Abstract
L’atto amministrativo è un fenomeno giuridico molto singolare: è una realtà concreta – e non il nomen juris di altri fenomeni, quali l’atto giuridico in tutte le sue versioni – che viene paradossalmente trattata sia come fenomeno giuridico reale sia come figura giuridica astratta. Il peso dell’atto amministrativo nella storia del diritto amministrativo italiano merita di essere sottolineato.
L’idea di “atto amministrativo”, quale strumento tipico dell’agire di una pubblica amministrazione, discende dalla concezione dogmatica del diritto che, dopo la codificazione napoleonica e l’irrompere dell’idealismo, caratterizzò gli studi giuridici del XIX secolo ed in particolare della sua seconda metà. Napoleone aveva fortemente voluto sottrarre il diritto dei francesi al monopolio di vere e proprie caste di dotti, che avevano assimilato e trasmesso di padre in figlio l’esperienza del diritto romano, quantitativamente sterminata. Per far questo, contemporaneamente alla parallela iniziativa di Maria Teresa d’Austria, aveva concepito la straordinaria idea di razionalizzare la giurisprudenza formatasi nei secoli sul Digesto, riformulandola in forma di principi e regole generali.
L’impatto della codificazione sul metodo degli studi giuridici fu grandissimo. Per risolvere un caso concreto non si trattava più di cercare nell’esperienza storica i fondamenti per la sua soluzione. Occorreva seguire un percorso completamente diverso, vale a dire interpretare le norme per vedere quale “significato”, quale “voluntas legis”, racchiudessero in relazione alla situazione di fatto intorno alla quale si poneva la quaestio iuris. Lo studio stesso del diritto era trasformato: per un verso si mirava ad esprimere l’esperienza giuridica in formule ancor più generali ed astratte di quanto già non fossero le nuove norme dei codici; per l’altro, si cercava di definire il “contenuto” delle norme nei termini più ampi, quasi per esaurire tale esperienza con l’interpretazione – e quindi nell’interpretazione.
Con il supporto filosofico dell’idealismo (in questa sede non sono possibili riferimenti specifici. Basti comunque ricordare l’io, “soggetto assoluto”, di Fichte e l’idealismo trascendentale di Kant) prese così avvio la dogmatica giuridica. Il fine era rappresentare l’esperienza giuridica – la realtà – nella forma più astratta ed autosufficiente possibile: in sostanza, separare la teoria dalla realtà, dando alla teoria una sorta di vita autonoma. L’esempio più vistoso è certamente la creazione del “negozio giuridico”. Di fronte alla sterminata messe di contratti che la vita per sua natura crea, i dogmatici del XIX secolo concepirono una sorta di essenza assoluta ed inalienabile del contratto, capace di assorbire qualunque sua concreta forma, voluta e costruita dalle parti. Questa essenza ex se di ogni contratto era appunto il “negozio giuridico”, incontro di volontà delle parti a prescindere dalla consistenza concreta dei loro interessi e quindi dalla concreta struttura del loro rapporto. Così, anziché essere nato dal gioco di questi interessi, il negozio giuridico aveva – e doveva avere – suapte natura una “causa”, una sua ragion d’essere assoluta, si potrebbe dire. Con la stessa logica vennero studiati gli interessi delle parti. Gli interessi concreti non potevano che essere ignorati. Anch’essi dovevano essere concepiti in termini totalmente astratti. Si parlò così di diritti attribuiti al soggetto dalla legge o dal negozio, e quindi di “diritti soggettivi”; ma l’analisi astratta conduceva a rilevare che tra diritti e diritti vi erano differenze di intensità, o modalità diverse in cui si sarebbero potuti esprimere: diritti potestativi, mere facoltà, aspettative. Questo condusse a rappresentare quadri totalmente astratti, in cui i singoli autori descrivevano le possibili configurazioni dei diritti in termini infinitesimamente diversi l’uno dall’altro, ma comunque diversi. Basti pensare al confronto tra diritti soggettivi, diritti potestativi, facoltà. Crediti, diritti di prelazione, opzioni, vennero spogliati della loro consistenza concreta e ridotti a mere possibili configurazioni del “diritto soggettivo”.
