colta e misurata dal modo in cui un dato individuo reagisce 'immediatamente' agli eventi ed elabora - ma elementarmente - i dati dell'esperienza. Viceversa, ciò che si designa come 'sistema degli atteggiamenti' si riferisce a comportamenti più strutturati, in quanto coglie un livello di elaborazione dei dati che è decisamente complesso. Gli atteggiamenti di una persona sono dunque un modo di porsi e di reagire ben più articolato, organizzato, mutevole e duttile di quanto non sia la sua personalità. Essi dipendono fortemente dall'influenza continuata - e variabile - di fattori sociali; la personalità è invece, per definizione, fortemente stabile durante l'arco di vita e scarsamente modificabile da fattori ambientali dopo la prima infanzia. Ma, soprattutto, nel sistema degli atteggiamenti è presente una categoria valutativa di sé e del reale che non appartiene affatto al concetto di personalità: essa è data dai valori che quell'individuo fa propri come principî stabili di riferimento, cioè come riferimenti qualitativi 'assoluti' o 'primari' (quali ad esempio l'onestà, o l'onore, oppure la solidarietà tra familiari, o l'autoaffermazione individualistica), più o meno chiaramente esplicitati.
I valori non sono propriamente credenze (v. sotto), quanto piuttosto principî etici 'taciti', fortemente connotati in senso emozionale, atti a organizzare le scelte fondamentali di vita, o - più propriamente - atti a strutturare costellazioni di atteggiamenti più elementari.Nella pratica può accadere che indagini particolari sulla personalità consentano progressi significativi nella conoscenza degli atteggiamenti, o che ricerche su taluni atteggiamenti si aprano allo studio della loro correlazione con tipi definiti di personalità. (Sono gli esempi più tipici di queste correlazioni la presenza di atteggiamenti dogmatici - ad esempio in campo etico o religioso - in soggetti con personalità rigida, o di atteggiamenti tolleranti in soggetti con personalità estroversa e sintonica). La ben nota ricerca su La personalità autoritaria, di Adorno e altri (v., 1950), costituisce una tappa storica nello studio sia degli atteggiamenti che della personalità.
L'atteggiamento è formalmente caratterizzato dalla presenza: a) di un soggetto, che tipicamente è un singolo individuo, piuttosto che un gruppo; b) di uno stato disposizionale, una valutazione, una serie di giudizi e di forme di azione sociale da parte del soggetto; c) di un oggetto (anche come classe di oggetti) definito e identificato (più o meno chiaramente ed esplicitamente) da parte del soggetto. Si può osservare qui che una classe particolare - ma importante - di atteggiamenti è data dai casi in cui l'oggetto coincide col soggetto: è questo il tema degli atteggiamenti verso l'immagine di sé e quindi delle dinamiche dell'autostima.
Occorre rilevare che esistono anche stati disposizionali i quali non sono atteggiamenti, in quanto non sono affatto strutturati in funzione di un oggetto: ad esempio l'euforia, o il malumore, o la depressione, i quali tipicamente non hanno al loro interno un oggetto definito che ne polarizzi la potenzialità all'azione. Anche l'aggressività può talora presentarsi - almeno a un primo esame - come una disposizione generica, eventualmente attivata da eventi contingenti, ma senza un oggetto-bersaglio selettivamente definito: in pratica, se si è aggressivi verso qualcosa o qualcuno, o verso una classe di fenomeni, questo è un atteggiamento; mentre non lo è - in senso stretto - se si ci si trova (sia pure momentaneamente) a essere aggressivi 'in generale', cioè se si è prigionieri di uno stato disposizionale alla ricerca di un oggetto.
Così, secondo un'altra scomposizione formale del tema, in ogni atteggiamento troviamo una componente: 1) comportamentale, data sia dal manifestarsi dei segni di potenzialità all'azione (come nell'atteggiamento aggressivo 'preliminare', che precede cioè la manifestazione aperta dell'aggressività), sia dalle forme di azione 'di scarica' dell'atteggiamento, cioè dalla successiva esplicitazione più attiva della potenzialità verso quel tipo di azione; 2) cognitiva, di cui si dirà più avanti; 3) affettiva.
