Attore e attrice
Attori e attrici sono spesso personaggi di film ambientati fra i palcoscenici o sul set cinematografico. Le loro storie sono una buona guida, quando ci si deve orientare in un orizzonte pieno di stereotipi, di luoghi comuni e di metafore antiche sempre rinnovate. Anche l'ineludibile confronto fra l'attore nel teatro e nel cinema trova il miglior punto di partenza nei film che hanno gli attori per personaggi.Gli attori come personaggi. ‒ Le profonde differenze fra la professione del teatro e quella del cinema passano in secondo piano quando l'interesse converge sul tipo umano dell'attore, sui caratteri della sua condizione sociale, della sua psicologia e della sua professione. L'attenzione si dirige in generale verso gli stereotipi: gli attori tesi fra la speranza del successo e il timore del fiasco, fra realtà e finzione, amore per l'arte e avidità di guadagno, solidarietà e concorrenza spietata: luoghi comuni saporiti, qualche volta sensati.
Per lo più, gli intenti e gli impianti drammaturgici dei film che hanno per soggetto gli ambienti degli attori sono simili alle pièces teatrali congeneri, da cui spesso derivano. Alcuni esempi: Twentieth century (1934; Ventesimo secolo) di Howard Hawks; La fin du jour (1938; Prigionieri del sogno) di Julien Duvivier, con una grande interpretazione di Louis Jouvet; All about Eve (1950; Eva contro Eva) di Joseph L. Mankiewicz; La carrozza d'oro (1952) di Jean Renoir, con Anna Magnani; La nuit américaine (1973; Effetto notte) di François Truffaut; Opening night (1977; La sera della prima) di John Cassavetes; Turné (1990) di Gabriele Salvatores. Vi sono film biografi-ci come Isadora (1968) di Karel Reisz, interpretato da Vanessa Redgrave, o The incredible Sarah (1976; Sarah Bernhardt ‒ La più grande attrice di tutti i tempi) di Richard Fleischer, interpretato da Glenda Jackson, o Valentino (1977) di Ken Russell, interpretato da Rudolf Nureyev, ai quali si possono aggiungere le diverse versioni cinematografiche del Kean di A. Dumas (le più celebri sono quella del 1923 di Aleksandr Volkov, con Ivan I. Mosjoukine, ovvero Ivan I. Mozžuchin; il film del 1940 diretto da Guido Brignone e interpretato da Rossano Brazzi; il film diretto e interpretato da Vittorio Gassman nel 1957). Numerosi i film tratti dal romanzo di Th. Gautier Le capitaine Fracasse: comparve per la prima volta sullo schermo nel 1909; vi ritornò nel 1919 e nel 1928, con la regia, rispettivamente, di Mario Caserini e Alberto Cavalcanti; nel 1942 è stato il soggetto di un film non memorabile di Abel Gance; è infine riapparso nel 1990, con il film di Ettore Scola Il viaggio di Capitan Fracassa, interpretato da Massimo Troisi.
Ai film biografici e romanzeschi basati su vite di artisti grandi o avventurosi, si contrappongono le storie cinematografiche che ritraggono la miseria morale o l'ingiusto disprezzo sociale nei confronti degli artisti e soprattutto delle artiste di teatro, cantanti o ballerine, come i film tratti dal romanzo Nana di É. Zola (1926, regia di Renoir, 1934, regia di Dorothy Arzner, e 1954, regia di Christian-Jaque) o dalla commedia Zaza di P.-F. Berton e Ch. Simon (1939, regia di George Cukor, e 1944, regia di Renato Castellani). Questo insieme di titoli è solo un campione di un lunghissimo elenco che attraversa la storia del cinema. Non tiene conto degli innumerevoli film comici che sfruttano il mondo 'a parte' degli attori come luogo di aneddoti e parodie (fra i capolavori di questo genere, A night at the Opera, 1935, Una notte all'Opera di Sam Wood, con i fratelli Marx) né considera quei film in cui gli ambienti degli attori, per l'ovvia consuetudine dei travestimenti, si adattano a trame poliziesche o beffe contro le autorità. Bisognerà ricordare, a questo proposito, per lo meno il perverso Murder (1930; Omicidio) e il virtuosistico Stage fright (1950; Paura in palcoscenico) entrambi di Alfred Hitchcock; o l'esilarante suspense di To be or not to be (1942; Vogliamo vivere) di Ernst Lubitsch.
La produzione di uno spettacolo teatrale o cinematografico viene a volte rappresentata come un'impresa di coraggio e di conquista, emblema o metafora della lotta per la vita, in un microcosmo dove imperano le leggi della selezione naturale. L'esempio migliore è probabilmente 42nd Street (1933, Quarantaduesima Strada, di Lloyd Bacon, con Warner Baxter, Dick Powell, Ruby Keeler, Ginger Rogers) che racconta le vicende di una produzione scenica con i modi e i ritmi di un film di guerra o di una storia di gangster. Le folle di ballerine, attrici, attori e cantanti sono armi e truppe per la conquista del pubblico, vista come la conquista di un territorio. È significativo che, passati sessant'anni, un altro film mostri la stessa 42a Strada, lo stesso New Amsterdam Theatre, che ora, però, è vuoto e in rovina: Vanya on 42nd Street (1994; Vanya sulla 42a Strada) di Louis Malle, con la sceneggiatura di David Mamet e, tra gli interpreti, Wallace Shawn, Julianne Moore, Brooke Smith, André Gregory. Nel guscio del vecchio teatro abbandonato si muove un piccolo gruppo di attori con il loro regista e con qualche spettatore personalmente invitato. Tutti insieme non superano di molto la decina. Il dramma di A.P. Čechov Lo zio Vanja, viene recitato senza scenografie, senza giochi di luce, in abiti quotidiani, senza ribalta. Vi è il disincanto di una sorta di sacralità irreligiosa, fondata sulla precisione professionale e sulle motivazioni personali, nel rustico lusso di un'aristocrazia culturale.
Ai film qui ricordati occorre aggiungere almeno alcuni titoli provenienti dall'Asia: il film Kaagaz ke phool (1959; Fiori di carta) di Guru Dutt, ambientato nell'industria cinematografica indiana; il film di Ichikawa Kon ambientato nel mondo del Kabuki (Yukinojō henge, 1960, La vendetta di un attore); il film prodotto dalla Repubblica popolare cinese e diretto da Xie Jin Wutai jiemei (1964, Sorelle della scena); o il grande successo internazionale Bawang bie ji (1993; Addio mia concubina) di Chen Kaige, prodotto a Hong Kong. In questi ultimi due film, l'intreccio in ambiente teatrale permette un viaggio attraverso le diverse fasi della storia contemporanea cinese, vista, naturalmente, da opposte prospettive. In certi casi, il gruppo degli attori al lavoro viene scelto come specchio delle crisi sociali. In The last command (1928; Crepuscolo di gloria) di Josef von Sternberg, interpretato da Emil Jannings e da un William Powell insolitamente duro e vendicativo, il set cinematografico rappresenta le relazioni di potere nella società industriale americana, confrontate con quelle della società aristocratica e della rivoluzione in Russia. In Russia, negli anni della rivoluzione, è immerso il set cinematografico di Raba ljubvi (1975; Schiava d'amore) di Nikita S. Michalkov. Qui il set è una moderna versione delle dimore di campagna in cui si ambientavano i drammi čechoviani, un luogo in cui apparentemente si evita, in realtà si rivela, l'impeto delle trasformazioni storiche. In Le dernier métro (1980; L'ultimo metrò) di Truffaut il 'paese del teatro' è visto come un luogo di nascondigli, dissimulazioni e resistenza. In Mephisto (1981) di István Szabó, tratto dal romanzo di K. Mann, le vicende di un grande attore tedesco (interpretato da Klaus Maria Brandauer, ombra romanzata dell'attore e regista Gustav Grüdgens) rappresentano le ambiguità degli artisti nei confronti del potere nazista. In Teatro di guerra (1998) di Mario Martone un piccolo gruppo di teatro marginale e controcorrente viene visto come una zattera precaria che tenta di opporsi alla corrente della predominante indolenza, in un periodo storico in cui le tragedie anche prossime affogano nell'indifferenza del flusso televisivo, mentre il teatro più rispettato e foraggiato è inutile e solenne.