Si deve aggiungere qualche breve osservazione. Il negozio giuridico, atto con il quale le parti definiscono i loro rapporti, attribuendosi reciprocamente diritti, facoltà, obblighi in funzione di una causa giuridica, non esaurisce lo spettro del reale. È possibile che diritti, facoltà e simili vengano attribuiti con strumenti giuridici cui è estraneo il concorso delle volontà, proprio del negozio. Tipico è il testamento; ma si pensi anche alla donazione (nonostante la singolare formula dell’art. 782 c.c., per cui senza l’accettazione del donatario essa non è perfetta, e quindi revocabile) (è ragionevole pensare che l’anomalia del “dono”, quale atto economico, abbia spinto il legislatore ad irrigidire il percorso della donazione: deve essere accettata dal donatario ex art. 782 c.c.) o alla creazione di una fondazione. Questi concretissimi istituti giuridici non potevano trovare collocazione altro che in una classe di fenomeni di ordine ancora più astratto del negozio giuridico, e quindi in qualche modo intrinsecamente superiore ad esso. Per costruire una teoria completa occorreva insomma mettere a fuoco uno strumento che consentisse la produzione di effetti giuridici, a prescindere da un incontro delle volontà. Rispetto a questo strumento, il negozio giuridico sarebbe stato una fattispecie particolare, in qualche modo speciale.
Il passaggio era teoricamente difficilissimo. Per ammettere la possibilità che, in termini assolutamente generali ed astratti, una singola volontà potesse produrre effetti giuridici nei confronti di terzi, si doveva superare quel pur vago rapporto con la concretezza dell’esperienza giuridica, che è l’incontro delle volontà, tipico del negozio. La ragione del problema è chiara: come si può ammettere che un atto di Caio produca effetti giuridici nei confronti di terzi, senza il coinvolgimento della loro volontà o senza che, di fatto e di diritto, questo sia in concreto consentito?
Sembra corretto dire che qui si fece ricorso ad un vero e proprio artificio. Esso fu l’“atto giuridico” (per tutti, v. Rescigno, P., Atto giuridico, in Enc. Giur., IV, Roma, 1988). “Atto giuridico” era quel che la parola dice, una qualsiasi azione umana, produttiva di conseguenze formalizzata in atto. La completezza del sistema richiedeva – e quindi giustificava – che sotto questo nome si celasse qualsivoglia concreta manifestazione di volontà, con cui Caio disponeva dei propri beni, vendendoli, istituendo un erede o procedendo ad una donazione. Il nomen “atto giuridico”, di cui il “negozio giuridico” diveniva una specie, era pienamente in grado di giustificare la produzione di effetti giuridici a favore ed eventualmente a carico di terzi. Si trattava appunto di un “atto giuridico”, non di un capriccio o di un altro “atto” qualsiasi, il cui proprium era appunto la capacità di produrre effetti giuridici.
Tutto ciò è ben noto. L’atto giuridico è un’entità razionale sommamente astratta, alla quale può essere ricondotta l’intera esperienza giuridica, se letta nella chiave dogmatica di cui si va dicendo. In effetti, lo spettro dei possibili “atti giuridici” è sterminato. Si possono sempre definire i confini di una data materia e nel loro ambito individuare “atti giuridici”: atti cioè che, di volta in volta, hanno un significato ed un valore giuridico diverso. Basti pensare al processo: una cosa è l’atto “citazione” o “domanda riconvenzionale”, altra l’atto “memoria” o “sentenza. Sono tutti “atti”, che in comune hanno soltanto l’appartenere al processo.
Il punto cruciale è però che mentre per gli atti processuali la classe astratta “atto” è adattata alla realtà dalle norme del codice che danno un significato ed un valore ai vari atti in cui il processo si articola, vi sono situazioni in cui l’atto ha una sua autonomia ed efficacia, che altri atti non hanno, e altre, al contrario, in cui l’atto appare privo di identità. La storia dell’“atto di commercio” è paradigmatica: la giurisdizione commerciale era storicamente riservata ai rapporti tra professionisti del commercio. In Francia, con Luigi XIV, venne estesa in relazione alla qualifica dell’atto, oggetto del contendere, indipendentemente dalla qualifica delle parti quali commercianti, professionisti del commercio. Si parlò così di atto di commercio assoluto (Auletta, G., Atto di commercio, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 196 ss.), il quale, al fine di stabilire il giudice competente per le controversie insorte tra parti, prevaleva sul fatto che una parte non appartenesse alla corporazione dei commercianti. Oggi, scomparsi i tribunali del commercio, l’atto di commercio è perfettamente inutile (Auletta, G., op. cit., 200).
