Attore
Il termine attore viene dal latino actor, derivato di agere, "fare, agire". Fra le sue varie accezioni (già presenti nel vocabolo latino, e tutte riconducibili al senso generale di "chi ha un ruolo attivo in qualcosa"), la più comune è attualmente quella che indica "chi interpreta una parte in uno spettacolo". L'attore si serve di tecniche del corpo che sono diverse da quelle che caratterizzano il comportamento quotidiano e sono finalizzate alla 'rappresentazione', intendendo genericamente con questo termine una situazione in cui una persona agisca programmaticamente per plasmare gli sguardi, in un tempo e uno spazio ritagliati dal tempo e dallo spazio quotidiani. Un attore e uno spettatore configurano la cellula fondamentale del teatro.
Nel suo aspetto più elementare e di base, l'arte dell'attore di teatro consiste nel destare e modellare l'attenzione degli spettatori. L'insieme dei procedimenti con i quali l'attore modella la propria presenza, e quindi l'attenzione degli spettatori, crea una sorta di 'seconda natura', di 'corpo finto' (nel senso di 'fatto ad arte'), che costituisce il livello d'organizzazione definito pre-espressivo nell'antropologia teatrale fondata da E. Barba. Pre-espressivo non vuol dire inespressivo (c'è sempre espressione, anche nostro malgrado): indica l'organizzazione della presenza fisica tesa all'espressione, la condizione necessaria ma non sufficiente dell'espressione artistica. Sul tessuto di un'attenzione dello spettatore artificialmente ricomposta, cioè fatta ad arte, l'attore ricama la sua presenza e, in genere, elabora un'interpretazione, la raffigurazione d'una storia, d'un personaggio; inscrive i suoi messaggi al pubblico.
A teatro lo spettatore guarda in prima persona: non vede lo sguardo d'un altro come al cinema, che è piuttosto il risultato di sguardi registrati. Al posto del primo o del primissimo piano a teatro c'è una relazione fra attore e spettatore, che può farsi intensa o intensissima quando la presenza e la credibilità dell'attore sono particolarmente forti.L'attore cinematografico o televisivo ha meno doveri: gli atti d'attenzione dello spettatore, che a teatro sono soprattutto gli attori a dover suscitare e guidare, nel cinema sono determinati e rappresentati dallo stile della ripresa, dalle inquadrature e dal montaggio. La recitazione cinematografica e televisiva ‒ quella a cui l'odierno spettatore è più abituato ‒ è uniformata. Quale che sia il paese da cui il film proviene o l'epoca che esso rappresenta, il modo di muoversi e di gestire è sostanzialmente simile e cerca di riprodurre in maniera accettabile ciò che viene ritenuto il comportamento quotidiano. In moltissimi casi la recitazione uniformata ha soppiantato anche sui palcoscenici una vera e propria recitazione teatrale, sicché parlare seriamente di attore di teatro significa ormai parlare d'una rarità, e spesso occorre rifarsi a esempi lontani dalla normale esperienza d'uno spettatore d'oggi. In questa rarità si nasconde un sapere che non dovrebbe andar sprecato.
Se si scorrono le voci 'attore' delle principali enciclopedie (nell'Enciclopedia dello Spettacolo è firmata da G. Guerrieri; nell'Enciclopedia Italiana da S. d'Amico, che però scelse significativamente il plurale 'attori'), si vede che normalmente l'impianto del discorso è basato sull'enumerazione dei diversi modi in cui l'attore si è collocato nelle diverse società, con qualche accenno agli stili e alle estetiche. Lo stesso impianto, con ampie zone per le memorie e le testimonianze, caratterizza il libro di G. Calendoli L'attore, storia di un'arte (1959), mentre il più agile L'attore e la recitazione (1992) di C. Molinari compie sondaggi cercando d'arginare un tema traboccante. Il contesto di questa enciclopedia ci indirizza verso un altro tipo di trattazione, che fra l'altro è oggi resa possibile dai progressi degli studi legati all'antropologia teatrale, cui si è già accennato.
L'antropologia teatrale costituisce forse il primo caso di studio globale del comportamento dell'attore, sia in senso transculturale sia in senso transpecifico, e cioè al di là delle distinzioni fra teatro di prosa, teatro in musica, danza, balletto, pantomima, mimo; e al di là delle diverse tradizioni europee e asiatiche. Alla sua luce è quindi possibile uno sguardo che, attraversando le profonde differenze culturali, colga la filigrana degli elementi ricorrenti e caratterizzanti il corpo dell'attore, cioè il suo corpo-mente. La terminologia usata dall'antropologia teatrale è quella che meglio dà conto di alcuni aspetti essenziali per comprendere il corpo finto dell'attore, che in genere è oggetto di considerazione analitica solo a partire dal livello espressivo. Anche perché le dettagliatissime analisi sull'estetica del moto del corpo umano condotte da F. Delsarte, R. von Laban ed E. Decroux sono state viste come definizioni degli stili della danza o del mimo, piuttosto che come tentativi di definire gli aspetti basilari e transculturali delle arti performative. L'osservazione, nel caso dell'antropologia teatrale, si rivolge ai buoni attori, i soli che possano fornire esempi significativi di comportamento. Trascura la pletora degli attori incompiuti. Quando, per es., l'attenzione del pubblico è rivolta soprattutto al decorso del dialogo drammatico, è facilmente tollerato un tipo d'attore che proferisce le sue battute con efficace dizione limitando la propria presenza scenica a una buona disinvoltura, quasi ritraendosi in una parentesi per non dar fastidio all'energia letteraria del dialogo. Non è di questo attore fra parentesi che qui dobbiamo occuparci. Né di quei casi diametralmente opposti di persone che, essendo già dei 'personaggi' nella vita, possono trasportarsi nella cornice del palcoscenico usandola quale luogo dell'eccesso più che dell'esposizione, e realizzandovi per così dire uno spettacolo che annulla il teatro. In alcuni casi eccezionali non si tratta di puro sfruttamento della propria fama, avvenenza o diversità, ma di veri momenti espressivi sciolti dalla necessità della partitura e della ripetizione. Pare che uno di questi casi fosse quello dello scrittore Franz Wedekind, quando faceva l'attore gestendo la propria immagine privata di scrittore. Sarebbe forse stata questa, se la si fosse saputa accettare, nella Parigi degli anni Venti e Trenta, la presenza di Antonin Artaud. È stata di questo tipo, a volte, la potente presenza scenica di Carmelo Bene, che nell'arte raffinatissima dell'azione vocale trovava invece il suo vero compimento.
