Atto di citazione [dir. proc. civ.]
Abstract
La disciplina dell'atto introduttivo del processo ordinario di cognizione e della sua invalidità.
Stando al co. 1 dell’art. 163 c.p.c., «la domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa»; il che parrebbe suggerire l’esistenza di un nesso indissolubile tra l’atto di citazione e la domanda giudiziale. In realtà, però, la citazione non è l’unico atto processuale che può contenere una domanda giudiziale, bensì rappresenta, più semplicemente, la forma prescelta dal legislatore per l’instaurazione dell’ordinario processo di cognizione, tanto in primo grado quanto nei procedimenti d’impugnazione dinanzi a giudici di merito. Rispetto al ricorso, che costituisce l’altro modello di atto introduttivo ed è prescritto per la maggior parte dei procedimenti speciali, la peculiarità della citazione è data dall’avere come destinatario diretto il convenuto, nei cui confronti, dunque, instaura immediatamente il contraddittorio.
La funzione dell’atto di citazione, pertanto, è innegabilmente composita: per un verso (al pari del ricorso) deve contenere gli elementi idonei a identificare la domanda (o le più domande) oggetto del giudizio, che si concretano nella cd. editio actionis; per altro verso, dovendo realizzare il contraddittorio, deve contenere anche gli elementi necessari per provocare e consentire la partecipazione del convenuto medesimo al processo, ossia la cd. vocatio in ius.
Passando ad analizzare il contenuto dell’atto di citazione, è opportuno avvertire che l’importanza effettiva degli elementi prescritti dall’art. 163 c.p.c. può valutarsi compiutamente solo alla luce del successivo art. 164 c.p.c. (dedicato alla nullità della citazione), poiché è da quest’ultima disposizione che può dedursi quali siano i requisiti realmente indispensabili per la validità dell’atto introduttivo.
Ciò premesso, gli elementi concernenti la editio actionis – relativi, cioè, alla formulazione della domanda – sono quelli riguardanti, ovviamente, i soggetti, il petitum e la causa petendi. Per questi profili, infatti, l’art. 163, co. 3, richiede:
a) «il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell’attore; il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono». Qualora sia parte un soggetto diverso dalla persona fisica (cioè una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato), è altresì richiesta «la denominazione o la ditta, con l’indicazione dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio». Da notare, peraltro, che tali elementi hanno una duplice valenza, giacché, oltre a individuare i profili soggettivi della domanda, concorrono in qualche misura anche alla vocatio in ius; e anzi – come si avrà modo di osservare più avanti (infra, § 4.1) – è proprio a questo secondo aspetto che il legislatore ha prestato maggiore attenzione;
b) «la determinazione della cosa oggetto della domanda», da intendersi sia come petitum cd. mediato, ossia con riguardoal bene giuridico che l’attore persegue (per es., una certa somma di denaro, di cui chiede il pagamento, oppure un determinato bene mobile o immobile, di cui pretende la consegna o il rilascio), sia come petitum cd. immediato, che s’identifica col tipo di provvedimento che l’attore chiede al giudice (sentenza di mero accertamento, di condanna al pagamento o al rilascio, ecc.);
c) «l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni». Tenuto conto del principio iura novit curia, per cui il giudice deve provvedere autonomamente alla corretta qualificazione giuridica della fattispecie e all’individuazione degli effetti che ne derivano in iure, è chiaro che il ruolo più importante compete, per questo aspetto, all’allegazione dei fatti «costituenti le ragioni della domanda», che identificano, secondo la dottrina maggioritaria, la causa petendi e dunque solitamente coincidono (salvo che si tratti di un’azione di mero accertamento negativo) con i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio.
In relazione a questi ultimi, peraltro, è opportuno rammentare che non sempre l’indicazione dei fatti costitutivi è realmente necessaria a identificare compiutamente la domanda nonché, più a monte, il diritto dedotto in giudizio. L’opinione oggi prevalente, infatti, contrappone a tal proposito i diritti eterodeterminati a quelli autodeterminati (v. diffusamente Cerino Canova, A., La domanda giudiziale ed il suo contenuto,in Comm. c.p.c. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 177 ss.). Alla prima categoria appartengono i diritti la cui individuazione univoca per l’appunto esige il riferimento al complesso dei fatti da cui essi traggono origine, ossia i diritti aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro o comunque una prestazione generica, nonché i diritti reali di garanzia. Alla seconda categoria, invece, appartengono i diritti per la cui individuazione si reputa sufficiente, accanto agli elementi soggettivi, il solo petitum (mediato), e cioè il diritto di proprietà, i diritti reali di godimento, i diritti assoluti in genere, gli status, i diritti di credito aventi ad oggetto una prestazione specifica (per es., l’esecuzione di una determinata opera), e infine, secondo l’opinione più persuasiva (ancorché tutt’altro che pacifica), i diritti aventi ad oggetto una modificazione giuridica (che sarebbero individuati univocamente dall’effetto giuridico perseguito).