Il problema dell’atto amministrativo è dunque univoco. Si può dare per certo che sia un atto giuridico. Ma quale identità ha questa figura? A quale fenomeno si riferisce e quindi quale fenomeno identifica?
Nella sua celebre voce Atto amministrativo dell’Enciclopedia del diritto (Giannini, M.S., Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 157 ss.), Massimo Severo Giannini sosteneva che una delle classificazioni dei pubblici poteri degli ordinamenti generali ha riguardo alla norma base che disciplina l’azione dell’apparato amministrativo; uno dei tipi compresi in questa classificazione è l’amministrazione che si definisce «ad atto amministrativo». Ne traeva la conseguenza che un ordinamento generale positivo «ad atto amministrativo» ha una propria logica di principi ai quali occorre attenersi nel costruirne la dogmatica (Giannini, M.S., op. cit., 159). Tali principi sono la separazione dei poteri, il principio di legalità, la tendenziale agibilità delle pretese dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Tutto ciò, scriveva Giannini, ha introdotto la nuova figura reale, sostanziale dell’atto amministrativo; il gioco dei tre principi ora ricordati «rappresenta l’occasione che portò alla soglia di coscienza dei giuristi la realtà dell’atto amministrativo, aprendo la relativa dottrina, ma la realtà già esisteva nel diritto positivo, allo stato criptico» (Giannini, M.S., op. cit., 159). Segue la storia dei tentativi fatti nel corso degli anni per definire questa figura, assunta da Giannini sì come reale, ma come esistente «allo stato criptico».
Come spesso in Giannini, il paradosso e la possibile contraddizione sono il veicolo per introdurre nel discorso un’intuizione che trascende di gran lunga le parole. Nel regime maturato nella seconda metà del XIX secolo, dopo l’unificazione, nel 1865, venne approvato il grandioso “pacchetto normativo”, come si direbbe oggi, costituito dalla legge del 20 marzo 1865, n. 2248. I suoi allegati disciplinarono praticamente tutti i settori di attività delle pubbliche amministrazioni, dai lavori pubblici alla pubblica sicurezza, alla nuovissima tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Per alcuni suoi articoli, quest’ultimo allegato è ancora in vigore. L’intuizione è che la pubblica amministrazione era soggetta alla legge, di cui però poteva valersi nei confronti di tutti, ed in primis dei cittadini, per operare ed agire essa aveva bisogno di un apparato strumentale ad hoc, fino allora generico ed indeterminato, certo non soggetto a regole rigorosamente prestabilite. Questo apparato strumentale non poteva fondarsi sul contratto, come è intuitivo. L’amministrazione pubblica non era neppur pensabile come una controparte così equiordinata al cittadino da ammettere la struttura teorica astratta del “negozio giuridico” quale suo strumento ordinario di azione: mancava qualunque omogeneità, sia delle volontà (solo le amministrazioni potevano realmente – e coattivamente – volere), sia degli interessi coinvolti (pubblici, generali, quelli delle amministrazioni, individuali quelli delle persone, dei cittadini). Era dunque necessario ricorrere ad uno strumento giuridico, collocato ad un livello di astrazione pari a quella del “negozio giuridico”, che esprimesse la posizione di superiorità dell’amministrazione, pur nella sua soggezione alla legge. Di fronte al vasto numero di mezzi a disposizione delle amministrazioni (decretali, ordini, ingiunzioni, etc.), l’unico strumento, debitamente astratto, non poteva essere altro che una nuova versione dell’atto giuridico, applicabile all’agire delle pubbliche amministrazioni: l’“atto amministrativo”, appunto.
Questo – e solo questo – è il significato che ha avuto l’espressione “atto amministrativo” e che ad esso ancor oggi si può dare: non già fenomeno giuridico univoco, meritevole e suscettibile di una trattazione organica, ma termine convenzionale di riferimento per individuare genericamente e riassuntivamente una serie di categorie di fenomeni, attraverso i quali le pubbliche amministrazioni esercitano le loro funzioni.