Su quest'ultimo punto, della componente affettiva, si può osservare che, per quanto gli atteggiamenti presentino sempre aspetti qualitativamente complessi, nondimeno essi presentano anche un aspetto quantitativo o scalare. In altre parole, qualsiasi determinato atteggiamento può venir collocato - sia pure con un'operazione fortemente riduzionistica - in un punto di un gradiente che vede a un estremo una partecipazione emotiva di totale ed entusiastica accettazione dell'oggetto, all'altro estremo un suo totale e aggressivo rifiuto. Nell'ipotetico punto centrale della linea si avrebbe una totale neutralità, o meglio un'indifferenza. Ciò che si misura in tal modo è la valenza dell'atteggiamento, che comprende una sua direzione, o segno (negativo o positivo), e un grado di intensità dell'affetto. Si vede qui come l'atteggiamento sia una tematica psicosociale che articola una categoria psicologica discriminativa primaria, tipica di ogni normale organismo animale: quella potenzialità funzionale, molto semplice, e già evidente nel bambino molto piccolo, che tende a separare nettamente l'accettare e il rifiutare, l'incamerare e l'espellere, o anche il considerare immediatamente l'estraneo come possibile amico oppure come possibile nemico.La relativa stabilità dell'atteggiamento nel tempo è, come accennato, sempre riconoscibile: questa stabilità si rende anzi più evidente quando mutamenti socioambientali, o nuovi particolari segnali dall'esterno, tendano a indurre mutamenti di atteggiamento ai quali il soggetto, consapevolmente o meno, si oppone. Si tratta però, appunto, di una stabilità relativa, tanto da rendere sempre assai arduo - se non impossibile - procedere sia a previsioni sugli atteggiamenti, sia a generalizzazioni. Qui il carattere di imprevedibilità e variabilità degli atteggiamenti è, in senso generale, sia sincronico, sia diacronico.
Sincronicamente, è caratterizzante dell'aspetto più squisitamente sociale degli atteggiamenti il fatto che essi varino fortemente fra gli individui e anche a seconda delle culture; diacronicamente, gli atteggiamenti mutano sia per evoluzioni temporali individuali, sia - in modo più tipico - per mutamenti culturali e storico-sociali. L'evoluzione individuale di un dato atteggiamento è spesso risultato di una pressione di gruppo, talora non palese al soggetto.
Si evidenzia su questo punto un aspetto generale importante del tema dell'atteggiamento: cioè quel suo immediato aspetto di (relativa) variabilità idiosincrasica, che lo colloca nello spazio proprio delle oscillazioni di libertà che si offrono all'individuo intorno a un dato tema, soprattutto quando si tratti di un tema di interesse sociale. L'atteggiamento si caratterizza dunque come posizione possibile nell'ambito di ciò che si presenta come incerto e si lega strettamente - ma su un piano genericamente comportamentale, piuttosto che dichiarativo - alla tematica propria dell'opinione. L'opinione è infatti il più tipico fra gli indicatori possibili di un atteggiamento. Da questo punto di vista, non sono atteggiamenti in senso proprio, cioè in senso stretto, stati disposizionali transitori o stabili che per loro natura si sottraggano a una caratteristica intrinseca di opinabilità: e quindi, ad esempio, non sono veri atteggiamenti - in senso psicosociale - né la bramosia e la ricerca del cibo in una persona digiuna da molto tempo, né lo stato di avvilimento e sfiducia in se stesso di chi sia stato sottoposto di recente a reiterate e gravi umiliazioni, e forse neppure il modo di porsi virile e sicuro di chi sia stato avviato fin dall'infanzia alla carriera delle armi. In tutti questi esempi, infatti, lo stato disposizionale del soggetto è in qualche modo obbligato, cioè meccanicamente determinato dalla situazione in cui egli è stato collocato: come tale, esso si presenterebbe in quel modo in chiunque fosse stato posto nelle medesime condizioni, e non risponde perciò a quell'aspetto di variabilità individuale o, se si vuole, di scelta, di relativa libertà nel porsi, che contraddistingue invece l'atteggiamento nel senso più tipico e caratterizzante del termine.
Le dinamiche finora tratteggiate introducono al tema, più specifico, del contenuto cognitivo dell'atteggiamento. Tutti gli atteggiamenti, infatti, presentano (oltre a componenti affettive e pragmatiche) una importante componente cognitiva in quanto sono valutativi e si legano a credenze. La credenza è un aspetto integrante di qualsiasi atteggiamento umano come atteggiamento strutturato; essa ne costituisce peraltro solo una parte, sia pure importante. Gli aspetti cognitivi dell'atteggiamento si presentano spesso in forma di credenze relativamente rigide e semplificate, le quali hanno spesso - ma non sempre - un contenuto sbrigativo oppure squalificante: si parla in tal caso di stereotipi e di pregiudizi. La tematica che riguarda questi ultimi concetti è molto complessa e racchiude i temi psicosociali più controversi e di maggiore importanza politica (in senso lato) nell'intera tematica dell'atteggiamento.
