Abstract
Vengono esaminati gli aspetti essenziali e caratterizzanti degli atti del processo civile, anche nei rapporti con il processo unitariamente considerato, con particolare riguardo all’individuazione delle norme e dei principi generali ad essi applicabili.
In dottrina sono sostanzialmente due le opinioni più accreditate in punto di definizione dell’atto processuale. Secondo una prima impostazione, si ritiene processuale l’atto che produce effetti nel (o sul) processo, ed in questa direttrice si è soliti ricondurre il pensiero di Carnelutti, giacché egli aveva affermato, nel Sistema, che «un fatto giuridico è processuale non già in quanto sia compiuto nel processo, ma in quanto sia rilevante per una situazione giuridica processuale» (Carnelutti, F., Sistema del diritto processuale civile, II, Padova, 1938, 57 ss.).
Avverso questa impostazione si è rilevato che, così ragionando, si finirebbe per estendere eccessivamente la categoria che si vorrebbe delimitare, rendendo praticamente inutile la definizione stessa, specialmente ove la si ritenesse mirante a discriminare il regime dell’atto.
Altri, all’opposto, per riconoscere processualità all’atto, ritengono decisiva – oltre all’idoneità dell’atto a produrre effetti sul processo, o comunque alla sua rilevanza processuale – la sede in cui l’atto stesso è posto in essere: «una volta individuato l’atto iniziale e quello finale del processo, gli atti compiuti dai vari soggetti che nel processo operano, in quanto svolgano un ruolo nella sequenza del processo, sono atti del processo e di conseguenza assoggettati alla disciplina processuale» (così, ad es., tra altri, Oriani, R., Atti processuali: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 2).
Sembra tuttavia che in tale diversità di vedute si annidi la confusione tra due piani di ragionamento che invece debbono essere tenuti distinti, come cercheremo subito di chiarire.
Anzitutto, si deve tener presente che Carnelutti, nel Sistema, si proponeva di «conoscere le regole concernenti l’operare delle parti e dell’ufficio sulle prove e sui beni per la giusta composizione della lite»; ovvero di conoscere «come devono essere gli atti, in cui l’operazione si risolve» (Carnelutti, F., Sistema, cit., 4); e precisava che una indagine intorno al regolamento degli atti processuali «non sarebbe proficua se prima nella enorme massa degli atti non si cercasse di mettere ordine mediante la classificazione; fino a che tale massa non venga ordinata il complesso delle norme, che ne costituiscono il regolamento, rimane inestricabile» (Carnelutti, F., Sistema, cit., 5).
In questa direzione, Carnelutti, sempre nel Sistema, aveva distinto giuridicamente gli atti processuali, come noto, secondo l’effetto, lo scopo e la struttura – e, tutto ciò, prima di esaminare il regolamento degli atti stessi –, avendo cura di sottolineare che «le due categorie degli atti processuali secondo l’effetto e secondo lo scopo possono non coincidere nel senso che vi sono atti processuali per l’effetto e non per lo scopo» (Carnelutti, F., Sistema, cit., 59).
Pertanto, quando egli dice che un fatto giuridico è processuale non già in quanto sia compiuto nel processo, ma in quanto sia rilevante per una situazione giuridica processuale, ciò avviene esclusivamente per identificare – quasi tautologicamente – quali sono i fatti giuridici che producono un effetto sul processo, senza alcuna implicazione, almeno immediata, in tema di disciplina applicabile a quei medesimi fatti.
Così chiariti i termini del discorso, la classificazione di Carnelutti, da un lato, non sembra meritare la critica che gli è stata rivolta; dall’altro, non può essere avvicinata – per essere poi respinta – ad un ragionamento finalizzato ad individuare la disciplina applicabile agli atti processuali.
Ora, se il fine è quello di stabilire l’ambito di applicabilità di determinate disposizioni (ad es., artt. 121 e 310 c.p.c.) – e qui il riferimento è alla seconda delle due impostazioni che abbiamo sopra richiamate –, non sembra utile, né metodologicamente adeguato, il ragionamento che: i )una volta definito in premessa l’atto come processuale secondo un determinato concetto – senza, peraltro, che questo venga enucleato con rigore dal diritto positivo – successivamente, sulla base del medesimo concetto, ii)proceda alla identificazione degli ‘atti processuali’, intendendo con tale espressione gli atti regolati dalla legge processuale.
Le perplessità nei confronti di siffatto modo di ragionare si spiegano perché in tal modo si finisce per forzare il sistema della disciplina degli atti processuali in rigidi schematismi che non sembrano riflettere la struttura dei singoli atti e la conseguente realtà normativa (si pensi, ad es., alla convenzione d’arbitrato, alla procura ad litem, agli atti di riconoscimento e di rinuncia alla pretesa, al verbale di conciliazione, alla richiesta delle parti affinché la causa sia decisa secondo equità, ex art. 114 c.p.c., ecc.).
Infatti, l’atto giuridico in generale, e l’atto processuale in particolare, non si presentano necessariamente come fattispecie semplici, produttive di un unico effetto giuridico, unitariamente assoggettabili ad una singola, precisa fonte normativa (ad es., il codice di procedura civile). La tipologia degli atti giuridici segnala anzi una realtà di segno diametralmente opposto: fattispecie estremamente complesse, produttive di una pluralità di effetti diversificati, e nemmeno sempre della stessa natura, che attingono la loro disciplina da fonti molteplici, anch’esse sovente eterogenee (ciò che lo stesso diritto positivo puntualmente registra: sulla possibile pluralità di effetti del singolo atto cfr., ad es., l’art. 159, co. 3, c.p.c.).