Si può ben dire che la situazione è esattamente inversa rispetto a quella che ricorre per l’atto giuridico. L’espressione “atto amministrativo” esprime in forma sintetica una serie di manifestazioni lato sensu di volontà. Come tale non esiste, ovviamente; ma vi sono concretissimi decreti, ordinanze, autorizzazioni, nulla osta, licenze, permessi, piani, programmi etc. etc., con i quali le amministrazioni operano. Sono molti diversi tra loro, ma hanno alcune cruciali caratteristiche in comune: provengono da amministrazioni pubbliche; mirano a regolare e disciplinare situazioni di interesse generale; possono essere impugnati di fronte ad un giudice. Al contrario, l’atto giuridico non riassume né può riassumere alcunché del mondo reale. Vorrebbe esprimere una sorta di quidditas dell’agire umano, là dove produce conseguenze giuridiche ed in quanto le produca. Tra il testamento ed il contratto non corrono maggiori somiglianze di quante se ne colgano osservando il matrimonio e l’atto costitutivo di una società. Eppure sono tutti “atti giuridici”, perché producono effetti giuridici. Non è un caso che la teoria degli atti e dei negozi giuridici nel corso dei decenni si sia sostanzialmente spenta, lasciando spazio allo studio del diritto positivo (è corretto pensare che l’ultimo aedo dell’atto e del negozio giuridico sia stato Santoro Passarelli, F., Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1954, che ha avuto un grande numero di edizioni. Tutt’altra struttura hanno le successive trattazioni organiche del diritto civile. Basti ricordare che le Istituzioni di diritto civile, di Trabucchi, A., XXXVIII ed., Padova, 1998, dedicano una sola pagina agli atti giuridici, confinati tra gli atti i cui effetti sono determinati dalla legge e non dalla volontà, 127-128).
Ciò detto, il tema dell’atto amministrativo acquista una propria specifica rilevanza. La assume non in quanto “atto giuridico”, cioè puramente astratto, ma perché espressione concreta del multiforme agire delle pubbliche amministrazioni: nel contesto di tale agire ed in esso soltanto, insomma, gli “atti” delle amministrazioni hanno rilevanza giuridica, in quanto mirano a produrre, e producono, effetti negli ambiti di interessi e di rapporti in cui incidono. Come è intuitivo – ed evidente – questi “atti” sono disciplinati da regole: il principio medievale della prestazione taillable et corvéable à merci (come ad es. nel caso dei reclutamenti forzati) disciplinava l’agire amministrativo non meno di quanto fanno oggi le leggi, quando minuziosamente prescrivono ciò che può o non può essere autorizzato o preteso o – addirittura – quali comportamenti si debbano tenere in un numero qualsiasi di situazioni. Su questo genere di regole e sulle profonde trasformazioni che hanno avuto negli anni, si deve dunque portare l’attenzione (sotto questo aspetto è fondamentale lo studio di Mattarella, B.G., Fortuna e decadenza dell’imperatività del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 1, perché disaggrega l’imperatività in relazione ai singoli tipi di atto, negandone anche il ricorrere continuo).
Il problema chiaramente non è di ordine per così dire contenutistico. La legge può prescrivere ciò che ritiene più opportuno, nel rispetto della Costituzione e di pochi altri blocchi normativi sovraordinati rispetto all’ordinamento italiano (come ad es. il diritto dell’Unione Europea). Il problema sta nel comprendere come l’ordinamento nella sua globalità abbia disciplinato l’agire dell’amministrazione, a prescindere quindi dal merito, dal tipo di interesse oggetto dell’agire: in altri termini, come abbia disciplinato la formazione delle decisioni ed il controllo su esse.
In linea puramente teorica si sarebbero potute immaginare diverse soluzioni per il problema delle regole. La prima era ignorarlo, magari con qualche correttivo, come ad es. un ricorso al re, modellato sull’idea della grazia. Questa via non venne seguita, se non del tutto marginalmente (ancor oggi esiste il ricorso straordinario al Capo dello Stato, come alternativa al ricorso giurisdizionale). La seconda era trasferire l’esperienza del diritto privato nel nuovo diritto pubblico e così utilizzare il modello del contratto come riferimento per la definizione di assetti di interessi. È facile osservare che una rimodulazione di questo genere dell’ancien régime nella seconda metà dell’Ottocento può essere oggi frutto di retroattive speranze, ma non è mai stato un percorso realmente praticabile in Europa. La terza soluzione era concentrare l’attenzione sull’organizzazione, costruendola in modo che il sistema garantisse al meglio la qualità dell’agire. Le vie concrete potevano essere molte. Si poteva pensare ad accademie di formazione del personale, in modo da collocare comunque la burocrazia di un certo livello nella fascia alta della società: il prestigio avrebbe garantito il risultato della qualità dell’amministrazione e dell’amministrare (come del resto è accaduto in Francia). Si poteva pensare – ed in effetti si pensò – di costruire anzitutto una coesione tra i diversi ex-Stati che costituivano l’Italia, accentrando presso il governo centrale tutte le decisioni più rilevanti; si poteva anche accompagnare questo sistema amministrativo centralizzato con un apparato di tutela giurisdizionale, anch’esso essenzialmente centralizzato.