Gli elementi funzionali alla vocatio in ius sono:
a) «l’indicazione del tribunale (rectius: dell’ufficio giudiziario) davanti al quale la domanda è proposta;
b) «l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione», che dev’essere scelto tenendo conto dei termini minimi previsti dall’art. 163 bis c.p.c.;
c) «l’invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell’udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell’art. 168 bis, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167».
È chiaro, inoltre, che concorrono alla vocatio in ius anche gli elementi di cui al n. 2 dell’art. 163 c.p.c. (v. supra, § 2.1), quanto meno per la parte in cui servono a individuare il soggetto convenuto in giudizio.
Altri elementi necessari, estranei alle funzioni tipiche dell’atto di citazione, ma corrispondenti alla disciplina generale degli atti di parte, sono rappresentati dall’indicazione delle generalità del difensore-procuratore dell’attore (comprensive, in base all’art. 125 c.p.c., del codice fiscale e del numero di fax) nonché dalla sottoscrizione di quest’ultimo.
Qualora sia stata già rilasciata, inoltre, è prescritta l’indicazione della procura, generale o speciale.
Del tutto eventuale, invece, è «l’indicazione specifica dei mezzi di prova» e in particolare dei documenti offerti in comunicazione, trattandosi di attività cui l’attore ben potrebbe provvedere in un momento successivo, alla prima udienza o comunque entro il termine di cui all’art. 183, co. 6, n. 2, c.p.c.
L’atto introduttivo produce inevitabilmente effetti processuali e sostanziali, che in realtà si ricollegano più esattamente all’una o più domande in esso formulate.
Gli effetti processuali ruotano tutti, in definitiva, intorno alla nozione di litispendenza, derivando dalle molteplici disposizioni di legge in cui, per svariati profili, si presuppone per l’appunto la pendenza della causa.
La proposizione di una determinata domanda, ad es., individua il momento a partire dal quale: a) nessun altro giudice, adito successivamente, può conoscere e comunque decidere la medesima causa (art. 39 c.p.c.); b)i mutamenti della legge o dello stato di fatto, riguardanti la giurisdizione o la competenza del giudice adito, non possono sottrarre la causa al giudice stesso (principio della perpetuatio iurisdictionis: art. 5 c.p.c.); c)il trasferimento del diritto controverso non incide sulla legittimazione (ad agire o a contraddire) della parte originaria (art. 111 c.p.c.). Va inoltre ricondotto nell’ambito di tali effetti anche l’impedimento di eventuali decadenze che operino sul terreno strettamente processuale: si pensi, ad es., ai termini cui sono soggette la domanda di impugnazione (artt. 325 e 327 c.p.c.) o la domanda di opposizione a decreto ingiuntivo (art. 641 c.p.c.).
Quanto agli effetti sostanziali, invece, occorre distinguere tra quelli che la domanda produce di per sé (indipendentemente, cioè, dall’esito del processo) e quelli che invece presuppongono qualcos’altro, ossia che il processo arrivi a una sentenza, se del caso di un certo contenuto (per es., di accoglimento della domanda o comunque di merito).
Alla prima categoria appartiene – salvo quanto si preciserà più avanti – l’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione previsto dagli artt. 2943, co. 1, e 2945, co. 2, c.c., per cui la proposizione della domanda giudiziale, pur se rivolta a un giudice incompetente, vale senz’altro a interrompere la prescrizione del diritto azionato, che riprende a decorrere dopo il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.
Alla medesima categoria, inoltre, possono ascriversi tutti gli effetti che la domanda sia idonea a produrre non – per così dire – in via necessaria ed esclusiva, bensì accidentalmente; quando, cioè, essa costituisce il mezzo per l’attuazione di un potere (solitamente negoziale) che il suo autore avrebbe potuto esercitare anche al di fuori del processo: si pensi, ad es., al caso in cui il creditore utilizzi proprio la domanda giudiziale per operare la scelta fra più obbligazioni alternative (art. 1285 ss. c.c.), oppure per costituire in mora il debitore (art. 1219 c.c.).