I capolavori di questo genere di film ambientati fra gli attori sono Les enfants du paradis (1945; Amanti perduti) di Marcel Carné e O thiasos (1975; La recita) di Thodoros Anghelopulos. Il primo, interpretato da Arletty, Jean-Louis Barrault, Pierre Brasseur, Maria Casarès, fa parte della rosa dei film più amati dell'intera storia del cinema. Del secondo è stato detto: "nella Recita Anghelopulos è andato vicinissimo a cogliere il centro, la radice e la forma del nostro secolo, ciò che non è mai successo a nessuno […]. Sappiamo che il Novecento è il secolo di tutte le opposizioni, di ogni ordine e di ogni di-sordine, ma non ne conosciamo lo stile, il comportamento. Qualcosa ci viene incontro dal film di Anghelopulos, dove tutto si manifesta e viene usato all'incontrario" (C. Garboli, Un po' prima del piombo, 1998, p. 303). Ai vertici del genere vanno forse aggiunti il grande mélo di Michael Powell ed Emeric Pressburger The red shoes (1948; Scarpette rosse), che in piccola parte traveste in termini eterosessuali il dramma fra S.P. Djagilev e V.F. Nižinskij; e il breve e concentrato Efter repetitionen (1984; Dopo la prova) di Ingmar Bergman, interpretato da Lena Olin, Ingrid Thulin ed Erland Josephson, quest'ultimo portavoce e quasi controfigura dell'autore. Nel corso della sua carriera, Bergman ha composto una sorta di frammentaria saga degli attori, esseri che frequentano professionalmente la terra di nessuno fra la cosiddetta realtà e il sogno (la sensibilità di fondo deriva da J.A. Strindberg). La bergmaniana 'saga degli attori' comincia con i pagliacci e i giullari di Gycklarnas afton (1953; Una vampata d'amore) e Det sjunde inseglet (1957; Il settimo sigillo). Si complica nell'intreccio di sortilegio e menzogna di Ansiktet (1958; Il volto) e Riten (1969; Il rito). Colora di sapienti sfumature dietro le quinte la messa in film del Flauto magico di W.A. Mozart sul palcoscenico barocco di Drottningholm (Troll flöjten, 1975, Il flauto magico). Conquista un'intelligente e chiaroveggente 'nostalgia dell'invisibile' in uno dei fili che compongono l'intreccio di Fanny och Alexander (1982; Fanny e Alexander) e nel già ricordato Efter repetitionen. Torna a riesplodere, impastando gli opposti ‒ disperazione, follia e allegria vitale ‒ in Larmar och gör sig till (1997; Vanità e affanni), dove fra l'altro si assiste al paradosso di un teatro rudimentale che nasce dalle rovine di un cinematografo traballante e disastrato.Negli esempi fin qui ricordati, gli attori appaiono tutti della stessa pasta e la loro professione sembra sostanzialmente unitaria, indipendentemente dal fare cinema o teatro. Basta però avvicinare lo sguardo per vedere che così non è.
Si osservi uno scorcio, un punto di vista minore, laterale, grave però per l'arte come per la vita: l'invecchiare. Alcune sequenze cinematografiche mostrano degli attori e delle attrici che, da vecchi, guardano la loro immagine giovane sullo schermo, in essa si specchiano, si rimpiangono, si esaltano o si compatiscono. Accade, per es., ad Anita Ekberg e Marcello Mastroianni in Intervista (1987) di Federico Fellini, quando rivedono la loro presenza trionfante in La dolce vita. Era già acca-duto a Gloria Swanson in Sunset Boulevard (1950; Viale del tramonto) diretto da Billy Wilder. Qualche anno dopo, accadrà pure all'anziana bellezza del muto Elena Makowska in La valigia dei sogni (1953) di Luigi Comencini. Viste l'una nello stesso tempo dell'altra, la giovinezza e la vecchiaia di una stessa persona trasformano il carattere impietoso del confronto in una riflessione ulteriore; diventano un emblema potente dell'io come illusione, segmento o incanto. A questi potenti emblemi cinematografici corrispondono, in campo teatrale, gli aneddoti dell'attore sessantenne che interpretava Romeo, della vecchia attrice che presentava in scena il personaggio di una quindicenne. Rischiano, oggi, di far solo sorridere o di apparire il frutto di distorsioni mentali, casi clinici di gente che non sa e non vuole invecchiare (come il dongiovanni interpretato da Louis Jouvet in La fin du jour o come l'impietoso ritratto di una vecchia diva interpretato da Gloria Swanson in Sunset Boulevard).
Si perde cioè il senso di quanto sia stato importante, per la cultura degli attori, il problema della permanenza dell'arte nel mutare dell'età. Per l'attore 'al vivo', anzi, qui stava la quintessenza dell'arte, come raffinamento, riduzione all'essenziale, approfondimento, miniaturizzazione, sublimazione di partiture sceniche e interpretazioni ripetute per anni. In tal modo lo vedeva, per fare un solo esempio, S. Kierkegaard, prendendo spunto dalla grande attrice danese Johanne Luise Heiberg che, trentaquattrenne, nel 1847, tornava a interpretare l'adolescente Giulietta shakespeariana. Per l'attore 'al vivo', invecchiare ha per secoli voluto dire non solo passare dall'una all'altra fase della carriera, ma far perdurare la giovinezza nella vecchiaia, individuare l'elemento permanente nel fluire di un'arte effimera, mantenere viva e intatta una forma incorporata malgrado il corpo, il suo degrado, il trucco e il mutare delle apparenze. Si capisce, così, perché, al di là del rischio di un ridicolo di superficie, qui si condensasse un'essenza dell'arte. Così invecchiarono, sul palcoscenico, Tommaso Salvini o Sarah Bernhardt; la Berma di Proust o Eleonora Duse; Maria Callas o Rudolf Nureyev. Così invecchiarono Eduardo De Filippo e John Gielgud. Nei teatri classici asiatici, lo stesso tema si pone con forza ancora maggiore, tant'è che Zeami ‒ il fondatore del teatro classico giapponese Nō ‒ l'aveva individuato, nel suo Kadensho (Libro del trasmettersi del fiore), all'inizio del 15° secolo, come il problema dei problemi per l'arte dell'attore.
Se si mettono l'uno accanto all'altro i due modi in cui la vecchiaia dell'attore si confronta con la sua giovinezza, affiora un'ovvietà tale che a volte viene dimenticata. Per l'attore di teatro, il personaggio della gioventù perdura non davanti ai suoi occhi, ma nel suo corpo. L'attore di teatro è un attore della replica. L'altro, l'attore di cinema, è attore del fatto compiuto. Nel cinema, l'attore di professione non è colui che sa l'arte di replicare di recita in recita, di anno in anno, la sua interpretazione. È colui che sa fornire un materiale buono per esser fissato una volta per tutte. Il personaggio non è e non può essere, per lui, una via da ripercorrere. È invece un'esperienza conclusa, di cui l'attore stesso diventa spettatore.È una differenza essenziale, non tanto per il fatto in sé della ripetizione (oggi in genere gli attori di teatro non tornano costantemente agli stessi personaggi, come invece avviene nell'Opera; e d'altra parte l'attore di cinema dev'essere in grado di provare, quindi di ripetere), ma per quanto attiene alla ricerca e alla definizione dell'acme espressiva, una tecnica dell'ascesa e dell'esplosione che è ben diversa quando dev'essere replicabile e quando invece è pensata per delle riuscite uniche, registrate, entro le quali il regista sceglierà la migliore. A questa differenza potrebbe ridursi, per esempio, la distanza fra l'Actors Studio e le sue radici, il metodo di K.S. Stanislavskij. Mentre questi pensava all'attore come attore di teatro, l'attore dell'Actors Studio è fondamentalmente quello di cinema.
È quindi vero che il discorso sull'attore cinematografico non può prescindere, per contiguità di mestiere e per continuità storica, dal confronto con l'attore di teatro; ma il confronto porta successivamente a considerare come dietro le stesse parole non si trovino pratiche di lavoro davvero equivalenti. Uno dei primi teorici italiani del cinema, Ricciotto Canudo, sintetizzò in questi termini la distanza fra l'attore di teatro e quello cinematografico: "Al cinema […] l'attore è simile allo scrittore che riveste la personalità dei suoi personaggi durante il suo lavoro, ma non la possiede certamente più quando il suo libro va a commuovere le folle attraverso il mondo" (R. Canudo, L'usine aux images, 1927; trad. it. 1966).Eppure gli attori di teatro e quelli di cinema non sono di fatto separati. Basta guardarsi attorno, per vedere quanto spesso le stesse persone agiscano in ambedue gli ambiti professionali. La maggior parte delle scuole in cui si formano gli attori, la maggior parte dei libri sull'arte del recitare si rivolgono unitariamente all'attore di teatro e a quello di cinema. L'esperienza insegna che moltissimi attori di teatro sono perfettamente in grado di funzionare anche al cinema, primeggiando a volte in ambedue le professioni, nella maggior parte dei casi senza mutare profondamente i propri registri espressivi, a volte trascegliendo da essi i più favorevoli allo schermo (come è avvenuto per Richard Burton o Laurence Olivier; per Louis Jouvet o i fratelli Barrymore, per Gérard Philipe, Charles Laughton o Gino Cervi; per attrici come Peggy Ashcroft, Vanessa Redgrave, Edwige Feuillère); in altri casi, sfruttando l'abilità nelle caratterizzazioni (come Alec Guinness o Gian Maria Volonté, o come fece il grande Michail A. Čechov, 1891-1955, quando fu costretto a emigrare dal teatro russo al cinema di Hollywood); in qualche caso, invece, ritagliandosi due opposte e complementari fisionomie professionali (estremo, da questo punto di vista, il caso di Vittorio Gassman).
