Abstract
Il tema dell’effettiva autonoma rilevanza di una nozione di ‘atto unilaterale’ nel nostro ordinamento si lega inevitabilmente alla riflessione sulla attualità della categoria del negozio giuridico nella sistematica civilistica. Partendo dalla classificazione tradizionale fatto/atto/negozio giuridico, è possibile individuarne potenzialità e limiti, rinvenienti dalle ricostruzioni dottrinali e dai riferimenti normativi, soffermandosi in particolare sulle questioni dell’impegnatività delle promesse, della tipicità o meno degli atti unilaterali e della disciplina applicabile a questi ultimi.
Quale spazio può essere assegnato ad una nozione di ‘atto unilaterale’ nel nostro ordinamento, intesa nel senso di dichiarazione (negoziale o meno) espressa da una sola parte? Si deve prestare fede all’apparente marginalità di tale figura nel nostro codice civile (che non enuclea, peraltro, neanche una definizione del negozio giuridico) o invece essa merita, quanto meno, di essere elevata a rango di categoria giuridica, al pari del suo ‘fratello maggiore’ il negozio giuridico (o, magari, a discapito di quest’ultima?).
È naturale affrontare il discorso partendo dalle fondamentali categorie dottrinarie, il fatto, l’atto, il negozio giuridico. La classificazione tradizionale enuclea gli atti giuridici dalla più ampia categoria dei fatti giuridici, identificando nei primi quelli che, consistendo necessariamente in un comportamento umano, vengono disciplinati dall’ordinamento conferendo rilevanza alla consapevolezza e volontà del comportamento (ad esempio, il contratto, la confessione, la dichiarazione di scienza) laddove, invece nei secondi, pur potendosi ravvisare, eventualmente, un comportamento umano, tale rilevanza non sussiste (ad esempio, la piantagione, l’edificazione, riconducibili a comportamenti umani e produttivi l’acquisto di quanto sarà frutto della plantatio o della inaedeficatio non in virtù di dell’attività umana, bensì del processo naturale e dell’accessione) (Betti, E., (voce) Atti giuridici, in Nss. D. I., I, Torino, 1958, 2, 1504; Santoro-Passarelli, F., Atto giuridico a) diritto privato, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 203 ss.).
Sempre nel solco della tradizione, è usuale conferire rilevanza, anche in giurisprudenza (v. per es., Cass., 18.6.1986, n. 4072, in Foro it., 1986, I, 2119) all’interno della figura dell’atto giuridico, alla diversa rilevanza della volontà, a seconda che questa sia diretta solo all’atto o, invece, anche alla produzione di effetti giuridici; nel primo caso, si tratterà degli atti giuridici in senso stretto, la cui efficacia discende direttamente dalla legge, nel secondo caso degli atti negoziali.
Ove si concentri l’attenzione sugli atti unilaterali, quindi, è naturale guardare alle figure del negozio giuridico unilaterale e dell’atto giuridico unilaterale in senso stretto.
Il negozio giuridico e l’atto giuridico non sono, nel nostro ordinamento, categorie normative, bensì puramente teoriche, nella prospettiva della costruzione di regole comuni per tutti gli atti di autonomia privata.
A differenza della categoria del negozio giuridico, però, la nozione di atto giuridico è stata per lungo tempo trascurata dalla dottrina, protesa verso l’analisi delle dichiarazioni di volontà; del resto quella dell’atto giuridico costituisce un’idea relativamente recente, che è stata ricavata per difetto dalla più ristretta concezione del negozio, allorché ci si è resi conto (in particolare, grazie agli studi di Manigk) che vi erano figure che non si lasciavano collocare nella fattispecie negoziale (Santoro- Passarelli, F., Atto giuridico, cit., 205).
La distinzione tra negozi e atti in senso stretto, quindi, era inizialmente sconosciuta alla pandettistica, che riconduceva a meri ‘fatti’ tutti i comportamenti umani non caratterizzati dall’elemento volontaristico mentre l’esigenza di elaborare una categoria dell’atto giuridico non negoziale è stata avvertita dapprima nella dottrina tedesca e, poi, anche in Italia, a partire dall’inizio del secolo scorso, dopo l’entrata in vigore del BGB (Rescigno, P., Atto giuridico, 1) Diritto privato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1).