In questa situazione – ed al fine di determinare la disciplina degli atti – sembra che si debba invertire il punto di partenza del ragionamento e prendere le mosse non già da una definizione astratta di atto processuale, bensì dalla considerazione del singolo atto di cui s’indaga il regime. Tenuto conto della stretta correlazione sussistente nel processo tra scopo della norma che contempla l’atto, requisito di forma, effetto giuridico e regime complessivo dell’atto stesso, sarà anzitutto necessario individuare analiticamente la funzione (della norma che si occupa) dell’atto in esame e dei suoi singoli requisiti: una volta completata questa operazione, e quindi identificati la rilevanza e gli effetti giuridici di ciascun requisito dell’atto – sia sul piano sostanziale sia sul piano processuale – sarà possibile ricostruire la complessa disciplina giuridica dell’intera fattispecie dell’atto che si esamina (ovviamente per tutti quei profili non espressamente – o comunque non chiaramente – regolati dalla legge), e stabilire se ed in che misura essa sia assoggettata alla legge processuale (ed a quale disposizione particolare della legge processuale).
Poste queste premesse – e volendo comunque non prescindere del tutto dal diritto positivo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 2907 c.c.; art. 99 c.p.c.) –, non sembra si possa andare oltre l’(ovvia) osservazione che l’atto processuale è l’atto attraverso il quale si realizza la tutela giurisdizionale dei diritti; in particolare, per la parte, l’atto attraverso il quale si esercita, si realizza il potere di azione; per il giudice, l’atto attraverso il quale si esercita, si realizza la funzione giurisdizionale.
E finché si resta su questo piano generale ed astratto, nulla si può dire dal punto di vista della disciplina, se si eccettua il rilievo, ancora più ovvio, che l’atto processuale – o, più correttamente, la serie di atti processuali – produce il suo effetto tipico, ossia la tutela giurisdizionale dei diritti, quando è posto in essere secondo il modello previsto dalla legge, che ne fissa presupposti e requisiti. Viceversa, ed evidentemente, all’inesistenza delle condizioni del potere di azione o di giurisdizione, ed altrettanto all’esercizio di quei poteri in difformità dalle norme che li regolano, non consegue l’effetto tipico – ad es., la pronuncia sul merito del diritto controverso – ma un effetto minore, quale, nell’esempio, la pronuncia sul processo (pronuncia cd. di rito).
In aggiunta a queste considerazioni ellittiche e semplificate si può solo specificare – in virtù di quel che si è detto sinora – che l’atto processuale sembra venire in evidenza, da un lato, quale mezzo di uno o più scopi (e, di conseguenza, di effetti giuridici) tipici propri, immediati e diretti; dall’altro, quale elemento o frazione dello scopo del processo unitariamente considerato, ovvero – ragionando con riferimento al processo ordinario di cognizione – della pronuncia sul merito del diritto controverso.
Altro non sembra si possa dire, per cui, al fine di individuare la disciplina di un atto processuale – ovvero le modalità di formazione attraverso cui tale atto può produrre, in tutto o in parte, i suoi effetti tipici – sarà necessario considerare almeno: i) le norme generali in tema di forma dell’atto processuale; ii) le norme che prendono direttamente in esame le modalità di formazione dello specifico atto di cui si tratta; iii) le norme che regolano la fase processuale in cui la produzione degli effetti di quello specifico atto viene in rilievo.
Le disposizioni che si occupano delle modalità di compimento degli atti processuali – ovvero dei requisiti che gli atti devono possedere per la produzione dei loro effetti giuridici tipici –, e delle correlate ipotesi di nullità conseguenti al mancato rispetto delle medesime disposizioni, sembrano interessarsi esclusivamente all’aspetto formale dell’atto. Il punto, evidentemente, è quello di individuare con esattezza cosa intenda il legislatore, in quelle disposizioni, quando nomina la forma ed i requisiti formali degli atti; ovvero, di individuare l’ampiezza con cui il concetto in esame è stato impiegato.
Si tratta, come noto, di un punto il cui rilievo non è solo teorico, giacché se con il richiamo alla forma il legislatore avesse inteso riferirsi solo ad uno dei possibili requisiti dell’atto, come avviene per gli atti di diritto sostanziale, dovremmo ritenere sia la inapplicabilità, almeno diretta, degli artt. 121 ss. c.p.c. agli altri requisiti dell’atto (extraformali) sia, soprattutto, che il complesso delle norme sulle nullità (artt. 156-162 c.p.c.) non esaurisce le specie e la disciplina – generale – delle invalidità degli atti processuali. Ed in effetti, parte della dottrina e parte della giurisprudenza ritengono sussistere i requisiti extraformali degli atti, cui si collegano le nullità extraformali degli atti stessi, delle quali occorre poi ricostruire in via interpretativa la relativa disciplina (approfondimenti sul punto in Poli, R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, 33 ss.).
Orbene, da un esame delle disposizioni del codice di rito sembra che il legislatore abbia adottato un concetto estremamente ampio di forma dell’atto processuale, in grado di ricomprendere tutti i requisiti previsti dal modello legale. Infatti: a) come appena rimarcato, le disposizioni – sia generali, sia particolari – espressamente deputate a regolare i modelli degli atti, contemplano esclusivamente requisiti estrinseci, formali degli atti stessi; b) la disposizione fondamentale in tema di nullità (art. 156 c.p.c.) – tale perché chiarisce quando ha rilevanza la nullità – àncora con la massima chiarezza la nullità stessa alla inosservanza di forme, affermando in tal modo una stretta correlazione tra requisiti di forma, fattispecie ed effetti dell’atto processuale (cfr. l’art. 159, co. 3, c.p.c.); c) le minuziose disposizioni sul cd. contenuto-forma dell’atto sembrano potersi giustificare solo assegnando loro lo scopo di assorbire la normale rilevanza dei requisiti (essenziali) che nascono come extraformali, ovvero privi di una veste accertabile nella realtà esterna.
