Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente (476) per l’Europa si apre un periodo di stagnazione dovuto principalmente alla crisi demografica e urbanistica che a partire dal III secolo porta a una progressiva contrazione dei rapporti commerciali e ad una forte riduzione della superficie coltivata. Questo periodo di recessione condiziona fortemente anche la conservazione e lo sviluppo delle conoscenze tecniche, le quali mantengono una dimensione di tipo artigianale e vengono praticate principalmente all’interno dei monasteri.
Le arti metallurgiche continuano a essere esercitate nelle botteghe dei fabbri e nelle fonderie dei cantieri minerari. Nonostante la scarsezza delle fonti in nostro possesso relative a questo periodo, possiamo immaginare che, a dispetto della crisi politica ed economica, la richiesta di metalli per la costruzione di attrezzi agricoli, di armi da taglio e per la monetazione, pur diminuendo, non si estingue mai completamente.
Sappiamo che i re anglosassoni e carolingi tra l’VIII e il X secolo coniano monete d’oro, argento e bronzo, ma non siamo in grado di stabilire se i metalli fossero riciclati o estratti dalle miniere. L’unico metallo per il quale possiamo affermare con certezza una continuità nell’estrazione è il ferro: il suo minerale è infatti molto abbondante e le operazioni metallurgiche legate alla riduzione del minerale sono relativamente semplici. Per quanto riguarda l’alto Medioevo, si hanno notizie di attività estrattive e produttive per molte località del continente europeo (Gallia, Renania, Sassonia, Boemia, Toscana e Spagna) e, a partire dal IX secolo, manufatti in ferro sono esportati da Venezia in Oriente. Diverso è il discorso per la mineralogia e la metallurgia del rame che scompare quasi del tutto: in particolare per la mancanza di zinco la produzione dell’ottone che si interrompe fino al XV secolo, quando sono scoperti nuovi giacimenti di calamina nelle Alpi orientali e nell’Europa settentrionale.
Per la Britannia si ha notizia di un uso estensivo del minerale di piombo argentifero, ed è presumibile che in questa regione si sia mantenuta memoria anche del processo di coppellazione per la separazione e l’affinamento dell’argento già conosciuto nell’antichità. Durante l’alto Medioevo si mantiene costante la richiesta di piombo, che trova impiego in architettura per il rivestimento dei tetti e per la realizzazione dei pollici e dei cuscinetti di giunzione nell’assemblaggio delle sezioni di travi e colonne.
L’attività mineraria più intensa del periodo altomedievale si ha nel centro Europa, dove i minatori sassoni sviluppano attrezzature e tecniche di scavo che in seguito esportano in varie parti d’Europa; a partire dal 745 inizia lo sfruttamento dei giacimenti minerari di Schemnitz, oggi in Repubblica Ceca, nel 970 vengono aperte le miniere di Goslar nella regione dello Harz e in seguito nel 1170 quelle di Freiberg in Sassonia. Le tecniche di scavo e di svuotamento delle gallerie nel periodo altomedievale non sono molto efficienti e oltre a non consentire il raggiungimento di grandi profondità, basta a volte un’infiltrazione d’acqua per indurre ad un abbandono prematuro della miniera. Profondità ragguardevoli come i 150-200 metri delle miniere spagnole di Cartagena, ma anche livelli più modesti come i 10-15 metri caratteristici delle miniere del II secolo, non sono più praticabili per la mancanza di una tecnologia in grado di rimuovere il materiale asportato e di prosciugare i pozzi minerari dalle infiltrazioni d’acqua.
Un forte regresso si ha anche nelle tecniche fusorie. Rispetto all’antichità, nel periodo medievale è andato perduto il metodo di fusione indiretto del bronzo, mentre il ferro, la cui tecnica di fusione è sconosciuta anche nell’antichità, continua a essere lavorato con tecniche di riduzione al bassofuoco e alla fucina. Non mancano tuttavia eccezioni e, come sembrano mostrare alcuni recenti ritrovamenti archeologici, è probabile che nella tradizione metallurgica dei Vichinghi, nel VII secolo, si praticasse la tecnica di fusione indiretta (a modello salvo) per la produzione seriale di fibbie e spille.
La tradizione araba ha avuto un ruolo importante nello sviluppo della tecnica chimica ed è agli Arabi che dobbiamo la scoperta e la produzione di molte sostanze come il sale ammoniacale, la borace, la soda, la potassa, il nitro, la canna da zucchero e, in modo particolare nella regione dell’odierno Iraq, a partire dal VIII secolo, è presente una fiorente industria del vetro e della ceramica che permette lo sviluppo e la messa a punto di apparati sempre più efficienti per la distillazione.