Vi sono molti film che si propongono di restituire più o meno fedelmente uno spettacolo teatrale. A volte si tratta di poco più di 'teatro filmato', altre volte sono invece tentativi di tenersi sul ponte fra i due linguaggi, come il Marat-Sade di Peter Brook (1967) o il suo The Mahabharata (1989; Il Mahabharata), oppure il 1789 (1974) di Ariane Mnouchkine, o il Galileo (1975) con il quale Joseph Losey tenta, servendosi dell'interpretazione di Chaim Topol, di trovare un equivalente filmico del teatro brechtiano. È ovvio che in questi casi la professionalità teatrale dell'attore risalta. Un caso a sé è il bellissimo Swan's song (1992) da Il canto del cigno di Čechov: un monumento di Kenneth Branagh all'arte del quasi novantenne John Gielgud. È questa una posizione speculare rispetto a quella da cui si è partiti: qui l'attore non è il tema del film, ma ne determina la forma con le caratteristiche della sua arte. È quanto si verifica, in maniera assai più complessa e meno evidente, nei film in cui le scelte cinematografiche sono in realtà una dilatazione dell'azione e del modo di vedere dell'attore. Si pensi, da una parte, ai film shakespeariani di Laurence Olivier; dall'altra ai film surrealisti di Carmelo Bene. Persino le opere di Orson Welles potrebbero essere viste come film d'attore, o meglio: come film-attore.
Per quanto attiene alle intersezioni fra professionismo teatrale e professionismo cinematografico, è inoltre rilevante il problema di ciò che condiziona l'esistenza di canali concretamente praticabili fra i due diversi ambiti artistici. In Italia, per esempio, un attore di teatro come Carlo Cecchi, a lungo inutilizzato dal cinema, si è poi dimostrato un protagonista cinematografico di grandissima efficacia. L'azione di quella che potremmo chiamare la scuola napoletana, attiva ‒ soprattutto per merito di M. Martone ‒ a partire dagli anni Ottanta sia nel teatro sia nel cinema, ha promosso il passaggio al cinema di attori e attrici come Anna Bonaiuto, Renato Carpentieri, Toni Servillo, Iaia Forte, Licia Maglietta, Andrea Renzi, Roberto De Francesco e Antonino Iuorio. Si è spesso lamentata la mancanza, nel cinema italiano, di una classe di caratteristi paragonabili a quelli che arricchiscono la normale produzione hollywoodiana. A posteriori ci si è resi conto che questi caratteristi esistevano, ma si erano formati nei teatri estranei all'orbita della scuola teatrale di Stato e dell'establishment teatral-televisivo, ed erano a lungo restati, per questo motivo, invisibili per il cinema.
La contiguità professionale dell'attore di teatro e di quello di cinema, i frequentissimi passaggi dall'uno all'altro non debbono però mettere in ombra un dato di fatto basilare: che nel cinema si può fare a meno del professionismo dell'attore, e possono bastare persone che, pur non possedendo l'arte di recitare, siano adatte a essere riprese, blandamente fingendo. E anche fra i professionisti vi sono indubbiamente molti attori cinematografici che non potrebbero esserlo di teatro (così come vi sono professionisti della scena dalle competenze assai distanti da quelle richieste dalla professione cinematografica: non solo i mimi o gli artisti delle forme classiche asiatiche, ma anche gli attori del cosiddetto teatro di prosa maggiormente inclini alla dilatazione scenica e alla recitazione non realistica).
Per ogni esempio possono comunque esserci numerose eccezioni. Così, l'inventario degli attori e delle attrici comuni al teatro e al cinema non è granché interessante, si insabbia nella casistica, nella casualità, nelle considerazioni sull'oculatezza o meno della produzione cinematografica. Più che la differenza fra le persone conviene dunque considerare quella fra le funzioni.La recitazione uniformata. ‒ Al di là della distanza tecnica e di mentalità che vi è fra una pratica della recitazione 'una volta per tutte' e una recitazione fatta per essere replicata, ciò che differenzia in maniera significativa la pratica dell'attore 'al vivo' da quella dell'attore di cinema, indipendentemente dal fatto che a esercitarle siano o no le stesse persone, è che molti dei compiti dell'attore 'al vivo' non sono più di sua competenza quando egli si predispone a fare cinema. Nel suo aspetto più elementare e di base, l'arte dell'attore di teatro consiste nel destare e modellare l'attenzione degli spettatori plasmando la propria presenza in un 'corpo finto' (nel senso di fatto ad arte), che costituisce il livello di organizzazione chiamato da Eugenio Barba pre-espressivo. Ciò è necessario perché a teatro sono soprattutto gli attori a dover suscitare e guidare lo sguardo e l'attenzione dello spettatore, compresi quelli che potremmo considerare come degli equivalenti attenzionali del primo e primissimo piano. A teatro, lo spettatore guarda in prima persona: non vede attraverso lo sguardo di un altro come al cinema, che è sguardi registrati. Per l'attore cinematografico, gli atti di attenzione dello spettatore sono guidati, rappresentati e indotti dallo stile della ripresa, dalle inquadrature e dal montaggio. Sulla scena, il maestro dello sguardo è l'attore. E quando gli manca competenza in questo campo, il teatro perde la sua forza. Nel cinema, il maestro dello sguardo è l'autore delle riprese e del montaggio. Per questo Sergej M. Ejzenštejn, nel 1931, poteva lapidariamente affermare: "Il teatro non è fatto dal regista. Il regista fa il cinema. Il teatro è fatto in primo luogo dall'attore" (S.M. Ejzenštejn, Appunti su Mejerchol′d e sul suo teatro, in V.E. Mejerchol′d, L'attore biomeccanico, 1993, p. 100).
Una premessa paradossale e densa di sottintesi, se si pensa che introduceva una raccolta di appunti sul teatro di Mejerchol′d, che viene considerato uno dei padri fondatori della regia teatrale. Le convenzioni performative dei teatri delle diverse tradizioni si basano su principi spesso lontani da quelli della verosimile riproduzione del comportamento quotidiano e sono fra loro molto diverse. La recitazione cinematografica, invece, è cresciuta uniformata. Quale che sia il paese da cui il film proviene, o l'epoca che esso rappresenta, il modo di recitare è sostanzialmente simile, e cerca di riprodurre in maniera accettabile il comportamento quotidiano. Ciò è avvenuto fondamentalmente per tre motivi: perché, come si è appena detto, la recitazione dell'attore e dell'attrice diviene interessante per il modo in cui è ripresa e montata, e quindi non ha bisogno di una particolare deformazione artistica del comportamento. Perché la recitazione prevalente nel teatro di prosa occidentale, quando sorse il cinema, era dappertutto ‒ malgrado sensibili sfumature ‒ quella di base 'realistica'. Infine, e soprattutto, perché la finzione cinematografica appartiene al medesimo universo o flusso di immagini in cui è forte e a volte predominante la presenza dell'attualità: brani di vita quotidiana, cinegiornali e documentari, a partire dai Lumière, accompagnano e intersecano la produzione dei film di finzione, fino a che ‒ con il trionfo della televisione e della comunicazione elettronica ‒ i due percorsi si mischiano al punto di confondersi. La recitazione cinematografica, quindi, a differenza di quella teatrale, non si confronta solo con il comportamento delle persone nella vita quotidiana, ma anche con il comportamento che si vede al cinema (o in televisione) quando vengono ripresi e documentati avvenimenti di cronaca, incontri e manifestazioni pubbliche, disordini e guerre, cerimonie e liturgie, il lavoro e la vita di ogni giorno, la miseria o l'euforia del mondo.
Tutto ciò che le tecniche performative hanno cercato di ottenere attraverso la manipolazione del corpo umano e del comportamento quotidiano, il cinema può ottenerlo tramite la diretta manipolazione dello sguardo e dell'attenzione. Perciò, documentario o no, il cinema può non solo creare spavento, ma rappresentare la tragedia senza l'ausilio di una recitazione tragica. Basti ricordare due titoli, film lontani nel tempo e per lo stile, accomunati dalla capacità di mettere i procedimenti del documentario cinematografico al servizio di una storia che conduce a una sorta di catarsi attraverso l'orrore e la pietà: Las Hurdes di Luis Buñuel del 1932, noto anche come Tierra sin pan, e Nick's movie ‒ Lightning over water (1980; Nick's movie ‒ Lampi sull'acqua) di Wim Wenders. Sono due casi estremi, davvero esemplari perché in essi l'assenza di recitazione artistica coincide con l'efficacia tragica delle persone oggetto delle riprese.La recitazione uniformata è planetaria. Le eccezioni confermano la regola. Si prenda il caso celeberrimo di Mifune Toshirō nei film di Kurosawa Akira: è eccezione perché l'attore recita secondo modelli che paiono molto lontani dal comportamento quotidiano e che potremmo grosso modo ricondurre alla tradizione del teatro classico Kabuki; conferma la regola, perché questa peculiarità recitativa è giustificata, resa verosimile, dalla fedeltà a codici sociali tradizionali, storicamente individuati e restaurati. È una scelta equivalente a quella compiuta dai registi brasiliani Ruy Guerra e Glauber Rocha quando rappresentano i cangaçeiros.
Nell'enorme produzione cinematografica indiana, nelle centinaia di film di consumo, i momenti cantati e danzati che ripetono le rassicuranti forme del folclore standard, un modo di vestire che si collega vagamente al costume tradizionale, si legano alla recitazione uniformata, spesso forse un po' enfatica, ma non sostanzialmente dissimile da quella che caratterizza la fiction internazionale. Non diverse, nella sostanza, le scelte prevalenti nel cinema africano. Si pensi, soprattutto, ai film di Idrissa Ouedraogo o di Gaston Kaboré ambientati nella società tradizionale dei villaggi del Burkina Faso. Quando il regista Souleymane Cissé, nel Mali, racconta in Yeleen (1987; Yeleen ‒ La luce) una storia iniziatica, dà alla recitazione dei suoi attori un colore ieratico non attingendo alle tradizioni performative africane, ma utilizzando i modelli della stilizzazione recitativa di stampo europeo, non molto diversi, per fare un esempio lontanissimo, da quelli usati dagli attori del Perceval le gallois (1978; Perceval) di Eric Rohmer.