Ogni qualvolta un attore o un'attrice acquista grande fama e diventa un punto di riferimento per gli spettatori, nella sua recitazione comincia a intrecciarsi la gestione della propria immagine personale. Questo è vero per Sarah Bernhardt come per Laurence Olivier, per Tommaso Salvini come per Eduardo De Filippo. Il distacco fra 'persona' e 'personaggio' non sempre può essere netto. Anzi si può dire che ‒ prima dell'era monopolizzata dai 'divi' e dalle 'dive' ‒ appartenesse ai compiti del grande attore e della grande attrice anche la costruzione della propria figura pubblica fuori dal teatro come figura di differenza. Mentre i divi incarnano e sintetizzano un'immagine o un'aspirazione collettiva, diffondono un luogo o una moda comune, i grandi attori e le grandi attrici andavano controcorrente: opponevano la propria immagine di 'persone' alle immagini imperanti. Tendevano a capeggiare nuove opinioni, nuovi modi di vedere, qualcosa di molto diverso dall''arte dello scandalo' che appartiene piuttosto alla strategia della fama comica e divistica.
Capeggiò un diverso modo di vedere o piuttosto di sentire, fra Cinquecento e Seicento, l'attrice-poetessa Isabella Andreini, lottando per rendere accettabile un'immagine nuova della donna rispettabile eppure pubblica, così come fra Otto e Novecento Eleonora Duse impose con arte guerriera l'immagine d'una persona femminile irriducibile alle categorie precostituite, anche le più onorate o di genio. Sono due esempi fra i massimi: bisognerebbe almeno aggiungervi, in Italia, quello dell'attore rivoluzionario Gustavo Modena. Ma si potrebbe continuare a lungo nell'esemplificare il modo in cui la costruzione del corpo finto teatrale trapassa nell'invenzione d'una nuova persona.
Negli avamposti teatrali del Novecento, dal teatro di K.S. Stanislavskij a quello di J. Copeau, dal Living Theatre al teatro di J. Grotowski, dalla scuola di Decroux all'Odin Teatret, un tale trapasso è compreso esplicitamente fra i fini del teatro. Tutto questo riguarda però più sociologia e politica del teatro, ed etica dell'attore, che non il nostro tema. Che si incentra sulle tecniche del corpo legate all'esercizio dell'arte teatrale ‒ il carattere extra-quotidiano del comportamento scenico ‒ e non deve quindi allargarsi a tutto ciò che può farsi spettacolo, né a tutto ciò che è accetto o tollerato sui palcoscenici, o è a essi correlato.
Non si è vivi e credibili ‒ nella vita quotidiana ‒ quando si agisce sapendosi osservati: gli sguardi altrui ci inchiodano, ci sentiamo 'bloccati'. Tutta l'arte degli attori in fondo consiste nel dare vita a questa situazione, normalmente morta, dell'agire esposti. L'essere umano quand'è esposto rischia la crisi del proprio senso di presenza. Dolorosa o inebriante, narcisistica o umiliata, l'esposizione è comunque un'esperienza che lasciata a sé stessa spossessa. Spinta fino all'eccesso può diventare simile alla provocazione, all'immolarsi, alla drammatica affermazione d'una irrimediabile e irrinunciabile differenza. Più che opera d'arte drammatica diventa allora dramma d'artista, comunque altra cosa dalla metamorfosi della propria presenza e dalla trasformazione delle regole del proprio comportamento quotidiano operate dall'attore.
La spinta del dramma dell'esposizione verso l'eccesso e l'esercizio del corpo finto come opera d'arte non caratterizzano necessariamente due diversi tipi d'attore o d'attrice, ma possono intrecciarsi e fondersi nell'operare scenico d'uno stesso artista. L'esposizione spinta verso il suo eccesso, che la brucia e la trasforma, non riguarda la tecnica, ma la biografia. E perciò spesso illude, come se, invece d'un punto d'arrivo raro e quasi impossibile da programmare, fosse una via breve per l'arte, una scorciatoia. L'attore che invece di agire la finzione, finge di agire, e magari si sente a suo agio in scena, spontaneo e naturale, in realtà offre quasi sempre di sé solo un'immagine esibita e falsa, spossessata dall'atto dell'esposizione. Può anche darsi che piaccia, ma come può piacere, appunto, un corpo esposto.
Nei libri che Stanislavskij ha dedicato al lavoro dell'attore sono spesso riportati esempi di questo genere, attori e attrici che non si rendono conto d'asservirsi agli sguardi degli spettatori, invece di recitare. Che l'asservimento sia dolorante o vanesio, sofferto o goduto, produca applausi o fastidio, rimane il fatto che è asservimento e ha poco o nulla a che fare con la composizione e la creazione artistica. Era ciò per cui J. Conrad rifuggiva dai teatri. In una lettera di fine marzo 1908 scriveva a un amico: "Ho un morboso orrore dei teatri [...]. Non è orrore dei drammi: è orrore della recitazione". Una quindicina d'anni prima, H.G. Wells aveva raccontato, nella novella Triste storia d'un critico drammatico, l'orrore di fronte all'attore che appare uomo o donna in bella copia, l'abominio dell'uomo simile all'uomo. È l'attore 'disinvolto' o 'pensoso', 'brioso' o 'elegante' che abita il palcoscenico come se nulla fosse, disimpegnandosi nei dialoghi come un maestro di fioretto. Un simile disagio di fronte all'uomo simile all'uomo è messo in scena da L. Pirandello in Sei personaggi in cerca d'autore, quando il Padre e la Figliastra vedono riprodotto 'come rimesso in bello' un ruvido e doloroso frammento della propria vita (scena che in genere viene rappresentata sprecandola in facili parodie dell'attore di routine).