Dubbi e incertezze afferiscono l’individuazione dei caratteri essenziali delle due figure e della disciplina applicabile nonché gli aspetti differenziali tra esse.
Quanto ai caratteri dei negozi unilaterali, da un lato, il nostro legislatore ha ritenuto di costruire attorno alla categoria del contratto il modello generale degli atti di autonomia privata, relegando gli atti di autonomia privata a base unilaterale in una disciplina scarna e oscura, che si limita a prevedere, nell’art. 1324 c.c. il principio dell’estensione della disciplina contrattuale agli «atti tra vivi aventi natura patrimoniale», secondo un criterio di compatibilità e, all’art. 1334 c.c., la natura recettizia. Sia il significato del riferimento agli ‘atti’ che l’operatività del criterio della ‘compatibilità’, come si vedrà, lasciano spazio a molteplici discussioni.
Dall’altro lato, il nostro codice esprime all’art. 1987 c.c. un principio di tipizzazione delle promesse unilaterali giuridicamente vincolanti (v. par. 2), il quale pone un’ulteriore limitazione per tale tipologia di atto giuridico.
Riguardo alla distinzione tra atto giuridico in senso stretto e negozio giuridico, nel solco dell’opinione tradizionale, che delinea quest’ultima figura basandosi sulla presenza di un intento diretto alla produzione di effetti, si dovrebbero ritenere applicabili solo nel secondo caso le norme relative all’interpretazione ed alla patologia dell’atto. Le difficoltà di una coerente classificazione dei vari atti sulla base dei criteri distintivi comunemente utilizzati, pongono la questione dell’adeguatezza della categoria concettuale del negozio giuridico, più in senso disciplinare che ideologico (in tema, si veda Negozio giuridico; Roppo, V., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, 67 ss.). La categoria degli atti negoziali è, infatti, eterogenea e incapace di ricondurre ad unità discipline diverse, pur nell’ambito di comuni esigenze di trattamento, con riferimento alla rilevanza della capacità legale e naturale e dei vizi della volontà. Sul piano disciplinare, la stessa esclusione degli atti mortis causa dall’ambito dell’art. 1324 c.c., testimonia l’irriducibilità della categoria.
D’altro canto è stato segnalato come la disciplina delle patologie negoziali sia incoerente: non si dubita, ad esempio, circa la natura non negoziale della promessa di matrimonio (art. 79), per la quale è, però, necessaria la maggiore età e la capacità di contrarre matrimonio e, da parte di altri, si è esclusa la natura negoziale del matrimonio e del testamento.
Se risulta difficile l’individuazione dei caratteri e la ricostruzione di una disciplina unitaria del negozio giuridico, a maggior ragione, pertanto, appare problematico estrapolare – in mancanza di qualsiasi disciplina generale – una sicura definizione ed una disciplina dell’atto giuridico in senso stretto, soprattutto ove si aderisca all’impostazione critica di chi ha negato qualsiasi autonomia concettuale alla figura del negozio giuridico (Galgano, F., Trattato di diritto civile, II ed., Padova, 2010, 45 ss.). In un quadro, quindi, di ambiguità e incertezza delle categorie tradizionali, si deve affrontare il tema della ‘unilateralità’ dell’atto e della sua disciplina.
È centrale, nella nostra letteratura giuridica, il tema della tipicità dei negozi giuridici unilaterali e dell’eventuale impegnatività di promesse atipiche.