Gli scrittori arabi usano il termine distillazione in un senso molto più ampio di quello odierno e comprendono in esso anche le operazioni di filtrazione e l’estrazione dai vegetali e dai minerali degli oli e delle acque. La fonte più dettagliata e completa per ricostruire le attrezzature e le operazioni di laboratorio è il Secretum secretorum di al-Razi. La qar’ (“pentola”), l’anbiq (“alambicco con beccuccio”) e la qabilah (“ricettacolo”) sono gli strumenti essenziali per la distillazione dei liquidi.
Queste attrezzature in vetro e terracotta vitriata sono assemblate insieme in modo da formare apparati chimici sigillati che isolano il contenuto dall’esterno. L’alambicco viene montato sopra un recipiente in terracotta (cucurbita) che a sua volta viene immerso in una caldaia contenente acqua fino a un’altezza pari alla “medicina” (la soluzione di sostanze da distillare) in essa contenuta. L’apparato di distillazione si completa con il fornello e un serbatoio supplementare di acqua, mantenuta alla stessa temperatura di quella della caldaia, per compensare l’abbassamento di livello dovuto all’evaporazione. Lo stucco sigillante per la giunzione delle varie parti costituenti l’apparato di distillazione è il luto, una speciale pasta composta di argilla, riso, sale e capelli triturati. Negli scritti di medicina, al-Razi, assimila il processo di distillazione con quello di digestione: la cucurbita (il recipiente nel quale viene collocato il materiale da distillare) è equiparata allo stomaco, l’alambicco (il condensatore) alla testa e il tubo che raccorda il condensatore con il recipiente per la raccolta del distillato al naso.
Una delle tecniche più antiche utilizzata dagli artigiani che lavorano i metalli, mutuata anche dagli alchimisti, è la coppellazione. Si tratta di una particolare procedura chimica che sfrutta la proprietà del piombo di legarsi con l’ossigeno. Questo metodo, utilizzato sia per l’affinamento dei metalli preziosi (oro e argento) sia per il loro saggio, viene eseguito all’interno di un crogiolo, denominato coppella, che si caratterizza per il fatto di essere realizzato in terra refrattaria con alto grado di porosità. La coppella, riempita di piombo e del metallo prezioso da trattare, viene scaldata fino alla completa fusione dei metalli. Sottoposto all’azione costante di un getto d’aria, il bagno di piombo si ossida, portando così alla formazione del litargirio, una particolare lega che ha la proprietà di sciogliere gli ossidi degli altri metalli tranne quello dell’oro. Una volta entrati in soluzione con il litargirio, gli ossidi metallici vengono in parte assorbiti dai pori della coppella e in parte soffiati via sotto forma di sali dal getto d’aria che alimenta questa reazione chimica. Il processo termina quando resta sul fondo della coppella soltanto il residuo d’oro o la lega oro-argento. Il passo successivo per ottenere l’oro nel suo massimo grado di purezza è quello di separarlo dagli eventuali residui d’argento. Prima della scoperta degli acidi minerali questa operazione è eseguita aggiungendo alla lega oro-argento rimasta nella coppella, del sale e del glume d’orzo che, una volta raggiunto lo stato di fusione, favoriscono la trasformazione dell’argento in cloruro il quale, come il litargirio, viene a sua volta assorbito dalla coppella lasciando sul fondo l’oro allo stato metallico.
Un’altra operazione metallurgica molto antica che gli alchimisti hanno mutuato dagli orefici è la calcinazione. Anche in questo caso si tratta di un processo termico nel quale il metallo viene riscaldato in appositi forni dotati di mantici per favorirne l’ossidazione fino a quando passa dallo stato metallico a quello pulviscolare del calcinato. La riduzione dei metalli in calci costituisce una fase importante del processo di trasmutazione che, per lo stato delle conoscenze di allora, rappresenta una prova empirica della possibilità di scomporre le sostanze naturali, come ad esempio i metalli nei loro costituenti primi. La trasformazione del metallo in “terra” (calcinato) rappresenta il primo passo verso lo stato elementare della materia, condizione necessaria, questa, per realizzare artificialmente la miscela di elementi che avrebbe portato alla produzione dell’oro.
Un altro processo di laboratorio che normalmente gli artigiani dell’antichità usano per raffinare le sostanze e che come la calcinazione conferma la natura elementare delle sostanze è la sublimazione. Si tratta di un processo chimico nel quale la sostanza viene sottoposta a un forte riscaldamento che ne induce il passaggio dallo stato solido a quello gassoso e, viceversa, nella condensazione di un gas attraverso un rapido raffreddamento. Agli occhi degli alchimisti questa reversibilità dei passaggi di stato conferma la loro credenza nella riproducibilità del processo di trasmutazione.