Il nostro legislatore, pertanto, laddove ha fissato le condizioni di validità ed efficacia degli atti processuali, sembra aver contemplato unitariamente tutti gli elementi essenziali della fattispecie, ovvero tutti gli elementi che partecipano alla formazione dell’atto, ed averli sussunti nella categoria dei requisiti formali dell’atto stesso; salvo poi dettare alcuni principi di carattere generale, ad es. in tema di strumentalità delle forme dell’atto (artt. 121 e 131 c.p.c.) o di rilevanza, rilevabilità ed estensione della inosservanza di quelle forme (artt. 156, 157 e 159 c.p.c.), ed una serie dettagliata di disposizioni particolari, sia in tema di modello legale dell’atto (ad es., artt. 132, 134, 135, 136 ss., 152 ss., 163, 167, 366, 414, 416 c.p.c. e molti altri), sia in tema di conseguenze della violazione di quel modello (ad es., artt. 161, co. 1-2, 160, 164, 167, 366 c.p.c. e molti altri).
In questa prospettiva, pertanto, la forma non rileva come uno dei requisiti della fattispecie dell’atto, ma viene intesa come l’insieme dei requisiti che concorrono alla formazione dell’atto stesso, alla sua realizzazione materiale; aventi o meno, tali requisiti, una connotazione estrinseca, che si manifesta nella realtà concreta dell’atto: il concetto di forma connota quindi le condizioni – percettibili o meno nella realtà esterna – che hanno strutturato il procedimento di formazione dell’atto processuale. Nella medesima prospettiva, allora, rientrano tra i requisiti di forma dell’atto processuale anche quelli che tradizionalmente sono considerati extraformali, quali la capacità, la volontarietà e la legittimazione della parte che compie l’atto.
In conclusione su questo punto, sembra potersi affermare che, nel nostro codice di rito, per forma debba intendersi «il modo di esercizio del potere giuridico» (Montesano, L., Legge incostituzionale, processo e responsabilità, in Foro it., 1952, IV, 147) o, ancor più precisamente, «il modo di essere dell’atto» (Carnelutti, F., Sistema,cit., 128 e 160), e che le norme sulla forma degli atti processuali sono le norme sulle condizioni che devono essere rispettate affinché l’atto processuale concretamente posto in essere sia valido e, di conseguenza, produca i suoi effetti tipici; tenuto conto che, unitariamente considerato, l’effetto tipico del potere di azione, con riguardo al giudizio ordinario di cognizione, è la pronuncia nel merito del diritto controverso.
Il processo, quale species del genus procedimento, è l’insieme di atti che lega, unisce, raccorda – da un punto di vista fattuale, temporale e, soprattutto, logico-giuridico – l’atto iniziale, una domanda, e l’atto finale, una risposta, del processo stesso. Il processo racchiude le condizioni, le ‘condotte’ in presenza delle quali il potere esercitato produce i suoi effetti tipici: nell’esempio in discorso, (il dovere di pronunciare) una valida ed efficace decisione sul merito della situazione controversa. Nella sua realizzazione concreta, il processo è l’attuazione di una serie di norme che contemplano le condizioni (requisiti, elementi, ecc.) di esistenza, validità ed efficacia del provvedimento finale: in ciò consistono gli atti processuali.
Dal punto di vista della parte, dell’azione, della domanda, il processo definisce le condizioni in presenza delle quali la domanda è valida e produce il suo effetto tipico, ovvero (il dovere di rendere) la tutela giurisdizionale, la sentenza di merito. Dal punto di vista del giudice, della giurisdizione, della risposta, il processo definisce le condizioni in presenza delle quali l’atto finale del procedimento, la sentenza di merito, è valida ed efficace.
Se volessimo schematizzare, potremmo dire che l’effetto tipico del potere di azione si raggiunge in presenza dei requisiti A+B+C, dove A indica l’esistenza del potere esercitato, B l’individuabilità, la certezza del potere stesso, e C il legittimo esercizio di tale potere. In particolare, l’elemento C si riferisce al modo di esercizio di un potere esistente ed individuato (o comunque individuabile), con specifica attenzione alle condotte necessarie affinché gli altri soggetti del processo possano esercitare i poteri processuali che l’ordinamento riconosce loro, in relazione alla singola fase o frazione processuale di cui si tratta.
E lo stesso schema può essere utilizzato per l’esercizio del potere/dovere di pronunciare la sentenza di merito. In via di estrema semplificazione, si può dire che la sentenza è valida e produce tutti i suoi effetti tipici in presenza dei requisiti A+B+C, dove A indica l’esistenza del potere di giurisdizione, B l’individuabilità, la certezza del potere esercitato, nel senso che il dispositivo contiene la chiara indicazione degli elementi soggettivi ed oggettivi del diritto o status riconosciuto o negato, e C il legittimo esercizio di tale potere. E dove C è dato da A1+B1+C1, intendendosi per A1 l’assenza di errores in procedendo; per B1 l’assenza di errores in iudicando in iure; per C1 l’assenza di errores in iudicando in facto.
Il rapporto tra i due schemi – domanda, da un lato; risposta, dall’altro – si può riassumere in ciò: concluso il processo, gli eventuali vizi degli atti di parte, in sé considerati, perdono qualsiasi rilievo e ne assume solo la sentenza che, secondo una nota espressione, basta a se stessa, ovvero si pone come la fattispecie esclusiva dei propri effetti (cd. autosufficienza della sentenza). Tuttavia, in presenza di vizi degli atti del processo, non viene meno il potere di esercitare la funzione giurisdizionale, solo che il giudice non può decidere il merito della controversia, a pena di invalidità della sentenza che può essere fatta valere con i mezzi d’impugnazione (art. 161, co. 1, c.p.c.). Qualora venga pronunciata la sentenza in mancanza di uno dei presupposti A, B o C (in relazione agli atti di parte e/o del giudice), tale difetto prefigura il possibile motivo d’impugnazione, nei limiti e secondo le regole proprie di ciascun mezzo d’impugnazione (art. 161, co. 1, c.p.c.).