In ragione della diversità della struttura, il nostro codice civile ha riservato un differente trattamento agli atti unilaterali inter vivos aventi contenuto patrimoniale rispetto ai contratti, prevedendo, all’art. 1324, un’applicazione delle norme che regolano questi ultimi condizionata ad un criterio di compatibilità. È notorio che il nostro codice si caratterizza per la centralità dell’istituto del contratto e dell’accordo, quale fonte preminente di effetti giuridici. Alla centralità sistematica del contratto, quale negozio necessariamente bilaterale (o multilaterale) riveniente dalle norme relative alla parte generale (ed in particolare degli artt. 1321, 1325, n. 1, 1326, co.1, c.c.; v. Scognamiglio, R., Contratti in generale, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, IV, t. 2, Milano, 1961, 14 ss.) che elevano la figura a modello generale disciplinare dei rapporti economici, si riconnette, per converso, il principio della tipicità dei negozi giuridici unilaterali, che trarrebbe la propria fonte nell’art. 1987 c.c. (Segni, M., Autonomia privata e valutazione legale tipica, Padova, 1972, 375; Tamburrino, G., I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, Milano, 1954, 29; Galgano, F., Diritto civile e commerciale, III ed., II, t. 2, Padova, 1999, 248 ss.; Carresi, F., Il contratto, in Tratt. Cicu-Messineo, XXI, 2, Milano, 1987, 103).
Il codice civile del 1865, invece, prevedeva espressamente, all’art. 1100, la figura del contratto unilaterale, disponendo che «il contratto è unilaterale quando una o più persone si obbligano verso una o più persone, senza che queste ultime incontrino alcuna obbligazione».
La scelta di privilegiare il genotipo contrattuale, operata dal nostro legislatore, si pone sul solco della tradizione condivisa da gran parte delle codificazioni europee che ha trovato conferma anche nella recente definizione del contratto di cui all’art. II-I:101 del DCFR (Draft of Common Frame of Reference) quale «agreement which is intended to give rise to a binding legal relationship or to some other legal effect» e nella scelta operata dai redattori del Draft di disciplinare la figura quale punto centrale e genetico delle vicende obbligatorie e traslative.
Com’è stato osservato, le ragioni culturali alla base del mancato riconoscimento dell’obbligatorietà della mera promessa sono eterogenee oltre che spesso culturalmente opposte e fondate sia sull’interesse del promittente che sulla tutela del promissario (D’Angelo, A., Le promesse unilaterali. Artt. 1987-1991, in Il codice civile commentato, Milano, 1996, 2 ss.). Risaltano, senza dubbio, nella riflessione scientifica, il principio di intangibilità della sfera giuridica individuale e la convinzione circa la maggiore rispondenza della sequenza bilaterale alle esigenze di democraticità, laddove invece il paradigma unilaterale sarebbe espressione di autoritarismo. Da parte di altri è stata invocata a sfavore della vincolatività della promessa l’assenza di una giustificazione causale che conseguirebbe alla scomposizione degli elementi costitutivi di un contratto bilaterale in due separate dichiarazioni impegnative (Branca, G., Delle promesse unilaterali, in Delle obbligazioni. Artt. 1960-199, Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1974, 408). Tale preoccupazione risulta espressa anche nella Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile del 1943, per quanto si chiarisse che i casi di promessa unilaterale obbligatoria non sono limitati a quelli previsti dal libro IV «Delle obbligazioni».
Com’è noto, però, una serie di fattori mette fortemente in discussione l’attualità dell’assetto sopra richiamato, radicato sulla distinzione netta tra promessa (unilaterale e quindi non vincolante salvo espressa previsione legislativa) e contratto (bilaterale e generalmente vincolante).
In generale, sono note le molteplici ragioni di crisi della stessa figura del contratto e la sua declinante importanza quale fonte generale dei rapporti di scambio, a vantaggio di nozioni slegate – in ragione delle nuove esigenze mercantili – dal concetto di accordo, quali gli obblighi da contatto sociale o gli ‘scambi senza accordo’ (v. Irti, N., Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 347 ss.) e le ricadute sulla nozione tradizionale di accordo dell’evoluzione tecnologica (vedi per esempio, i dubbi sulla natura consensuale del cd. contratto telematico nella cd. modalità ‘point and click’ sull’applicabilità della disciplina del contratto in generale, in particolare in tema di forma negoziale e di clausole vessatorie).
