Politico, organizzatore di cultura e divulgatore, Attilio Brunialti fu uno degli intellettuali più attivi del suo tempo. Attento al dibattito internazionale, eclettico e orientato a una continua mediazione, ebbe un ruolo significativo non tanto nell’elaborare teorie originali, quanto piuttosto nel diffondere idee e, soprattutto, testi cruciali per la cultura politica, giuridica e amministrativa. Poco importa che le sue traduzioni non fossero sempre fedeli e ineccepibili. Importa di più la sua capacità di individuare problemi importanti, come la riforma della legge elettorale, il costituzionalismo, la giustizia nell’amministrazione, il colonialismo, e di analizzarli in rapporto a una vasta letteratura europea e internazionale.
Brunialti nacque a Vicenza il 2 aprile 1849. Studiò a Padova, dove fu allievo di Luigi Luzzatti, e si laureò in giurisprudenza nel 1870. Fu vicebibliotecario alla Camera (1874-76) e docente universitario. A partire dal 1872 tenne corsi liberi presso università importanti come quella della nuova capitale, Roma, e di Bologna, dove dal 1878 al 1881 insegnò diritto costituzionale prima di passare a Torino. Qui rimase fino al 1893 quando fu nominato consigliere di Stato. Fece parte del Consiglio superiore di statistica.
Svolse un'intensa attività nell’ambito della Sinistra: per due anni fu segretario particolare di Agostino Depretis e nel 1878 fece parte della commissione incaricata di preparare la legge elettorale. Fu cofondatore dell'Associazione per lo studio della rappresentanza proporzionale, dove lavorò a fianco di Pasquale Stanislao Mancini, Marco Minghetti, Ruggiero Bonghi, Francesco Genala, Benedetto Cairoli e Angelo Messedaglia. Seguire le sue posizioni in materia elettorale attente alla rappresentanza delle minoranze – nel 1897 si sarebbe pronunciato a favore del voto plurimo – consentirebbe di seguire le oscillazioni di gran parte della cultura giuridica e politica italiana del tempo.
I suoi legami, in particolare con gli ambienti cattolici conciliatoristi veneti (Brunialti collaborò anche alla «Rassegna nazionale»), gli aprirono la strada del parlamento, dove fu eletto nel collegio di Vicenza prima e di Thiene poi. Vicino a Fedele Lampertico, in contatto con Antonio Scalabrini e Geremia Bonomelli, fu legatissimo ad Alessandro Rossi, che ne protesse la fortunata carriera, se è vero che Brunialti fu deputato dal 1882 fino al 1920, con le sole eccezioni della XIX e della XXIV legislatura, quando era stato sconfitto da un candidato della destra clericale.
La sua poliedrica attività non si limitò al diritto pubblico: fondò il «Giornale delle colonie»; collaborò sia al «Bollettino della Società geografica italiana» sia a «L’esploratore», portavoce degli interessi coloniali degli industriali lombardi, e pubblicò nel 1897 Le colonie degli italiani. Infine, sul fronte di una sociabilità importante per il consenso politico e per il nazionalismo, si impegnò nel Touring Club e fu presidente della Federazione sport atletici in età giolittiana. Morì a Roma il 2 dicembre 1920.
Nel 1884 ideò una «scelta collezione di importanti testi italiani e stranieri, classici o recenti» preceduti da ampie introduzioni – quasi libri nei libri – per l'Unione tipografica editrice di Torino che pubblicò trenta ponderosi volumi in ottavo grande, talvolta divisi in più tomi, ciascuno dei quali poteva sfiorare le mille pagine. Essa si articolò in tre distinte serie, i cui diversi titoli testimoniano di altrettante svolte culturali. La Biblioteca di scienze politiche (1884-1894) fu orientata a seguire la pluralità di discipline afferenti alle Staatswissenschaften e attenta soprattutto al tema del costituzionalismo e della difesa del sistema parlamentare, pubblicando, tra gli altri, John Stuart Mill e due importanti testi di Thomas Erskine May (La democrazia in Europa e Leggi, privilegi, procedure e consuetudini del Parlamento inglese) oltre a La democrazia in America di Alexis de Tocqueville (allora non ancora disponibile in italiano), ai testi delle costituzioni europee e americana, e all’importante lavoro di Rudolf von Gneist, Lo Stato secondo il diritto e la giustizia nell’amministrazione.