In effetti, tra il 1865 ed il 1890 furono gettate le fondamenta di un sistema di quest’ultimo tipo. Esso è durato formalmente fino al 1990, anno in cui venne approvata la legge sul procedimento amministrativo (l. 7.8.1990, n. 241, più e più volte modificata ed integrata – ed anche stravolta); in realtà questa legge aveva introdotto un tenue regime di amministrazione in regime di contraddittorio, che non ha mai dominato la scena ed è stato definitivamente cancellato dalla l. 11.2.2005, n. 15.
Già si è detto che con la l. 20.3.1865, n. 2248 venne dettato l’assetto normativo generale dello Stato italiano. Il suo allegato E dettava alcune fondamentali norme, ancor oggi in vigore. Con l’art. 1 aboliva «i tribunali speciali attualmente investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo», disponendo che «le controversie ad essi attribuite dalle diverse leggi saranno d’ora in poi devolute alla giurisdizione ordinaria o all’autorità amministrativa, secondo le norme dichiarate dalla presente legge». Il celeberrimo art. 2 devolveva alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e «quelle nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa». L’art. 3, mai o quasi mai realmente applicato, prevedeva che gli «affari» non compresi nell’art. 2 sarebbero stati devoluti all’autorità amministrativa, che avrebbe deciso, sentite le deduzioni degli interessati. L’art. 4 dettava infine la norma, che è stata fonte di infinite discussioni, secondo la quale «quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio».
Il quadro è relativamente chiaro. In realtà la chiarezza era ed è solo apparente, perché può essere difficilissimo distinguere in concreto un diritto soggettivo da un interesse. Non è un caso che uno degli assi intorno a cui ruota la storia della nostra giustizia amministrativa sia il problema del riparto di giurisdizioni. Questa è una grave patologia del sistema, che sembra impossibile risolvere: se si faceva (e si fa) questione di un diritto civile o politico, competente era (ed è) il giudice ordinario; quando si pretendeva (e pretende) che un diritto sia stato leso dall’autorità amministrativa, il giudice ordinario doveva (e deve) limitarsi a conoscere degli effetti dell’atto lesivo; se non si fosse trattato di diritti, ma di altro, ex art. 3, l. n. 2248/1865, l’autorità amministrativa avrebbe deciso, sentiti gli interessati (in realtà oggi la differenza tra diritti soggettivi e interessi legittimi, con le conseguenze processuali che ne derivano, nei fatti si è molto attenuata).
L’unica norma con cui questa fondamentale legge incideva direttamente nell’agire delle amministrazioni pubbliche era dunque l’art. 3, or ora citato. Esso non è stato mai applicato, così sancendo il principio che l’agire dell’amministrazione può essere soggetto a sindacato giurisdizionale, ma non deve svilupparsi attraverso un metodo predefinito di dialogo o confronto, che dir si voglia. In altri termini, la storia con le sue tradizioni prevalse sulla volontà del legislatore del 1865. L’idea stessa che potesse darsi un regime procedimentale, nel quale il cittadino avrebbe potuto discutere con l’amministrazione di un suo provvedimento, venne respinta. Si poteva ammettere un ricorso al giudice, non un dialogo.
Non rilevano qui le vicende sviluppatesi intorno a questa legge tra il 1865 ed il 1889-90 (per esse, v. Benvenuti, F., Giustizia amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 589 ss.). Certo è che il sistema, che riservava alle amministrazioni la formazione delle decisioni, salvo il ricorso al giudice da parte del cittadino leso nei suoi diritti, venne consolidato. Nel 1889 presso il massimo organo consultivo del Governo, il Consiglio di Stato, fu costituita una nuova sezione «per la giustizia amministrativa»: ad essa potevano ricorrere i cittadini lesi nei loro interessi da atti delle pubbliche amministrazioni, per denunciarne l’illegittimità e chiederne l’annullamento perché viziati da violazione di legge, eccesso di potere, incompetenza. In altri termini, ad una forma di procedimento amministrativo in contraddittorio si preferì l’istituzione di un altro giudice (al Consiglio di Stato di poteva andare solo per l’annullamento di provvedimenti definitivi per loro natura - decreti ministeriali ad es., o divenuti tali dopo l’esaurimento del ricorso gerarchico, ma il ricorso gerarchico non era certo una forma di dialogo, era l’anticipazione del ricorso giurisdizionale).