Sul piano del binomio vincolatività/bilateralità, poi, va detto che la stessa idea di una esclusività dell’accordo come strumento generale di esplicazione dell’autonomia privata è, in effetti, da lungo tempo, oggetto di revisione da una parte della dottrina.
In particolare, si è ritenuto di poter riconoscere, nonostante la lettera dell’art. 1987 c.c. che subordina gli effetti obbligatori delle promesse unilaterali al principio di tassatività, la legittimità di promesse unilaterali atipiche, quanto meno nei limiti in cui gli effetti verso il terzo siano incrementativi e sia garantito il rifiuto del destinatario (Benedetti, G., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, II ed., Napoli, 1997; Irti, N., Per una lettura dell’art. 1324 c.c., in Riv. dir. civ., 1994, I, 559; Bianca, C.M., Diritto civile. III, Il Contratto, I ed., Milano, 1987, 12).
Ben più estrema, invece, è l’apertura prospettata da parte di chi ha negato che l’art. 1987 c.c. possa fondare un principio del numerus clausus delle promesse unilaterali, ritenendo che tale norma abbia più che altro espresso l’insufficienza della volontà di auto-obbligarsi ai fini del vincolo giuridico, in mancanza dei requisiti legali di compatibilità con la disciplina del contratto, ai sensi dell’art. 1324 c.c. (sussistenza di una valida e lecita causa contrattuale, possibilità, liceità e determinabilità dell’oggetto) (Gorla, G., Il potere della volontà nella promessa come negozio giuridico, in Riv. dir. comm., 1956, I, 18 ss.; Ferri, G.B., Autonomia privata e promesse unilaterali, in Banca borsa, 1960, I, 481 ss.).
Da parte di altri, il dogma della bilateralità è stato contestato assegnando al «contratto con obbligazioni del solo proponente» disciplinato dall’art. 1333 c.c., il ruolo di schema generale che individua i requisiti necessari per la vincolatività delle promesse unilaterali, cui si contrapporrebbe l’art. 1987 c.c., da intendersi però quale regola speciale che stabilisce la tassatività delle promesse unilaterali diverse da quelle sussumibili nella regola generale dell’art. 1333, co. 2 c.c. (Graziani, C.A., Le promesse unilaterali, in Tratt. Rescigno, IX, Torino, 1984, 657).
Su questo abbrivio, diverse pronunce, hanno affermato l’ammissibilità di impegni unilaterali atipici aventi ad oggetto l’assunzione di determinati obblighi (v., tra le altre, Cass., 27.9.1995, n. 10235, in Banca borsa, 1997, II, 396, in tema di lettere di patronage; Trib. Roma, 18.7.1985, in Banca borsa, 1986, I, 450).
In particolare, per quanto riguarda questo secondo versante teorico, l’indagine comparatistica ha rivelato come in molti ordinamenti caratterizzati dal dogma del consenso bilaterale si garantisca comunque protezione giuridica alle promesse unilaterali gratuite, magari anche attraverso l’escamotage rappresentato dall’equiparazione tra il silenzio del promissario e l’accettazione espressa (così nella giurisprudenza tedesca). Nella prospettiva di cui si discorre, allora, il vero punto di confronto sul tema del contratto unilaterale è costituito dall’esperienza anglosassone delle promesse sprovviste di consideration, gratuite eppure riconosciute vincolanti, attraverso gli istituti derivanti dalla dottrina dell’estoppel, pure in assenza dei requisiti formali del deed (strumento tecnico generale idoneo a dare valore giuridico impegnativo ad atti negoziali, anche unilaterali – v. Criscuoli, G., Il contratto nel diritto inglese, II ed., Padova, 2001, 26 ss.), in funzione dell’affidamento che queste ingenerano.