La seconda serie, che si aprì con la pubblicazione della versione abbreviata dei dieci volumi del gigantesco lavoro di Lorenz von Stein sulla scienza dell’amministrazione, s'intitolò significativamente Biblioteca di scienze politiche e amministrative e si chiuse agli inizi della Prima guerra mondiale. Infine, la terza serie, che Brunialti diresse insieme con l’amministrativista Oreste Ranelletti e l’internazionalista Giulio Cesare Buzzatti, si aprì nel 1914 con il titolo di Scelta collezione delle più importanti opere straniere di diritto costituzionale, amministrativo, internazionale pubblico e privato, per concludersi nel 1925. La collana, che ha inizio nell’anno della Teorica dei governi di Gaetano Mosca e si chiude in piena epoca fascista, accompagna la vicenda che porterà al trionfo dello specialismo e del metodo giuridico e, più in generale – sul piano metodologico –, alla frammentazione delle singole discipline.
Nell’età delle masse per Brunialti non si trattava solo di fornire uno strumento importante agli uomini di governo ma, soprattutto, di formare un'opinione pubblica qualificata che gli appariva come «un vero potere, che insieme all’esecutivo, al legislativo, al giudiziario e all’elettorato, determina la qualità, il modo, l’indirizzo, l’azione del governo di uno Stato» (Il diritto costituzionale e la politica nella scienza e nelle istituzioni, 1° vol., 1896, p. 331). Nel saggio introduttivo alla Biblioteca egli ribadiva l’intento di influire sulla «cultura politica generale» e su «quella stessa di molti tra coloro che pur sono chiamati ad esercitare una azione politica dirigente, al Governo e al Parlamento» e di promuovere un «più energico e intelligente concorso dei cittadini», necessario al corretto funzionamento del governo rappresentativo, che egli considerava «il meglio adatto a garantire libertà e giustizia a ciascuno ed a tutti, ad assicurare il benessere del maggior numero, a procurare vera e durevole grandezza allo Stato» (Le scienze politiche nello Stato moderno, 1884, p. 9).
Per lui, attento lettore di Robert Von Mohl e di Stein, era importante aprirsi a discipline come la sociologia, la filosofia del diritto, l’economia nazionale per ribadirne i nessi con le scienze politiche e con il diritto. Come per il suo maestro Luzzatti, criterio sperimentale e impianto storico si coniugavano con la proposta di un «esame comparativo tra le istituzioni rappresentative» particolarmente importante in Italia dove, come aveva scritto Luzzatti nelle proprie memorie «il regime rappresentativo era prodotto come un’apparizione improvvisa» (cit. in Porciani 1986, p. 220). L’attenzione per la statistica si accompagnava in lui all’apprezzamento della scuola storica nell’ambito della legislazione e alla valutazione positiva dei suoi effetti sul legislatore, di cui era opportuno temperare l’onnipotenza. Di qui alla critica della codificazione francese il passo era breve. L’analisi comparata delle istituzioni e delle legislazioni consentiva di mantenere le une e le altre nell’alveo della tradizione e dello spirito nazionale, favorendo riforme e innovazioni prudenti senza scosse, sempre evitando nel modo più assoluto orientamenti giacobini. Ecco allora la forza del modello inglese per orientare una democrazia contrapposta alle pericolose spinte della «plebaglia» e orientata a proteggere i capisaldi della proprietà e della famiglia, vero e propria base della solidità dello Stato, come pure a garantire la rappresentanza delle minoranze.
