Repubblica, atto terzo
Non basta cambiare il sistema elettorale. Occorrono modifiche strutturali della forma di governo e della Costituzione. Semipresidenzialismo alla francese o elezione diretta del premier: le proposte della Commissione per le riforme non lasciano più alibi ai politici.
Quali sono i due obiettivi che sono stati perseguiti invano durante la Seconda Repubblica (o, meglio, durante il secondo sistema dei partiti della Repubblica) e che potrebbero e dovrebbero essere realizzati oggi? Il primo, quello su cui ci concentriamo prevalentemente in questa sede, è quello della democrazia governante, della convergenza anche del nostro paese rispetto ai parametri di stabilità ed efficienza delle grandi democrazie, ovvero un indirizzo politico stabile per la legislatura, che porti con sé di norma anche la rappresentanza continuativa della stessa persona al vertice dei capi di Governo e, se possibile, anche a quello dei ministri dell’Economia.
Questo obiettivo non è affatto irraggiungibile di per sé, checché si possa talora pensare; ha però bisogno di modifiche efficaci e coerenti sia alla legislazione elettorale sia, soprattutto, alla forma di governo e ai suoi cardini in Costituzione. Non a caso, pur con varie imperfezioni nella legislazione elettorale e nei regolamenti consiliari (che hanno favorito oltre modo la frammentazione) hanno superato la prova sia il livello dei Comuni sia quello delle Regioni, entrambi con l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo a cui è affidato il potere di ricorrere anticipatamente alle urne e col meccanismo della sfiducia distruttiva. Le stesse forze politiche erano presenti sui 3 livelli ma, in presenza di regole diverse, solo quello nazionale non ha raggiunto l’obiettivo dei governi di legislatura scelti dal corpo elettorale e in grado di attuare la sostanza del proprio programma.
Due sono le soluzioni di sistema astrattamente possibili, come enuncia chiaramente la recente relazione della Commissione governativa per le riforme: una che riprende il modello francese post-2000, con un presidente di durata quinquennale eletto poco prima della Camera politica, a sua volta selezionata con un meccanismo maggioritario in collegi uninominali a doppio turno, e l’altra che fa perno invece su un primo ministro scelto dai cittadini con un sistema a doppio turno nazionale analogo a quello previsto per i sindaci. Il vantaggio principale di questa seconda soluzione sta nel modificare di meno in termini quantitativi la seconda parte della Costituzione come invece richiederebbe l’opzione per un presidente della Repubblica stabilmente governante a cui andrebbero sottratti compiti di garanzia da riallocare altrove. Nessuna delle soluzioni può però fare a meno di alcune incisive innovazioni costituzionali, senza le quali la sola riforma elettorale sarebbe insufficiente: il rapporto fiduciario con una sola Camera per non appendere più il governo a 2 risultati potenzialmente diversi (e effettivamente tali nel 1994, 1996, 2006 e 2013, cioè 4 volte su 6 nella cosiddetta Seconda Repubblica), il potere del governo di chiedere e ottenere una data certa per il voto in Parlamento dei testi di legge fondamentali per applicare il suo programma (evitando così le confuse alluvioni di decreti), il potere deterrente contro le crisi di poter ricorrere a elezioni anticipate nelle mani del vertice dell’esecutivo (presidente nel primo caso, premier nel secondo). Nulla di risolutivo potrebbe invece venire, a Costituzione invariata, da un’ulteriore riforma di natura solo elettorale, che, anche qualora fosse migliorativa, non sarebbe comunque in grado di assicurare un chiaro vincitore (stante le 2 diverse Camere con potere di fiducia), ma, ove anche questo concretamente accadesse, non potrebbe comunque fornire di per sé strumenti fisiologici per attuare il programma e prestabilire difese efficaci contro le crisi in corso di legislatura.
La riforma del bicameralismo, conducendo a una Camera rappresentativa delle realtà territoriali, in primis soprattutto delle Regioni, oltre che semplificare la forma di governo consentirebbe anche di conseguire il secondo obiettivo che la cosiddetta Seconda Repubblica ha già affrontato in termini costituzionali ma in modo incompleto, quello di realizzare un assetto regionalistico compiuto di forte ispirazione autonomistica e federale. Ci si è invece limitati a riarticolare le competenze legislative tra Stato e Regioni, senza prevedere ciò che solo una seconda Camera dei territori permetterebbe di realizzare con equilibrio: forme di negoziazione e forme regolate di flessibilità in entrambi i sensi (possibili sperimentazioni legislative di Regioni in ambiti statali, clausola di supremazia dello Stato per affermare esigenze unitarie anche in ambiti che sarebbero regionali).
Avendo ricostruito una casa, quella dei rapporti centro-periferia, senza mettere il tetto, sia lo Stato sia le Regioni hanno sostanzialmente finito in ambito legislativo per inondare la Corte costituzionale di conflitti difficilmente risolubili in quella sede con criteri giuridici stabili. Il conflitto e la cooperazione andrebbero invece spostati dalla Corte a un Parlamento rinnovato.
In ogni caso, dopo la relazione della Commissione governativa sulle riforme con le sue numerose proposte in un clima ampiamente consensuale, i decisori politici non possono scaricare altrove le loro responsabilità.
La parola
Revisione costituzionale. Sono necessarie 2 deliberazioni di entrambe le Camere a un intervallo non minore di 3 mesi e a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna di queste nella seconda votazione. Le modifiche al testo non devono compromettere lo spirito repubblicano e gli ideali sui quali essa si fonda. La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione (articolo 139).
La Commissione dei saggi
Istituita con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri dell’11 giugno 2013, la Commissione per le riforme costituzionali è stata incaricata del compito di formulare proposte di revisione della Parte Seconda della Carta fondamentale, con riferimento alle forme di Stato e di governo, all’assetto bicamerale del Parlamento e alle norme connesse a tali materie; nonché della riforma elettorale. Composta da 35 personalità scelte tra costituzionalisti, economisti e politologi (poi divenute 33 per le dimissioni di Lorenza Carlassare e Nadia Urbinati), il giorno 17 settembre ha reso conto degli esiti del proprio lavoro attraverso una relazione consegnata al premier Letta. Accanto alla proposta di superamento del bicameralismo paritario, la Commissione ha suggerito una razionalizzazione del riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni, elaborato la definizione di quattro categorie di leggi con diverse modalità di intervento da parte delle 2 Camere, confermato l’orientamento favorevole alla soppressione delle province e discusso della forma di governo, articolando ipotesi di semipresidenzialismo, parlamentarismo ‘razionalizzato’ e ‘forma di governo parlamentare del primo ministro’. Sulla legge elettorale, si è suggerito invece il superamento del principio di cooptazione insito in quella attualmente in vigore.