Ed è significativo osservare come, anche in Inghilterra e ancor più negli Stati Uniti, il dibattito dottrinale registri una tendenza marcata a ricondurre anche tali figure nell’alveo degli unilateral contracts, in sintonia con la dottrina continentale, la quale tende sempre più ad accreditare l’idea di contratto come promessa che ingenera affidamento più che come accordo (v. Marchetti, C., Il DFCR: lessici, concetti e categorie nella prospettiva del giurista italiano, Torino, 2012, 8 ss.).
Nella medesima direzione si pongono anche gli strumenti di soft law contrattuale elaborati dai giuristi continentali e non, quali per esempio i Principi Unidroit, che all’art. 3.20 dispongono come le previsioni del capitolo 3 sulla validità del contratto si applichino anche a qualsiasi comunicazione di intento indirizzata da una parte all’altra, presupponendo, quindi, che la dichiarazione unilaterale possa costituire rapporti. L’emancipazione del paradigma unilaterale dal dogma della tipicità, del resto, si attua con maggiore frequenza proprio nell’ambito del commercio internazionale, a causa delle caratteristiche dei traffici sovranazionali. Si guardi anche ai PECL (Principles of European Contract Law), che all’art. 2.107 prevede gli effetti obbligatori della promessa che intenda essere vincolante senza accettazione. Tale approccio si riscontra, a maggior ragione, anche nel diritto internazionale in considerazione della particolare estensione dell’ambito delle dichiarazioni nello spazio giuridico mondiale (si vedano le decisioni della Corte internazionale di giustizia (20.12.1974, in ICJ Reports, 1974, 253 ss.).
Sul versante domestico, però, non può certo dirsi che la tendenza espansiva assestatasi a proposito delle lettere di patronage abbia determinato un mutamento complessivo dello stato dell’arte. Maggiori problemi, in particolare, ha posto, nel nostro ordinamento la figura del negozio unilaterale atipico gratuito ad effetti reali, ritenuto dalla giurisprudenza nullo per difetto di causa (Cass., 20.11.1992, n. 12401, in Foro it., 1993, I, 1506), laddove si è ritenuto di non sfuggire all’alternativa dogmatica tra scambio e liberalità.
Più in generale, occorre tener conto dell’orientamento – sfavorevole all’atipicità delle promesse unilaterali – che perviene alla negazione della bilateralità quale requisito necessario di tutti i contratti, e assegna la natura di ‘contratto a formazione unilaterale’ alla fattispecie dell’art. 1333 c.c. (in questo senso, Sacco, R.-De Nova, G., Il contratto, in Tratt. dir. civ. Sacco, III ed., I, Torino, 2004, 265).
La dottrina prevalente, pur ammettendo che il procedimento del vincolo è differente rispetto alla struttura bilaterale proposta-accettazione, ha posto in evidenza come la dichiarazione negoziale dell’obbligato ai sensi dell’art. 1333, co. 2, c.c. non sia da sola sufficiente alla costituzione del vincolo, occorrendo il concorso della manifestazione di volontà (o quanto meno l’inerzia) del destinatario per il tempo indicato dalla norma in questione (anche per una summa delle varie posizioni, v. D’Angelo, A., Le promesse unilaterali. Artt. 1987-1991, in Il codice civile commentato, Milano, 1996, 86 ss.).
Anche in giurisprudenza, lo schema ricostruttivo dell’art. 1333 c.c. è stato prevalentemente utilizzato ai fini della configurazione di un vincolo giuridico a proposito delle cd. lettere di patronage, ma nella più rassicurante veste del contratto unilaterale e tuttora, prevale, nella letteratura giuridica nazionale e nonostante le diverse ed argomentate opinioni, l’opinione contraria alla qualificazione della fattispecie di cui all’art. 1333 c.c. in senso unilaterale.
(Si rinvia, comunque, con riferimento alle promesse unilaterali ed agli altri atti negoziali unilaterali tipizzati, a Promesse unilaterali).
Se, dunque, possono nutrirsi dubbi a proposito dell’ammissibilità di promesse unilaterali atipiche, la circostanza per cui, attraverso l’art. 1324 c.c., si sia fatto riferimento in generale agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, dovrebbe garantire l’ammissibilità di atti negoziali unilaterali atipici diversi dalle promesse.
