Abstract
Viene descritta sommariamente l’attività amministrativa in quanto sottoposta a regime di diritto pubblico e governata da regole, in origine di formazione giurisprudenziale e oggi codificate con norme costituzionali, comunitarie e legislative. Sono prospettate le classificazioni più diffuse e un cenno viene fatto alla c.d. attività amministrativa dei soggetti privati.
Attività amministrativa è l’attività svolta da persone che agiscono per una pubblica amministrazione: amministratori, come il sindaco o l’assessore regionale o il ministro della Repubblica, dirigenti, come il responsabile dell’ufficio tecnico della provincia, operai, come il dipendente comunale addetto alla raccolta dei rifiuti.
Si tratta di persone che sono legate all’amministrazione - un ministero, una regione, un ente locale, un ente pubblico – da un rapporto che viene creato da un atto di investitura nell’ufficio: un’elezione – il caso del consigliere comunale – una nomina, come quella del ministro o del presidente di un ente pubblico, un contratto di lavoro, come per milioni di dipendenti pubblici.
Non tutta l’attività di costoro, è attività amministrativa. Lo è solo quella che essi svolgono per conto della pubblica amministrazione in cui sono inquadrati e che è distinta dall’attività che essi esplicano come qualunque altra persona, al di fuori del rapporto che li lega allo Stato o a un ente pubblico.
È il diritto – un insieme di norme giuridiche – che, impiegando categorie come quella di attribuzione o di competenza, fornisce un criterio per individuare la parte dell’attività delle persone fisiche che è imputabile alla pubblica amministrazione.
In questa prima generalissima accezione l’attività amministrativa è individuata in base ad un criterio esclusivamente soggettivo, che prescinde dalla forma o dal contenuto. L’attività è amministrativa perché proviene da una pubblica amministrazione (ossia da soggetti che agiscono per una pubblica amministrazione alla quale imputano la propria attività).
Resta da chiarire il significato del verbo amministrare.
Il ministro (chi amministra) nella lingua latina è il servitore, il domestico (da minus), colui che è al servizio di un altro. L’amministratore di un condominio è al servizio dei condomini, l’amministratore di una società è al servizio dei soci, l’amministratore dell’ente locale – sindaco o componente della giunta – è al servizio dei suoi cittadini, il ministro della Repubblica è al servizio della totalità dei cittadini.
Anche se vengono usate le espressioni “amministrare il proprio patrimonio” o “amministrare i propri affari”, il termine evoca nella maggioranza dei casi un interesse che non è proprio di chi amministra, ma che riguarda un altro soggetto o, più spesso, altri soggetti.
L’interesse che la pubblica amministrazione è chiamata gestire è un interesse pubblico. Essa deve agire per la cura concreta di un interesse pubblico.
Questa definizione contiene un riferimento ad un soggetto (la pubblica amministrazione) ed un riferimento ad un fine (la cura di un interesse alieno, di un interesse pubblico).
Procedendo da un rinvio all’altro – dalla attività alla pubblica amministrazione, dalla pubblica amministrazione alla cura in concreto dell’interesse pubblico – le cose si complicano. Mentre la nozione di pubblica amministrazione può essere ricostruita sulla base del dato normativo, in base a una o più norme di legge che indicano che cosa debba intendersi con quel termine (v. l’elenco contenuto nell’art. 1, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165), più problematico è il concetto di cura concreta dell’interesse pubblico.
L’aggettivo “concreto” rimanda al suo contrario: presuppone, cioè, che possa esserci una cura astratta dell’interesse pubblico o una cura in astratto. La coppia (concreto-astratto), usata in questo contesto, ci segnala che l’interesse pubblico viene preso in considerazione su un doppio livello: il livello normativo, o della legge, in cui l’interesse viene individuato e isolato come l’interesse di cui i pubblici poteri devono farsi carico, e il livello amministrativo su cui è situato un apparato amministrativo che quell’interesse deve curare in concreto. Per es. l’art. 1 della l. 23.12.1978, n. 833, riprendendo la formula dell’art. 32 Cost., dice che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La salute è qualificata interesse della collettività (e quindi interesse pubblico) dalla legge, sulla scorta della Costituzione: la cura concreta di questo interesse viene affidata alle strutture amministrative che concorrono a formare il servizio sanitario nazionale, e prima di tutto le unità sanitarie locali (art. 14 l. n. 833/78; v. ora art. 3 d.lgs. 30.12.1992, n. 502).
L’interesse pubblico viene concretamente curato nei modi più vari. Dal Comune che acquista dal privato un terreno per farvi una strada, dal medico dell’azienda ospedaliera pubblica che pratica una terapia al paziente, dall’autista del tram che trasporta i passeggeri da un punto all’altro della città, dal vigile urbano che intima l’alt all’automobilista, dal capo dell’ufficio tecnico comunale che rilascia un permesso di costruire, dal responsabile dell’ufficio personale di un ente pubblico che sospende cautelarmente un impiegato dal servizio, dalla giunta regionale che approva un piano regolatore comunale, dal governo che approva il regolamento dei concorsi universitari.