Si intende qui per stereotipo un'opinione o valutazione generalizzante, favorevole o sfavorevole, riferita genericamente a classi di individui o di oggetti inanimati: questo tipo di opinione ha la doppia caratteristica di essere semplificata (cioè riduzionistica rispetto al livello di complessità del fenomeno valutato), e rigida (cioè non pienamente in grado di adattarsi a nuove esperienze relative a quegli individui od oggetti presi in considerazione). Lo stereotipo è una credenza condivisa che può rivelarsi di volta in volta o dimostrabilmente falsa ('l'aria di montagna è ricca di ossigeno'; 'la Svezia è il paese europeo con più alta percentuale di suicidi'), o presumibilmente falsa, ma in modo difficilmente dimostrabile ('gli italiani sono un popolo musicale'), o presumibilmente dotata di fondamento ma - per lo più - indebitamente utilizzata a modo di spiegazione riassuntiva nei confronti di una situazione, in realtà, molto più complessa ('i napoletani se la cavano perché sono intelligenti e vivaci'; 'i tedeschi fanno buone macchine perché sono metodici').
Gli stereotipi si presentano sempre con pretesa di oggettività: in questo senso, pur essendo essi sempre parte integrante di un atteggiamento, quindi di un modo complesso di porsi da parte di una persona, in pratica ne mascherano, e anzi ne negano, il carattere soggettivo e l'incertezza. Gli stereotipi, dunque, sono enunciati che pretendono di presentarsi - indebitamente - come emergenti direttamente dalle caratteristiche dell'oggetto, anziché dalla collocazione del soggetto.Si intende per pregiudizio uno stereotipo sfavorevole "basato su generalizzazioni errate e poco flessibili" (v. Allport, 1954) e riferito sia a un gruppo o categoria di individui, sia a singoli come elementi di quel gruppo. I pregiudizi sono sempre dominati, nei loro significati e nei loro effetti, dalle connotazioni emozionali che li caratterizzano, sono fonti di pratiche discriminanti nei confronti del loro oggetto e possono essere, analogamente a taluni stereotipi, del tutto ingiustificati. Esempi classici di fonti di pregiudizi - ma non pregiudizi in se stessi - sono l'etnocentrismo, lo sciovinismo, il sessismo, il razzismo, o anche la diffusa tendenza a usare dati statistici per emettere previsioni sfavorevoli sul comportamento di un singolo individuo. Un pregiudizio di matrice etnocentrica oppure di matrice razzista, ad esempio, può esprimersi come dichiarazione sull'inciviltà di tutti gli scozzesi in quanto scozzesi, o sulla tendenza al furto di un gruppo di italiani in quanto italiani; un pregiudizio di matrice sessista, sull'imprecisione nella guida di un'autista in quanto donna.I pregiudizi sono sempre fonte di errore, ma non sono sempre privi di fondamento.
Ad esempio costituisce certamente un pregiudizio tipico, e come tale una forma di discriminazione potenzialmente foriera di conseguenze negative per l'interessato, il ritenere che un dato bambino, al momento dell'ingresso nella scuola dell'obbligo, avrà di necessità un cattivo rendimento perché - poniamo - di origine africana; ma non costituisce pregiudizio né stereotipo, bensì constatazione neutrale, l'affermare che nella scuola dell'obbligo americana degli anni ottanta i bambini di origine europea hanno - ma beninteso nella media - un successo scolastico nettamente superiore a quelli di origine africana, e peraltro nettamente inferiore a quelli di recente immigrazione dal sud-est asiatico.
Stereotipi e pregiudizi ci si presentano - un po' sbrigativamente - come forme degenerative all'interno del più vasto panorama degli atteggiamenti. Per intendere l'origine di questi fenomeni è però necessario sottolinearne gli aspetti 'normali', che li pongono in rapporto organico all'origine dell'atteggiamento in generale. Occorre qui ricordare che l'atteggiamento è sempre, come tutti gli stati disposizionali - ma forse in modo particolarmente accentuato - una forma di previsione, e quindi di anticipazione. (Altri esempi di stati di anticipazione sono l'ansia, che è legata alla preparazione psicofisiologica per un'emergenza non prevista con precisione, la previsione, il progetto, in parte la fantasia, e probabilmente anche il sogno). L'atteggiamento, infatti, è sempre una forma di disciplina dell'incertezza: esso è il modo di porsi di un soggetto di fronte a un campo di eventi ancora imperfettamente noto, e quindi imperfettamente prevedibile e dominabile.