Il secondo e più ampio gruppo di effetti sostanziali è invece implicitamente condizionato, nel suo operare, alla circostanza (che il processo giunga a sentenza e) che la domanda venga accolta. Ciò nonostante si discorre pur sempre di effetti della domanda poiché, una volta intervenuta la sentenza di accoglimento, essi retroagiscono, in un certo senso, al giorno in cui la domanda era stata proposta, evitando, in tal modo, che la parte risultata vittoriosa sia comunque pregiudicata dalla durata del processo. Così, ad es., è dal giorno della domanda che gli interessi scaduti producono a propria volta interessi (art. 1283 c.c.), o che il possessore in buona fede risponde nei confronti del rivendicante dei frutti percepiti o percepibili (art. 1148 c.c.). E in modo analogo operano gli artt. 2652 e 2653 c.c., per cui la trascrizione delle domande giudiziali ivi contemplate rende inopponibili all’attore vittorioso i diritti acquistati da terzi con un atto trascritto o iscritto (prima della sentenza, ma) dopo la trascrizione stessa.
È possibile distinguere, infine, una terza categoria di effetti sostanziali, che potrebbe dirsi intermedia, per la cui produzione la domanda giudiziale è condizionenecessaria e sufficiente, e che, tuttavia, sono destinati a caducarsi allorché la pendenza del processo, per qualunque motivo, venga meno senza la possibilità di arrivare a una sentenza. Vanno ricondotte a tale categoria, secondo l’opinione che appare più persuasiva, l’effetto impeditivo di decadenze sostanziali, nelle non poche ipotesi in cui un diritto deve «esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza» (art. 2964 c.c.: si pensi, ad es., al termine di cui all’art. 244 c.c. per l’esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità, nonché alle preclusioni ricollegate dall’art. 1453 c.c. alla proposizione della domanda di risoluzione del contratto). A ben riflettere, inoltre, può ascriversi a tale categoria anche l’effetto sospensivo della prescrizione previsto dall’art. 2945, co. 2, c.c., il quale viene meno (in base al successivo co. 3) in caso di estinzione del processo, lasciando sopravvivere la sola interruzione istantanea prodotta dalla notificazione dell’atto introduttivo del processo.
La riforma del 1990 (l. 26.11.1990, n. 353), recependo in larga misura le critiche che la dottrina aveva rivolto al testo originario dell’art. 164 c.p.c., ha introdotto una disciplina articolata e piuttosto differenziata a seconda che la nullità dell’atto di citazione dipenda da vizi della vocatio in ius oppure della editio actionis.
Per quel che riguarda la prima ipotesi, la nullità è prevista per:
a) l’omessa o assolutamente incerta indicazione del tribunale adito (si pensi, in particolare, alla contemporanea indicazione di due uffici giudiziari diversi);
b) l’omessa o assolutamente incerta indicazione delle generalità di taluna delle parti o di alcuno degli altri elementi prescritti nel n. 2 dell’art. 163, peraltro nei soli casi – assai rari – in cui il vizio sia tale da impedire l’individuazione univoca dell’attore o del convenuto (v., ad es., Cass., 19.12.2008, n. 29864, e Cass., 24.3.2003, n. 4275);
c) l’omessa o assolutamente incerta indicazione della data dell’udienza in cui il convenuto è chiamato a comparire (sempreché, trattandosi di mera incertezza, essa non sia superabile con un minimo di diligenza e di buon senso: v., ad es., Cass., 22.6.2011, n. 13691);
d) l’assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello minimo previsto dall’art. 163 bis c.p.c.(da computare, per l’art. 70 bis disp. att. c.p.c., in relazione all’udienza fissata nell’atto di citazione, restando irrilevante l’eventuale differimento della stessa);
e) l’omissione del formale avvertimento prescritto nel n. 7 dell’art. 163 c.p.c. (che deve indicare specificamente il termine di costituzione del convenuto, non essendo sufficiente un generico richiamo dei termini previsti dall’art. 166 c.p.c.: Cass., 22.7.2004, n. 13652).
In tutte queste ipotesi l’eventuale costituzione del convenuto «sana» oggettivamente (prescindendo, cioè, dalla volontà del convenuto stesso) e senza alcun residuo la nullità dell’atto introduttivo, a meno che essa non dipenda da inosservanza del termine minimo di comparizione oppure da omissione del predetto avvertimento: in entrambi questi casi, infatti, il convenuto, costituendosi al più tardi all’udienza di prima comparizione, potrebbe dedurre il vizio al (solo) fine di ottenere che il giudice fissi «una nuova udienza nel rispetto dei termini»; il che equivale a una sorta di automatica rimessione in termini, poiché è chiaro che il convenuto potrà allora perfezionare o integrare la propria costituzione e la propria comparsa di risposta, a norma degli artt. 166 e 167 c.p.c., venti giorni prima di tale nuova udienza.