Il diritto di questi due processi, ordinario ed amministrativo, e l’inestricabile criterio di distinzione tra i tipi di interessi che davano accesso al giudice ordinario o al giudice amministrativo hanno dato vita ad una letteratura sterminata e ad una ancor più ampia giurisprudenza (riferimento essenziale è la voce di Benvenuti, F., op. cit.). Ma ciò che qui rileva non è questo diritto. Il fatto storicamente decisivo per la storia del nostro Paese è che il problema dell’agire delle pubbliche amministrazioni è stato visto, studiato, addirittura concepito sotto il profilo della tutela giurisdizionale contro questo agire. Per dirla con ogni chiarezza, è stato pensato in termini repressivi. Per un secolo, fino al 1990 (nell’agosto 1990 venne pubblicata la prima legge italiana sul procedimento amministrativo – l. n. 241/1990), a prescindere da alcune isolate voci in dottrina (Forti, U., Atto e procedimento amministrativo (note critiche), in Studi di diritto pubblico in onore di O. Ranelletti, I, Padova, 1931, 441 e Sandulli, A.M., Il procedimento amministrativo, Milano, 1940) non ci si è mai voluti preoccupare di come l’azione amministrativa dovesse essere organizzata e strutturata per assicurare i migliori risultati. La preoccupazione è stata chiarire, approfondire, raffinare gli strumenti del sindacato giurisdizionale, che per sua natura necessariamente si celebra ex post, non ex ante.
Si può ben dire che le leggi di cui si è detto costituiscono il riferimento logico e temporale per la lettura dell’agire amministrativo dall’unificazione fino ai tempi nostri, pur con l’evoluzione avviata con la l. n. 241/1990, ma, come già si è accennato, ancora ben lungi dall’essere portata a termine; anzi, in realtà soffocata dalla l. n. 15/2005. Il titolo di questa legge è Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa. È un titolo molto significativo. La l. n. 241/1990 era la legge – o almeno in tentativo di legge – sul procedimento amministrativo. Lasciata cadere ogni aspirazione a dare un assetto contraddittorio all’azione amministrativa, vale a dire di dialogo tra i cittadini e l’amministrazione – appunto, un assetto procedimentale – la nuova legge, succeduta alla n. 241/1990, è tornata all’antico: detta norme che vorrebbero essere generali sull’azione amministrativa. Del cittadino protagonista della vita e dell’economia quasi non vi è traccia. Se ne parla naturalmente; ma in chiave statica o repressiva.
Dopo l’unificazione, infatti, ci sarebbero state svariate possibilità per armonizzare diversamente l’azione amministrativa dei tanti stati da cui era nata l’Italia: ad es., promuovendo procedimenti amministrativi in contraddittorio con i cittadini.
Come è ben noto, l’art. 3 della legge abrogatrice del contenzioso prevedeva che, per le controversie non devolvibili al giudice ordinario, si sarebbe potuto avviare un contraddittorio con l’amministrazione. La norma non ha mai avuto attuazione, esaltando il ruolo delle comunità locali; etc. etc. Non è un caso che il maggiore studio su questo tema (Sandulli, A.M., Il procedimento amministrativo, cit.) scomponga l’attività amministrativa per momenti o fasi solo formalmente funzionali (iniziativa, istruttoria, decisoria, etc.), non già su compiti e ruoli di amministrazione, come l’idea stessa di “procedura” e “procedimento” avrebbe suggerito (v. anche Forti, U., Atto e procedimento amministrativo, cit.)