Anche se in tutti questi esempi colui che agisce fa parte di una pubblica amministrazione, non in tutti questi casi possiamo parlare di attività amministrativa. Non è attività amministrativa quella posta in essere dal medico ospedaliero, o dall’autista del tram o dal sindaco che sottoscrive il contratto di compravendita: non lo è perché essa non ha una sua specificità, essendo sottoposta alle stesse regole cui è soggetto il medico libero professionista o l’autista di una ditta privata di trasporto persone o il rappresentante legale di una società che acquista un immobile. La natura pubblica del soggetto è pur sempre rilevante perché anche a mezzo di questi atti viene concretamente curato l’interesse pubblico. Non influisce, invece, sulla disciplina giuridica dell’attività, che è comune a tutti i soggetti dell’ordinamento e che è contenuta nel codice civile e nei contratti (di prestazione d’opera, di trasporto, di compravendita) che stanno a base dell’attività.
Il discorso è diverso nel caso del vigile urbano o del tecnico comunale o della giunta regionale o del governo nazionale. Negli esempi fatti vi è un soggetto (pubblico) che compie un atto in forza dell’autorità di cui è investito.
Egli si impone al privato ordinando un comportamento (l’alt del vigile), stabilendo gli usi ammessi di un determinato territorio (a mezzo del piano regolatore urbanistico), fissando le regole per l’accesso a certe posizioni di lavoro (ricercatori e professori universitari). E anche quando il destinatario dell’atto viene favorito, per es. col rilascio del permesso di costruire, ciò avviene comunque ad opera di un’amministrazione che dispone unilateralmente della sfera giuridica altrui, sia pure per ampliarla: un’amministrazione che consente a un privato di svolgere un’attività che altrimenti gli sarebbe vietata.
In questo secondo gruppo di esempi parliamo di attività amministrativa con riferimento ad uno specifico criterio di classificazione: il criterio del regime giuridico dell’attività – il regime giuridico di diritto pubblico.
In questa accezione più specifica, attività amministrativa non è tutto quello che una pubblica amministrazione fa: ma solo quella parte di attività che è sottoposta al regime giuridico di diritto pubblico.
Resta fermo che l’interesse pubblico può essere soddisfatto dalle pubbliche amministrazioni anche con una attività regolata dal diritto privato, come risulta dagli esempi fatti.
Scriveva F. Cammeo nel 1911 che «i rapporti fra individuo e Stato debbono presumersi regolati dal diritto pubblico, se non vi è espressa o chiara ragione in contrario» (Cammeo, F., Corso di diritto amministrativo, Padova, 1960, ristampa a cura di Miele, G., 51-52; cfr. Miele, G., Principi di diritto amministrativo, Padova, 1953, 30).
Questa presunzione da tutti condivisa sino a qualche decennio addietro, viene oggi contestata: tant’è che in un d.d.l. che poi sarebbe sfociato nella l. 11.2.2005, n. 15, si leggeva che «la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti autoritativi, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente». Il palese contrasto della proposta col diritto positivo e con lo stesso sistema costituzionale ha poi determinato un rovesciamento della formula. Nella più ragionevole versione definitiva, corrispondente all’art. 1, co. 1 bis, l. 7.8.1990, n. 241, sono gli atti “non” autoritativi che vengono retti dalle norme di diritto privato, «salvo che la legge disponga diversamente».
Secondo una diffusa convinzione, la scelta tra il regime di diritto pubblico e il regime di diritto privato è rimessa al legislatore. Questo può esser vero in qualche caso: ma non in linea generale perché ci sono ragioni sostanziali che impongono l’uso del diritto pubblico per la soddisfazione della maggioranza degli interessi pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni.
Il diritto privato comporta l’impossibilità per il soggetto di interferire con la sfera giuridica di un altro senza il suo consenso. Se l’amministrazione dovesse perseguire l’interesse pubblico che le è affidato solo col consenso del privato, che è titolare del diritto o proprietario delle risorse che in molti casi è necessario sacrificare perché l’interesse pubblico venga soddisfatto, tale soddisfazione sarebbe impossibile tutte le volte che il privato negasse quel consenso.
Se la realizzazione di una strada fosse subordinata all’assenso del proprietario del lotto di terreno necessario, il Comune sarebbe impotente di fronte al suo rifiuto; il sistema civilistico non prevede, infatti, un obbligo di contrarre al di fuori di ipotesi specifiche (all’art. 651, 849, 938, 1032, 1329 ss., 1351 c.c. ecc.). È in questi casi che soccorre il diritto pubblico. Esso conferisce al Comune il potere di espropriare, ossia di acquisire coattivamente l’area necessaria anche se il proprietario non consente o si oppone. Ed è in ragione di questa capacità di disporre unilateralmente della sfera giuridica altrui, anche contro la volontà del titolare, che il diritto pubblico offre contemporaneamente al privato, che cerca di difendersi, strumenti di tutela più vigorosi di quelli che il diritto civile offre in caso di contrasto fra privati.
La preferenza per il diritto pubblico come regime ordinario dell’attività delle pubbliche amministrazioni ha questo duplice fondamento. Da un lato, il diritto pubblico munisce la pubblica amministrazione di poteri volti a soddisfare l’interesse pubblico quando il diritto privato sarebbe insufficiente. Dall’altro, esso fornisce al privato mezzi di tutela contro l’amministrazione che sono più efficaci di quelli di cui egli dispone nei rapporti con gli altri privati: dal potere di chiedere al giudice l’annullamento dell’atto amministrativo lesivo del suo diritto o del suo interesse, al diritto di partecipare al procedimento di formazione dell’atto.