Quantunque la norma non lo precisi, deve però ritenersi che tale regime valga solo se il convenuto si costituisce tempestivamente, ossia entro la prima udienza. In caso di costituzione tardiva, infatti, l’art. 294 c.p.c. prevede che il convenuto stesso, il quale deduca che la sua contumacia è dipesa dalla nullità della citazione (o della relativa notificazione), in tanto può «essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse», in quanto dimostri che la nullità medesima gli ha «impedito di avere conoscenza del processo». Premesso che si tratta di una questione piuttosto controversa, la soluzione preferibile sembra allora quella secondo cuiil convenuto, eccependo la nullità della citazione al momento della sua (tardiva) costituzione, ha senz’altro il diritto di ottenere la (sola) rinnovazione, ex art. 162 c.p.c., degli atti (istruttori) pregressi, colpiti per estensione dall’invalidità dell’atto introduttivo, mentre, qualora intenda svolgere ulteriori attività difensive per le quali sono già maturate delle preclusioni, deve preventivamente ottenere la rimessione in termini alle condizioni previste dall’art. 294 (cfr. invece Proto Pisani, A., In tema di rilievo tardivo di vizi relativi alla «vocatio in ius», in Foro it., 2013, I, 2840, ed ora Della Pietra, G., La patologia della domanda giudiziale, Roma, 2012, 156 ss.).
Se invece il convenuto non si costituisce, il giudice è tenuto a disporre d’ufficio la rinnovazione della citazione (ovviamente a cura dell’attore), fissando a tal fine una nuova udienza e un termine perentorio, la cui inosservanza produrrebbe la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione immediata del processo, a norma dell’art. 307, co. 3, c.p.c. (circa l’ammissibilità della rinnovazione spontanea, da parte dell’attore, senza bisogno di attendere l’ordine del giudice, cfr. Cass., 1.7.2008, n. 17951, e Cass., 16.10.2009, n. 22024).
In ogni caso, peraltro, la sanatoria (prodotta dalla costituzione spontanea del convenuto oppure dalla rinnovazione della citazione) opera – si suol dire – ex tunc, nel senso che gli effetti processuali e sostanziali della domanda restano salvi e si producono sin dal momento in cui era stato notificato l’atto invalido.
Le nullità riguardanti l’editio actionis possono derivare da:
a) l’omessa o assolutamente incerta determinazione della «cosa oggetto della domanda» (ossia del petitum, mediato o immediato), che deve tener conto del contenuto complessivo dell’atto di citazione (v. per tutte Cass., 28.8.2009, n. 18783, e Cass., 7.3.2006, n. 4828);
b) la mancata esposizione dei fatti «costituenti le ragioni della domanda».
Una parte della dottrina ritiene che questa seconda ipotesi ricorra solamente quando, trattandosi di un diritto cd. eterodeterminato (supra, § 2.1), l’omessa specificazione dei fatti costitutivi renda impossibile individuare con certezza il diritto stesso o comunque il rapporto giuridico per il quale s’invoca la tutela giurisdizionale, e non anche, invece, quando la domanda verta su un diritto autodeterminato (cfr. soprattutto Luiso, F.P., Diritto processuale civile, II, Milano, 2013, 16 s.; conf., in giurisprudenza, Cass., 17.7.2007, n. 15915). Sebbene questa tesi muova da una premessa del tutto condivisibile – ossia l’idoneità dell’atto di citazione a produrre ab origine, nonostante il vizio, i suoi consueti effetti sostanziali e processuali (il che può incidere sul regime della sanatoria: v. infra, in questo §), ciò che si oppone a una siffatta interpretazione restrittiva non è soltanto la lettera dell’art. 164 c.p.c., che sarebbe probabilmente superabile attraverso l’applicazione dell’art. 156, co. 2, c.p.c., quanto piuttosto la constatazione che i «fatti» menzionati nell’art. 163, n. 4, c.p.c. non vengono in rilievo soltanto per l’identificazione dell’oggetto del giudizio, ma vanno altresì correlati all’ulteriore funzione che compete alla citazione, quale atto preparatorio della successiva trattazione e istruzione della causa, nonché al sistema di preclusioni che caratterizza il processo ordinario; e dunque, pur quando non siano indispensabili per l’identificazione della domanda, servono per consentire al convenuto di difendersi adeguatamente (cfr. Cass., 21.11.2008, n. 27670) e al giudice stesso di esercitare proficuamente i poteri che gli sono attribuiti dall’art. 183 c.p.c. in relazione alla trattazione della causa.