Nella sin qui delineata prospettiva, deve ancora essere chiarito il rapporto tra i singoli atti del processo, ed in particolare i rapporti tra i singoli atti ed il provvedimento finale. Come noto, la tesi del procedimento giurisdizionale quale fattispecie complessa a formazione progressiva, autorevolmente sostenuta (Conso, G., I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, 121 ss., 208 ss.), è stata sottoposta, anche di recente, a critica, osservandosi, tra l’altro, che tale tesi comporta un corollario ineludibile, il quale appare inconciliabile con il diritto positivo (Caponi, R., La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, 9 s., ove altri richiami).
Il corollario in parola consiste nel fatto che l’effetto conclusivo del processo scaturirebbe da un’unica fattispecie alla cui integrazione concorrerebbero, in qualità di elementi costitutivi, le singole fattispecie della serie procedimentale: l’effetto finale del processo stesso non sarebbe cioè prodotto solo dal provvedimento finale, ma dal complesso degli atti della sequenza procedimentale. Ma in tal caso non si riuscirebbe a comprendere come, ad es., l’effetto di accertamento di una situazione sostanziale dedotta in giudizio non scaturisca solo dalla sentenza, ma sia l’effetto di un’unica fattispecie che congloba tutti gli atti del processo civile.
Ora, premesso che si tratta di uno dei temi più complessi del diritto processuale – sicché esso meriterebbe un approfondimento non realizzabile in questa sede – sembra che la figura della fattispecie complessa a formazione (plurilaterale) progressiva possa essere proficuamente mantenuta, con le seguenti precisazioni.
È vero anzitutto che, pur ove si ragioni postulando la sussistenza di una fattispecie unitaria, non si deve adombrare il fatto che il procedimento si connota per la presenza di una serie funzionale di atti, di una progressione funzionale, strutturale e giuridica di fasi processuali di avvicinamento all’effetto finale, caratterizzate da specifici poteri e doveri, che trovano i presupposti funzionali, strutturali, giuridici, e quindi di validità ed efficacia, nella serie o fase precedente, e che costituiscono i presupposti funzionali, strutturali e giuridici, quindi di validità ed efficacia, delle serie o fasi successive.
Ne segue, da un lato, che per la produzione dell’effetto finale non tutti gli elementi della fattispecie unitaria hanno o conservano la stessa rilevanza; dall’altro, tuttavia, che la relazione funzionale, strutturale e giuridica tra le serie di atti o tra le successive fasi processuali non viene mai recisa del tutto, come è dimostrato, per un verso, dal fatto che la conservazione dell’efficacia di un atto è sempre subordinata anche al compimento degli atti successivi necessari della serie (cfr., ad es., l’art. 310, co. 2, c.p.c.) (Conso, G., I fatti giuridici processuali penali, cit., 163 ss.); per l’altro verso, dal fatto che la presenza di un vizio non sanato della serie si riflette anche sulle serie o fasi successive, nel senso che impedisce all’intera serie unitariamente considerata la produzione dell’effetto finale cui tutti gli atti sono funzionalmente, strutturalmente e giuridicamente collegati (si pensi, ad es., al difetto d’integrità del contraddittorio).
Ma qui si chiarisce perché le critiche alla tesi della fattispecie complessa a formazione plurilaterale progressiva non appaiono risolutive: invero, l’effetto che la legge collega all’esercizio del potere di azione non è l’effetto di accertamento di una situazione sostanziale dedotta in giudizio, bensì la sussistenza del dovere di pronunciare la sentenza di merito.
Una volta sorto tale dovere e quindi pronunciata la sentenza, si spezza il nesso funzionale e strutturale tra gli atti del procedimento, ed i vizi di nullità di quest’ultimo si convertono in motivi d’impugnazione, nel senso che restano assorbiti dal regime di efficacia e stabilità della sentenza, la quale si pone come esclusiva fattispecie dell’effetto di accertamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio (Fazzalari, E., Procedimento e processo - teoria generale, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, 651; Consolo, C., Domanda giudiziale, in Dig. civ., VII, Torino, 1991, 49). Così si spiega la previsione del nostro ordinamento di isolare la nullità della sentenza rispetto alla nullità di altri atti del procedimento e di far ricorso ad un rapporto di dipendenza fra atti, attraverso il quale la nullità si comunica (sul punto cfr. Denti, V., Gli atti processuali, in Dall’azione al giudicato, Padova, 1983, 132 e 194 ss.).
Il principio di legalità delle forme del processo è strumento di garanzia del cittadino, in relazione alla esigenza di specifica predeterminazione delle forme necessarie per ottenere, senza discriminazioni rispetto ad altri cittadini, la tutela giurisdizionale dei diritti: art. 111, co. 1, Cost.: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».
Garanzia della forma è garanzia, anzitutto, di ottenere il giudizio; in secondo luogo, di un giudizio nel rispetto del processo, di un giudizio formatosi nel e con il processo, al fine di scongiurare i rischi di un giudizio senza processo, quale si avrebbe: a) ove la legge non predeterminasse i poteri dei soggetti coinvolti nel processo; b) ove la legge non predeterminasse altresì i presupposti ed il modo di esercizio di tali poteri, predefinendo i presupposti stessi ed i modelli legali degli atti processuali; c) ove il giudice non tenesse conto, sia in sede di giudizio sia in sede di controllo di legittimità di quel giudizio, delle forme processuali prescritte dal legislatore.
Con riguardo agli atti del processo, ed in particolare del processo civile, le esigenze soggettive di libertà del cittadino, che deve poter conoscere preventivamente le regole del processo per organizzare la propria condotta e, quindi, programmare la propria esistenza, ove non coincidano con le esigenze oggettive e pubblicistiche che il processo raggiunga il suo scopo, restano comunque totalmente assorbite da queste ultime.