La perdita di presenza è certamente un problema di psicologia dell'attore ed è probabilmente collegata col cosiddetto trac, il panico che coglie l'attore prima d'entrare in scena (Kierkegaard diceva: il buon attore è colto dal panico prima d'entrare in scena, e in scena naviga tranquillo; è l'attore mediocre a esser tranquillo e indifferente finché sta dietro le quinte, per cadere nel panico appena si getta in scena). Ma è anche l'intima spiegazione della sua tecnica: benché l'attore faccia arte di persona non può farla semplicemente con la propria persona. Dal punto di vista dello spettatore, la tecnica è ciò che modella la sua attenzione; dal punto di vista dell'attore, è ciò che gli serve per non cadere nella perdita di presenza derivante dall'esposizione. È un'altra 'persona' dentro la quale o accanto alla quale l'attore opera: "la piccola Clairon dentro la grande Agrippina", esclamava Diderot osservando la più grande attrice del suo tempo nell'interpretazione d'uno dei suoi più famosi personaggi.
Il comportamento dell'attore è extra-quotidiano innanzi tutto nella sua impalcatura interna. Anche quando vuole ottenere un effetto realistico agli occhi dello spettatore, anche quando vuol sembrare in scena uomo o donna di tutti i giorni, l'attore usa le proprie energie e disegna i propri atti in maniera diversa da come gli accadrebbe di fare nella vita quotidiana. Dobbiamo quindi distinguere fra l'uso del corpo così come viene sperimentato e architettato dall'attore, e l'effetto che esso fa allo spettatore. Diversamente da ciò che accade nel cinematografo e alla televisione, che si servono d'una grammatica recitativa panterrestre, la storia assai più lunga della recitazione teatrale è invece caratterizzata da enormi differenze fra stili e convenzioni sceniche. La distinzione principale ‒ inevitabilmente grossolana quando si cerchi di scendere nei dettagli ‒ è quella fra realismo e non realismo della rappresentazione.
'Realismo' sembra sempre di sapere che cosa voglia dire, anche se ogni civiltà ha diversi taciti criteri per definire ciò che illude d'esser 'reale' (in alcune civiltà, il senso comune pensa che una vaschetta contenente acqua vera sia una rappresentazione del mare più realistica della carta su cui viene dipinto il verd'azzurro, l'orizzonte e la schiuma delle onde). 'Non realistico' vuol dire invece cose molto diverse: può essere un giudizio negativo, oppure il riconoscimento d'una convenzione rappresentativa, quel che alcuni dicono 'rappresentazione stilizzata' e altri 'codificata'. La polemica delle avanguardie artistiche contro le convenzioni teatrali europee si è svolta quasi tutta come polemica contro il realismo. Anche gran parte dei teorici del teatro del Novecento, Stanislavskij escluso, ha avuto come bersaglio il cosiddetto attore realistico. Ma in questi casi la qualifica di realistico è a ben guardare la conseguenza d'un giudizio negativo, non ne è il motivo. Uno stesso grande attore, David Garrick o Salvini, Constant Coquelin o Henry Irving, o la più grande di tutti, Eleonora Duse, è in genere qualificato realistico da coloro che ritengono il realismo il bene dell'arte, e definito non realistico oppure stilizzato da coloro che ritengono che l'arte non possa e non debba far da specchio alla realtà effettuale. Appaia realistica o no, l'azione scenica per essere efficace e attraente dev'esser sempre ‒ rispetto all'attore ‒ reale.
L'attore agisce la finzione, non finge d'agire. Il che vuol dire che la sua azione implica un reale dispendio d'energia, precisione, attenzione, concretezza, unità del fisico e dello psichico.
Eduardo De Filippo è stato giudicato realistico, mentre è giudicato altamente codificato o stilizzato il comportamento d'un ballerino classico o d'un attore-danzatore dei teatri asiatici. Ciò nondimeno, Eduardo usava, recitando, i frutti d'un assai complesso e profondamente incorporato addestramento all'artificialità; così come l'attore-danzatore ‒ che pare tanto artificiale, stilizzato o simbolico nel suo stile ‒ compie sempre, per sé, azioni reali. Per agire la finzione, l'attore deve ricostruire, secondo criteri diversi da quelli appresi attraverso l'inculturazione, le regole del proprio muoversi, a partire dalle basi più elementari: come stare in piedi, come camminare, come respirare. In genere sono le diverse tradizioni teatrali a stabilire o suggerire questa ricostruzione del corpo in moto, sia quando si servono di regole e convenzioni definite nei dettagli e rigide (come nei teatri classici asiatici, nel balletto di matrice europea, nella pantomima o nel mimo moderno fondato da Decroux), sia quando invece trasmettono solo alcuni principi sommari, i cosiddetti segreti del mestiere che spesso l'attore impara con la pratica (come per secoli è avvenuto nella tradizione europea del teatro di prosa).
Quando osserviamo il corpo dell'attore al livello d'organizzazione primario, quello in cui reimposta le regole basilari della propria presenza fisica, le differenze fra attore e danzatore svaniscono. È per questo che nell'esemplificazione possiamo riferirci all'uno o all'altro senza pericolo di ingenerare confusione. Anzi: una delle conseguenze e insieme una delle cause dell'ignoranza che nel pensiero di matrice europea circonda i procedimenti dell'attore va individuata nella netta distinzione fra teatro e danza, che nelle altre tradizioni culturali è inesistente, sia in quelle antiche sia in quelle dei teatri classici asiatici. La danza come genere di spettacolo è qualcosa di ben diverso da ciò che chiamiamo teatro e da ciò che chiamiamo mimo; ma se intendiamo con il termine danza una categoria del comportamento, allora mimo, teatro e danza vanno visti in comune. E per unificare le diverse identità che poi si distinguono nei punti d'arrivo (distanziando gli stili, le convenzioni e anche le scelte estetiche), invece che di 'attore' potremmo parlare di 'performer'.