Si noti, inoltre, che se l’omessa indicazione dei fatti costitutivi, nella specie, esorbitasse realmente dall’art. 164 c.p.c., le implicazioni sarebbero a dir poco incongrue, poiché l’ipotesi ricadrebbe, allora, sotto la disciplina dell’art. 183 c.p.c. e l’allegazione dei suddetti fatti – che ovviamente è pur sempre indispensabile perché la domanda possa trovare accoglimento – sarebbe consentita solo nei ristretti limiti temporali in cui è possibile la modifica (emendatio) della domanda stessa(art. 183, co. 5 e co. 6, n. 2, c.p.c.); con la conseguenza che il vizio, pur essendo oggettivamente meno grave, riceverebbe un trattamento deteriore rispetto a quello che più radicalmente impedisca l’individuazione del diritto dedotto in giudizio (per la cui sanatoria l’art. 164 c.p.c. non pone alcun limite temporale, quanto meno nell’ambito del processo di primo grado).
Per converso, sebbene il legislatore abbia indiscriminatamente ascritto al novero delle nullità della vocatio in ius tutte quelle derivanti dalla mancanza dei requisiti prescritti dal n. 2 dell’art. 163 c.p.c., possono ipotizzarsi dei casi-limite in cui l’omessa indicazione delle generalità delle parti (specie se riguardante l’attore contumace) sia tale da impedire la stessa individuazione della domanda nei suoi profili soggettivi; nel qual caso il regime più appropriato è senz’altro quello che ci si accinge a esaminare.
Ciò premesso, anche in relazione alle nullità della editio actionis occorre distinguere a seconda che il convenuto si sia o meno costituito.
L’eventuale costituzione spontanea del convenuto, indipendentemente dal momento in cui avvenga, non è mai sufficiente, di per sé, a sanare l’atto introduttivo, essendo a tal fine necessaria, evidentemente, un’attività dell’attore. Il giudice, pertanto, è tenuto a ordinare a quest’ultimo l’integrazione della domanda, fissando per tale adempimento un termine perentorio e rinviando la causa a un’altra udienza.
Qualora l’attore ottemperi, il processo resta sanato, ma – suol dirsi – ex nunc, giacché la domanda produce i propri effetti solo da questo momento e pertanto «restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti» precedentemente (è lecito pensare, peraltro, che questa irretroattività non possa valere quando la nullità derivi dall’omessa esposizione dei fatti «costituenti le ragioni della domanda» e quest’ultima riguardi un diritto cd. autodeterminato; v. amplius Balena, G., La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1990, 133 s.). Per il convenuto, dunque, è come se il processo iniziasse soltanto adesso: egli sarà automaticamente rimesso in termini e, in particolare, potrà integrare a sua volta la propria comparsa di risposta fino a venti giorni prima della nuova udienza, proponendo ad es. domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto, o chiamando in causa un terzo; e infatti l’ult. co. dell’art. 164 c.p.c. richiama espressamente l’art. 167 c.p.c.
Se invece l’ordine d’integrazione non viene eseguito, deve ritenersi il giudice debba dichiarare l’estinzione (in applicazione analogica dell’art. 307, co. 3, c.p.c.) o comunque definire il processo in rito; a meno che il vizio non riguardi alcuna soltanto delle più domande proposte (nel qual caso non v’è ragione di escludere che le domande correttamente formulate debbano essere regolarmente istruite e decise: cfr. Cass., S.U., 22.5.2012, n. 8077).
Allorché, in presenza di un vizio dell’editio actionis, il convenuto sia rimasto contumace, il giudice, in qualunque momento rilevi la nullità, deve ordinare all’attore di rinnovare la citazione.
Se la rinnovazione avviene tempestivamente, le conseguenze sono del tutto analoghe a quelle – poc’anzi indicate – previste per l’integrazione della domanda. In caso contrario il processo, a seconda dei casi, si estinguerà, a norma dell’art. 307, co. 3, c.p.c., quando il vizio riguardi l’unica domanda o tutte le domande oggetto del giudizio, o altrimenti proseguirà per la sola trattazione delle domande validamente proposte (o tempestivamente sanate).
Priva di una disciplina specifica è l’ipotesi in cui, essendo il convenuto rimasto contumace in primo grado, la nullità dell’atto introduttivo sia rilevata per la prima volta in appello.
Anche a questo riguardo, peraltro, deve distinguersi a seconda che la nullità derivi da vizi della vocatio in ius oppure della editio actionis.