Sul piano esegetico, difatti, l’art. 1324 c.c. rinvia alla disciplina generale del contratto e, quindi, anche all’art. 1322, co. 2, c.c. (che, come noto, garantisce la libertà di creazione di schemi atipici, con il limite della meritevolezza), confinando la regola della tipicità alle sole promesse ex art. 1987 c.c.
Sul piano sostanziale, per quanto riguarda gli atti unilaterali diversi dalle promesse, del resto, non si pongono i problemi prima accennati di astrattezza della fattispecie, né la struttura unilaterale di tali atti è di per sé idonea a delimitare la ricorrenza di figure atipiche. Diversamente dalle promesse, si collocano, quindi, nell’alveo dell’art. 1324 c.c. una serie di figure nelle quali la fattispecie a struttura unilaterale dà vita ad un rapporto giuridico patrimoniale in attuazione di un piano d’interessi esclusivamente riconducibile al dichiarante, la cui volontà soltanto, dunque, è sufficiente a giustificarlo sotto il profilo volitivo, ferma restando la necessità del rispetto della meritevolezza dell’interesse ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c. In tali casi il soggetto destinatario o comunque interessato si colloca al di fuori dal procedimento formativo dell’atto, il quale potrà, al limite, solo rifiutarlo, ma solo nel caso in cui la propria sfera giuridica possa essere alterata dall’atto altrui (contra Galgano, F., Trattato di diritto civile, cit.).
È il caso, per esempio, del negozio di accertamento a struttura unilaterale, che la giurisprudenza prevalente ritiene ammissibile, riconoscendo la possibilità per il soggetto di vincolarsi ad accertare definitivamente per il futuro una situazione incerta (Cass., 6.11.2004, n. 9651; Cass., 10.1.1983, n. 161; Cass., 6.11.1981, n. 5857; Cass., 6.5.1980, n. 2976; Cass., 29.10.1979, n. 5663; Cass., 3.7.1969, n. 2440). Trattasi, in questi casi, di atti che sono destinati ad assumere effetti negativi nella sola sfera giuridica del dichiarante.
Altro esempio è dato dai negozi gratuiti atipici, che si differenziano dalle liberalità in quanto chi dispone riceve un vantaggio economicamente apprezzabile (ipotesi peraltro codificate dagli artt. 1710 e 1768 c.c. che prendono in considerazione rispettivamente l’ipotesi del mandato e del deposito gratuiti). Si pensi al musicista che si impegni gratuitamente a tenere un concerto al fine di ottenere pubblicità.
Inoltre, si può porre il caso del pagamento traslativo, qualificato quale negozio giuridico unilaterale traslativo con causa solutoria: tale fattispecie viene generalmente ritenuta ammissibile ove la giustificazione causale dell’effetto traslativo risieda nell’adempimento di una precedente obbligazione (La Porta, U., L’assunzione del debito altrui, Milano, 2009, 182).
La disposizione dell’art. 1324 c.c. prevede l’estensione delle norme che regolano i contratti agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale «in quanto compatibili».
Si pone l’immediato problema dell’estensione delle regole sui contratti agli atti unilaterali non negoziali, che viene risolto negativamente dalla dottrina prevalente nonché dalla copiosa giurisprudenza formatasi prevalentemente con riferimento alla forma della procura che accede agli atti giuridici in senso stretto (da ritenersi, quindi, svincolata dagli oneri formali ove presupponga una mera dichiarazione di scienza; nel caso di costituzione in mora: Cass., sez. III, 23.2.2009, n. 4347; Cass., sez. III, 15.7.1987, n. 6245; nel caso di ricezione della prestazione da parte del rappresentante del creditore: Cass., sez. II, 9.10.2015, n. 20345).