Ogni atteggiamento è un rischio che il soggetto accetta di correre, come forma selettiva di preparazione, in funzione di un dato tipo di azione futura. Qui si coglie del resto la matrice psicologica del suo aspetto primario di scelta, la sua variabilità, e perfino il suo carattere personalmente idiosincrasico e al limite arbitrario. Del resto - si può aggiungere - è questo anche il suo significato funzionalmente adattivo: posto di fronte a un campo di eventi sociali in rapporto al quale può essere importante compiere, in un futuro prossimo, un tipo di azione che sia ottimale, il soggetto ha interesse a non attendere ma a porsi in qualche modo, cioè ad assumere preliminarmente un atteggiamento. All'interno di questo suo porsi egli non può che compromettersi attivamente con un pre-giudizio sulla situazione in atto e sui suoi sviluppi futuri. Questo pregiudizio è precisamente l'aspetto cognitivo dell'atteggiamento. In questo senso cognitivo, dunque, l'atteggiamento è una griglia interpretativa ipotetica, utile a ottimizzare l'interazione futura con un evento ancora imperfettamente dominabile. Questa griglia è di necessità generalizzante, in quanto costituisce il tentativo di collocare l'evento non noto all'interno di un mondo noto.Il problema si connette qui organicamente a due temi molto più generali: uno riguardante la fenomenologia della percezione, l'altro l'ermeneutica, e quindi la dialettica dell'interpretazione.
Per quanto concerne il primo tema, è dimostrata sperimentalmente la presenza di un rapporto necessario fra percezione e significato, per cui nulla di nuovo può essere veramente percepito se questa percezione non è subito strutturata da un significato qualsiasi per il soggetto. Il secondo tema, analogo, è relativo alla necessità che un dato oggetto complesso e ambiguo, da interpretare, sia investito preliminarmente da una 'precomprensione' che è sì preliminare e ipotetica, eppure sempre già in qualche modo riccamente articolata, e in seguito verificabile in un rinvio continuo fra i dettagli e la globalità.Su un piano meno generale, la tematica cognitiva basilare dell'atteggiamento, in quanto tentativo di disciplinare l'incertezza che emerge nella prospettiva di eventi sociali possibili, riceve luce dalla tematica esistenziale dell'incontro. Di fronte dunque - nel caso più semplice - alle necessità imminenti di interazione con una persona ancora del tutto sconosciuta, e quindi potenzialmente non amichevole, il soggetto sceglie un atteggiamento che non sia cieco ma interpretativo, che comprenda cioè un pre-giudizio ipotetico su quella persona, e che - in pratica - la collochi all'interno di una categoria più vasta di persone, il cui stile di comportamento gli sia già sufficientemente noto.
Secondo un classico esempio, l'esploratore solitario deve comunque affidarsi a una previsione, e quindi a un'ipotesi, ogni volta che affronta un incontro nuovo: egli dunque ricorre necessariamente al presupposto che quei singoli indigeni, i quali vengono verso di lui, avranno uno stile comportamentale in qualche modo prevedibile, sia nel modo più generale in quanto esseri umani, sia eventualmente in modo più specifico per la loro appartenenza a popolazioni già note per i loro comportamenti caratteristici. Sarà proprio in questo contesto semplificato di formule generalizzanti, cioè in pratica di stereotipi, che egli dovrà inevitabilmente scegliere di porsi, cioè di assumere un atteggiamento qualsiasi. Il pre-giudizio qui inevitabile diverrà però un pregiudizio in senso proprio -con le sue connotazioni negative -se e quando l'esploratore dell'esempio, dopo l'incontro, continuando eventualmente a non comprendere appieno il comportamento dei suoi ospiti, anziché articolare e differenziare - e quindi arricchire - le proprie ipotesi e previsioni, di fronte alle proprie stesse difficoltà emotive ricorrerà difensivamente al rafforzamento degli aspetti meno 'accettanti' e più diffidenti delle sue idee pre-giudiziali di partenza, ancorandosi al loro carattere schematico di stereotipo e rendendole anzi eventualmente più rigide. Questo tipo di ossificazione dell'esperienza dell'incontro sarà però tanto meno evitabile (al di là delle eventuali virtù morali e delle buone intenzioni dell'interessato) quanto più l'incontro risulterà incompleto e incerto, cioè quanto più l'esploratore continuerà di fatto a trovarsi non già nella situazione esistenziale di chi condivide con gli ospiti una quotidianità e un mondo di vita, bensì nella situazione di chi rimane in quella sospensione tipica che è prodotta dalle difficoltà oggettive di comunicazione e dalla distanza dagli altri. In tal caso egli rimarrà necessariamente nel dubbio, se non anche - quasi inevitabilmente - nel sospetto circa il loro comportamento possibile, e sarà quindi indotto a coltivare stereotipi e pregiudizi.