Nel primo caso (di gran lunga più frequente), considerato che si tratta di una fattispecie non contemplata tra le ipotesi (tassative) di rimessione al primo giudice di cui all’art. 354 c.p.c., l’opinione oggi prevalente, soprattutto nella giurisprudenza, è nel senso che il giudice d’appello, allorché la nullità venga denunciata dal convenuto con l'atto di appello (per l'esclusione della rilevabilità d'ufficio, in tale ipotesi, v. Cass., 7.1.1983, n. 132, e Cass., 17.11.1979, n. 5968, e in dottrina Balena, G., La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, 148), debba a sua volta decidere la causa nel merito (v. ad es. Cass., 8.6.2012, n. 9306; Cass., 11.11.2010, n. 22914; Cass., 15.5.2009, n. 11317; Cass., 13.12.2005, n. 27411). Né sembrano fondati, d’altronde, i sospetti d’illegittimità costituzionale talora avanzati a questo riguardo, in ragione del diverso trattamento riservato dall’art. 354, co. 1, c.p.c. alla nullità della notificazione dell’atto introduttivo: a ben riflettere, invero, i vizi propri della citazione rappresentano per il diritto di difesa del convenuto un pericolo oggettivamente molto meno grave di quello che può scaturire dai vizi della notificazione; i soli che possono ipoteticamente addirittura impedire che il convenuto stesso venga a conoscenza dell’instaurazione di un giudizio nei suoi confronti.
Il punto più delicato, semmai, attiene alle concrete conseguenze dell’accertamento della nullità all’interno del giudizio d’appello; conseguenze che devono determinarsi tenendo conto di quanto già osservato (v. supra, § 4.1) in relazione all’ipotesi in cui il vizio della vocatio in ius sia rilevato nel corso del giudizio di primo grado, in seguito alla tardiva costituzione del convenuto. Mentre non par dubbio, dunque, che quest’ultimo, ove lo richieda, abbia senz’altro diritto alla rinnovazione degli atti istruttori compiuti in primo grado, cui la nullità si estende ex art. 159, co. 1, c.p.c., appare doveroso ritenere, alla luce dell’art. 294, co. 1, c.p.c. che il superamento delle preclusioni maturate in suo danno – relativamente a nuove allegazioni e nuove prove – sia subordinato alla prova che la natura del vizio dell’atto di citazione era tale da impedirgli realmente di avere conoscenza del processo (rectius: di identificare il processo stesso negli elementi essenziali), o comunque da giustificare il protrarsi della sua contumacia per tutto il processo di primo grado; ché, se così non fosse (se cioè il superamento delle suddette preclusioni fosse automatico, come spesso parrebbe sottintendere la giurisprudenza: cfr. ad es. Cass., 11.11.2010, n. 22914; Cass., 13.12.2005, n. 27411; Cass., 15.9.2004, n. 18571), ne risulterebbe per un verso elusa la disposizione dell’art. 294 c.p.c. e per altro verso indebitamente discriminato il convenuto che, seppure tardivamente, si costituisca nel processo di primo grado.
Per quel che riguarda, invece, i vizi della editio actionis, occorre premettere che l’eventualità di una nullità rilevata per la prima volta in appello appare alquanto remota, essendo difficile immaginare che il giudice di primo grado, pur nella contumacia del convenuto, arrivi a decidere nel merito una domanda che non sia compiutamente individuata nei suoi elementi oggettivi. Qualora tale ipotesi si realizzi, peraltro, l’unica soluzione praticabile sembra quella della mera dichiarazione della nullità, con conseguente absolutio ab instantia (v. in tal senso Cass., 12.10.2012, n. 17408, in relazione a un’ipotesi in cui, nonostante l’eccezione di nullità del convenuto, il giudice di primo grado aveva omesso di ordinare l’integrazione della domanda). Il divieto di domande nuove in appello, sancito dall’art. 345 c.p.c., impedisce, infatti, di ammettere la sanatoria della nullità in appello, giacché una domanda perfetta in tutti i suoi essenziali elementi non appare meno «nuova», rispetto a quella in cui uno dei medesimi elementi dovesse mancare o risultasse assolutamente incerto, di quel che sarebbe la domanda stessa rispetto a un'altra in cui fossero semplicemente diversi il petitum o la causa petendi (cfr. infatti Cass., 8.5.1982, n. 2868, con riguardo a un'ipotesi in cui la domanda proposta in primo grado non conteneva l'indicazione degli elementi di fatto sui quali era fondata).
Né tornerebbe utile in tal caso, d’altronde, un’applicazione analogica dell’art. 354 c.p.c. (ostacolata, peraltro, dalla tassatività delle ipotesi di rimessione al primo giudice), poiché la sanatoria delle nullità in questione produce effetti soltanto ex nunc e dunque l'eventuale rimessione (e la conseguente prosecuzione del giudizio in primo grado) risulterebbe priva della sua più tipica connotazione funzionale, non potendo servire, per l'appunto, a conservare degli effetti che la domanda originaria non aveva prodotto.