In ognuna delle sue forme, il comportamento extra-quotidiano del performer è basato sullo spreco dell'energia, mentre il comportamento quotidiano è basato sull'economia, e cioè sull'adeguare l'energia impiegata al lavoro da svolgere (quando questo equilibrio non c'è, nella vita quotidiana si cade nella scompostezza o nella goffaggine, ci si muove, cioè, come elefanti in un salotto).
Il surplus d'energia che invece l'attore utilizza per le sue azioni sceniche serve a dilatarne la percezione per lo spettatore. Può essere usato per sottolineare le forze muscolari e nervose messe in gioco, o per dissimularle, così come in architettura certi elementi evidenziano la dialettica di spinte e controspinte che reggono la costruzione, e altri invece danno l'impressione che le pietre si elevino, per es., nella cupola. Poiché l'attore per sollevare una sedia mobilita il suo corpo come se dovesse sollevare una cassa, o come se sollevasse una piuma, la sua azione diventa vivida, quindi credibile, 'viva'.
La gestione d'un corpo finto, in cui consiste l'arte dell'attore, può essere il risultato di una selezione, quasi di un'amputazione che lasci crescere a dismisura un solo elemento, come accade quando l'attore ‒ simile in questo a certi cantanti ‒ elabora solo l'aspetto vocale della sua arte, limitandosi per il resto a un'esecuzione di cliché, o addirittura riducendo all'inespressività il resto del corpo, quasi per non permettergli di interferire con la parola. O come accade, al contrario, quando elimina ogni parola e ogni suono ‒ come nella pantomima classica ‒ per non permettere interferenze con l'espressività del gesto. L'apparente amputazione della mimica facciale, invece, risponde a un'esigenza di riequilibrio delle gerarchie espressive. In alcuni casi, legati soprattutto alla ricerca mimica nata alla scuola di Copeau, il volto del mimo viene coperto da una maschera 'neutra', o da un velo, per impedire alle espressioni facciali di prevaricare, risucchiando tutta la funzione espressiva che invece dovrebbe essere dell'intero corpo. La cancellazione del volto è una pratica usata saltuariamente sia da Decroux sia da Jacques Lecoq. Contrasta una tendenza che è dell'attore tanto quanto dello spettatore.
Così come colui che agisce tende a esprimersi e a comunicare soprattutto con le espressioni del volto e il moto delle mani, anche lo spettatore, in base alle tecniche del corpo apprese con l'inculturazione o geneticamente trasmesse, tende a concentrare la propria attenzione sul volto e sulle mani dell'attore, come se da lì dovesse scaturire la parte più importante della comunicazione e del senso. È un principio basilare nell'economia della vita quotidiana, che il teatro tende spesso a rovesciare. Non di rado la maschera teatrale assolve la funzione di equilibrare il grado d'espressività del viso con quello dell'intero corpo. Quando la maschera è estremamente espressiva, come nel caso delle maschere del teatro classico giapponese Nō, quando essa muta espressione a seconda dell'inclinazione alla luce e per il gioco delle ombre che sottilmente la segnano, la sua è comunque l'espressività di un'opera d'arte, assai più fissa, scelta e selezionata della normale espressione del viso. È un 'viso finto' adatto al corpo finto dell'attore. Tant'è vero che nei casi in cui l'attore del teatro Nō non usa maschera, il suo volto resta assolutamente impassibile, abdicando al ruolo di principale veicolo delle emozioni. Vi è dunque una gerarchia degli organi di comunicazione ed espressione che caratterizza la vita quotidiana e che le tecniche extra-quotidiane del corpo dell'attore contraddicono.
Se nella vita quotidiana la comunicazione e l'espressione sono delegate quasi esclusivamente alla voce, all'espressione del volto, ai movimenti delle mani, per l'attore sono delegate soprattutto al tronco. Decroux diceva, per es., ai suoi allievi: "Braccia mani e gambe si lamentano, ma è il tronco che soffre!". È stato proprio Decroux a definire con precisione la necessità di questo rovesciamento delle gerarchie espressive degli organi del corpo. Il rovesciamento egli non l'ha inventato, l'ha semmai 'scoperto' e definito: appartiene a ogni tradizione d'attore, stile realistico compreso, benché quest'ultimo sembri privilegiare, come nella vita quotidiana, l'espressività e la capacità comunicativa di volto e mani. Il buon attore dello stile realistico agisce sempre innanzi tutto con il tronco, anche quando evidenzia per lo spettatore gli organi periferici. È l'attore scadente (e il cattivo spettatore suo complice) che nelle tradizioni di teatro realistico si lascia sedurre dalla prepotenza espressiva e comunicativa di mani e viso. Così come, reciprocamente, nelle tradizioni non realistiche, il cattivo attore e il cattivo spettatore si lasciano sedurre dalla meccanica virtuosistica della codificazione.
Basterà una semplice considerazione per rendersi conto di quanto sia necessario il rovesciamento della gerarchia espressiva del corpo anche per l'attore che vuole ottenere effetti di realismo: la distanza che lo allontana dagli spettatori permette a questi ultimi di cogliere le diverse espressioni del viso, ma non le loro sfumature, le minuscole nuance che distinguono le espressioni dalle smorfie. E quindi, anche quando sono le espressioni del viso ‒ necessariamente dilatate e fissate per resistere a distanza ‒ a comunicare allo spettatore i sentimenti del personaggio, sono però le nuance dell'intero corpo dell'attore a renderle vive e credibili. Ovviamente non è sempre così. Spesso non è così. Nella maggioranza dei casi, nei teatri che vanno per la maggiore, non è così. Ma sarebbe insensato cercare di comprendere quel che caratterizza l'uso del corpo da parte dell'attore e poi orientarsi sulla routine degli attori scadenti, magari con la scusa che essi sono la maggioranza.