Questi aspetti 'fisiologici' di fenomeni come lo stereotipo e il pregiudizio, che li connettono al modo stesso di prodursi dell'atteggiamento in generale, non sono peraltro sufficienti a spiegarne tutto il manifestarsi concreto, che si alimenta di meccanismi specifici i quali sono, per così dire, più 'patologici', anche se non per questo meno comuni. Questi meccanismi sono vari ma i più importanti sono due. Uno, di competenza psicodinamica, è dato dalla proiezione, per cui il soggetto attribuisce inconsciamente ad altri talune proprie disposizioni d'animo, soprattutto aggressive, o talune caratteristiche negative della personalità, che rifiuta di riconoscere in se stesso. L'altro, di competenza psicosociale, è quello per cui ciascun gruppo definisce e rafforza la propria identità e coesione mediante la produzione di uno schema cognitivo bipolare rigido, che riguarda la definizione dei confini del gruppo. Questo schema cognitivo è prodotto da un lavoro collettivo inconsapevole ed è in genere continuamente rafforzato; esso consiste nella sovrapposizione (e tendenziale identificazione) delle due dicotomie più tipiche ed elementari della vita psichica: interno-esterno e (rispettivamente) buono-cattivo. Ne deriva una continua fonte di pregiudizi nei confronti di ciò che è esterno al gruppo.
Anche qui è possibile peraltro sostenere che meccanismi di questo tipo, anziché configurarsi come marginali rispetto alle dinamiche psicologiche 'normali', sono in realtà universali (anche se eventualmente poco salienti): essi quindi permettono di comprendere aspetti tendenziali costitutivi delle dinamiche dell'atteggiamento in generale. In sintesi, atteggiamento, stereotipo e pregiudizio non sono concetti separabili fra loro.
Il problema della valutazione degli atteggiamenti coincide largamente con quello del rapporto che esiste fra gli atteggiamenti come stati disposizionali e i successivi comportamenti manifesti. La concezione tradizionale, secondo la quale l'atteggiamento precede comunque, cronologicamente e geneticamente, l'azione, è stata però posta in discussione da Festinger (v., 1964), il quale ne ha proposto il ribaltamento. Egli ha sostenuto che l'atteggiamento è una sistematizzazione e razionalizzazione della condotta, prima (o piuttosto) che uno stato preparatorio o progettuale. Ciò dunque che il soggetto proclama come posizione personale, credenza e progettualità, e quindi - fra l'altro - come intenzione, ha la finalità occulta di dare struttura e legittimità a comportamenti passati o attuali, non futuri. Del resto, e secondo un dubbio non nuovo, gli esseri umani sembrano essere molto più abili nel trovare delle buone ragioni per ciò che fanno, piuttosto che nel fare ciò per cui hanno delle buone ragioni. In questo senso Festinger si collega di fatto a una tradizione di pensiero critico che si riferisce al concetto marxiano di ideologia e a quello freudiano di razionalizzazione.
Questo orientamento è uno sviluppo sistematizzante della teoria, sempre di Festinger (v., 1957), della dissonanza cognitiva. Tale teoria riguarda la produzione di nuovi atteggiamenti che siano atti a conciliare il conflitto derivante da comportamenti o atteggiamenti in contraddizione fra loro. L'osservazione empirica di partenza di Festinger fu la constatazione di un atteggiamento irrealistico di attesa di un nuovo terremoto fra i sopravvissuti di un sisma catastrofico: attesa che egli interpretò come una costruzione ideativa (immaginaria) atta a giustificare lo stato d'animo esistente, e quindi prodotta inconsciamente con lo scopo reale di conciliare fra loro l'autostima e quel crollo 'inaccettabile' dell'immagine di sé che era dovuto - in realtà - alla catastrofe già avvenuta. In un esperimento rimasto celebre Festinger dimostrò che gli studenti indotti a compiere operazioni manuali inutili e noiose venivano convinti più facilmente ad assumere un atteggiamento sinceramente partecipativo e di fiducia nel valore e nell'interesse di quelle manovre se ottenevano una ricompensa molto piccola per la loro prestazione, piuttosto che se venivano rimunerati lautamente: solo nel primo caso, infatti, erano indotti a produrre una giustificazione 'ideale', come giustificazione 'forte' del loro comportamento.