Proprio le motivazioni testé addotte, tuttavia, potrebbero indurre a prospettare una soluzione differente rispetto all’ipotesi in cui la citazione, pur difettando dell'esposizione dei fatti «costituenti le ragioni della domanda» (art. 163, n. 4, c.p.c.), avesse ad oggetto un diritto cd. autodeterminato e pertanto fosse egualmente idonea a individuare compiutamente la domanda medesima (v. supra,§ 2.1). Qualora si ammettesse, invero, che siffatta nullità non esclude la (originaria) efficacia, sostanziale e processuale, della citazione (v. nuovamente Balena, G., La riforma, cit., 133 s.), sarebbe possibile propugnare per questa ipotesi la medesima soluzione formulata per le nullità della vocatio in ius, ossia la decisione del merito della causa da parte del giudice d'appello, tenuto conto che il divieto di domande nuove, contenuto nell'art. 345 c.p.c., non impedisce l'allegazione di nuovi e diversi fatti costitutivi che, senza incidere sull'identità della domanda, ne implichino una mera emendatio (v., ad es., Cass., 21.1.2013, n. 1370; Cass., 24.5.2010; Cass., 26.11.2008, n. 28228).
L’art. 164 c.p.c. sicuramente non esaurisce le fattispecie d’invalidità della citazione, potendo la nullità derivare, in particolare, dall’assoluto difetto di sottoscrizione del procuratore (o della stessa parte, allorché quest’ultima stia in giudizio personalmente), oppure da un vizio di natura extraformale, attinente alla rappresentanza tecnica (dell’attore) ovvero alla legittimazione processuale (dell’attore o del convenuto).
Per quel che concerne la prima ipotesi, la giurisprudenza, pur muovendo dalla premessa che l’omessa sottoscrizione causi la nullità o addirittura l’inesistenza dell’atto introduttivo (Cass., 22.3.2001, n. 4116), per un verso esclude che sia motivo di nullità la mancata sottoscrizione della sola copia notificata, allorché questa contenga elementi sufficienti per acquisire la certezza della sua rituale provenienza dal difensore in essa indicato (Cass., 26.9.2006, n. 20817; Cass., 13.4.1999, n. 3620; Cass., 3.7.1998, n. 6480; Cass., 10.1.1998, n. 146), e per altro verso reputa comunque sufficiente la sola sottoscrizione con cui il difensore abbia autenticato la firma del cliente sulla procura ad litem apposta in calce o a margine della citazione (Cass., 22.11.2004, n. 22025; Cass., 6.3.2004, n. 4617; App. Lecce-Taranto, 6.9.2000, in Arch. civ., 2004, 1180).
Per quel che riguarda, invece, i vizi relativi alla legittimazione processuale oppure alla rappresenta tecnica, il novellato art. 182, co. 2, c.p.c. prevede che essi siano sempre sanabili ex tunc (ossia con efficacia retroattiva), a seconda dei casi, tramite il rilascio o la rinnovazione della procura ad litem, oppure tramite la costituzione del soggetto cui spetta la rappresentanza processuale o l’assistenza dell’incapace.
Un errore tutt’altro che infrequente, talora propiziato dall’ambiguità di alcune previsioni normative, consiste nell’utilizzare per l’atto introduttivo del processo un modello diverso da quello prescritto: il ricorso in luogo della citazione, o viceversa.
Siffatto errore, che solitamente si traduce anche, più in generale, in un errore sul rito della causa, non è di per sé fatale, poiché comunemente si esclude che esso sia motivo di nullità o comunque di definizione del processo in mero rito e si ritiene, invece, che l’unica conseguenza, in linea di principio, sia l’obbligo per il giudice di disporre, finanche quando l’errore sia rilevato in appello, la cd. conversione del rito.
La giurisprudenza prevalente, tuttavia, pone a tale principio un’importante e incisiva limitazione per l’ipotesi (del tutto normale allorché si tratti di un’impugnazione) in cui l'instaurazione del giudizio sia assoggettata a un termine di decadenza, affermando che in tal caso la tempestività dell'atto introduttivo dev'essere valutata non già alla luce del modello erroneamente utilizzato, bensì secondo quello che avrebbe dovuto impiegarsi; nel senso, cioè, che: a) se il processo doveva promuoversi con ricorso, la domanda proposta con citazione può tener luogo del ricorso (non dal giorno della notifica al convenuto, bensì) solo dal momento in cui la citazione medesima viene depositata nella cancelleria del giudice adito, e dunque dalla costituzione dell'attore (a titolo meramente esemplificativo, e limitatamente alle decisioni più recenti, v. Cass., 8.2.2013, n. 3077; Cass., 15.1.2013, n. 797; Cass., 31.12.2008, n. 30688; Cass., 2.4.2009, n. 8014; da ultimo Cass., S.U., 8.10.2013, n. 22848; diversamente, seppure con specifico riguardo all’impugnazione della delibera di assemblea condominiale, Cass., S.U., 14.4.2011, n. 8491);b) se invece è stato utilizzato il ricorso al posto della prescritta citazione, il giudizio si ha per iniziato non già dal giorno del deposito dell'atto introduttivo in cancelleria, bensì dal momento in cui esso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, viene notificato al convenuto (v. ad es. Cass., S.U., 23.9.2013, n. 21675; Cass., 13.9.2013, n. 21013; Cass., 20.2.2012, n. 2430). In altre parole, (quanto meno) l’effetto impeditivo della decadenza (processuale) dal potere d’impugnare si produrrebbe in un momento successivo all’instaurazione del giudizio, col verificarsi di un evento (nell’ipotesi sub a, il deposito della citazione in cancelleria; nell’ipotesi sub b, la notificazione del ricorso e del decreto) che in qualche modo sanerebbe l’iniziale difetto di forma e renderebbe la citazione equipollente al ricorso, o viceversa.