La questione del regime giuridico applicabile va affrontata in relazione ai singoli atti, piuttosto che alla attività complessiva. È possibile, quindi, che atti appartenenti alla stessa sequenza siano sottoposti in parte al diritto pubblico e in parte al diritto privato; e che atti che nei rapporti tra privati sono interamente disciplinati dal diritto civile, quando sono posti in essere dalla pubblica amministrazione, vengano regolati dal diritto pubblico.
È significativa la disciplina dei contratti delle pubbliche amministrazioni. Una volta che vengono conclusi, essi sono sottoposti alla disciplina del codice civile: ma la fase che sta a monte della stipula è retta dal diritto pubblico, a partire dal provvedimento che enuncia la volontà di contrarre, individua «gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte» (art. 11, co. 2, d.lgs. 12.4.2006, n. 163) nonché «il fine che con il contratto si intende perseguire» (così l’art. 192 del d.lgs. 18.8.2000, n. 267 a proposito dei contratti degli enti locali). L’interesse pubblico che a mezzo del contratto l’amministrazione intende soddisfare viene formalizzato in un provvedimento unilaterale che inaugura una successione di atti (bando, selezione dei partecipanti, aggiudicazione provvisoria, aggiudicazione definitiva – art. 11 d.lgs. 163/2006) che precedono la stipulazione e che sono regolati dal diritto pubblico.
Lo stesso schema regge quella forma speciale di contratto (la legge n. 241/1990 lo chiama «accordo») che «integra o sostituisce» il provvedimento amministrativo (art. 11). Anche in questo caso la decisione dell’amministrazione di accordarsi con gli interessati «al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo» (così il co. 1) è formalizzata in «una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento» (così il co. 4 bis): determinazione che precede la conclusione dell’accordo.
Non c’è mai una sostituzione pura e semplice del provvedimento con un accordo, ma c’è piuttosto la scissione dell’operazione in due momenti: nel primo di essi l’ente pubblico esprime la determinazione di addivenire all’accordo («a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa», art. 1, co. 4 bis) nel secondo, che coincide con la conclusione dell’accordo, viene determinato l’assetto concreto del rapporto.
La nozione di attività, in quanto distinta dalla nozione di atto, implica un continuum che si svolge nel tempo: una sequenza che nell’attività amministrativa risulta dal concorso di più agenti, anche esterni alla pubblica amministrazione (come il cittadino che presenta un’istanza). L’attività comprende verifiche, valutazioni, decisioni, operazioni materiali ecc. Gli atti della serie sono coordinati da regole, volte ad assicurare che l’interesse generale sia realizzato senza sacrificio dell’interesse privato, o col minor sacrificio possibile dell’interesse privato, o con modalità che garantiscano una riparazione di quel sacrificio, ove questo sia necessario.
Tali regole sono state elaborate nel corso di un lungo processo: sono il prodotto di una giurisprudenza più che secolare che le ha formulate utilizzando pochissimi dati normativi. L’art. 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (l. 20.3.1865, n. 2248, all. E) stabilisce che il giudice ordinario applicherà gli atti amministrativi e i regolamenti in quanto siano conformi alla legge: contiene, cioè, una enunciazione indiretta del principio di legalità, presuppone che ogni atto dell’amministrazione sia valutabile alla stregua di una legge. In assenza di una legge, la valutazione di conformità-difformità non sarebbe possibile: l’attività amministrativa deve essere prevista e autorizzata dalla legge.
Un concetto che viene ribadito, nel 1889, quando la legge Crispi istituisce la IV sezione del Consiglio di Stato, e le attribuisce il potere-dovere di annullare l’atto amministrativo del quale il ricorrente abbia fondatamente denunciato il contrasto con la legge. Viene così confermato che l’atto dell’amministrazione deve essere valutato in base ad una norma di legge e che la sua legittimità dipende dalla conformità a questa norma.
La legge Crispi affianca alla violazione di legge, l’incompetenza e l’eccesso di potere come vizi di legittimità dell’atto impugnato.
Esercitando il sindacato sull’eccesso di potere – espressione in origine enigmatica – il Consiglio di Stato ha costruito una serie di regole dell’azione amministrativa. Regole dell’azione o dell’attività, e non semplicemente dell’atto impugnato: numerose figure cd. sintomatiche dell’eccesso di potere comportano una valutazione che non è limitata a quell’atto, ma investono atti precedenti o successivi. Tali atti vengono assunti a parametro (si pensi alla contraddittorietà con precedenti manifestazioni, o alla violazione di circolari e di altre norme interne, o alla disparità di trattamento); ovvero viene censurata l’omissione di un’attività doverosa (eccesso di potere per omessa o insufficiente istruttoria).
L’amministrazione non può limitarsi a dare esecuzione alla legge, ossia a porre in essere atti che siano conformi allo schema che la legge individua quando autorizza od impone l’adozione dell’atto: ma deve agire in modo coerente (donde l’eccesso di potere per contraddittorietà), in modo informato (da qui l’eccesso per difetto di istruttoria), in modo equanime (da qui l’eccesso di potere per disparità di trattamento), in modo ragionevole (da qui l’eccesso di potere per difetto di motivazione o per contrasto tra motivazione e dispositivo), ed in ultima analisi in modo giusto (tra le forme dell’eccesso di potere vi è anche la manifesta ingiustizia).