Le argomentazioni della dottrina e della giurisprudenza non sono però univoche. Se l’opinione prevalente si poggia sui lavori preparatori (che riferivano espressamente l’art. 1324 al negozio giuridico) e su una visione complessiva delle fonti (Ferri, G.B., Il negozio giuridico tra libertà e norma, Rimini, 1987, 81 ss.), non mancano opinioni diverse, che allargano la sfera applicativa dell’art. 1324 c.c. agli atti non negoziali (Galgano, F., Diritto civile e commerciale, I, Padova, 1993, 43 ss.), anche sulla base di argomenti esegetici, come il richiamo dell’art. 1703 c.c. agli ‘atti giuridici’, quale oggetto del mandato (Mirabelli, G., L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, 34).
Nel solco del secondo indirizzo succitato, anche una sentenza della Cassazione (Cass., 20.8.1996, n. 7651) che, nell’attribuire la natura negoziale all’atto di impugnazione del licenziamento e, quindi, la necessità della forma scritta per la relativa procura, aveva espressamente riconosciuto, in un obiter dictum, l’applicabilità dell’art. 1324 agli atti non negoziali (per una lettura critica di tale orientamento, v. Mariconda, V., Tra atto e negozio giuridico: l’impugnazione del licenziamento e l’art. 1324 c.c., in Corr. giur., 1997, 601 ss.).
Si tende, poi, ad escludere più che altro l’applicazione diretta della disciplina contrattuale agli atti giuridici in senso stretto inter vivos, sulla base dell’art. 1324, il che non esclude, però, che il medesimo risultato possa essere raggiunto mediante il procedimento analogico ex art. 12 disp. prel., una volta ravvisata l’identità di ratio tra caso disciplinato e caso non disciplinato (Cass., 16.5.1983, n. 3380). La valutazione dell’eadem ratio implica evidentemente una più rigorosa analisi della natura dell’atto unilaterale e dell’effettiva esclusività del rapporto di corrispondenza tra dichiarazione ed effetti dell’atto (necessario per affermarne la natura negoziale) che si distingue dal procedimento di ‘automatica’ estensione previsto dall’art. 1324 c.c. per gli atti unilaterali; sul punto, l’orientamento della giurisprudenza riproduce la tesi di chi aveva sostenuto l’attrazione alla disciplina dei contratti ogni qualvolta gli atti unilaterali si atteggino a dichiarazioni di volontà pur difettandone gli elementi strutturali (Panuccio, V., Le dichiarazioni non negoziali di volontà, Milano, 1966, 171). Non lontana da questa impostazione anche la posizione di Irti, N., Per una lettura dell’art. 1324 c.c., cit., 560, laddove osserva che l’art. 1324 non afferma né esclude che contratti ed atti unilaterali siano specie del genere ‘negozio giuridico'.
Si è, pertanto, affermata l’applicabilità – in via analogica – del criterio interpretativo di cui all’art. 1362 c.c. nel caso della confessione (Cass., sez. III, 22.2.1995, n. 1960) e dell’art. 1363 c.c., nel caso della diffida ad adempiere (Cass., sez. lav., 16.5.1983, n. 3380).
L’estensione analogica della disciplina, quindi, tende, obiettivamente, a mettere in crisi la distinzione tra atti negoziali e atti giuridici in senso stretto, tradizionalmente ritenuta ‘irriducibile’ (Scognamiglio, R., Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, 169).
Il problema, come osserva Sacco, non è solo linguistico o classificatorio, ma anche pratico, relativo all’individuazione della disciplina di una serie di atti non dichiarativi o ‘muti’ che ingenerano l’altrui affidamento (occupazione, accettazione tacita di eredità, la convalida tacita, gli atti ad effetto possessorio, la comunione tacita ecc.).
Non sembra revocabile l’opinione di chi individua nel negozio giuridico il significato nel quale i codificatori intendevano la definizione ‘atti unilaterali’ dell’art. 1324 c.c. sul piano della voluntas legis (a tale proposito, si leggano le illuminanti pagine di Sacco, R., voce Negozio giuridico, in D.I., Agg., I, Torino, 2014, Milano, il quale, tuttavia, ammette la possibilità di un’applicazione analogica agli atti non negoziali nel caso di eadem ratio).