Recitazione uniformata non vuol dire recitazione omologata. Quasi del tutto insensibile al profondo divario che esiste tra le differenti tradizioni recitative nel teatro, la recitazione cinematografica tiene invece conto delle differenti gestualità della vita quotidiana, con le loro specialità etniche, di casta, di professione. È quanto consente, quando serve, la varietà dei registri e dei modelli, e rende possibile la compresenza in uno stesso film di attori di differenti paesi e diverse scuole, di attori professionisti e attori 'presi dalla strada'. Tutto questo ‒ detto fra parentesi ‒ ha avuto conseguenze enormi per il teatro, perché la recitazione uniformata ha superato gli argini cinematografici, soppiantando quasi completamente, anche sui palcoscenici, una vera e propria recitazione teatrale, e l'attore di teatro sta diventando sempre più una rarità. Sui palcoscenici tende a prevalere una sorta di pidgin attinto alla lingua recitativa della fiction cinematografica e televisiva.Infine bisogna aggiungere che, in luogo della varietà degli stili e delle tradizioni recitative, nel cinema si trovano differenti modelli di 'umanità', definiti dalle convenzioni di un ambiente o dalle scelte di un artista. C'è, per esempio, il genere umano che popola i film di Fellini, ben diverso da quello di Pier Paolo Pasolini; il genere umano hollywoodiano e quello dei film della Nouvelle vague; il genere umano che popola i film di Pedro Almodóvar distinguibile a colpo d'occhio da quello che si muove, per esempio, nei film di Buñuel; c'è la 'popolazione' dei film di Wenders e quella di Werner Herzog. Ogni film, ogni autore e ogni cultura cinematografica seleziona ‒ per ragioni di stile o di mercato ‒ una propria fenomenologia antropologica. È importante sottolinearlo, notando, nello stesso tempo, che qui il discorso evade dalla problematica circoscritta al tema degli attori e delle attrici in senso proprio.
Le due citazioni che seguono dovrebbero bastare a dar conto di come la problematica dell'attore cinematografico si liberi dalla necessità di tecniche recitative professionalmente elaborate. La prima è di Vsevolod I. Pudovkin, e risale al 1928. Sta quindi, per l'autore e per la data, fra i fondamenti dell'arte cinematografica: "Kuliesciov ed io facemmo un esperimento interessante. Prendemmo da qualche vecchio film alcuni primi piani del celebre attore Mosgiuchin e li scegliemmo statici e tali che non esprimessero alcun sentimento. Unimmo poi questi primi piani, che erano del tutto simili, con altri pezzi di pellicola in tre diverse combinazioni. Nel primo caso, il primo piano di Mosgiuchin era immediatamente seguito dalla visione di un piatto di minestra sopra un tavolo; ed era cosa ovvia e sicura che l'attore guardava quella minestra. Nel secondo caso, la faccia di Mosgiuchin era seguita da una bara nella quale giaceva una donna morta. Nel terzo, era seguita da una bambina, che giocava con un buffo giocattolo raffigurante un orsacchiotto. Quando presentammo i risultati a un pubblico non prevenuto e totalmente ignaro del nostro segreto, ottenemmo un risultato tremendo. Il pubblico delirava di entusiasmo per la bravura dell'artista. Era colpito dall'alta pensosità con cui egli guardava la minestra, era scosso e commosso dalla profonda afflizione con cui guardava la donna morta, era ammirato dal luminoso sorriso con cui guardava la bambina. Ma noi sapevamo che in tutti i tre casi la faccia era la stessa" (Pudovkin 1961, p. 126).
La seconda citazione viene da una conversazione fra due uomini del mestiere: Peter Bogdanovich interroga il maestro Orson Welles, mentre, a Roma, nella patria di Cinecittà, stanno recandosi a vedere Eduardo De Filippo a teatro: "‒ Ma, Orson, tu non credi che esista qualcosa che si chiama recitazione cinematografica? ‒‒ Esistono attori cinematografici. Cooper era un attore cinematografico, il caso classico. Lo vedevi lavorare sul set e pensavi: "Dio mio, questa dovranno rigirarla". Praticamente, sembrava che non ci fosse. E poi vedevi i giornalieri, e riempiva lo schermo. ‒‒ Come lo spieghi, tu? ‒‒ Personalità. Non presumo di risolvere questo mistero. Ma conta sempre più della tecnica. Per esempio, chi conosce la tecnica meglio di Olivier? Certo che se la recitazione cinematografica dipendesse in modo significativo da una tecnica particolare, Larry [Laurence Olivier] se ne sarebbe impadronito. Eppure, per quanto bravo sia al cinema, è solo un'ombra dell'attore che impone la sua presenza magnetica sulle scene teatrali. Perché la macchina da presa sembra diminuirlo? E ingrandire Gary Cooper, che di tecnica non ne sapeva un bel niente? Scialiapin, ecco un attore il cui genio era pari all'enorme statura della sua personalità. È stato di gran lunga il più grande attore del secolo. E che cos'è sullo schermo? Sì, resta un po' impresso, e basta […]. E adesso ‒ proprio adesso, perché è ora di andare ‒ vedrai un perfetto esempio di questo mistero: Eduardo De Filippo. Sulla scena, non c'è nessuno in Europa che gli si possa anche solo avvicinare. Al cinema non c'è più ‒" (O. Welles, P. Bogdanovich, This is Orson Welles, 1992; trad. it. 1993, pp. 48-49).
Non si tratta solo di fotogenia, ma dello sguardo elaborato ad arte che costituisce l'oggetto del linguaggio cinematografico. Nel semplicismo della ripresa in video, infatti, Eduardo attore risalta al massimo grado. La migliore qualità, la maggior complessità espressiva delle riprese cinematografiche, anche quelle dei film meno elaborati e di routine, lascia di lui poco più della maschera e della disinvoltura.
Probabilmente, ciò che Orson Welles chiamava la personalità dell'attore ha a che vedere non soltanto con la fotogenia, ma anche con la micromimica, che caratterizza gli attori specialisti nella recitazione 'intima' (si pensi all'importanza che ha per gli attori e le attrici di I. Bergman, sia sul palcoscenico sia sul grande schermo, la tradizione di Strindberg), e caratterizza anche i volti nella quotidianità della vita.D'altra parte, se si torna all'esperimento Pudovkin-Kulešov, che facevano 'recitare' un volto di per sé inattivo, bisogna sottolineare l'efficacia della maschera dell'attore Ivan I. Mozžuchin, che negli anni della Prima guerra mondiale era protagonista, in Russia, dei film di Jakov A. Protazanov: una maschera intensa e nello stesso tempo con un che di vuoto, di sospeso, che ben si prestava a personaggi allucinati e doppi: fornirà il volto al pirandelliano Mattia Pascal in Le feu Mathias Pascal (1925; Il fu Mattia Pascal) di Marcel L'Herbier. Un'altra maschera altrettanto efficace, diversamente doppia, era quella di Emil Jannings, che, dopo aver lavorato in teatro con Max Reinhardt, passò allo schermo, sia in Germania sia a Hollywood, fornendo a registi come Friedrich Wilhelm Murnau e Josef von Sternberg un volto sul quale potevano alternarsi la luce lubrica e quella del sogno; la collera tirannica, la dolcezza e l'abiezione. Interpretò due film che segnarono due diverse epoche della storia del cinema: Der letzte Mann (1924; L'ultima risata) di Murnau, un capolavoro di intreccio fra drammaturgia e recitazione, un film muto che si svolge dall'inizio alla fine senza bisogno di una didascalia; e Der blaue Engel (1930; L'angelo azzurro) di von Sternberg grazie al quale la sua figura, a contrasto con quella di Marlene Dietrich, è entrata fra gli emblemi della storia del cinema. Il volto come maschera spiega come mai, in molti casi, la buona riuscita di un personaggio cinematografico dipenda dalla possibilità di scegliere fra molti volti quello adatto al regista, indipendentemente dal fatto che si tratti o no di attori professionisti.
Alcuni registi, da Ejzen-štejn a Pasolini, sceglievano i volti come un Caravaggio sceglieva i modelli per i personaggi delle sue tele. Per altri registi ‒ si pensi a Hitchcock ‒ le volontà espressive dell'attore sono una sottrazione di forza rispetto a una recitazione per così dire neutra, basata sull'esecuzione di un comportamento appropriato senza connotazioni psicologiche o precise caratterizzazioni. Attori abili nell'impersonazione si rivelarono inadatti a Hitchcock, secondo quanto il regista stesso testimoniò nel suo dialogo con F. Truffaut, perché erano attori "troppo bravi", incapaci di restare semplicemente presenti senza far trapelare le intenzioni, o un processo di pensiero (F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, 1966; trad. it. 1977). Attori-personaggio dall'espressione quasi fissa e monocorde, ma dalla maschera estremamente espressiva, cangevole al cambiar delle inquadrature e della luce, come Victor Mature o Klaus Kinski, si sono impressi in maniera indelebile sullo schermo e nella memoria degli spettatori fornendo interpretazioni non meno intense di quelle dei più esperti fra gli attori-creatori di personaggi.