Con l’avvento della Repubblica le regole che la giurisprudenza amministrativa aveva elaborato sono state costituzionalizzate. Ai principi di carattere generale che la Costituzione detta per l’attività amministrativa, la giurisprudenza (non più solo amministrativa, ma anche costituzionale e civile) ha ricondotto le regole che erano state costruite in sede di sindacato sull’eccesso di potere. E altre regole sono emerse, con il contributo della dottrina e poi del legislatore. Il quadro è stato poi arricchito con l’ingresso nell’ordinamento italiano dei principi del diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Principi ai quali la l. cost. 18.10.2001, n. 3, stabilendo che il potere legislativo è sottoposto oltre che alla Costituzione, ai vincoli derivanti dal diritto europeo e dai trattati internazionali (art. 117, co. 1, Cost.), ha riconosciuto uno statuto paracostituzionale.
La Costituzione ha innanzitutto formalizzato il principio di legalità e ne ha esteso la portata, anche rispetto allo stato liberale. È necessaria una legge perché ai cittadini possano essere imposte prestazioni personali o patrimoniali (art. 23 Cost.), e più in generale perché l’amministrazione possa sacrificare le loro situazioni soggettive (anche a mezzo di atti con effetti reali, come l’espropriazione, art. 42, co. 3, Cost.); o perché possano essere imposti tributi (art. 53 Cost.); o perché possa essere limitata l’iniziativa economica privata (art. 41, co. 3, Cost.).
Più in generale sono sottoposti a riserva di legge l’organizzazione dei pubblici uffici (art. 97, co. 2, Cost.) e il sistema delle attribuzioni e delle competenze amministrative (art. 97, co. 3). Le attribuzioni e le competenze hanno ad oggetto poteri amministrativi: sicché non c’è potere amministrativo se non c’è una legge che lo attribuisce.
La Costituzione non si limita a stabilire la supremazia della legge sull’atto dell’amministrazione. La supremazia sarebbe compatibile con l’esistenza di poteri amministrativi non previsti da alcuna legge: la costituzione richiede anche che i poteri amministrativi siano previsti dalla legge (e in questo senso il principio di legalità tende a coincidere con la riserva di legge).
Il sistema è completato dagli artt. 24 e 113 Cost. che prevedono la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro tutti gli atti amministrativi: una tutela che è assicurata dai giudici ordinari e dai giudici amministrativi, i quali, per essere soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.) sono tenuti a valutare l’azione amministrativa alla stregua della legge.
È la legge che individua l’interesse pubblico, i singoli interessi pubblici: spesso in attuazione della Costituzione che enuclea essa stessa una serie di interessi pubblici da tutelare (dal patrimonio artistico e storico, alla salute, dall’istruzione al lavoro, alla previdenza alla assistenza, all’ordine pubblico, alla difesa esterna ecc.). L’attività amministrativa persegue i fini stabiliti dalla legge (art. 1, l. n. 241/1990): l’amministrazione non ha fini propri, non stabilisce quali interessi pubblici devono essere soddisfatti, ma è della legge che riceve l’indicazione dei fini e degli interessi da soddisfare.
La questione degli interessi pubblici non si esaurisce nel principio di legalità. La Costituzione delinea un rapporto tra interessi pubblici e pubblica amministrazione, ma non affida a questa il monopolio della cura di tali interessi.
Ci sono, innanzitutto, interessi pubblici o generali, alla cui realizzazione concorrono soggetti privati. Ciò è previsto espressamente a proposito dell’assistenza, che i privati sono liberi di prestare (art. 38, ult. co., Cost.); della istruzione, dal momento che i privati possono istituire scuole di ogni ordine e grado (art. 33 Cost.), della previdenza che può essere garantita anche da istituti privati (art. 38, co. 4, Cost,). Più in generale, le persone che si associano, che esercitano la libertà di associazione, possono perseguire qualunque fine, purché non sia vietato ai singoli dalla legge penale, e quindi sono libere di perseguire anche fini collettivi, altruistici o di interesse generale (art. 18 Cost.). Portata generale ha anche il principio di sussidiarietà orizzontale consacrato oggi dall’art. 118, ult. co., con formulazione non del tutto felice (perché parrebbe che i cittadini prestano sussidio alle istituzioni e non il contrario).
Come è proprio degli ordinamenti liberi, le pubbliche amministrazioni non hanno l’esclusiva della cura degli interessi generali (salvi, forse, quelli che sono ritenuti coessenziali all’idea di stato, dall’ordine pubblico alla difesa esterna). Ciò è particolarmente evidente nella materia dei servizi pubblici: la Costituzione presuppone che essi possano essere erogati anche dai privati (artt. 32, 33, 38, 43 Cost.), ossia fornisce una indicazione che ha trovato avallo e conferma dal diritto dell’Unione europea (art. 86 TCE; art. 106 TFUE). È anche questa la base costituzionale dell’attività amministrativa dei soggetti privati (sulla quale v. oltre § 9)
Vi sono poi interessi pubblici di cui la pubblica amministrazione non è autorizzata a occuparsi.