Nel processo, pertanto, la necessità del perseguimento del risultato pratico (scopo) previsto dal legislatore per ciascun atto e, per questa via, per il processo complessivamente considerato, prevale sempre rispetto alla necessità del rispetto del modello legale dell’atto in concreto compiuto.
Questo vuol dire che, nella tecnica di redazione della fattispecie dell’atto processuale, accanto allo schema tipico di produzione dell’effetto giuridico (il ‘modello’ tipico dell’atto), il legislatore può prevedere anche uno schema sussidiario (o alternativo) integrato: a) dall’atto viziato più il raggiungimento dello scopo della norma non rispettata; ovvero, b) dal raggiungimento dello scopo tout court di quella norma, che può rendere irrilevante anche l’omissione, il difetto storico totale dell’atto.
Per la stessa ragione, il legislatore può anche prevedere una clausola generale di equipollenza delle forme (degli atti) idonee allo scopo, per i casi residuali nei quali la legge non abbia previsto il modello tipico (v. infra, § 4.2); così come può introdurre – ma qui il rapporto con le esigenze di libertà del singolo si fa assai più delicato – una clausola generale di nullità ‘atipica’, nel senso che non soddisfa rigorosamente i parametri di determinatezza e tassatività, per le ipotesi in cui l’atto manca dei requisiti indispensabili al raggiungimento del suo scopo (art. 156, co. 2, c.p.c.).
Questa preminenza assoluta (del raggiungimento) dello scopo del singolo atto – rispetto alla forma in concreto assunta dal medesimo – affinché il processo raggiunga il suo fine ultimo, assorbe pertanto il rilievo giuridico dell’esigenza inderogabile della tassatività e determinatezza, escludendo sia la necessità di fattispecie legali rigorosamente tipiche (cfr. gli artt. 121 e 131, co. 2, c.p.c.), anche dell’atto nullo (cfr. l’art. 156, co. 2, c.p.c.), sia la necessità dell’esistenza stessa di fattispecie rigorosamente tipiche, cioè inderogabilmente vincolanti (cfr. l’art. 156, co. 3, c.p.c.).
Se quanto si è detto sin qui è vero, non sembrano sussistere i presupposti per affermare – quanto meno come principio di portata generale – il divieto di analogia nella ricostruzione della disciplina (della forma) degli atti processuali.
Peraltro, proprio la coesistenza di schemi di produzione dell’effetto giuridico tipici e atipici, di cui questi ultimi incentrati sullo scopo, rende pressoché indispensabile il ricorso all’analogia per stabilire, in tutti i casi lasciati alla ricostruzione dell’interprete, la forma idonea al raggiungimento dello scopo dell’atto. In particolare, l’analogia appare indispensabile: a) ai fini della ricostruzione delle fattispecie ‘libere’, atipiche, che devono essere strutturate nelle forme più idonee al raggiungimento dello scopo dell’atto; b) ai fini della individuazione della compiuta disciplina dei vizi di nullità previsti espressamente dalla legge; c) ai fini della identificazione delle fattispecie atipicamente nulle ex art. 156, co. 2, c.p.c. e della individuazione del regime del relativo vizio; d) ai fini della identificazione delle fattispecie alternative e sussidiarie a quelle legali, che rendono irrilevante la verificazione del vizio per raggiungimento dello scopo dell’atto che ne è affetto.
Non per quanto si è appena detto il principio di legalità non riveste un ruolo di primaria importanza nella disciplina della forma degli atti processuali civili.
Infatti – premessa la preminenza dello scopo, con le conseguenze che abbiamo visto in tema di possibilità per il legislatore di contemplare schemi atipici di produzione degli effetti dell’atto processuale – il principio di legalità (delle forme) degli atti processuali, costituzionalmente garantito, esplica tutta la sua fondamentale rilevanza all’interno di quella premessa, imponendo: i) al legislatore, la predisposizione di testi legislativi che riducano al minimo la possibilità di lacune o di incertezze interpretative, nonché la discrezionalità del giudice nell’accertamento della conformità dell’atto al modello legale; ii) al giudice, la piena ed incondizionata soggezione alla legge processuale, e quindi il ricorso all’attività di interpretazione delle norme solo nei casi, nei limiti e con le modalità strettamente indispensabili alla chiarificazione della volontà del legislatore, dovendosi ritenere assolutamente non ammissibili interpretazioni che risentano di concezioni del processo – o di alcuni dei suoi principi – non rigorosamente obbiettive; iii) a tutti i soggetti del processo, l’uso dei modelli legali degli atti, non essendo ammissibile, ai fini della produzione degli effetti tipici di quegli atti, l’uso di modelli alternativi, salvo l’operare di cause di sanatoria dei vizi degli atti difformi dal modello o di cause di sanatoria del solo procedimento, ove peraltro anch’esse espressamente previste dal legislatore.
Chiarita, nei termini appena descritti, la portata del principio di legalità degli atti processuali, è agevole definire il rapporto tra tipicità e libertà delle forme di cui si tratta nell’art. 121 c.p.c.
Dalla lettura – e dalla rubrica: «Libertà di forme» – della disposizione in parola, sembrerebbe che il principio accolto dal legislatore sia quello, appunto, della libertà delle forme degli atti processuali, con eccezione delle ipotesi previste dal legislatore. In realtà, com’è già stato più volte sottolineato, l’esame delle numerose disposizioni che si occupano della forma dei singoli atti processuali (ad es., gli artt. 125-126; 132 ss., 136 ss.; 163 ss.; 316 ss.; 342; 365-366; 414; 480; 543; 638; 703; 737 c.p.c. e molti altri) mostra che le cose stanno in termini esattamente opposti a quanto appare prima facie, per cui si può affermare che, di regola, è la legge a fissare il modello legale dell’atto, potendosi solo in via di eccezione – ovvero nelle residuali ipotesi non regolate dalla legge – porre in essere l’atto nella (libera) forma più idonea al raggiungimento del suo scopo.