L'intera storia del cinema è percorsa dal richiamo di registi e teorici alla forza espressiva dell'attore 'preso dalla strada', capace di recitare proprio a causa dell'assenza di artificio (l'artificio viene dalla ripresa), quindi reso espressivo a sua insaputa. Sarebbe lungo l'elenco delle grandi presenze cinematografiche che non furono attori, pur fornendo prove altissime di recitazione, come il Carlo Battisti interprete dell'Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica scritto da Cesare Zavattini, o i protagonisti di Nanook of the North (1922; Nanouk o Nanuk l'eschimese) e di Man of Aran (1934; L'uomo di Aran) di Robert Flaherty, o di Tabu (1931; Tabù) di Murnau (e Flaherty).Ejzenštejn teorizzò la scelta dei volti come scelta di maschere, altrettanto espressive delle maschere dell'antico teatro ateniese o di quelle del teatro classico giapponese. Che il cinema non abbia necessità di attori di professione è un dato abbastanza evidente. Meno evidenti le conseguenze di un tale stato di cose.Poiché gli attori cinematografici di professione si distinguono non tanto per il possesso di ben definite tecniche del corpo, ma per un'immagine che al cinema 'funziona', cui si aggiunge il mestiere e l'esperienza necessari per farla funzionare velocemente al meglio, reagendo agli stimoli in maniera credibile, essi possono essere visti, nel loro insieme, come il popolo dei prototipi, tipi non soltanto disponibili per la produzione, ma anche per l'immaginazione degli spettatori. Nei casi di maggior efficacia e di maggior successo, questo 'popolo dei prototipi' si presenta come un'aristocrazia, o un Olimpo. In lunga fila, Gregory Peck, Gary Cooper, Humphrey Bogart, Paul Newman, Cary Grant, Clark Gable, James Stewart, Henry Fonda, Burt Lancaster, Jean Gabin, Spencer Tracy, Jack Lemmon, Amedeo Nazzari, Marlon Brando, James Dean, Marcello Mastroianni, Walter Matthau, Dustin Hoffman, Robert De Niro, John Wayne, Jack Nicholson, Robert Redford… e i molti altri che formano l'aristocrazia dei divi, popolano la mentalità degli spettatori indipendentemente dai loro singoli film.
È come se, con il tempo e i successi, la personalità degli attori-prototipi diventasse autonoma, capace di vivere nella memoria di per sé, indipendentemente dai personaggi interpretati. In questo senso non è esagerato quel che E. Morin affermava a proposito del divo: che esso è composto di realtà e di sogno, e che ha una duplice natura. Come nelle mitologie si racconta di mortali che lottano e soffrono, ma aspirando all'immortalità, allo stesso modo i divi sono eroi caratterizzati da una doppia dimensione di vita: le avventure che incarnano nei film, e le vicende spesso altrettanto presenti nell'immaginazione pubblica che caratterizzano la loro storia 'privata'. La bravura dell'attore si confonde con ciò che su di lui viene proiettato nel passare da un film all'altro, dall'una all'altra intervista, di cronaca in cronaca, dall'una all'altra leggenda. Non è rilevante, per es., chiedersi se Rodolfo Valentino, uno dei primi veri divi, fosse un bravo attore. Quando morì, nell'agosto del 1926, di lui si scrisse che "aveva portato l'irraggiungibile a migliaia di esistenze frustrate da una vita forzatamente limitata" (in "Motion pictures magazine", nov. 1926, cit. in Divi & divine, a cura di D. Turconi, A. Sacchi, 1981, p. 314).
Si è qui citata soltanto una piccola parte della schiera dei divi, ed è stata separata dalla schiera delle dive. Il divismo è uno dei casi in cui la generalizzazione che porta a parlare di 'attori', senza fare distinzione fra genere maschile e femminile, non risulta conveniente. Sono le dive a fare del fenomeno qualcosa di più di una questione di costume.
Il fenomeno del divismo è talmente importante nella storia del cinema da meritare un discorso a parte. Qui verrà sfiorato solo per quel che attiene alla problematica specifica della professione dell'attore e dell'attrice, la frizione o il conflitto che genera fra l'individualità artistica e la sua metamorfosi in persona pubblica e figurata. Anche questo tema è stato spesso soggetto di film. Così come l'antica e ricorrente trovata del 'teatro nel teatro' fu spesso uno strumento per riflettere sulla condizione umana e il mestiere dell'attore, anche il nodo o il paradosso del 'cinema nel cinema' si è spesso configurato come conflitto fra la persona e la sua proiezione sullo schermo, sentita come una sublimazione o una consacrazione, e quindi rovinosamente vissuta, alla fine, come una lacerante caduta.In alcuni dei casi migliori, questo avviene anche quando la trovata è sfruttata come chiave di vicende comiche, in quel gioco bizzarro che vede i personaggi della vita reale insinuarsi fra i personaggi proiettati sullo schermo, oppure ‒ viceversa ‒ i personaggi filmati fuoriuscire dalla loro dimensione e mischiarsi all'imprevedibilità della vita. Basti pensare a uno dei prototipi e dei capolavori del genere, Sherlock Jr (1924; La palla n. 13 o Calma, signori miei!) di Buster Keaton, dove il cinema come mondo degli uomini superiori funziona (ridicolmente) prima come sogno realizzato, quindi come modello al quale ispirarsi nei momenti intensi della vita reale. Di qui sembra essere partito Woody Allen per il suo The purple rose of Cairo (1985; La rosa purpurea del Cairo), che esplora le numerose potenzialità di un intreccio basato sulla permeabilità fra il mondo dello schermo e il mondo reale, con tutti gli spaesamenti cui danno luogo i fantastici trasbordi.Intrecci di questo genere, basati su una drammaturgia acrobatica finalizzata all'ottenimento di effetti comici, sbeffeggiano in maniera ora acre ora affettuosa l'apparente superiorità dei personaggi dello schermo rispetto alle persone reali.
La stessa supposta superiorità viene vista, in altri casi, come matrice di drammi, in film realistici in cui il desiderio o l'ansia di divenire attori, di penetrare nel mondo incantato del cinematografo, condisce di sogni una vita grama. L'amaro Bellissima (1951) di Luchino Visconti mostra il flusso avvelenato di illusioni che circonda la fabbrica dei film, la romana Cinecittà, e diventerà un paradossale modello per alcuni fra i film più semplici e labirintici dell'iraniano Abbas Kiarostami. In Nemā-ye nazdik (1990; Close-up), Zendegi edāme dārad (1990; E la vita continua), Zir-e derakhtān-e zeytun (1994; Sotto gli ulivi) l'ansia di penetrare nel mondo del cinema, di farsi attori, non è semplicemente il frutto delle illusioni che accompagnano la miseria, ma una possibilità di autoconsapevolezza e di riscatto. Come se neorealismo e pirandellismo fossero messi insieme al servizio di un umanesimo che malgrado tutto non perde le speranze. Ciò che salva questo gioco di specchi e illusioni dal divenire una pura caduta nell'irrealtà e nell'enfasi malata dell'io è il carattere rustico, elementare, economicamente umile della produzione cinematografica. Una fabbrica dei sogni che non può certo illudersi di essere l'ombelico di un mondo. Quando invece la storia dell'ascesa dell'attore o dell'attrice non si svolge nel mondo del teatro o in quello di un cinema artigianale, essa assomiglia alle trame belluine e bellicose dei drammi storici o dei romanzi sui capitani d'industria.
L'industria cinematografica forte, Hollywood, evoca storie in cui l'ascesa di una persona nell'Olimpo cinematografico sembra basata su una ferocia tanto più spinta e spietata quanto più è forte l'organizzazione dell'industria dello spettacolo. La nascita di una stella a Hollywood sembra dunque nutrirsi, in maniera non del tutto metaforica, di sangue. Un ottimo esempio di queste tendenze rivelatrici sono due importanti film di G. Cukor, What price Hollywood? (1932; A che prezzo Hollywood?) e A star is born (1954; È nata una stella), che si basa su un precedente film dallo stesso titolo girato nel 1937 da William A. Wellman e che subi-rà un rifacimento nel 1976, con la regia di Frank Pierson e l'interpretazione di Barbra Streisand. Nei due film di Cukor si ripete lo stesso schema: una ragazza ascende al ruolo di star con l'aiuto di un uomo che si autodistrugge nell'alcol e alla fine si suicida. Inutile dire che la crudezza con cui l'industria di Hollywood compare in questo tipo di vicende finisce per corroborarne la leggenda: svelare le lacrime e il sangue di cui grondano i miti della fabbrica dei sogni serve anche a rafforzarli delineando il loro rovescio e confermandone la grandezza. La fabbrica dei sogni è, nello stesso tempo, il luogo in cui i sogni si infrangono.