Ora, tuttavia, per quanto la critica di Festinger sia del tutto attendibile, si può osservare che essa riguarda pur sempre soltanto la genesi del fenomeno, e in realtà non pone seriamente in discussione l'ipotesi dominante sulla sua funzione prevalente. Di fatto questa critica, pur indebolendola, non invalida la concezione tradizionale, secondo la quale l'atteggiamento (comunque nasca, non importa se da un'elaborazione puramente interiore o da una prassi) è in definitiva essenzialmente, e sempre, un modo attivamente intenzionale di porsi, e anzi è un modo implicitamente progettuale di guardare alla realtà, ed è quindi pur sempre uno stato strutturato di preparazione all'azione.Sulla stessa linea critica di Festinger, è stato rilevato che è facile verificare sperimentalmente la presenza frequente di discrepanze assai notevoli fra gli atteggiamenti (intesi soprattutto come disposizioni implicitamente progettuali) e i successivi comportamenti manifesti. Tuttavia ci troviamo qui - per quanto concerne il fallimento del valore predittivo dell'atteggiamento - di fronte a una crisi che deriva in parte dall'utilizzazione di un'accezione indebitamente restrittiva del concetto. Quest'accezione restrittiva, che è forse dovuta in molti casi a un'inconsapevole curvatura ideologica comportamentistica, consiste in un'identificazione tendenziale dell'atteggiamento con ciò che il soggetto dichiara essere il suo atteggiamento.
Se ad esempio si indaga su gruppi casuali di studenti a proposito di ciò che essi pensano e sentono circa il barare agli esami, è facile incontrare un giudizio dominante di condanna, ma è altrettanto facile dimostrare che gran parte di questi stessi studenti tendono poi, appena possono, a ingannare i loro esaminatori. Anziché al cospetto di un'incongruenza fra atteggiamento e comportamento manifesto, ci troviamo però qui a fare i conti, più banalmente, con un'indagine superficiale sull'atteggiamento. Infatti una ricerca più approfondita potrebbe forse rilevare il fatto che le risposte vengono date per opportunismo o compiacenza: oppure, più sottilmente, potrebbe mettere in luce una tematica psicologica complessa, cioè in pratica la presenza negli studenti di una duplicità conflittuale di atteggiamenti (non necessariamente legata a malafede consapevole), duplicità eventualmente scissa fra il contesto della morale 'ufficiale-formale' (dichiarativa) e quello delle scelte 'pratico-empiriche' (performative).
In sintesi, si può ricordare che mentre lo stereotipo è essenzialmente un enunciato, e quindi un evento autodescrittivo, l'atteggiamento è sempre un fenomeno più complesso e non (esaurientemente) autodescrittivo. Esso va quindi sempre interpretato. L'atteggiamento comprende emozioni, azioni, e anche elaborazioni cognitive che producono opinioni e giudizi impliciti o (se è il caso) espliciti: ma solo in quest'ultimo caso esso produce enunciati, tipicamente - ma non esclusivamente - sotto forma di stereotipi e pregiudizi, che quindi possono informare gli altri in modo sintetico e diretto sulla natura dell'atteggiamento stesso. Comprendiamo ora meglio il significato di un'affermazione fatta sopra: l'atteggiamento, oltre a non essere necessariamente esplicitato con fedeltà, non è neppure necessariamente autoconsapevole. Da un punto di vista psicanalitico, anzi, ciò che di un atteggiamento è cosciente al soggetto interessato è solo una piccola parte di una disposizione d'animo (largamente inconscia) che è molto più complessa e contraddittoria, e molto meno neutra, obiettiva, equanime, ed eventualmente meno 'accettabile' di quanto sembri a chi la vive e ne difende l'attendibilità.Di qui il problema - non semplice - di come identificare e descrivere gli atteggiamenti delle persone, con o senza l'aiuto di tutti gli enunciati specifici che, prodotti da quelle stesse persone, sono - per lo più -razionalizzazioni e semplificazioni dei loro atteggiamenti. La corretta lettura dell'atteggiamento altrui è - sia nella vita quotidiana, sia nella ricerca applicata - indispensabile per poter operare previsioni sociali. Si può osservare qui incidentalmente che taluni atteggiamenti sono interattivi precisamente in questo senso, cioè in quanto sono comportamenti esplorativi finalizzati a comprendere gli atteggiamenti altrui.
Naturalmente gli atteggiamenti non possono mai venir studiati per quello che sono in tutta la loro complessità, soprattutto per quanto concerne i loro aspetti soggettivi, in particolare se sono poco consapevoli o addirittura censurati o rimossi: ciò che viene studiato è pur sempre un modo di manifestarsi dell'atteggiamento. Qui si utilizza in primo luogo la forma dichiarativa dell'atteggiamento: ma se questa è la porta principale d'accesso per lo studio del modo di porsi di un dato soggetto, è anche il luogo dei suoi maggiori equivoci ed errori interpretativi.