Brunialti difese a più riprese il sistema parlamentare e criticò esplicitamente Francesco Crispi, che aveva troppo di frequente delegato «facoltà legislative all’esecutivo» (Il diritto costituzionale, cit., pp. 955-56). Nel momento di massima crisi del parlamentarismo stigmatizzò duramente le posizioni di Sidney Sonnino sostenendo che il suo «tornare allo statuto» equivaleva a «uscire dalla costituzione» (p. 188). Guardò sempre con attenzione alle istituzioni inglesi, anche se talvolta lette attraverso Rudolf von Gneist. Qui
appunto nello stesso modo che l’attività industriale, la robustezza antica dell’autogoverno, l’indipendenza delle corti giudiziarie e tutta l’energia della vita pubblica inglese guarentiscono il cittadino e le minori aggregazioni sociali da indebite ingerenze dello Stato, così il profondo senso legale, la maggioranza di un parlamento indipendente e largamente radicato nel paese, l’azione continua ed energica della pubblica opinone. O impediscono al potere di usurpare durevolmente il dominio della legge (pp. 959-60).
Il costante richiamo all’Inghilterra chiarisce meglio le posizioni di Brunialti, che percepiva in Italia il peso negativo di «due contrarii avvenimenti, la mancanza di un vero partito conservatore, e lo sviluppo della fazione repubblicana, cui si aggiunse una crescente falange socialista». Una possibile via di uscita dai mali del trasformismo sarebbe stata quella della partecipazione dei conservatori cattolici alla vita pubblica. Per Brunialti estremamente pericolosa era poi l’esistenza dei partiti estremi, che «non giova alla feconda alternativa di due distinte e schiette parti politiche, e concorre, insieme alle illusioni, alle debolezze, alle bassezze, che alimentano la zavorra delle Camere, a render ognor più difficile il retto andamento del Governo parlamentare» (pp. 960-61). Un bipartitismo all’inglese imperniato sui cattolici e sui liberali avrebbe permesso di espungere le forze politiche di orientamento socialista, fautrici di turbamento in questa visione armonica.
Tra gli autori della Biblioteca c’era anche Vittorio Emanuele Orlando che vi pubblicò la sua Teoria giuridica delle guarentigie della libertà. Ma Brunialti prese esplicitamente le distanze da lui come dal metodo giuridico. Per Brunialti, il diritto costituzionale rimaneva una scienza eminentemente politica e, comunque, la centralità del momento politico richiedeva un’apertura larga a tutte le discipline e metodi di osservazione. Carmelo Caristia (1913) rilevò: «Contrariamente alle esigenze imposte dall’indirizzo giuridico, il lato politico, che è più o meno temperato, inseparabile da una qualsiasi trattazione della nostra disciplina assume in Brunialti un’importanza di prim’ordine». Sottolineò inoltre una certa ambiguità del suo approccio definendo «non poco disagevole assegnare un preciso significato a quella che Brunialti chiama elaborazione sociologica del diritto ed a quella che egli chiama espressione politica del diritto» (p. 60).
Per Brunialti il momento giuridico non poteva essere distinto dal politico, e dunque il diritto costituzionale era esso stesso una scienza politica. Non poteva essere studiato chiuso in se stesso, ma in rapporto al complesso organismo della nazione, che le altre discipline aiutavano a comprendere. All’interno di esse, uno spazio speciale era non casualmente occupato dalla geografia.
Brunialti incorreva però in qualche modo in una contraddizione. Si opponeva a Orlando sul piano del metodo, ma al tempo stesso veniva accentuando sempre di più il ruolo dello Stato proprio come difesa dalla instabilità del ῾politico᾿ facendo propri, infine, alcuni elementi dell'interpretazione organicistica e dimostrando di accettare la teoria dello Stato giuridico.
Tuttavia sarebbe troppo semplice limitarsi a presentare l'eterogeneità delle posizioni di Brunialti rispetto a Orlando. Giovanni Cazzetta, nella sua tesi di laurea (L’opera giuridica di Attilio Brunialti, a.a. 1983-1984, p. 222), ha rilevato le «profonde scollature» all’interno del sistema di Brunialti che facevano emergere «cedimenti profondi» verso i fautori del metodo giuridico. L’organicismo e la paura di una politica unicamente vista in senso positivo lo facevano arretrare su posizioni di difesa del ruolo del diritto come elemento di certezza.