Ciò, però, non implica una lettura rigida delle due categorie nel segno del dogma della negozialità (nel senso della relazione diretta tra volontà ed effetti) quale criterio distintivo, anche in ragione delle apparenti incoerenze normative contenute in particolare nelle molteplici discipline sulle patologie degli atti unilaterali e bilaterali, che prevedono, per esempio la soggezione alle regole dei contratti al lavoro di fatto (2126 c.c.) ed alla promessa di matrimonio (art. 81 c.c.). Si deve, quindi, rifuggire da una ricostruzione unitaria dell’atto giuridico e del negozio giuridico e procedere, piuttosto, ad un’analisi caso per caso (Sacco, R., ult. cit.; Del Prato, E., ult. cit.).
In ogni caso, l’art. 1324 c.c. limita l’applicabilità della disciplina contrattuale ai soli atti inter vivos a contenuto patrimoniale (escludendo, quindi, il testamento ed il matrimonio), subordinandola ad un giudizio di compatibilità.
Occorre chiedersi primariamente quale sia l’effettivo contenuto di tale verifica.
La verifica della ‘compatibilità’, in questo caso, deve essere distinta nettamente dal procedimento analogico: non si tratta di riscontrare una comune ratio legis, bensì, più restrittivamente, l’affinità strutturale del negozio al contratto (così Irti, N., ult. cit., 561).
Va, quindi, senz’altro esclusa l’applicabilità diretta della disciplina contrattuale ai negozi unilaterali (o, nel caso, anche agli atti unilaterali) nel caso di norme che presuppongono la bilateralità dell’atto. La giurisprudenza ha, così, ritenuto di escludere che la compatibilità nel caso dei criteri interpretativi della comune volontà delle parti e del comportamento complessivo (di cui all’art. 1362 c.c.) mentre la si è ammessa con riferimento ai criteri del senso letterale delle parole, e dell'interpretazione complessiva delle clausole le une per mezzo delle altre (Cass., 29.1.2009, n. 2399).
È stata, invece, riconosciuta la piena applicabilità della disciplina contrattuale dei vizi della volontà ai negozi unilaterali, quale il recesso (Cass., sez. lav., 30.5.2011, n. 11900; Cass., sez. lav., 19.8.1996, n. 7629), della disciplina della nullità per causa o motivo illecito (nel caso dell’impugnativa del licenziamento: v. Cass., sez. lav., 26.6.2009, n. 15093).
La ‘compatibilità’ deve essere vagliata, secondo la prospettiva tradizionale, sulla base di un esame della rilevanza dell’intento ai fini della produzione degli effetti giuridici, ma in base alla funzione dell’atto (del Prato, E., Negozio giuridico, cit.).
È allora il caso di chiedersi se, rispettato il criterio di compatibilità strutturale della norma da applicare, gli stessi limiti individuati dall’art. 1324 c.c. – il carattere patrimoniale della prestazione e la natura inter vivos dell’atto – debbano essere intesi quali limiti invalicabili, che non consentano l’applicazione della disciplina contrattuale nemmeno in via analogica ad altri casi. La giurisprudenza, come visto, tende ad applicare analogicamente la disciplina contrattuale anche ad atti che non corrispondono alle caratteristiche sopra delineate (ad esempio nel caso della confessione), prescindendo dalla negozialità dell’atto. L’applicazione pratica, in effetti, sembra confermare la tesi del declino della categoria ordinante del negozio giuridico.
Naturalmente, laddove si propugni, come sembra preferibile, l’applicabilità della disciplina contrattuale agli atti non negoziali sulla base del procedimento analogico, non sarà sufficiente che le norme da applicare siano strutturalmente compatibili con la natura unilaterale dell’atto, ma occorrerà vagliarne la ratio, potendosi pervenire, solo in caso di giudizio positivo, all’applicazione della disciplina del contratto (ancora, Irti, N., ult. cit., 561; Mariconda, V., ult. cit., 607).
Fonti normative
Artt. 1324, 1987, 1333 c.c.
Bibliografia essenziale
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