Quest’ultima affermazione riassume il valore del principio di tipicità degli atti processuali, il quale ha infatti, in piena coerenza con il principio di legalità, di cui è espressione: a) una portata descrittiva, in quanto segnala che nella generalità dei casi il modo di produzione dell’effetto giuridico tipico dell’atto processuale è specificamente predeterminato dalla legge; b) una portata prescrittiva, laddove preclude, ai fini della validità dell’atto, il ricorso a forme libere quando è previsto il modello legale.
Ed è appena il caso di sottolineare che la regola – tipicità dell’atto – trova giustificazione, oggi, nella «fondamentale funzione di garanzia propria dell’essenza formale dell’atto processuale: garanzia evidente per l’avversario, altrimenti costretto a ‘divinare’ cosa si nasconde sotto le spoglie di ogni atto; ma garanzia anche per l’agente, il quale ha diritto che l’atto sia apprezzato dal giudice per ciò che formalmente è» (Vaccarella, R., Volontà e forma degli atti processuali di parte: la conversione della citazione in atto di riassunzione, in Giur. it., 1983, I, 2, 42), in una prospettiva dello scopo complessivo del processo costituzionalmente orientata. Mentre l’eccezione – libertà di forme –, operante solo in via sussidiaria, si spiega quale necessaria clausola di chiusura per l’impossibilità del legislatore di prevedere e regolare compiutamente tutti i possibili atti del processo, come vedremo con maggior dettaglio (infra, § 4.2).
Da ultimo, occorre ricordare che il modello dell’atto, come descritto dal legislatore, non è tuttavia sempre per intero vincolante: infatti, l’inosservanza della forma è causa di nullità solo nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 156, co. 1, c.p.c.) o quando l’atto manchi dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo (art. 156, co. 2, c.p.c.). Si deve anzi tener presente che, a ben vedere, anche quando il requisito di forma è previsto a pena di nullità, questo non può dirsi assolutamente vincolante tutte le volte che la sua mancanza sia suscettibile di rimedio, attraverso una causa di sanatoria, all’interno del processo (ad es., nel caso previsto dall’art. 156, co. 3, c.p.c.).
Si può così distinguere la fattispecie legale dell’atto, formata dai requisiti che l’atto deve necessariamente contenere affinché lo stesso produca i suoi effetti tipici indipendentemente dall’operare di una causa di sanatoria – e si tratta pertanto di requisiti la cui mancanza determina la nullità, totale o parziale, dell’atto (art. 159 c.p.c.) –, dal modello legale dell’atto, che è formato dalla fattispecie legale e da quegli ulteriori requisiti, previsti dalla legge, la cui mancanza non comporta alcuna conseguenza sulla efficacia tipica dell’atto e che pertanto s’intendono prescritti a pena di mera irregolarità dell’atto stesso (Conso, G., I fatti giuridici processuali penali, cit., 11 s.).
Con ogni chiarezza l’art. 121 c.p.c. stabilisce che gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo; ciò che, mutato il necessario, dispone anche il co. 2 dell’art. 131 c.p.c. con riguardo ai provvedimenti del giudice.
Da queste disposizioni si possono ritrarre le seguenti considerazioni di carattere sistematico: i) il ricorso alla forma più idonea al raggiungimento dello scopo dell’atto è ammesso solo nei casi – residuali e comunque qualitativamente eccezionali, come abbiamo già visto – per i quali la legge non predetermina il modello legislativo, disciplinando anche quello che comunemente viene definito il contenuto dell’atto; ii) le disposizioni in esame rappresentano delle clausole di chiusura del sistema di disciplina della forma degli atti processuali, rese necessarie dalla impossibilità, per il legislatore, di prevedere e regolare compiutamente tutti i possibili atti e provvedimenti del processo; iii) le stesse disposizioni indicano con chiarezza il criterio seguito dal legislatore nella disciplina della forma degli atti processuali: le forme sono funzionali al raggiungimento dello scopo dell’atto (o, con maggior precisione, al raggiungimento dello scopo della norma che quell’atto regola).
Qui il legislatore opera con una tecnica del tutto peculiare: non vengono fissati gli specifici requisiti dell’atto, ma si condiziona la validità ed efficacia dell’atto stesso alla presenza, nel caso concreto, di quegli elementi che (al meglio) siano in grado di assicurare il raggiungimento del suo scopo. Ciò vuol dire che sono astrattamente valide ed efficaci tutte quelle fattispecie – di qui il principio di equipollenza (che chiameremmo tale in senso stretto) – che appaiono idonee a conseguire il fine per cui l’atto è previsto dall’ordinamento.
I casi che potrebbero ricondursi al principio di equipollenza in senso stretto sono numerosi ed eterogenei.
A) Una prima serie di casi per i quali si potrebbe ritenere applicabile il principio in discorso è quella in cui la legge demanda al giudice di fissare in concreto la forma dell’atto (cfr., ad es., art. 38, co. 3; 151; 194; 202; 210; 258; 259 c.p.c.). In questi casi, la rilevanza dell’atto si esaurisce nel caso concreto in relazione al quale è posto in essere, per cui, purché sia congruo allo scopo, può assumere qualsiasi forma e quindi, di volta in volta, a seconda del caso specifico, anche una forma diversa. L’art. 121 c.p.c., infatti, pare debba essere letto – indipendentemente dagli spunti traibili dal co. 2 del successivo art. 131 – nel senso che prevede, appunto, la equipollenza di varie forme, purché idonee allo scopo, e non già, come anche potrebbe essere, la prescrizione inderogabile di una forma – ricavabile in via interpretativa – la più idonea al raggiungimento dello scopo.