La sistematica giuridica orlandiana ruotava intorno al concetto di personalità giuridica dello Stato, dello Stato persona che sussumeva al proprio interno il concetto di popolo. Brunialti restava entro l’alveo di un eclettismo che di per sé lo distanziava in modo sostanziale dall’approccio di Orlando. Scrisse chiaramente che solo «idee sempre più eclettiche» rispondevano meglio agli «ideali della scienza e alle prospettive della vita» (Il diritto costituzionale, cit., p. 278), eppure sentì il richiamo di questo stato organicistico. Anche se poi si pose il problema del rapporto tra elemento organico ed elemento contrattuale e volontaristico non dimenticando del tutto il richiamo all’impostazione dei suoi primi scritti sui plebisciti, considerati come elemento fondante dello Stato italiano e legittimazione dello Statuto.
Queste affermazioni erano già preparate da quanto Brunialti aveva scritto alla fine degli anni Ottanta sull’«armonia tra il fine dello Stato e quello degli individui» (Dell’ottimo governo, «Rassegna di scienze sociali e politiche», 1886, 3, p. 16). La proposta di un nesso armonico tra Stato e società era dunque suscettibile di inclinare verso il polo dello Stato, in una visione organicistica come quella che era stata proposta da Johann K. Bluntschli (1808-1881). Come Brunialti mise in luce fin dalla fine degli anni Ottanta, se lo Stato era il perno attorno al quale tutto ruotava, allora il criterio che consentiva di distinguere le forme di governo buone da quelle cattive era legato alla difesa dello Stato: cattive erano quelle che potevano dissolverlo, in qualunque modo e per qualsiasi ragione, mentre ottima era la forma di governo capace di conservarlo.
Nel 1912 Brunialti avrebbe ulteriormente precisato questi concetti dichiarando: «L’Italia è uno stato nazionale, volontario, organico» e trovando l’elemento coesivo proprio in una nazionalità «scritta a caratteri indelebili nella geografia e nella storia» e cementata dai plebisciti (Il diritto amministrativo italiano e comparato nella scienza e nelle istituzioni, 1° vol., 1912, p. 15). Elemento organico ed elemento volontario venivano dunque a confluire in un concetto di nazionalità (cioè di popolo organizzato in forma di Stato) che costituiva la base della sovranità. Sovranità nazionale, quindi, e non popolare.
Proprio di fronte ai rischi della politica e all’ingresso di soggetti estranei alla sua logica moderata e statalista, Brunialti comincia ad accogliere l’idea di uno Stato giuridico, giustificato dall'esigenza di «sottrarre quanto più è possibile l’amministrazione dello Stato alle vicende della politica» (Il diritto costituzionale, cit., p. 122). Di fronte alle fluttuanti incertezze della vita politica (Porciani 1986, pp. 226-27) tornava quindi la proposta del voto plurimo.
In Brunialti l’esigenza di valorizzare il decentramento organico e l’iniziativa privata e di avversare l’eccessiva burocrazia e una smodata ingerenza dello Stato andavano però conciliate – in modo sempre più evidente nel volgere degli anni – con l'acquisizione delle crescenti funzioni amministrative dello Stato stesso, giustificate dalla paura del disordine sociale. Ecco allora la ricerca di nuove forme di mediazione, e la riproposta di una ῾via media᾿ tutta italiana e nazionale. In questo lo aiutava, da un lato, il richiamo a testi classici della tradizione italiana come, per es., quelli di Gian Domenico Romagnosi e, dall’altro, la teoria del doppio movimento di Giovanni Manna, che gli consentiva di risolvere in modo armonico la dialettica dei rapporti centro-periferia.
Brunialti constatava allora come l’ingerenza, dapprima eccezionale, dello Stato, acquistasse dovunque carattere permanente e organico. E allargava la sfera d’azione dell’amministrazione all’azione complessiva dello Stato per l’attuazione dei propri fini, al punto che l’amministrazione completava la costituzione. Citando Wautrain Cavagnari, che sosteneva un giusto mezzo tra lo Stato «gendarme» degli economisti e lo «Stato provvidenza» dei socialisti, proponeva come il partito più ragionevole quello di attenersi a una giusta via di mezzo. Via media e posizioni di mediazione – ma anche ormai una maggiore inclinazione verso l’organicismo e una certa subalternità rispetto al metodo giuridico – caratterizzavano anche sul piano teorico il volume dedicato al diritto amministrativo, in cui Brunialti distingueva tra diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, ma ribadiva anche le reciproche interferenze: un approccio che intrecciava ricerca storica e analisi giuridica del testo.