Gli artt. 13 ss. Cost. stabiliscono una serie di riserve di giurisdizione a garanzia della maggior parte delle libertà fondamentali: libertà personale, domiciliare, della comunicazione, di associazione, di culto, di manifestazione del pensiero (artt. 13, 14, 15, 18, 19, 21). Quando l’esercizio della libertà in questione mette a repentaglio un interesse pubblico, solo il giudice può intervenire: in presenza dei presupposti e nei modi stabiliti dalla legge.
In sintesi. Molti interessi generali possono essere curati, oltre che dall’amministrazione, anche da privati; alcuni interessi pubblici non possono essere tutelati dalla pubblica amministrazione perché ogni intervento restrittivo della sfera giuridica del privato, richiesto a salvaguardia degli interessi, è devoluto al giudice.
L’amministrazione, secondo la Costituzione, è un Giano bifronte. Essa è chiamata a realizzare i fini collettivi (a partire da quelli ottimisticamente formulati dall’art. 3, co. 2, Cost.), ma può anche restringere la libertà e la proprietà dei privati: ha un potere dal quale il cittadino ha diritto di difendersi.
Sono specificamente dettati per l’attività amministrativa (oltre che per l’organizzazione amministrativa) i due principi indicati dall’art. 97 Cost.: l’imparzialità e il buon andamento.
Dal principio di imparzialità la giurisprudenza ha tratto una serie di regole, di schemi di azione, di situazioni soggettive.
Innanzitutto l’art. 97 conferisce uno statuto costituzionale alla parità di trattamento che da decenni la giurisprudenza amministrativa aveva individuato come regola la cui violazione costituisce una delle manifestazioni tipiche dell’eccesso di potere.
In secondo luogo l’imparzialità evoca l’idea di parti tra le quali l’amministrazione deve essere neutrale. Ciò è evidente quando essa è chiamata a risolvere un conflitto: come quando più soggetti aspirano ad una concessione o ad un posto di lavoro o all’assegnazione di un appalto. La neutralità è richiesta anche quando l’amministrazione ha un solo interlocutore, come accade quando espropria il terreno di un unico proprietario o prende in esame un’istanza di autorizzazione.
Anche in questo caso il privato è parte, e come le parti di un processo non soltanto ha diritto a un trattamento equanime ma ha diritto anche a far sentire la sua voce – ha diritto cioè al contraddittorio o alla partecipazione. Un diritto, va aggiunto, che oggi è pienamente riconosciuto dalla l. n. 241/1990: diritto di ricevere comunicazione dell’avvio del procedimento, diritto di presentare memorie e documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di prendere in considerazione,diritto, eventualmente, di partecipare all’istruttoria (per es. alla conferenza di servizi), diritto ad avere anticipata l’intenzione dell’amministrazione di respingere la sua istanza, con correlativo diritto di controdedurre.
Tutto questo avviene nell’ambito del procedimento. Il procedimento è anch’esso applicazione del principio di imparzialità. Non che il procedimento amministrativo fosse sconosciuto prima della Costituzione: solo che l’art. 97 ha fatto di quella che era la normale morfologia dell’azione amministrativa uno schema costituzionalmente obbligato per lo svolgimento di tale attività.
L’art. 97, con l’art. 113, comporta, ancora, l’obbligo della motivazione: è la motivazione che deve dar conto delle ragioni che hanno determinato la decisione e quindi consente alla parte di sollecitare il sindacato giurisdizionale su di essa – di verificare innanzitutto se sia stato osservato il principio di imparzialità. Anche qui la Costituzione interviene a formalizzare e generalizzare un elemento che la giurisprudenza sull’eccesso di potere aveva da decenni isolato: un elemento che oggi l’art. 3 della l. n. 241/1990 richiede a tutti i provvedimenti amministrativi, ad eccezione degli atti normativi e degli atti generali.
La motivazione rende esplicite le ragioni che hanno spinto l’amministrazione a decidere in certo modo: consente agli interessati di conoscere il processo mentale che sta all’origine dell’atto amministrativo e quindi mira a rendere l’attività amministrativa trasparente.
L’attività amministrativa ha una struttura costante.
Essa nasce da una iniziativa, che può essere della stessa amministrazione o del privato interessato, prosegue con una istruttoria nel corso del quale viene accertata l’esistenza dei presupposti della misura che viene prefigurata nella iniziativa, e si conclude con un provvedimento, che corrisponde a quella misura o ne costituisce una modifica o è un puro e semplice rifiuto dell’atto che il privato aveva richiesto.
Questo schema, che ritroviamo in centinaia di leggi amministrative, in forma esplicita o implicita, è oggi tracciato in termini generali dalla legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990).
La legge ha previsto, in applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento, una serie di situazioni soggettive del privato e dell’amministrazione che sono correlate al procedimento: l’obbligo dell’amministrazione di avviare il procedimento (nei casi in cui l’iniziativa è del privato), l’obbligo di darne comunicazione all’interessato o agli interessati, l’obbligo di portare il procedimento a conclusione entro un termine prestabilito, il diritto del privato a ricevere comunicazione dell’avvio del procedimento, il diritto di presentare memorie e documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di prendere in considerazione, il diritto di controdedurre nei casi in cui viene preannunciato il rigetto della istanza, il diritto di accedere alla documentazione amministrativa.