Nel buon attore di teatro, il corpo finto è ricostruito, architettato di bel nuovo nella sua interezza. Un esempio particolarmente evidente di questa ricostruzione si ha quando il sesso dell'attore o dell'attrice non corrisponde al sesso della figura che viene rappresentata. Nel teatro Kabuki giapponese, per es., dove non agiscono attrici, alcuni attori sono specializzati in parti femminili. L'intera loro 'seconda natura' è ricostruita per la scena secondo i canoni classici della femminilità giapponese. Qualcosa di simile avveniva nel teatro classico cinese per i ruoli Tan. Il più grande attore cinese del Novecento, Mei Lanfang, che nel corso delle sue visite in Europa influenzò profondamente B. Brecht e V.E. Mejerchol'd, era specializzato nei ruoli femminili Tan.
Oggi nel teatro classico cinese agiscono sia attori sia attrici, ma la specializzazione in ruoli maschili o femminili non dipende necessariamente dalla coincidenza con il sesso naturale. Che il sesso dell'attore o dell'attrice debba di regola coincidere con quello del personaggio è una convenzione moderna europea, che non ha affatto più giustificazioni di altre. È evidente che, essendo il corpo dell'attore o dell'attrice un corpo finto, ricostruito ad arte nei criteri base del suo comportamento, tale finzione o artificio non ha necessità alcuna di legarsi alla reale natura del sesso di chi l'esercita. Nel teatro italiano del Cinque e Seicento, sia in quello di corte sia in quello delle compagnie professionistiche (la commedia dell'arte), era normale che attrici interpretassero personaggi maschili e che attori interpretassero parti femminili. Nel teatro elisabettiano, così come negli Stati della Chiesa fino a tutto il 18° secolo, le attrici erano escluse per ragioni extra-artistiche, in nome della pubblica moralità e del pudore imposto alle donne, ed erano quindi gli attori ad assumere le partiture sceniche del femminile.
Goethe vide a Roma, nel 1788, una Locandiera di Goldoni dove la protagonista era interpretata da un attore: "egli non rappresenta sé stesso, ma una terza natura estranea. E noi questa natura l'impariamo a conoscere molto meglio in quanto qualcuno l'ha studiata e osservata attentamente per noi, e ora quindi non ci dà la cosa, ma il risultato a partire dalla cosa [...]. Si ha il piacere di vedere un'imitazione ottenuta non dalla natura ma dall'arte: non una persona, ma un risultato artistico". Potremmo anche dire: non un corpo naturale, ma un corpo-opera, un corpo finto. L'espressione corpo finto non vuol dire menzognero o travestito, indica un'analisi e una ricomposizione delle tensioni e delle energie organiche, prima ancora che della forma.
Lo spreco d'energia che caratterizza il comportamento scenico non è casuale o scomposto. È articolato soprattutto tramite tre vie: la ricostruzione dell'equilibrio di base; la dilatazione del contrimpulso che connota anche i movimenti quotidiani o spontanei; l'uso delle 'finte'. La ricostruzione dell'equilibrio di base è facilmente individuabile in ogni tradizione performativa. Quale che sia la cultura o la tradizione, appena si lavora sull'organismo umano in situazione di rappresentazione organizzata si cambiano le basi del suo equilibrio.Il comportamento dell'attore-danzatore è sempre edificato su un equilibrio instabile ‒ un 'equilibrio di lusso' dice Barba ‒ che mobilita le energie e obbliga a impegnare soprattutto il tronco, sicché ogni movimento è come se si originasse nel tronco e non negli organi periferici del corpo (gambe, braccia, collo). L'alterazione dell'equilibrio di base nel balletto classico è proverbiale: fa stare sulle punte dei piedi (l'etimologia insegna: colui che cammina sulle punte in greco si dice ἀκροβάτης, da cui "acrobata".
C'è sempre un acrobata nascosto nel fondo dell'attore, come fa notare F. Ruffini). Se si consultasse il repertorio più chiaro e completo per lo studio dei comportamenti transculturali dell'attore, L'arte segreta dell'attore (1991; ed. it. 1996) di E. Barba e N. Savarese, salterebbero agli occhi le immagini di disparate architetture dell'equilibrio relative ad attori-danzatori di differenti civiltà e differenti epoche: quel che tutte hanno in comune è la messa a rischio dell'equilibrio dello stare in piedi, riducendo la superficie d'appoggio dei piedi, spostando il peso in avanti o da un lato, fermando la posizione eretta sull'orlo della caduta. Sul déséquilibre Decroux fonda l'intera arte del mimo come arte autonoma, indicandola quale matrice di tutte le specifiche arti teatrali. Gestire un equilibrio instabile è già danza.
Anche nell'attore tradizionale europeo, che produce effetti di realismo, l'equilibrio è reso instabile da spostamenti di peso che fanno della 'normale' posizione eretta il risultato di una tensione, avvertita dallo spettatore per via indiretta, quale generico 'tener teatro' ‒ come si dice in alcune parlate ‒ o 'aver presenza', e che per l'attore appartiene a uno dei più elementari rudimenti del mestiere, quasi mai oggetto di teoria, proprio per la sua ovvietà. Vi è una pagina molto bella che racconta come un attore appartenente alla 'grande tradizione' europea avesse elaborato e raffinato quel primo rudimento professionale. G. Craig ‒ uno dei massimi pensatori e artisti teatrali del Novecento ‒ pubblicò, nel 1930, un libro su Irving, il più grande attore inglese negli anni a cavallo fra Otto e Novecento: vi spiegava come lo stranissimo modo di incedere che caratterizzava la recitazione di Irving e che faceva discutere molti dei suoi critici e dei suoi biografi, altro non fosse che un'occulta danza, basata sul ritmo 'segreto' dei versi di Shakespeare. Una danza talmente assorbita nel corpo e poco esposta nello spazio, talmente miniaturizzata, da apparire un semplice camminare, seppure stranamente diverso dal comune. Alcuni spettatori credevano addirittura che fosse il modo in cui Irving camminava anche nella vita fuori scena, e non avevano neppure nozione dell'esistenza del corpo finto che è la prima opera d'artificio dell'attore. Craig stesso non avrebbe mai potuto venire a capo del problema se da giovane non avesse lavorato a lungo sotto la guida di Irving e non avesse osservato il maestro giorno dopo giorno, decifrando i suoi procedimenti.