La grandezza, in altre parole, si manifesta attraverso la forza drammatica della caduta. È la dialettica che si materializza nel film di Max Ophuls Lola Montès (1955), interpretato da Martine Carol e Peter Ustinov. Qui non si tratta della storia di un'attrice e tanto meno di una diva, ma di una avventuriera che ascende di amore in amore fino alle soglie della regalità, precipita nella rovina, conclude la propria avventura rappresentando sé stessa e le sue glorie in uno spettacolo di circo (che la uccide). Il circo nel quale la protagonista è messa in spettacolo e in pericolo, e che fa da cornice alla sua biografia, è l'immagine speculare ‒ o la radiografia ‒ del divismo. Come la luminosità della star si manifesti attraverso la forza drammatica della caduta lo si può constatare persino attraverso un documentario convenzionale eppure d'eccezione, Marilyn: something's got to give di Henry Schipper, realizzato nel 1990 dalla Fox Entertainment News. Racconta le ultime, travagliate settimane di lavoro di Marylin Monroe (morta nell'agosto del 1962), recuperando le poche, a lungo sconosciute sequenze girate dalla diva per il film che stava interpretando con Dean Martin, Something's got to give di Cukor, un rifacimento di My favorite wife (1940; Le mie due mogli) di Garson Kanin. Verrà successivamente realizzato nel 1963 con il titolo Move over, darling (Fammi posto tesoro) da Michael Gordon, con Doris Day. Il documentario sull'ultimo film interrotto di Marilyn Monroe è costruito secondo gli standard superficiali dei notiziari divistici, eppure la fulgida vulnerabilità di una stella non può non impressionare.
È vero, come esordisce il libro Più stelle che in cielo di G. Fofi (una delle rievocazioni più semplici ed efficaci dei divi e del significato che assumono nella mentalità di uno spettatore concreto) che la distinzione fra il genere maschile e il genere femminile non appartiene al nocciolo del divismo, tant'è che il termine originario è per gli americani la parola star, "neutra e bisex", ma è anche vero che sono soprattutto le dive a rendere evidente (e a vivere drammaticamente) la loro doppia e pericolante natura di sogni e di persone. Pericolante perché, quando si perde il fulgore, è l'identità stessa della diva che sembra perdersi. E perché, come conclude la presentazione al libro or ora citato, le immagini dei divi e delle dive "si accavallano e si sovrappongono, ci servono e le usiamo, ma non riconosciamo più a nessuna di loro, salvo forse per una breve fase di adolescenza, un'autorità indiscussa sul nostro inconscio". Il fulgore senza autorità morale o simbolica mina la grandezza della diva. Quando ella poi è invecchiata, sopravvive, vive la decadenza; oppure riscatta la bravura della professionista a lungo offuscata dai bagliori del fascino e della fama. In questa ultima direzione, per fare un solo esempio, agisce Marlene Dietrich nel film di B. Wilder Witness for the prosecution (1957; Testimone d'accusa).
Qualche anno prima, Wilder era già stato regista di una diva trasformata in grande attrice: la Gloria Swanson di Sunset Boulevard.La distinzione, e quasi la contrapposizione, fra la 'diva' e la 'grande attrice' è in realtà meno peregrina di quanto possa sembrare. Spesso, per es., si è parlato di una delle più grandi dive della storia del cinema, Greta Garbo, come della 'Duse dello schermo'. Si tratta di un trucco ottico, di una associazione di superficie che trascura differenze storiche e culturali essenziali. Mentre i divi e soprattutto le dive incarnano, condensano e cristallizzano un complesso di desideri degli spettatori e ne dipendono, le grandi attrici teatrali del passato erano piuttosto persone in grado di capitanare e contrastare la gente del palcoscenico e i gusti degli spettatori, imponevano autori invisi, temi e comportamenti controcorrente, erano abili non solo nel gestire il consenso e il successo, ma anche nell'uso strategico dell'insuccesso come mezzo per mutare il panorama dello spettacolo circostante.Al di là di tali differenze storiche, è interessante osservare i casi in cui la fama dell'attrice si confronta col modello divistico e ne prende le distanze. È vero che l'industria cinematografica è vissuta e vive sfruttando la forza d'attrazione delle sue stelle, ma è anche vero che proprio per questo a volte l'attrice brilla di una luce particolare sfruttando la frizione e il rifiuto nei confronti delle consuetudini divistiche.
Piuttosto che snocciolare ancora una volta l'elenco delle famose dive del passato prossimo e remoto del cinema, è quindi interessante ricordare gli esempi che si muovono in senso contrario. La forza dell'attrice cinematografica non diva contrasta quell'impasto di personaggio e persona, di pubblico e privato, di film e rotocalchi, di cui i divi e le dive sono fatti.All'inizio degli anni Cinquanta, Zavattini ideò un film in cui quattro dive scendevano dai loro piedistalli artificiali per mostrare la distanza fra la quotidianità della loro persona e l'eccezionalità dei loro personaggi. Il film ‒ Siamo donne (1953) ‒ è a episodi. Alida Valli, Ingrid Bergman, Isa Miranda e Anna Magnani sceneggiano ciascuna una propria giornata con la regia, rispettivamente, di Gianni Franciolini, Roberto Rossellini, Luigi Zampa e L. Visconti. All'inizio, come in un prologo, due giovanissime attrici rievocano il concorso per il cinema nel quale risultarono vincitrici (sono Emma Danieli e Anna Amendola, la regia è di Alfredo Guarini). Non si tratta di un film memorabile, quanto, piuttosto di un interessante sintomo. Ingrid Bergman si racconta nella lite con una vicina il cui pollo va a becchettare fra le sue bellissime rose; la Magnani ricostruisce, invece, un esilarante litigio con un tassista.
Nell'insieme, sembra un sommesso ma al contempo sorridente e divertito manifesto del buonsenso contro il modo in cui la figura dell'attrice di spicco viene disumanizzata e reificata dalla fabbrica dei sogni di Hollywood.Con ben diversa efficacia artistica, e quindi con scandalo, Rossellini, in Stromboli ‒ Terra di Dio (1950), aveva trasformato la Bergman nella figura di una donna smarrita in terra straniera, spostandola ‒ lei che era una fra le più potenti e affascinanti dive hollywoodiane ‒ tra attori 'presi dalla strada'. Aveva poi contrapposto la sua umile figura di una santa senza esteriore fulgore, in Europa '51 (1952), e la moglie dal cuore vuoto e sgomento di Viaggio in Italia (1954) alle sue celeberrime interpretazioni della Giovanna d'Arco di Victor Fleming (Joan of Arc, 1948, Giovanna d'Arco), o delle gloriose mogli-vittime di Casablanca (1942) di Michael Curtiz e Notorious (1946; Notorious ‒ L'amante perduta) di Hitchcock.L'attrice protagonista non dotata di quel substrato di venustà e attrazione erotica che sembra una necessaria condizione per la sua arte, è certamente un caso minoritario nella storia del cinema, ma proprio per questo è particolarmente significativo: è il modo in cui a livello elementare viene lacerato il velo dell'incanto, e la persona, il corpo, torna a essere materia viva, non più ombra di un sogno maschile. Da questo seme crebbe l'arte di Giulietta Masina.
Fu questa la scommessa a cui John Huston e Arthur Miller convinsero persino Marilyn Monroe ‒ la diva per eccellenza, persona apparentemente fatta solo di divismo ‒ nel film The misfits (1961; Gli spostati), dove l'incancellabile avvenenza indifesa della diva sembra rovesciarsi in un handicap e una pena. È questo il programma di Lars von Trier soprattutto in Breaking the waves (1996; Le onde del destino) e in Dancer in the dark (2000). L'archetipo cinematografico di questa ricerca della verità del corpo dell'attrice contro l'irrealtà della sua immagine è la Renée Falconetti di La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco) di Carl Theodor Dreyer: uno dei vertici dell'arte dell'attrice cinematografica e un simbolo dell'antidiva.Non è per il semplice desiderio di andare controcorrente che conviene ricordare i casi nei quali le attrici cinematografiche scartano rispetto alla via principale dell'esibizione dell'attrattiva erotica. Si tratta, a ben guardare, di una di quelle occasioni in cui il corpo riesce a farsi cinema contrastando gli usi e le aspettative del pubblico.
È quindi uno snodo importante del discorso sull'attore cinematografico, l'altra faccia di quella tendenza apparentemente irresistibile alla irrealtà della quale il divo e la diva sono la massima espressione. Tutto il cinema di Pasolini, per es., potrebbe essere visto in questa luce. Egli distingueva fra tre tipi di attore: le persone riprese così come sono (ma riprese, non esibite); la persona che si esibisce, che coincide con l'attore professionista medio, e coincide con l'inautenticità del 'borghese'. E poi coloro che sembrano avere una seconda natura, sulla cui pelle ‒ come Pasolini dice di Totò ‒ affiora un modo d'essere che non è la quotidiana realtà, né la finzione scenica, ma una persona ulteriore, fatta ad arte e quindi non più artificiale: Totò, Silvana Mangano, Maria Callas, Laura Betti, Carmelo Bene, Julian Beck, Memo Benassi, Anna Magnani, Orson Welles. Li immaginava come una sorta di archetipi (e fra gli archetipi poneva Charlie Chaplin e Buster Keaton). In tutti questi casi non era rilevante il teatro o il cinema, ma la trasformazione della persona quotidiana in una sorta di persona resa traslucida, lavorata da una coerenza di mestiere o di vita. Non diversamente da quel che accadeva per persone che non erano attori o attrici, ma artisti o intellettuali, come Roberto Longhi o Sandro Penna, Francesco Leonetti o Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, o sua madre. E ancora Adele Cambria o Giorgio Agamben, Gabriele Baldini o Enzo Siciliano.