Il criterio adottato fu univocamente tutt’altro: si affermò perentoriamente la centralità del potere decisionale nelle amministrazioni, senza neppur pensare ad una qualche reale forma di contraddittorio; si consentì viceversa la tutela giurisdizionale, anch’essa per altro centralizzata: il giudice ordinario era comunque il giudice dello Stato che aveva il suo vertice nella Cassazione; il Consiglio di Stato era diventato il giudice amministrativo unico (e tale rimase fino alla l. 6.12.1971, n. 1034, che istituì i Tribunali Amministrativi Regionali), sia pure accompagnato da un giudice locale, non indipendente, per certe controversie con le amministrazioni locali, quali erano le Giunte provinciali amministrative (dichiarate incostituzionali da C. cost., 22.3.1967, n. 30).
Questo è il marchio che la nostra storia ha impresso al rapporto tra cittadini ed amministrazione: non la ricerca degli strumenti culturali e tecnici per rendere la sua azione più efficace e condivisa, ma di quelli per meglio vincolare e controllare i cittadini, consentendo loro in cambio ampi spazi per imbrigliarla attraverso il sindacato del giudice (basti pensare che in Austria la legge sul procedimento amministrativo, con la partecipazione del cittadino, risale al 1875, Mannori, V.-Sordi, B., Storia del diritto amministrativo, Bari-Roma, 2001, 464, ed è del 1925 la legge generale austriaca sull’attività amministrativa, Id., 468).
I due temi fin qui discussi – l’espressione “atto amministrativo” identifica un coacervo di strumenti di azione delle pubbliche amministrazioni; la loro azione e quindi i suoi strumenti non sono mai stati studiati in profondità, perché il sistema esigeva che si studiasse il processo amministrativo, non il procedimento – conducono ad una conclusione univoca ed impongono una precisazione di metodo.
La conclusione che si può trarre da quanto precede è che dell’“atto amministrativo” in quanto tale non si possono affermare caratteri comuni in via generale, propri cioè di qualunque tipo di atto amministrativo. Essi sono strumenti di azione delle pubbliche amministrazioni; sono quindi calibrati sulle esigenze che devono soddisfare. Esistono così caratteri comuni per tipi di atti. Gli atti che prescrivono comportamenti individuali sono (tendenzialmente) imperativi. Ma non lo sono ad es. gli atti di autorizzazione e di concessione, salvo che dettino prescrizioni. Vi sono atti che conferiscono diritti, ed altri che li tolgono o limitano. In funzione di un “Sì” o di un “No” lo stesso tipo di atto può essere o non essere imperativo o esserlo per un soggetto e non per un altro. La realtà giuridica emerge solo di fronte al processo: se un atto in qualche modo lede gli interessi di qualcuno, esso è “lesivo”; può – e deve – quindi essere impugnato nel termine.
La precisazione di metodo è assai più difficile da accettare e imporre. Il nocciolo della questione è che gli atti amministrativi devono essere impiegati – e quindi, essere previsti dalla legge e affidati alle cure delle amministrazioni – quando sono necessari. Questa idea è ostica. Non basta che vi siano leggi o regolamenti che disciplinano una data materia, e che devono essere osservati. Noi continuiamo a pensare che del cittadino non ci si può fidare e che quindi sempre e ovunque devono esserci controlli preventivi. La l. n. 15/2005 con le altre norme che la hanno accompagnata è esemplare. Vi sono stati ripetuti tentativi di semplificare l’azione amministrativa: ma, anziché rinunciare al controllo preventivo, cominciando dalle materie più semplici, per poi progredire su questa via e sanzionare pesantemente le violazioni, si sono dettate liberalizzazioni a schiera, tutte sottoposte ad un previo controllo. Opera vana, che nasce dalla sfiducia reciproca di cittadini ed amministrazione e di questa si alimenta. Non si dimentichi che la catena della sfiducia è uno dei più semplici sentieri che la corruzione percorre.
L. 20.3.1865, n. 2248; l. 7.8.1990, n. 241; l. 112.2005, n. 15.
Auletta, G., Atto di commercio, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 196; Casetta, E., Provvedimento e atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XII, Torino, 1997, 243; Forti, U., Atto e procedimento amministrativo (note critiche), in Studi di diritto pubblico in onore di O. Ranelletti, I, Padova, 1931, 441; Giannini, M.S., Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 157 ss.; Mattarella, B.G., Fortuna e decadenza dell’imperatività del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012; Rescigno, P., Atto giuridico, in Enc. Giur., IV, Roma, 1988; Sandulli, A.M., Il procedimento amministrativo, Milano, 1940; Satta, F., Atto amministrativo, in Enc. giur., I, Roma, 1988.