I singoli atti della sequenza sono legati fra loro da diritti (essenzialmente del privato) e doveri (essenzialmente dell’amministrazione): non vi è solo una successione temporale, ma vi è anche un intreccio di situazioni soggettive così che la violazione delle regole poste a protezione di queste incide sulla legittimità del prodotto conclusivo del procedimento, il provvedimento amministrativo.
Il potere che viene conferito all’amministrazione è ancorato a presupposti di fatto e giuridici – per es. il potere di rilasciare il permesso di costruire può essere esercitato solo se l’area è edificabile alla stregua delle previsioni del piano regolatore, se è sufficientemente ampia in relazione alla cubatura prevista in progetto, se sono rispettate le distanze dei fondi e delle costruzioni limitrofe. È evidente, perciò, la rilevanza della fase istruttoria.
Lo schema elementare – iniziativa, istruttoria, decisione – presenta delle complicazioni o delle varianti.
All’iniziativa può seguire la risposta del privato che si oppone al progetto di provvedimento (per es. un’espropriazione) e presenta quindi una memoria e dei documenti che entrano a far parte del materiale istruttorio che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare, se pertinenti all’oggetto del procedimento (art. 10, lett. b).
L’istruttoria può esaurirsi nell’accertamento d’ufficio dei fatti rilevanti da parte del responsabile del procedimento, ma può richiedere un’attività complessa come nei procedimenti nei quali vengono acquisiti pareri, valutazioni tecniche, atti di assenso, nulla osta ecc.
La decisione può spettare ad una sola persona, ma può anche essere di competenza di un collegio o addirittura di più uffici od organi o enti: come avviene con i decreti interministeriali che nascono dal concorso di più ministri o con i piani regolatori urbanistici che sono frutto della cooperazione del comune e della regione (o della provincia).
Delle attività amministrative, soggette al regime del diritto pubblico diverse classificazioni sono possibili e diversi criteri possono essere impiegati.
Secondo il margine di apprezzamento di cui l’autorità dispone si distingue l’attività discrezionale dall’attività vincolata.
Secondo il fine perseguito si distingue l’attività amministrativa volta al controllo sull’attività dei privati, dall’attività volta all’acquisizione di beni privati, dall’attività volta alla distribuzione di beni pubblici.
In relazione all’incidenza sulle situazioni soggettive dei destinatari si può distinguere l’attività che produce l’effetto di ridurre, restringere o estinguere quelle situazioni e l’attività che ne determina l’ampliamento.
In relazione alla sua collocazione nell’ambito del procedimento amministrativo ha ancora la sua attualità la vecchia distinzione fra amministrazione attiva, amministrazione consultiva e amministrazione di controllo.
In quasi tutti questi casi il predicato può essere riferito sia all’attività che all’atto conclusivo del procedimento, ossia al provvedimento. Vale comunque l’avvertenza che le distinzioni hanno carattere relativo. Anzi, alcune di queste classificazioni sono sicuramente più appropriate ai provvedimenti amministrativi che all’attività amministrativa. Ci si limiterà, quindi a pochi cenni.
La distinzione tra attività discrezionale e attività vincolata è conosciuta in tutti gli ordinamenti amministrativi. La discrezionalità dà luogo ad una possibilità di scelta che può investire il presupposto dell’azione amministrativa quando esso non ha confini precisi: è il caso, ad es., della diffida emessa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nei confronti delle imprese che abbiano concluso un’intesa restrittiva della concorrenza in «una parte rilevante» del mercato nazionale (artt. 2 e 15 l. 10.10.1990, n. 287), Problematica è, infatti, la individuazione e quindi la definizione di «mercato rilevante».
La discrezionalità può dipendere, in secondo luogo, dal carattere indeterminato del concetto che esprime l’interesse da tutelare: per es. la «sicurezza urbana» che, minacciata da gravi pericoli, autorizza il sindaco ad emettere provvedimenti con tingibili ed urgenti (art. 53 d.lgs. 267/2000).
La discrezionalità è presente, in terzo luogo, quando l’amministrazione deve farsi carico non di un solo interesse pubblico, ma di più interessi pubblici (e privati); come quando un consiglio comunale adotta un piano regolatore urbanistico, che è volto a soddisfare (e preliminarmente a comparare o ponderare) una pluralità di interessi.
Vincolato è l’atto quando il suo «rilascio (…) dipende esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti prescritti» dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale (art. 19 l. n. 241/1990 e s.m.i.).La distinzione tra discrezionalità e vincoli è, come è facile comprendere, una questione di grado: come non c’è un’attività (e un atto) totalmente discrezionale, cioè libera, così è difficile che un’attività (e un atto) siano totalmente vincolati.
Il criterio del fine serve a raggruppare specie di atti che, sotto altri profili, sono radicalmente diversi tra loro. Nel controllo amministrativo sulle attività private rientrano le autorizzazioni, le abilitazioni, le ammissioni, le iscrizioni, ma anche ordini, divieti, sanzioni amministrative ecc.
Per acquisire le risorse necessarie per l’adempimento dei suoi compiti, l’amministrazione espropria, occupa e requisisce immobili privati, accerta redditi e patrimoni, riscuote tributi, indice pubblici concorsi per il reclutamento del personale, bandisce gare d’appalto ecc.
Per contro essa dispone di beni pubblici quando rilascia concessioni di beni demaniali o assegna sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari (art. 12 l. n. 241/1990).