Le tecniche pre-espressive, infatti, aderiscono talmente al corpo dell'attore che possono facilmente apparire come bizzarre doti 'naturali'. L'equilibrio instabile dell'attore non contraddice, ma dilata ciò che accade nella quotidianità: quando crediamo d'essere immobili in piedi, in realtà spostiamo il peso avanti e indietro, a destra e a sinistra: i nostri piedi premono il terreno con forza diversa. È una danza microscopica (danzata 'dentro' il corpo - e non visibile all'esterno - anche dal granatiere impietrito sull'attenti) di cui non ci accorgiamo, ma che può essere misurata e tradotta in grafici da un chinetometro. L'equilibrio di lusso, insomma, è un lusso 'organico'.
Nell'equilibrio di lusso dell'attore-danzatore, in questo dilatato e ricomposto squilibrio dinamicamente e mai definitivamente riequilibrato, mette radici la danza delle opposizioni. Consiste nell'amplificare e nel ridisegnare sistematicamente e con metodo il normale contrimpulso che precede ogni azione energica, come l'abbassarsi sulle ginocchia prima di saltare o il tirare indietro il pugno prima di proiettarlo in avanti a colpire. Sotto forme diverse (Mejerchol'd parlava di 'negare l'azione') la raffinata elaborazione di questo principio è comune a tutte le tradizioni performative e conduce a dare evidenza e vividezza alle azioni dell'attore creando tensioni, quindi differenza di potenziale, quindi mobilitazione d'energia fra la direzione dell'azione e ciò che le fa da contrappeso.
Le forze che entrano in gioco anche nella più semplice delle azioni sono così dilatate e quasi messe sotto una lente. La dilatazione può essere contenuta entro i limiti della verosimiglianza, oppure spinta fino alla danza acrobatica. È forse il caso più esplicito per comprendere come i sistemi codificati della recitazione e della danza rispondano alle leggi del movimento organico, quelle che Mejerchol'd, traendo il vocabolo dalla scienza biologica e dall'atletica, racchiuse sotto il termine biomeccanica. Il principio dell'opposizione o del contrappeso si applica a diversi livelli: un contrimpulso a destra prima d'andare a sinistra; un braccio che si sposta leggermente all'indietro quando l'altro è teso in avanti; la linea dello sguardo che va in direzione opposta a quella del corpo; il collo spinto verso l'alto, mentre il torso è curvo come se sostenesse il peso di un carico o dell'età. Il caso meno evidente e più efficace di contrappeso è forse quello che fa gioco sulla distinzione fra esterno e interno: fra la mobilitazione delle energie che occorrono per compiere un'azione e la resistenza che le trattiene al di qua dall'azione dispiegata nello spazio. Decroux parla a questo proposito del volo immobile dell'insetto contro un vetro. Nel magistero di Zeami, l'antico fondatore del teatro classico giapponese Nō, si parla di un 'movimento' che si svolge al 70% nel tempo interno e solamente al 30% nello spazio.
Attraverso questi modi d'esprimersi veniamo condotti a un'applicazione raffinata del principio dell'opposizione, spesso collegata a una tecnica della respirazione che rimodella il ritmo d'inspirazione ed espirazione. I due momenti che scandiscono il respiro nell'economia quotidiana diventano tre in quella extra-quotidiana dell'attore-danzatore: in luogo della scansione inspirare-espirare, vi è il ritmo inspirazione, apnea, espirazione.
Il bersaglio dell'azione dell'attore è sempre l'attenzione dello spettatore: l'equilibrio di lusso e la danza delle opposizioni non hanno come unico scopo la mobilitazione delle energie dell'attore e la conseguente dilatazione delle forze agli occhi degli spettatori. Essi costituiscono la base di un gioco più complesso e sottile che tende l'attenzione dello spettatore anche al livello percettivo elementare. Una serie di 'finte', di mutamenti improvvisi di direzione, di cambi di ritmo e di qualità d'energia (dall'energia morbida a quella vigorosa dell'azione vi è tutta una gamma di sfumature), ricama l'azione dell'attore secondo principi analoghi nelle diverse tradizioni. Il fine di questo complesso lavorio in filigrana (che spesso ‒ occorre ripeterlo ‒ rimane impercettibile benché attivo sotto l'epidermide della partitura scenica) non è un gioco per meravigliare lo spettatore, ma una strategia per evitare quel che rende lassa e morta l'azione: la sua prevedibilità. Prevedibilità in senso letterale: quella per cui chi osserva vede già da prima, con gli occhi della mente, il senso in cui l'azione sta per indirizzarsi. Il principio transculturale che determina il comportamento extra-quotidiano dell'attore potrebbe esser formulato così: il disegno del gesto (o del movimento o dell'azione) dev'essere tale che ogni suo segmento non lasci prevedere l'energia e la direzione in cui si svilupperà il successivo.
Tutto questo ha un duplice effetto: cinestetico e cenestesico. Intesse un fitto dialogo tacito e inavvertito con l'attenzione dello spettatore, gioca con essa (nel senso multiplo del francese jouer o dell'inglese to play), la dribbla, si rivolge oltre che allo sguardo e all'udito anche al senso cinestetico dello spettatore, alla percezione muscolare e nervosa che l'osservatore ha del movimento altrui. Ma ha anche conseguenze per l'attore, plasma la sua cenestesi, la percezione fisica che ciascuno ha di sé, la percezione interna del proprio esserci materialmente. Quest'effetto collaterale, per cui l'attore è anche colui che dall'interno assapora la propria azione, può essere coscientemente elaborato e trasformato in un fine. Le tecniche dell'attore, cioè, possono essere usate come via per una disciplina di sé, per ottenere una dilatazione della percezione e magari della coscienza. Da ciò l'apparente paradosso per cui le tecniche dell'attore possono essere senza fine di spettacolo, che in fondo è però un paradosso non più paradossale delle arti marziali apprese senza fine di sangue. E infatti, non diversamente da quanto è avvenuto nei secoli scorsi per le arti marziali che da tecniche d'assalto e di difesa si sono in più d'un caso trasformate in tecniche per la disciplina personale, anche le tecniche dell'attore possono essere dirottate verso la persona che le esercita piuttosto che verso i propri bersagli esterni.