In Brunialti – come in molti altri autori di questo periodo – la centralità dello Stato viene dunque ribadita in modo sempre più chiaro, con riflessi evidenti anche sul suo approccio scientifico. Era, come si è accennato, un aspetto già presente allorché nel 1897 aveva presentato la Verfassungslehre di Stein. Egli la definiva nel saggio introduttivo come la scienza della pubblica amministrazione i cui obiettivi principali erano la funzione sociale dello Stato moderno, dei suoi uffici, delle sue attribuzioni. Di fatto già allora egli guardava a una disciplina che non era più la ῾scienza generale᾿ teorizzata da Carlo Francesco Ferraris, anche se non si trattava ancora della scienza dell’ingerenza sociale dello Stato di Orlando. La svolta anche di Brunialti, pur nel permanere di un certo qual eclettismo, apparve evidente quando egli affermò con decisione e in modo esplicito la difesa del rafforzamento dell’amministrazione centrale, e quando nel 1912 interpretò chiaramente il decentramento (amministrativo) attraverso la rilettura di Gneist e comunque in senso decisamente gerarchico e conservatore.
Nel 1920, poco prima di morire, Brunialti avrebbe ribadito il ruolo dei tecnici nel controllare il mutamento e l’esigenza di tener fermo il governo dello Stato nelle mani della classe dirigente, entro un’«ottica di tipo ormai marcatamente autoritario» (Cazzetta 1986, p. 351).
Libertà e democrazia. Studi sulla rappresentanza delle minorità, Milano 1871.
Le moderne evoluzioni del governo costituzionale. Saggi e letture, Milano 1881.
Le scienze politiche nello Stato moderno, in Biblioteca di scienze politiche, 1° vol., Torino 1884, pp. 9-94.
La libertà nello Stato moderno, in Biblioteca di scienze politiche, 5° vol., Torino 1890.
Unione e combinazione tra gli Stati. Gli Stati composti e lo Stato federale, in Biblioteca di scienze politiche, 6° vol., Torino 1891.
Lo Stato e la Chiesa in Italia, in Biblioteca di scienze politiche, 8° vol., Torino 1892.
Formazione e revisione delle costituzioni moderne, in Biblioteca di scienze politiche e amministrative, 3° vol., Torino 1896.
Il diritto costituzionale e la politica nella scienza e nelle istituzioni, 2 voll., Torino 1896-1900.
La scienza della pubblica amministrazione, in Biblioteca di scienze politiche e amministrative, 1° vol., Torino 1897.
Il diritto amministrativo italiano e comparato nella scienza e nelle istituzioni, 2 voll., Torino 1912-1914.
S. Rumor, Gli scrittori vicentini dei secoli decimottavo e decimonono, 1° vol., Venezia 1905, pp. 271-302.
C. Caristia, Degli odierni indirizzi del diritto costituzionale italiano, «Rivista di diritto pubblico», 1913, 1, pp. 52-77.
G. D'Amelio, Brunialti Attilio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 14° vol., Roma 1972, ad vocem.
F. Piodi, Attilio Brunialti e la scienza dell’amministrazione, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1976, pp. 675-706.
G. Cazzetta, L’opera giuridica di Attilio Brunialti, Tesi di laurea presentata all’Università degli studi di Firenze, relatore prof. P. Grossi, a.a. 1983-1984.
G. Cazzetta, Una costituzione ῾sperimentale᾿ per una società ideale. I modelli giuridico-politici di Attilio Brunialti, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1986, 15, pp. 307-53.
I. Porciani, Attilio Brunialti e la "Biblioteca di scienze politiche". Per una ricerca su intellettuali e Stato dal trasformismo all’età giolittiana, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia fra Otto e Novecento, a cura di A. Mazzacane, Napoli 1986, pp. 191-229.
G. Cazzetta, Predestinazione geografica e colonie degli europei. Il contributo di Attilio Brunialti, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2004-2005, 33-34, pp. 115-68.