Si prenda ad esempio la dichiarazione 'io non amo le persone imprecise e non puntuali'. Questo enunciato è parte dichiarativa degli aspetti cognitivi (cioè di opinione e di giudizio) di un atteggiamento non tanto e non solo verso un tipo astratto di personalità (che viene qui stigmatizzato), quanto soprattutto - in pratica - verso un ambito della realtà sociale che ha sempre una sua concretezza e può essere rappresentato, nel caso del parlante, ad esempio da tutti coloro che sono di classe sociale o di cultura più bassa, o dalla comunità degli immigrati dal sud, o anche solo dai vicini di casa. Possiamo però a buon diritto supporre che questo atteggiamento cognitivo sia la parte emergente ed esibita di un atteggiamento molto più complesso, e che presumibilmente si rivelerà carico di contraddittorie connotazioni emozionali. Inoltre possiamo osservare che questo enunciato vuole essere - indirettamente - descrittivo del soggetto: il parlante tende qui implicitamente a dare una definizione (favorevole) di sé.
Proprio su questo punto sarebbe ingenuo ritenere che il soggetto in questione sia necessariamente persona precisa e puntuale, ma è di certo qualcuno che vuole descriversi (indirettamente) in questo modo. Ma si può andare oltre: si può cioè supporre che egli sia impreciso e ritardatario, e tenda a identificare proiettivamente e con aggressività un problema che personalmente non sa risolvere, ponendosene inautenticamente al di fuori e al di sopra. Inoltre il parlante può rivelarsi persona che, contrariamente ai propri principî dichiarati, e magari anche in contrasto con ciò che crede di sapere di se stesso, si trova di fatto a proprio agio, e si lascia andare alla spontaneità, soltanto in compagnia di persone gioviali, approssimative e tolleranti, e non a contatto con quelle persone rigide, riservate e rigorose che pure egli stima maggiormente. In sintesi, si vede bene da questo esempio che l'atteggiamento dichiarato identifica un problema, ma non ne descrive necessariamente i termini, e di per sé non permette alcuna conclusione certa sull'atteggiamento reale del soggetto.
Occorre quindi ricorrere: a) a una pluralità di informazioni in merito all'atteggiamento possibile che si intende investigare, in modo da ottenere una configurazione non solo articolata, ma anche autoverificata in quanto coerente, e quindi in grado di eliminare discrepanze dovute a fattori occasionali; b) a informazioni indirette, cioè tali che forniscano sull'atteggiamento del soggetto più notizie di quante egli possa controllare ed eventualmente manipolare.I metodi più usati per l'identificazione e la misura degli atteggiamenti sono dati dalle scale di atteggiamenti.
Esse consistono in una serie di affermazioni o voci sulle quali i soggetti esprimono il loro consenso o dissenso. I metodi e le tecniche scalari sono vari, e hanno attualmente raggiunto un notevole grado di tecnicità e di raffinatezza metodologica. Altre tecniche, oltre le scale classiche, sono le cosiddette tecniche mascherate, come le tecniche proiettive o tutte le tecniche basate sulla discrepanza fra ciò che il soggetto ritiene venga valutato e il tipo di informazioni che egli inconsapevolmente fornisce. Una metodologia molto nota è quella del differenziale semantico, di Osgood e altri (v., 1957), consistente nel valutare il significato - per una data persona - di una serie di oggetti mediante l'uso di aggettivi bipolari (quali buono-cattivo, ecc.).
Lo studio moderno degli atteggiamenti riguarda non tanto l'approfondimento teorico delle variabili generali, quanto piuttosto il rilevamento degli atteggiamenti concretamente in gioco su problemi sociali specifici. Ad esempio gli atteggiamenti autoritari non vengono oggi investigati come tali e nella loro genericità, bensì in rapporto ad altri atteggiamenti a essi omogenei nell'ambito di problemi di pregiudizio razziale sufficientemente circoscritti. Questo tipo di indirizzo non è solo conseguenza dei fattori ideologici e socioeconomici che tendono a orientare le ricerche sociali (e i loro finanziamenti) su problemi di immediata risonanza sociopolitica, ma è anche rispondente alla considerazione, su cui ci si è soffermati sopra, secondo cui la definizione stessa di atteggiamento non concerne mai un orientamento disposizionale in generale, bensì sempre una tematica ancorata a una categoria ben definita di oggetti-bersaglio. Così occorre ricordare che quello stesso soggetto che esprime un atteggiamento generalizzante (ad esempio: 'occorre essere meno severi con i drogati', oppure: 'le leggi dell'aborto per le minorenni dovrebbero essere più restrittive') in realtà, e contro l'apparenza, non ha affatto in mente categorie generali di persone, bensì si riferisce sempre - magari senza saperlo - a immagini concrete, a esperienze personali, a un modo di considerare - negli esempi citati - o i propri figli, oppure altri giovani con caratteristiche ben specifiche e incontrati in circostanze determinate.