È il percorso che nel teatro occidentale del Novecento caratterizza soprattutto l'avventura artistica e spirituale di Grotowski, ma che ha avuto molta importanza anche per altri, soprattutto Stanislavskij, Artaud e Decroux.
Le tecniche dell'attore sono innanzi tutto tecniche dell'azione fisica, sia quelle transculturali o di base, che nell'antropologia teatrale vengono chiamate pre-espressive, sia quelle espressive da cui dipendono i livelli d'organizzazione più propriamente artistici e intellettuali. È proprio quanto è stato dimenticato nel dibattito europeo sull'attore, monopolizzato da un lato dal paradigma dell'arte figurativa con i suoi codici, dall'altro dalla questione del sentire: se l'attore senta o no le passioni o le emozioni che rappresenta. Da qui le discussioni, spesso interessanti per i loro addentellati, ma futili nel fondo, fra i fautori dell'immedesimazione dell'attore nel personaggio e i fautori dell'opposta immagine d'un artista che dall'esterno freddamente compone le proprie figure senza lasciarsi contagiare da sentimento alcuno. Dibattito diffuso nel Settecento, che ebbe nel Paradosso sull'attore di Diderot, rimasto a lungo manoscritto, il suo capolavoro. 'Paradosso' perché in esso il filosofo sosteneva brillantemente la tesi dell'assoluta insensibilità degli attori e delle attrici di genio, condizione necessaria ‒ egli diceva ‒ per la rappresentazione delle più disparate passioni e dei più contrastanti moti dell'animo.
La centralità di questo dibattito non deriva affatto dalla sua rilevanza per l'attore, ma dall'essere l'attore un importante esempio per il filosofo curioso di capire in che modo il fisico s'innesti nel mentale e viceversa, in che modo s'intreccino e s'influenzino il somatico e lo psichico. Poiché l'attore esercita per mestiere tali intrecci e ne è un esperto pratico, pare un caso particolarmente interessante da studiare. E per un normale paralogismo, le ragioni che rendono l'attore un caso sperimentalmente interessante per il filosofo si rovesciano poi in una filosofia dell'attore, come se fossero un punto centrale per l'arte. Similmente, il povero cane di Pavlov avrebbe potuto credere che l'eccellenza della sua specie fosse la saliva presaga. La domanda sull'immedesimazione o meno dell'attore non è né centrale, né interessante sperimentalmente, né può dar luogo a risposte sensate sul mestiere e sull'arte. Riguarda una zona dell'esperienza dove è difficile o impossibile distinguere fra il sintomo e la sua causa, dove le differenze più grosse fra le diverse posizioni spesso altro non sono che diversi e opposti modi di formulare esperienze analoghe, e dove, soprattutto, è pressoché impossibile intervenire efficacemente traducendo l'analisi in procedimento artistico cosciente.
All'abbaglio ha contribuito, nel Novecento, il trionfo delle scienze psicologiche e della psicoanalisi, sicché ‒ soprattutto negli Stati Uniti e in relazione alle esigenze dell'industria cinematografica ‒ l'arte dell'attore è sembrata consistere nella capacità di saper rivivere a comando emozioni e sensazioni 'sincere'.
Di qui, un miscuglio di psicologia, di personalismi, di pseudoscienze e pseudocoscienze su cui è stato impresso a contraggenio il nome prestigioso di Stanislavskij. Egli non ha molto a che vedere con lo 'stanislavskismo' vulgato. La sua opera d'artista e di scienziato s'è svolta in tutt'altro campo, che è quello della 'credibilità' dell'attore ‒ non necessariamente della sua verosimiglianza ‒ ma della credibilità in quanto portatore d'azioni che appaiono a chi le osserva motivate e precisamente dirette o intenzionate.
Benché meno rigoglioso, anche il paradigma figurativo ha contribuito a rendere traballante e scomposta la conoscenza dell'attore. Ha posto l'accento sulla comunicazione dei segni creati dall'attore, sulle pose sceniche come ideogrammi più o meno mimetici d'una lingua muta. Ma questa è la zona periferica ‒ spesso tautologica ‒ del teatro. Il rapporto dell'attore con lo spettatore dev'esser invece considerato sia come rappresentazione di un'azione, sia come azione diretta sulla mente, sui nervi, sul fisico di chi assiste. E il lavoro dell'attore, che nelle fasi preliminari del processo creativo si serve spesso della riproduzione di pose tratte dalle opere di pittura e di scultura, quando giunge a maturità e si trasforma in azione ha a che vedere più con la musica che con l'arte figurativa: è tempo-ritmo, danza delle energie, non composizione di pose.
Il corpo è sempre corpo-mente e l'azione fisica è sempre psicofisica: incarna e suscita in chi la compie moti mentali, altrimenti è meccanica e morta, non 'credibile'. In questo senso, a voler restare rigorosamente all'interno delle esperienze e del pensiero di Stanislavskij, ha semmai a che vedere più con la meditazione attiva che con l'immedesimazione.Il problema dei problemi, per l'attore di teatro, è possedere una partitura. Egli deve aver premeditato il modo in cui agirà in scena, come sarà fisicamente presente. E se improvvisa, deve poter improvvisare componendo, intrecciando e variando elementi d'una lingua scenica ben incorporata. Mentre l'improvvisazione musicale ‒ l'atto di comporre eseguendo ‒ non sarebbe neppure pensabile nell'ignoranza dello strumento o di una di quelle lingue artificiali in cui consistono le diverse tradizioni musicali, l'improvvisazione dell'attore viene spesso vanamente intesa come abbandono alla spontaneità, all'estro del momento. E poiché l'attore, a differenza degli altri artisti, fa opera d'arte di persona, è piuttosto facile che si illuda di aver già l'essenziale ‒ la propria persona, appunto ‒ e poco da imparare, oltre alla sensibilità, all'intelligenza, alla conoscenza della gestualità della normale vita quotidiana, e a molta pratica.