Contro siffatta soluzione, che di fatto conduce assai spesso all’inammissibilità (in quanto tardiva) dell’impugnazione proposta in forma erronea, sono stati addotti, peraltro, diversi argomenti (v. diffusamente Balena, G., Le conseguenze dell’errore sul modello formale dell’atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle Sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, 647 ss.; Id., Sull’errore (talora assai dubbio) concernente la forma dell’atto di impugnazione, ivi, 2014, 1119 ss.), tra cui, in particolare, la disciplina dell’errore sul rito – racchiusa negli artt. 426, 427 e 439 c.p.c., quanto ai rapporti tra rito ordinario e rito del lavoro, e poi generalizzata (in seguito alla riforma del 1990) dall’art. 40, co. 5, c.p.c. – dalla quale si desume che tutte le attivitàprocessuali compiute anteriormente al mutamento del rito debbono valutarsi, a ogni fine ed effetto, in base alle norme del rito inizialmente (ed erroneamente) adottato.
Si è osservato, altresì, che dopo la positiva consacrazione del principio della translatio iudicii – a opera dell’art. 59 l. 18.6.2009, n. 69 e poi dell’art. 11 del d.lgs. 2.7.2010, n. 104 – finanche la domanda erroneamente proposta dinanzi a una giurisdizione speciale, secondo un rito e un modello formale che possono non avere nulla in comune con quelli che avrebbero dovuto adottarsi dinanzi al giudice ordinario, è di per séidonea a impedire ogni decadenza cui l’azione sia eventualmente soggetta; sicché è inverosimile – in assenza, oltretutto, di un’espressa previsione normativa – che il mero errore sulla forma dell’atto introduttivo possa invece incidere negativamente sulla datazione degli effetti della domanda, rendendo quest’ultima eventualmente tardiva.
Tenuto conto, inoltre, che lo stesso legislatore, nell’art. 4, ult. co., d.lgs. 1.9.2011, n. 150, ha espressamente adottato – in relazione alle molteplici controversie ivi disciplinate – l’opposto principio per cui, in caso di erronea scelta del rito, «gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento», i tempi appaiono oramai maturi per una revisione dell’indirizzo tradizionale ovvero, in mancanza, per una rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Artt. 163 e 164 c.p.c.
Balena, G., La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1990, 98 ss.; Balena, G., Le conseguenze dell’errore sul modello formale dell’atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle Sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, 647 ss.; Balena, G., Sull’errore (talora assai dubbio) concernente la forma dell’atto di impugnazione, in Giusto proc. civ., 2014, 1119 ss.; Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, II, IV ed., Bari, 2014, 35 ss. e 57 ss.; Cerino Canova, A.-Balena, G., Citazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991; Cerino Canova, A.,La domanda giudiziale ed il suo contenuto,in Comm. c.p.c. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 3 ss.; Consolo, C., Domanda giudiziale, in Dig. civ., VII, Torino, 1991, 44 ss.; Consolo, C., Spiegazioni di diritto processuale civile, II ed., Torino, 2012, II, 117 ss., III, 6 ss.; Della Pietra, G., La patologia della domanda giudiziale, Roma, 2012; Luiso, F.P., Diritto processuale civile, II, VII ed., Milano, 2013, 6 ss.; Monteleone, G., Manuale di diritto processuale civile, I, VI, ed., Padova, 2012, 375 ss.; Olivieri, G., La rimessione al primo giudice nell’appello civile, Napoli, 1999, passim; Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, VI ed., Napoli, 2014, rist. agg., 216 ss.; Proto Pisani, A., In tema di rilievo tardivo di vizi relativi alla «vocatio in ius», in Foro it., 2013, I, 2840.