Come si è visto sopra, più il soggetto viene invitato a dichiararsi sui modi concreti, attuali e minuti in cui egli articola nella vita quotidiana l'atteggiamento preso in esame, meno egli può nascondersi dietro dichiarazioni eventualmente mistificanti.In pratica, i problemi tecnici riguardanti lo studio degli atteggiamenti coincidono in larga misura con quelli relativi alle inchieste e ai questionari, e si riferiscono quasi esclusivamente agli atteggiamenti consapevoli. Questo orientamento metodologico deriva dalla constatazione che il questionario può fornire talora un buon livello di predittività statistica del comportamento a breve termine. (Ovviamente non è qui in gioco il problema della coerenza comportamentale di un singolo soggetto nei confronti dei propri atteggiamenti dichiarati).
Occorre inoltre tener conto del fatto che si è rivelato assai difficile ottenere dati affidabili e statisticamente elaborabili circa gli atteggiamenti a livello più 'profondo'. Ciò non toglie che si possano ottenere, ma in singoli casi, dati utili in questo senso mediante colloqui o mediante test proiettivi politematici quale, classicamente, il Thematic apperception test di Murray.
In sostanza, ciò che risulta molto difficile è ottenere informazioni confrontabili e quantificabili che riguardino gli atteggiamenti non dichiarati o addirittura inconsci di un gran numero di soggetti.I problemi principali che si pongono nell'elaborazione di questionari relativi agli atteggiamenti riguardano soprattutto l'alternativa fra domande aperte e domande chiuse e il tema della misura della valenza.I questionari 'aperti', cioè quelli che permettono un'ampia variabilità di risposte, presentano al confronto con quelli 'chiusi' (cioè tipicamente a risposte obbligate, 'sì, no, non so', o 'sono d'accordo, in disaccordo') il vantaggio ovvio di permettere al soggetto una maggiore libertà, ed eventualmente la possibilità di esprimere posizioni non previste. Tuttavia ogni domanda presuppone sempre una cornice di riferimento e un campo di risposte: ora, si può osservare che quando il soggetto trova di fronte a sé una serie di alternative preformulate fra cui scegliere, egli spesso scopre, leggendo le risposte possibili, di potersi riconoscere facilmente in atteggiamenti di cui non era pienamente consapevole, o in prese di posizione e in enunciati valutativi che egli non supponeva di poter riconoscere come validi e legittimi. Di conseguenza i questionari aperti possono essere, paradossalmente, più limitanti di quelli chiusi.D'altro lato, e soprattutto quando il questionario sia posto nella forma 'sono d'accordo, in disaccordo', entra facilmente in gioco la variabile dell'acquiescenza, che rischia di deformare i risultati: a questa si legano eventualmente le tendenze alla compiacenza e al conformismo. Il soggetto tende cioè a fornire risposte in accordo con quella che ritiene essere la posizione 'accettabile' nell'ambito ideologico-istituzionale in cui egli colloca il questionario e i suoi autori.
Questa variabile è precisamente un atteggiamento, ma rischia di essere l'unico atteggiamento non esaminato in questo contesto. La correzione più semplice al problema dell'acquiescenza consiste nel riformulare la più ingenua domanda sbilanciata (formulata semplicemente come: 'sei d'accordo su questo enunciato?') per passare a una domanda formalmente bilanciata ('sei d'accordo o sei contrario?') fino a giungere a una domanda sostanzialmente bilanciata ('sei d'accordo su questa proposta (descritta) oppure su questa proposta (descritta)?'). A volte però, e anche al di là dei migliori sforzi di neutralità, la domanda presenta minuti aspetti semantici che occultamente possono fornire al soggetto indizi presuntivi circa l'atteggiamento 'giusto' da assumere.Il problema di una valutazione quantitativa degli atteggiamenti, e in particolare il problema della misura della valenza, nasce dalla necessità di uscire da uno schema 'sì-no' (o 'bianco-nero'). Le misure correttive più classiche sono date dall'introduzione di risposte neutre come 'non so', 'mi è indifferente' e 'va bene così'. (Come esempio di quest'ultima opzione:'vuoi che siano comminate agli stupratori pene più severe, più miti, o va bene così?'). Ma questo può non bastare: ci si affida allora sia alla differenziazione delle domande, eventualmente con l'introduzione di controargomenti, sia alla possibilità di scegliere ogni volta in una scala di risposte collocate fra il polo dell'accordo totale e quello del totale disaccordo con un enunciato dato
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