In base al criterio della incidenza sulle situazioni soggettive dei privati si distinguono i provvedimenti restrittivi della libertà e del patrimonio degli individui (espropriazioni, occupazioni, requisizioni, confische, ma anche l’annullamento o la revoca del provvedimento ampliativi della sfera giuridica privata) e provvedimenti ampliativi (autorizzazioni, concessioni, abilitazioni, iscrizioni ecc.). Ad essi corrisponde la distinzione tra interessi oppositivi – l’interesse del destinatario ad opporsi al provvedimento – e interessi pretensivi, che esprimono l’aspirazione o l’aspettativa, al rilascio del provvedimento favorevole. Due specie di interessi ai quali corrispondono diverse forme o modalità di tutela giurisdizionale.
La distinzione tra attività di amministrazione attiva, consultiva e di controllo esprime una modalità organizzativa tipica delle strutture complesse. La decisione a cui l’amministrazione deve tendere (amministrazione attiva) è spesso preceduta dalla acquisizione di pareri, avvisi,consulenze dai quali la decisione è influenzata o dai quali talvolta mutua integralmente il contenuto: mentre il controllo è un’operazione o, più spesso un complesso di operazioni che hanno per oggetto la decisione (o un complesso di decisioni o tutta l’attività svolta in un arco di tempo determinato). Regole specifiche valgono sia per l’attività consultiva che per l’attività di controllo.
Coloro che agiscono per una pubblica amministrazione pongono in essere anche fatti materiali che sono cosa diversa dagli atti che fanno parte di un procedimento amministrativo ed hanno una certa forma (scritta) e comunque riflettono schemi precostituiti. Sono i c.d. comportamenti, che oggi il codice del processo amministrativo prende in considerazione per devolvere le relative controversie alla giurisdizione amministrativa: sempre che essi siano «riconducibili anche mediatamente all’esercizio» del potere amministrativo (art. 7, co. 1, d.lgs. 2.7.2010, n. 104).
La formula è ripresa da una sentenza della Corte Costituzionale (C. cost., 11.5.2006, n. 191) che distingue, appunto, tra comportamenti che «costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi (…) e sono quindi riconducibili all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione» dai comportamenti che non sono riconducibili a detto potere. Secondo la Corte, la prima specie di comportamenti è legittimamente devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre i comportamenti della seconda specie possono essere conosciuti solo dal giudice ordinario.
I comportamenti non riconducibili all’esercizio del pubblico potere sono a loro volta classificabili in due categorie. Da un lato vi sono fatti umani che sono posti in essere da agenti della pubblica amministrazione ma non hanno la pretesa di costituire manifestazioni del pubblico potere: l’auto di servizio che investe un passante, il contabile dell’ente che si appropria di somme di cui ha il maneggio.
In questi casi trovano applicazione le norme generali sull’illecito, civile o penale o quelle particolari sulla responsabilità amministrativa (art. 1, l. 14.1.1994, n. 20).
Nella seconda categoria rientrano comportamenti che pretendono di costituire manifestazione del pubblico potere ma che, in forza del principio di legalità, non lo sono: è il caso della c.d. occupazione appropriativa, ossia la occupazione di un immobile da parte di agenti della pubblica amministrazione sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità, occupazione che dà luogo alla trasformazione irreversibile del bene e persiste anche quando è venuta meno l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, senza che essa sia seguita, entro i termini, dal decreto di espropriazione. Sulla base di una singolare giurisprudenza della Corte di Cassazione si è ritenuto per un ventennio che la trasformazione irreversibile dell’immobile determinasse il trasferimento della proprietà in capo all’occupante, tenuto a sua volta a risarcire il danno.
La legislazione più recente, propiziata da sentenze dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte Costituzionale, ha cancellato l’effetto traslativo della proprietà già assegnato alla occupazione appropriativa, ammettendo solo che «l’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico» possa essere sanata con un «provvedimento di acquisizione», accompagnato dall’indennizzo per il proprietario (art. 42bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327, aggiunto dall’art. 34 d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. in l. 15.7.2011, n. 111).
Tra i comportamenti della pubblica amministrazione che il diritto qualifica c’è il comportamento silenzioso, l’inerzia. Esso acquista un significato nel caso in cui l’amministrazione ha obbligo di provvedere: obbligo che va adempiuto entro un termine prestabilito con l’adozione di un provvedimento espresso (art. 2 l. n. 241/1990). Tale obbligo sussiste nella maggior parte dei casi in cui il provvedimento viene richiesto dal privato (e quindi il procedimento è ad istanza di parte)
L’inadempimento dell’obbligo rileva sotto il profilo della responsabilità del dirigente (art. 2, co. 9, l. n. 241/1990) e della pubblica amministrazione (art. 2bis). Può essere in contrasto anche con misure giudiziarie che impongono all’amministrazione di provvedere (art. 31, co. 1, d.lgs. n. 104/2010) o che addirittura ordinano di provvedere in senso conforme alla richiesta del privato, quando il giudice amministrativo accerta la fondatezza della sua pretesa (sia pure nei casi limitati in cui tale accertamento è ammesso: art. 31, co. 3).
Questo è il regime dell’inerzia che si concreta nel «mancato esercizio del potere amministrativo» (art. 7, d.lgs. n. 104/2010). Se l’amministrazione è invece tenuta ad una prestazione che forma oggetto di un’obbligazione civilistica, il regime dell’inerzia sarà quello stabilito dagli artt. 1218 ss. c.c. per l’inadempimento delle obbligazioni.