Al di là del problema dell'esistenza o meno di una professionalità dell'attore, della recitazione o del suo superamento, c'è infatti il problema dell'attore sullo schermo come essere umano dal corpo smarrito.Il corpo virtuale. ‒ Così come il trionfo della 'bella presenza' del divo e della diva è in realtà il trionfo dell'attore dal corpo smarrito, composto di un misto di realtà e di sogno, più in generale qualunque persona appare nei film come un corpo frammentato e ricomposto attraverso sguardi successivi e integrati. Frammentazione e ricomposizione permettono interferenze e interpolazioni: dalle controfigure al doppiaggio. Il caso del doppiaggio è esemplare, perché è un uso talmente diffuso da non essere considerato come un trucco oppure un effetto speciale, e perché è un caso particolarmente evidente di ricostruzione dell'individualità in una delle sue componenti basilari: l'unione di apparenza fisica e voce.In un primo tempo, fra il 1929 e il 1930, quando l'uso del sonoro imponeva alla produzione cinematografica di trasformarsi, parve naturale aggirare le barriere linguistiche attraverso la pratica dei film in diverse versioni. Il film muto era esportabile indipendentemente dalle barriere linguistiche. Tradurre le didascalie nelle lingue del posto non obbligava a cambiare in nulla il film. L'avvento del sonoro allargava la resa espressiva del cinema, ma amputava o rischiava di amputare la sua caratteristica di prodotto sovranazionale, che poteva girare dovunque, comunicando con la forza delle immagini.
Con l'avvento del sonoro diventò dunque necessario tradurre l'intero film. Fra il 1929 e il 1930 la soluzione migliore sembrò quella di girare più volte lo stesso film cambiando gli attori, usando cast di lingue diverse, che usufruivano delle stesse ambientazioni, degli stessi costumi, dello stesso piano di regia. Accanto a questa, vi era la pratica, commercialmente meno valida, di mantenere il parlato originario traducendo il dialogo nelle didascalie sovraimpresse. Si fece quindi largo una terza pratica: lasciare intatta la parte visiva del film, sostituendo il solo sonoro. Voci diverse venivano così applicate alle labbra di attori cui non appartenevano. Il prevalere di questa soluzione non deve apparire, con il senno di poi, troppo ovvio. Significava infatti accettare il fatto che sullo schermo prendesse forma un'identità fittizia, composta dalla presenza fisica di un attore e dalla voce di un altro. Dalla pratica del doppiaggio si sviluppò l'esigenza di collegare, in ciascuna lingua, un determinato attore sempre a uno stesso doppiatore, componendo un'unità stabile che sembrava 'naturale' e impediva che gli attori e le attrici più noti subissero una crisi di identità nella percezione degli spettatori. L'individuo virtuale risultante dell'assemblaggio di un corpo con la voce di un altro non è soltanto la risposta all'esigenza di tradurre i film in lingue diverse. Permette di riunire in uno stesso cast attori e attrici eterogenei, che sul set parlano lingue diverse, stendendo sulla torre di Babele delle diverse voci l'ordine del doppiaggio. Permette anche di utilizzare attori e attrici dalla presenza efficace, ma sgradevoli o inabili nel parlare, inventando dei professionisti sintetici, di fatto inesistenti al di fuori dello schermo. La questione ha sollevato nel corso degli anni più di un interrogativo, proteste e dibattiti, con il risultato di un nulla di fatto.L'assemblaggio artificiale di corpo e voce è l'esempio più macroscopico e 'normale', spesso addirittura inavvertito, di una tendenza per cui la persona non è un soggetto esistente di per sé, indipendentemente dalle riprese, soggetto che agisce e pensa, ma un oggetto fabbricato e ricostruito, dotato di caratteri, capacità, prestazioni che non corrispondono a nessun individuo reale.
È quindi significativo che il cinema abbia spesso tematizzato l'individuo come manufatto di laboratorio (Frankenstein è un protagonista ricorrente) e che tanto si discuta di 'attori virtuali', della possibilità, cioè, di confezionare film con personaggi 'che sembrano veri' (cioè non pupazzi o disegni animati) e che però appartengono soltanto all'universo delle immagini (attori digitali, sculture elettriche, attori sintetici o clonati). Se ne colgono le avvisaglie in film come The mask (1994) di Chuck Russell, X-Men (2000) di Bryan Singer, Final fantasy: the spirits within (2001; Final fantasy) di Sakaguchi Hironobu e Sakakibara Motonori, e soprattutto in certi spot in cui la presenza di celebri attori o personaggi del passato viene digitalmente estrapolata dal filmato originario e fatta 'recitare' in un'odierna pubblicità. Divi del passato, che come persone fisiche sono ormai morte e sepolte, potranno, inoltre, esser fatti recitare in parti e in film che non hanno mai recitato e girato. Per una Marlene Dietrich clonata, raccontano le cronache, sono già stati venduti i diritti e già lavora un laboratorio di videomanipolazione digitale.
Le cronache dei primi anni Duemila prevedono il momento in cui ogni sintomo residuo di falsità verrà cancellato dalle raffinatezze dei cloni digitali, sicché ‒ dicono ‒ l'illusione sarà perfetta e non permetterà di cogliere la differenza fra il film effettivamente interpretato da un attore o un'attrice e quello, invece, che avrà attori virtuali, clonati o sintetizzati. Le stesse cronache registrano, infatti, l'invasione degli avatar, persone virtuali create nel cyberspazio, nelle reti della chiacchiera elettronica, nell'universo dei videogiochi. Il termine avatar viene dalla mitologia indiana, indica la forma in cui si incarna un dio o si reincarna un trapassato. Sono avatar del cyberspazio, personaggi virtuali, Lara Croft, protagonista del gioco Tomb Raider; la modella Webbie; la anchor-woman virtuale Ananova; Jackie Strike, Date Kyoko e il cantante virtuale E-Cyas. I loro connotati derivano spesso da due o tre persone reali, di cui sintetizzano le qualità più attraenti. Compaiono in siti Internet e videogiochi. Non sono attori di cinema, ma è come se stessero accampandosi ai suoi margini.
La videomanipolazione digitale che conduce alla creazione di un attore virtuale passa attraverso la costruzione di una mappa tridimensionale di un corpo, ottenuta al computer con lo scanner applicato a un essere umano. I movimenti derivano anch'essi da un essere vivente cui vengono applicati innumerevoli sensori che trasferiscono al computer le dinamiche fisiche delle diverse azioni. L'involucro del personaggio avatar, dunque, può sintetizzare elementi presi da molti corpi, mentre una sola persona abile a mimare i movimenti può bastare ad animare tutti gli attori-avatar di un film. La loro creazione richiede tempi lunghissimi e precisioni da altissima tecnologia (tant'è che nel 2001, per estrarre dal gioco Tomb Raider un film, si è preferito fare interpretare l'eroina Lara Croft da un'attrice in carne e ossa, Angelina Jolie). Gli attori digitali che premono alle frontiere del cinema esulano, in realtà, dal discorso sull'attore. Così come non si parla di attori per i protagonisti del cinema di animazione, non se ne dovrebbe parlare neppure per le incarnazioni di corpi che non furono mai vivi ed esistono solo nell'universo cibernetico.
Ma la loro presenza si impone perché rende dilagante una tendenza che nel cinema è presente fin dalle origini. È evidente che è facile esagerare, per l'enfasi della meraviglia o della deprecazione, i punti tecnologici d'arrivo di tali tendenze, che sembrano vanificare la consistenza della nozione stessa d'attore e d'attrice, ma l'esagerazione serve, per una volta, a ridimensionare.Il corpo delle meraviglie e il volto dilatato. ‒ A prima vista, quando si parla di attori e di attrici sembra d'essere al cuore stesso della realtà del cinematografo. Poi, mentre si progredisce nel cammino, ci si rende conto che in fondo il discorso sull'attore si trasforma in quello generico sulla presenza della figura umana nel cinema, della sua ripresa e della sua composizione, dei vortici di fama che questa trasposizione a volte mette in moto. Cloni e avatar non sono certo un punto d'arrivo. Sono però un ottimo memento: uomini e cose non sono poi tanto differenti alla luce dello sguardo che li riprende. È in questo sguardo che sta la vita del cinema. La figura umana non abita lo spazio del film. Ne è semmai abitata.
Si pensi a Rope (1948; Nodo alla gola) di Hitchcock, a Un condamné à mort s'est échappé (1956; Un condannato a morte è fuggito) di Robert Bresson, a Twelve angry men (1957; La parola ai giurati) di Sidney Lumet, o a Film (1964), che Samuel Beckett girò con Buster Keaton e l'aiuto del regista teatrale Alan Schneider: anche quando sono girati nei più asfittici degli ambienti, i film fanno respirare lo spazio, lo dilatano, lo trasformano in uno spazio-in-azione, lo emozionano (come avrebbe detto Ejzenštejn), e insomma lo 'interpretano' e lo 'recitano' né più né meno come interpreta o recita un attore.