B) Vi sono poi altri casi nei quali la legge nomina l’atto, senza però indicarne i requisiti di forma (cfr., ad es., gli artt. 250; 300, co. 1-2; 306, co. 1; 329, co. 1, c.p.c.). Anche qui il modello dell’atto può concretamente variare da caso a caso, ed assumere una qualsiasi delle forme idonee allo scopo, ma apparirà più standardizzato rispetto ai casi prima considerati, tenuto conto del fatto che in questi casi la forma dell’atto non è condizionata dalle peculiarità del caso concreto.
C) In altri casi ancora la legge nomina genericamente il provvedimento del giudice, senza chiarirne il tipo (cfr., ad es., l’art. 42 c.p.c. in relazione all’art. 295 c.p.c. e l’art. 103, co. 2, disp. att. c.p.c.). Si tratta di casi cui sembra ben calzare la disposizione dell’art. 131 c.p.c. e tuttavia sembra che qui il principio in discorso debba assumere un diverso contenuto.
Invero, con riferimento a queste ipotesi, le disposizioni di cui agli artt. 121 e 131 c.p.c. assumono un significato funzionale solo ove siano lette nel senso che, quando la legge non prescrive una forma determinata, l’atto deve essere posto in essere nella (sola) forma più idonea al raggiungimento dello scopo. In altre parole qui, a differenza che nelle ipotesi sub A) – e contrariamente a quanto lascerebbe intendere la lettera del co. 2 dell’art. 131 c.p.c. («qualsiasi forma») – con riguardo ad una determinata previsione normativa, ad es. quella dell’art. 42 c.p.c., una volta individuata la forma più idonea al raggiungimento dello scopo, l’atto (il provvedimento) deve necessariamente assumere sempre quella forma (sentenza, ordinanza o decreto), non potendo il medesimo variare da caso a caso – assumere cioè «qualsiasi forma» idonea allo scopo – per ineludibili esigenze di certezza. In conclusione, qui l’atto può assumere la forma più funzionale allo scopo, tra quelle astrattamente tipizzate dalla legge.
D) Vi sono infine altre ipotesi in cui l’atto è semplicemente presupposto dalla legge, senza che ne siano chiariti il tipo ed i requisiti di forma: ad es., l’atto da cui decorre il termine breve per il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 della Costituzione. Anche in questi casi non par dubbio che, una volta individuata – attraverso una interpretazione sistematica della legge – la forma più idonea al raggiungimento dello scopo, questa debba essere intesa come l’unica forma attraverso la quale l’atto può produrre i suoi effetti tipici; pena, in queste ipotesi, la violazione del diritto di difesa per l’assoluta incertezza in ordine alla decorrenza del termine breve per impugnare.
La considerazione degli artt. 121, 131 e 156 c.p.c. mostra chiaramente che le forme (degli atti) del processo non sono previste e prescritte dalla legge per la realizzazione di un fine proprio ed autonomo, bensì sono intese e congegnate come lo strumento più idoneo per il raggiungimento di un certo risultato, il quale risultato rappresenta l’unico vero obiettivo che alla norma disciplinante la forma dell’atto interessa conseguire: si tratta del cd. principio di strumentalità delle forme (così definito da Liebman, E. T., Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2007, 213 s.).
Dal principio in discorso discendono direttamente tre corollari di primo rilievo: a) le norme aventi ad oggetto le prescrizioni formali devono essere interpretate privilegiando l’aspetto funzionale delle stesse, rispetto a quello meramente o prevalentemente sanzionatorio; b) il rispetto delle prescrizioni formali è necessario solo nella misura in cui ciò sia indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto di cui si tratta; c) l’eventuale inosservanza della prescrizione formale diventa irrilevante se l’atto viziato ha ugualmente raggiunto lo scopo cui è destinato (principio della sanabilità del vizio per raggiungimento dello scopo, codificato nell’art. 156, co. 3, c.p.c.).
Per comprendere il contenuto ed il valore del principio di strumentalità, occorre altresì tener presente – oltre alla relazione, testé indicata, tra il singolo precetto, la singola forma ivi prevista e lo scopo dell’atto processuale di volta in volta considerato – che sussistono un gran numero di norme che prevedono le cd. cause di sanatoria, ovvero meccanismi finalizzati a rendere irrilevante nel processo la verificazione di inadempimenti formali, di vizi degli atti processuali che, in assenza di quei meccanismi, costringerebbero il giudice a chiudere il processo con una sentenza di rito, dichiarativa del mancante potere di azione o del suo illegittimo esercizio (sulle varie cause di sanatoria, v. Poli., R., Invalidità ed equipollenza, cit., 219 ss.).
Orbene, la considerazione che anche le norme che prevedono tali rimedi sono norme sulla forma (degli atti) del procedimento, consente di precisare, arricchendolo, il contenuto del principio di strumentalità in discorso, giacché si palesa che tali forme sono strumentali non solo al raggiungimento dello scopo primo, peculiare e diretto dell’atto processuale, bensì anche allo scopo ultimo, generale ed indiretto dell’atto medesimo, ovvero allo scopo del processo unitariamente considerato: la pronuncia sul merito del diritto controverso.
La relazione sussistente tra le forme (degli atti) del procedimento e lo scopo del processo, nei termini ora indicati, concorre dunque a determinare il principio di strumentalità delle forme e permette di estrapolare, dal medesimo principio pienamente inteso, tre ulteriori corollari che, quali direttrici generali del processo, devono sempre guidare – non diversamente dai tre corollari prima indicati – l’interpretazione delle norme sul modo di esercizio del potere di azione (id est, le norme sulla validità ed efficacia degli atti processuali): d) si deve impedire, per quanto è possibile, che la necessità del processo per la difesa del diritto torni a danno di chi è costretto ad agire o difendersi in giudizio per chiedere ragione (Chiovenda, G., Sulla “perpetuatio iurisdictionis”, in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma, 1930, 271 ss.); e) il processo deve dare, per quanto è possibile, a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire (Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1933, 42); f) eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dall’osservanza del giudizio (Andrioli, V., Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 28).