La dottrina del diritto amministrativo ha sempre distinto fra due tipi di attività della pubblica amministrazione, anche se ha usato denominazioni diverse: attività giuridica e attività sociale (Orlando, V.E., Principi di diritto amministrativo, IV ed., Firenze, 1910, 241 ss., 279 ss.), attività amministrativa e attività tecnica (Ranelletti, O., Principi di diritto amministrativo, I, Napoli, 1912, 350 ss.), attività amministrativa e attività di prestazione degli enti amministrativi (Romano, S., Principi di diritto amministrativo italiano, Milano 1901, 290 ss.). L’assistenza e la beneficenza pubblica, l’istruzione pubblica, i servizi postali di trasporto, il servizio telegrafico, il servizio ferroviario – spiega S. Romano – sono cosa diversa dalle limitazioni amministrative dell’attività privata, o dalle prestazioni dei privati agli enti amministrativi, come le imposte. Esse si caratterizzano perché danno luogo non ad atti amministrativi, ma a prestazioni di servizi resi «ad uno o più soggetti individualmente determinati» (Romano, S., op. cit. 291 e 294). Da qui la diversità del regime giuridico: perché «molte prestazioni degli enti pubblici presentano spiccate analogie con altre che vengono rese da semplici privati» (per es. scuole, poste etc.); e in altre «lo Stato non fa che succedere a delle persone private nell’esercizio di un’attività (es. ferrovie) ed è naturale che continui in questo esercizio conservandone, quanto più possibile le forme e la natura giuridica (…)». Tuttavia, «anche quando il contenuto della prestazione amministrativa è materialmente identico al contenuto di prestazioni private, il diverso soggetto che la rende ne altera la natura giuridica, in maniera più o meno apparente» (Romano, S., op. cit., 292-293).
Queste osservazioni, che sono ancora sostanzialmente condivisibili, vanno integrate sulla base di principi che sono stabiliti in parte dalla Costituzione e in parte dal diritto comunitario. Si rinvia alla voce servizio pubblico.
10. I privati incaricati dell’esercizio di attività amministrative
Una norma introdotta nel 2005 (l. n. 15/2005), poi modificata nel 2009 (l. n. 18.6.2009, n. 69), ossia l’art. 1 ter della l. n. 241/1990 obbliga i «soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative» al «rispetto dei principi generali dell’attività amministrativa», stabiliti dal co. 1 dello stesso articolo.
Il codice del processo amministrativo, nel definire l’ambito della giurisdizione amministrativa (art. 7 d.lgs. 104/2010), assimila alle pubbliche amministrazioni «anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo» (così l’art. 7, co. 2).
Il nesso che appariva indissolubile tra attività amministrativa e pubblica amministrazione sembra così allentarsi: anche soggetti privati possono essere «preposti all’esercizio di attività amministrative».
Il fenomeno che è sottostante a questo allargamento è quello della esternalizzazione o dell’outsourcing di attività già esplicate dalla pubblica amministrazione: non soltanto attività di prestazione di servizi ma anche attività autoritative (come il potere delle imprese o delle cooperative edilizie assegnatarie di aree in un piano di zona per l’edilizia economica e popolare di «dar corso agli adempimenti preliminari per la procedura espropriativa», art. 8 d.l. n. 115/1974 conv. in l. 27.6.1974, n. 247 o i poteri del concessionario di lavori pubblici, art. 3, co. 11, d.lgs. 163/2006).
Poiché i privati in questi casi vengono muniti di poteri che sono tipici delle pubbliche amministrazioni, gli atti che essi pongono in essere sono sottoposti alle stesse regole sostanziali e processuali che valgono per gli enti pubblici. Sono ragioni di tutela dei terzi che spiegano l’estensione a privati del regime pubblicistico.
Il decentramento a favore di privati di attività già svolte dalla pubblica amministrazione, che è ammesso in applicazione del principio del buon andamento (nella sua versione aggiornate dall’efficienza e dall’efficacia), richiede un correttivo: sicché i terzi che vengono pregiudicati dal privato incaricato di svolgere attività amministrativa devono poter disporre degli stessi strumenti di tutela che essi possono usare contro la pubblica amministrazione. Se così non fosse, l’esternalizzazione della funzione o, molto più spesso, del servizio si risolverebbe in una riduzione della protezione giuridica del cittadino.
L. 7.8.1990, n. 241 e s.m.i.
Casetta, E., Attività amministrativa, in Dig. pubbl., I, 1987, 522 ss.; Cavallo, B. Provvedimenti e atti amministrativi, in Tratt. Santaniello, III, Padova, 1993; Falcon, G., Lezioni di diritto amministrativo, I, L’attività, Padova, 2005; Mattarella, B.G., Attività amministrativa, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 520; Mattarella, B.G., L’attività, in Tratt. Cassese, Milano, 2003, 669 ss.; Scoca, F.G., Attività amministrativa, in Enc. Dir., Agg. VI, 75 ss.; Sorace, D., Atto amministrativo, in Enc. dir., Ann., III, Milano, 2010, 46 ss.; Villata, R.-Ramajoli, M., Il provvedimento amministrativo, Milano, 2006.