Se quindi è vero che il discorso sull'attore e l'attrice nel cinema riguarda in realtà la semplice presenza della figura umana, esso si allontana sempre più da quel che rende interessante, pungente o rivelatrice l'esperienza di uno spettatore davanti a un attore o a un'attrice nel senso pieno e forte della parola, l'esperienza, cioè, di contemplare un corpo-in-vita che è nello stesso tempo un'opera d'arte; una precisione e un'architettura del movimento che è anche libero e improvviso fluire della vita; quell'esperienza in cui lo spettatore sente ‒ per così dire ‒ di crescere negli occhi e l'attore sembra annullare l'intercapedine fra ciò che viene chiamato fisico e ciò che viene chiamato mentale. Al di là della semplice immagine dell'uomo o della donna, della divertente o imbarazzante sensazione di vedere un essere umano che finge un essere umano, ciò che fa di un uomo o di una donna un attore o un'attrice è l'irrompere nel corpo di una differente 'natura' o di una natura seconda, comunque essa si materializzi, per via della cosiddetta impersonazione o per la forza di un'azione psicofisica che elabora una coerenza e una precisione visibilmente lontane dal comportamento quotidiano.
A volte il cinema ha restituito una tale situazione, che vive sempre nel legame di uno spettatore di fronte al rivelarsi di un attore-attrice. Mai, probabilmente, con altrettanta forza come in una delle sequenze finali di Jalsaghar (1958; La sala di musica) di Satyajit Ray, dove il protagonista contempla un'interprete (Roshan Kumari) della danza classica indiana. L'attenzione del protagonista, del regista e dello spettatore si concentra principalmente sui piedi della danzatrice, sui suoi passi che suonano il suolo come si suona un tamburo, passi variati, intrecciati, sempre più veloci e 'impossibili', che raggiungono un limite e lo superano, fino a che il virtuosismo sfocia in una sorta di eccesso spirituale ‒ e la meraviglia dello spettatore si tramuta in contemplazione, riflessione su di sé e su ciò che trascende il proprio essere al mondo. L'attore considerato 'corpo delle meraviglie' che a volte riesce a trascenderle nella libertà di un pensiero-in-azione ha caratterizzato un'intera regione della storia del cinema. Il genere comico in parte contraddice quanto s'è detto sulla recitazione uniformata. E soprattutto obbliga a tener conto di una cesura che negli altri casi è meno grave. Nell'epoca del muto, la produzione comica determinò l'ascesa dei professionisti dello spettacolo minore o popolare, comici del Varietà, del café-chantant, del vaudeville, abili nella deformazione grottesca e acrobatica del corpo e del comportamento, capaci di prestazioni esilaranti senza l'ausilio delle parole, in grado di far vivere e rendere indimenticabili intrecci apparentemente insignificanti. Questi attori dal corpo prodigioso, quasi esclusivamente attori e non attrici, depositari di un sapere svalutato dalla cultura teatrale, emersero ‒ col cinematografo ‒ ai vertici della fama e dell'apprezzamento, trasformandosi in star e molto spesso in autori.
Furono punti di riferimento culturali, si arricchirono, divennero, a volte, personalità autorevoli, ebbero l'opportunità di sviluppare le proprie vedute ed esperienze artistiche inventandosi un proprio cinema. Il loro modo di recitare, sganciato dal realismo o piuttosto dalla verosimiglianza rispetto al comportamento quotidiano, fu un ponte fra l'industria del cinema e le ricerche sperimentali e d'avanguardia del teatro, era vicino alle ricerche di V.E. Mejerchol′d, di J. Copeau, di B. Brecht, poteva esser fatto proprio dai futuristi e dai surrealisti. In Russia, la ricerca sul linguaggio cinematografico futurista usò come riferimento l'immagine dell'attore 'eccentrico', in cui coincidevano le istanze d'avanguardia e l'esperienza del Varietà e del cinema comico.
Nel suo complesso, si trattò di una vera e propria esplosione artistica che segnò la cultura novecentesca e che nei due primi decenni del secolo fece sì che nell'autore cinematografico comico si identificasse, quasi per antonomasia, un intero continente del cinema.Charlie Chaplin e Buster Keaton furono i geni di questa stagione del cinematografo. I loro film sono ancora oggi vivi e popolari, continuamente smerciati e riediti, spesso in maniera piratesca e incurante, diffusi come passatempi, come divertimenti per bambini, oppure curati come opere d'arte fra le più significative del secolo. Sono ciò che nel Novecento e nel cinema più assomiglia alla fama polivalente di un Dickens o di un Verdi.Con l'avvento del sonoro, gran parte di questi attori dal corpo prodigioso ridiscese ai piani inferiori dell'industria dello spettacolo. Ma il sonoro non cancellò ogni traccia di una recitazione comica capace di prendere le distanze dal verosimile e dalla recitazione uniformata del cinema. Chaplin usò la parola per aggiungere una vena di oratoria civile alla sua virtù d'attore, di cui i suoi film erano emanazione. In Monsieur Verdoux (1947) dimostrò come la sua recitazione grottesca e acrobatica potesse assorbirsi in apparenze realistiche. Intanto, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy, Danny Kaye, Jacques Tati, in Italia Macario e Renato Rascel, e soprattutto Totò, trasportavano dentro il cinema il sapere dell'attore teatrale comico, esperto nel trasformare il proprio corpo in un corpo delle meraviglie. Allo stesso modo, è nel cinema che si è realizzata una delle svolte più importanti della storia della danza nel 20° secolo, quando Fred Astaire (con Ginger Rogers e Gene Kelly) vi ha trasportato il 'corpo delle meraviglie' della danza acrobatica.
Nell'ambito del genere comico ci si trova di fronte a un'eccezione: l'attrice, di solito, non condivide con l'attore il virtuosismo del corpo delle meraviglie. Spesso, secondo un antico stereotipo dello spettacolo comico, contrappunta gli exploit dell'attore con l'esposizione delle sue grazie. Nel gergo cinematografico italiano degli anni Sessanta si coniò l'espressione maggiorata fisica (scherzosamente speculare all'espressione minorato fisico, altrettanto sconcia, ma appartenente al linguaggio burocratico). Erano 'maggiorate' le ragazze procaci che allietavano i cast dei film dei comici famosi o della commedia all'italiana. Al corpo dilatato dell'attore si accosta il corpo di una maggiorata: è il sintomo di un cliché cinematografico che nel genere comico ha spesso umiliato le comprimarie nei confronti dei protagonisti.Ma sul piano dell'arte, la differenza fra i vertici dell'attore e quelli dell'attrice si pone in altri termini. È soprattutto attraverso le attrici che il volto umano diventa un paesaggio misterioso e dalle molteplici dimensioni, squarciato dall'affiorare degli astri luminosi e degli astri neri che popolano i cieli del mondo interiore.
Certi volti di attrici, capaci di trasformarsi nei teatri di una storia enigmatica e complessa, sono gli emblemi del modo in cui l'essere umano può trasformare in arte indipendente la propria immagine in un film, non meno dei corpi-pensiero di un Chaplin o di un Buster Keaton. Quasi che, ai vertici dell'arte, si delineasse, al di là delle convenzioni produttive e delle divisioni del lavoro, una complementarità d'emisferi. Basterà ricordare come si apre il volto di Liv Ulmann o quello di Anna Magnani, come trasecola quello di Renée Falconetti ‒ o come, alla fine di Casque d'or (1951; Casco d'oro) di Jacques Becker, il volto di Simone Signoret sia invaso dalla luce della passione amorosa e insieme dall'orrore, come diventi, da solo, senza parole, senza montaggio, un intero dramma della coincidenza degli opposti, mentre assiste al trionfo della legge e alla decapitazione dell'amato.
Come esempi di trattati sull'arte del recitare che si riferiscono sia agli attori di teatro sia a quelli di cinema, si vedano il classico M. Chekhov, To the actor: on the technique of acting, New York 1953 (trad. it. Firenze 1984) e il recente A. Pitscheider, Sally Potter: il lavoro con l'attore, Roma 1998.
Per la nozione di pre-espressivo si vedano E. Barba, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Bologna 1993, e E. Barba, N. Savarese, L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Lecce 1996.
Si rimanda inoltre a V. Pudovkin, La settima arte, a cura di U. Barbaro, Roma 1961 e a V.E. Mejerchol′d, L'attore biomeccanico, testi raccolti e presentati da N.N. Pesočinskij, a cura di F. Malcovati, Milano 1993.
Sulla recitazione strindberghiana nel teatro e nel cinema ‒ essenziale per l'attore di Ingmar Bergman ‒ si veda E. Josephson, Memorie di un attore, a cura di V. Monaco Westerstaahl, Roma 2002.
Sui film in molteplici versioni e sulla discussione agli albori del doppiaggio, si vedano gli studi raccolti nel numero dedicato a L'immagine acustica. II, di "Cinegrafie", 1993, 6, in particolare: N. Durovicová, Tradurre l'America. Il plurilinguismo hollywoodiano (1929-1930), pp. 45-63.
Sul sapere teatrale trasportato nel cinema di Totò, si veda C. Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma 1987.
Da segnalare poi il volume di G. Fofi, Più stelle che in cielo. Il libro degli attori e delle attrici, Roma 1995.