Tenuto conto del concetto ampio di forma che sembra aver adottato il legislatore (v. supra, § 2), e della formula assoluta e perentoria adottata negli artt. 121 e 131 c.p.c., non dovrebbero sussistere dubbi sull’applicabilità del principio in parola non solo a tutti gli atti del processo, ma anche a quelle forme prescritte a pena di conseguenze diverse dalla nullità in senso stretto.
Invece, sia in dottrina sia in giurisprudenza si discute in merito all’applicabilità di questo principio alle forme previste a pena di inammissibilità ed improcedibilità delle impugnazioni.
A questo riguardo si può osservare che, indubbiamente, il quadro di riferimento in sede d’impugnazione, ed in particolare innanzi alla Cassazione, è ben diverso da quello del primo grado: in quest’ultimo, il processo non ha ancora nemmeno in parte raggiunto il suo scopo, mentre in sede d’impugnazione, meramente eventuale, si procede a sindacare l’operato del giudice che si è già pronunciato sulla domanda delle parti; sicché si può plausibilmente ipotizzare che, in tale sede, si irrigidisca la disciplina dei vizi formali anche attenuando l’incidenza del sistema di autorettificazione del processo.
Tuttavia, la disciplina complessiva del modello legale non può apparire ingiustificatamente irragionevole od in contrasto con i principi fondamentali dell’intero sistema, per cui, se da un lato si può comprendere la non rinnovabilità dell’impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile, ex artt. 358 e 387 c.p.c., dall’altro lato si deve anche riconoscere che il raggiungimento dello scopo, ove rettamente inteso, non può che concorrere al corretto svolgimento del giudizi di appello e di cassazione. Quest’ultimo, peraltro, come noto, potrebbe essere limitato solo in virtù di un interesse di rango costituzionale (cfr. art. 111, co. 7, Cost.).
Ed è appena il caso di osservare che questa ricostruzione non appare indebolita dalla circostanza che per le figure di difformità dal modello ora in esame – inammissibilità e improcedibilità – non è espressamente prevista una regola equivalente a quella contenuta nel co. 3 dell’art. 156 c.p.c. a proposito delle nullità. Infatti, la formulazione espressa di tale regola può ben spiegarsi in relazione alla preoccupazione del legislatore di evitare soluzioni aberranti nell’applicazione dell’art. 156, co. 2, c.p.c. (norma non prevista per le ipotesi di difformità dal modello legale diverse dalla nullità); quest’ultima norma, invero, disponendo che può essere pronunciata la nullità quando l’atto manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, ed in assenza della norma contenuta nel co. 3 dello stesso art. 156, avrebbe comportato il rischio di un’interpretazione secondo cui il giudice, accertato che l’atto manca di un requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo, deve senz’altro pronunciare la nullità, mentre in realtà ciò può fare solo a seguito del secondo accertamento cui è tenuto, volto ad acclarare se l’atto, nonostante il vizio, abbia raggiunto lo scopo cui è destinato.
Per quanto riguarda, in particolare, i rapporti tra principio di strumentalità ed inosservanza di forme a pena d’improcedibilità, sul punto è intervenuta di recente la Suprema Corte che, con una serie di pronunce rese nell’arco di un lustro, ha affrontato funditus il tema in esame e ha escluso la sanabilità per raggiungimento dello scopo del ricorso per cassazione improcedibile per omesso deposito di copia autentica della sentenza impugnata, ex art. 369, co. 2, n. 2 c.p.c. (v. al riguardo Cass., S.U., 16.4.2009, nn. 9004, 9005, 9006, cui si uniforma la giurisprudenza successiva). Tale orientamento non appare tuttavia condivisibile, non solo perché non tiene in adeguata considerazione il principio di strumentalità delle forme ed i suoi corollari, ma perché sembra fondarsi sulla erronea confusione tra effetto decadenza ed effetto improcedibilità: invero, altro è l’effetto decadenza, che consegue al mancato compimento dell’atto entro il termine previsto dalla legge – colpisce direttamente la sfera dei poteri della parte e indirettamente il ricorso – e comporta l’impedimento a compiere l’atto in un momento successivo; altro è l’effetto improcedibilità, che consegue alla dichiarazione giudiziale (cfr. art. 387 c.p.c.) – colpisce direttamente il ricorso e indirettamente la sfera dei poteri della parte – e comporta la non riproponibilità del ricorso (cfr. ancora l’art. 387 c.p.c.).
Ciò vuol dire che residua un ampio spazio fra la verificatasi decadenza e la (eventuale) dichiarazione d’improcedibilità del ricorso, ampio spazio dove può assumere piena rilevanza il raggiungimento dello scopo quale causa di sanatoria del vizio che inficia il ricorso (sul quale ricade la sanzione in caso di omesso deposito ex art. 369, co. 2, c.p.c.), senza che ciò comporti alcuna violazione delle norme in tema di termini e di decadenza.
In conclusione su questo punto, qui si può solo ribadire che anche i vizi di inammissibilità e di improcedibilità delle impugnazioni rappresentano ipotesi di inosservanza delle norme sulle forma degli atti processuali, per cui il ragionamento volto all’individuazione del regime di tali vizi non dovrebbe mai trascurare il principio di strumentalità delle forme ed i suoi corollari.
Artt. 121-162 c.p.c.
Auletta, F., Nullità e«inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999; Conso, G., I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955; Denti, V., Gli atti processuali, in Dall’azione al giudicato, Padova, 1983, 127 ss.; Oriani, R., Atti processuali: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; Poli, R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012;Redenti, E., Atti processuali civili, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 105 ss.