Nel cinema può esser proprio così: l'attore può persino venire ‒ come si dice ‒ 'dalla strada', purché sia fotogenico. Deve recitare una volta per tutte e il regista sceglie fra le diverse prove la migliore. Inoltre è la ripresa, lo sguardo della 'camera', a creare la partitura artificiale che modella l'attenzione dello spettatore. L'attore di teatro al contrario non è riprodotto, dev'essere capace di ripetere ‒ tendenzialmente sempre allo stesso grado di bravura ‒ lo stesso pezzo o la stessa parte ogni giorno, all'ora in cui la sua professione lo richiede. E dovrebbe esser lui il maestro dello sguardo dello spettatore. Ecco perché ha bisogno d'una partitura. In altre parole: il suo comportamento deve essere fissato in una forma, un preciso disegno dell'azione fisica o vocale che egli possa ripercorre ogni volta non diversamente da come un danzatore ripercorre la forma della sua danza.
Ma il problema dell'attore non è solo possedere la partitura della propria azione: è anche quello di non esserne posseduto. A questo scopo alcuni attori fanno ricorso a sottopartiture. È il punto in cui il lavoro fisico e il lavoro mentale dell'attore si connettono inestricabilmente. Un esempio tipico di sottopartitura è ciò che Stanislavskij chiamava 'sottotesto', cioè una precisa tessitura di motivazioni, avvenimenti, pensieri, esperienze del passato che l'attore attribuisce al proprio personaggio e tramite i quali si spiega ‒ per dettagliarla e vivificarla ‒ la catena delle azioni e delle battute del personaggio. Questo tipo di sottotesto non è oggetto di rappresentazione: non è una connotazione del risultato, del personaggio raffigurato dall'attore, ma una tecnica del processo creativo. Non è qualcosa che debba essere mostrato o spiegato. Poiché siamo in una zona tecnica molto sottile, è facile che vi si verifichino sovrapposizioni e confusioni: si può parlare di sottotesto anche per indicare ciò che il personaggio sottintende o non dice, come, per es., lo stupro a cui pensa don Giovanni mentre parla d'amor fino alla sua vittima. In questo caso è una nozione che riguarda la critica del testo, più che la tecnica dell'attore. È il sottotesto del personaggio. Vi sono anche sottotesti del regista, sottotesti del drammaturgo ecc., ed è facile far confusione. Il sottotesto dell'attore non è che uno dei possibili esempi di sottopartitura.
Ma la sottopartitura non ha necessariamente carattere narrativo e non è necessariamente in relazione diretta con il testo rappresentato. Il corpo finto, per es., può esser tale che per dominarne l'architettura l'attore debba fingere a sé stesso una fisica fantastica, come se particolari parti del corpo fossero sottoposte a precise pressioni o trazioni, o come se per muoversi dovesse fendere non l'aria, ma l'acqua, o un'atmosfera di sabbia o di pietra. È l'esempio forse più elementare di sottopartitura, strettamente fisica, priva d'ogni riferimento al senso della storia rappresentata, e tuttavia efficace per sottoporre al controllo d'una forma artistica anche l'universo interiore dell'attore. La sottopartitura può essere anche un ritmo o una musica cui l'attore s'accorda fra sé e sé, oppure un episodio, una 'storia', una situazione, che tiene segreta e sulla quale calibra la propria partitura visibile, senza che la differenza fra l'una e l'altra determini problema alcuno. Il valore della sottopartitura, infatti, non sta nel raffinare l'interpretazione, ma piuttosto nel darle vita e credibilità agli occhi dello spettatore.
Sottopartitura non vuol dire 'ciò che sta sotto la partitura', ma 'quella partitura che sta sotto'. L'accento, insomma, va posto sul termine partitura. Altrimenti sarebbe niente e tutto. Non c'è bisogno d'un termine specifico per dire l'ovvietà secondo cui al di sotto della partitura c'è comunque un brulicare di pensieri, immagini ed emozioni.
È evidente, infatti, che mentre l'attore esegue in scena la propria azione ben definita la sua attività mentale ed emotiva non si blocca. Associazioni di idee, fantasie, preoccupazioni, interferenze, ricordi scorreranno come di consueto nel suo foro interiore, né più né meno di come accade nella vita quotidiana, forse in maniera più intensa, o più incantata, in uno spazio di quiete, come normalmente accade quando si compiono azioni ben conosciute, ripetute tanto da non richiedere eccessiva immaginazione nell'eseguirle. Può darsi che questa normale dissociazione fra il flusso dei pensieri e delle immagini interiori e il flusso delle azioni nuoccia alla credibilità e all'efficacia dell'attore, il quale può darsi che assuma, con tanto maggior rischio quanto maggiore è la sua maestria, l'aspetto automatico dell'uomo che agisce ripetendo, e sa già quel che farà fra un istante: un'azione magari imprevedibile per lo spettatore, ma che egli ‒ l'attore ‒ si vede bene che prevede. Quand'è così sembra telecomandato ed eterodiretto dalla precisione stessa della sua partitura. La sottopartitura gli serve, in questo caso, non per avere associazioni di pensiero ‒ che sarebbe impossibile non avere, e in gran quantità, come in ogni istante della vita ‒ ma per bloccare le associazioni di pensiero, in modo da negare la normale dissociazione del flusso mentale dall'azione ripetuta.
Per alcuni attori la sottopartitura è un mezzo per obbligare il proprio pensiero a non svolgere la sua normale attività di previsione. Oppure serve loro a personalizzare la partitura, visto che questa ‒ anche quando è nata dalla creazione o dall'improvvisazione personale ‒ diventa poi un disegno dell'azione con caratteri oggettivi, una coreografia che può esser trasmessa ad altri ed eseguita da altri in maniera esteriormente identica. E poiché non appartiene all'attore più di quanto il canto non appartenga al cantante, il problema dell'attore diventa prima possederla, poi non esserne posseduto. Questo significa, dopo averla dettagliatamente e rigorosamente costruita, contrastarne il rigore senza disperderne la forma. Da questo punto di vista, la sottopartitura sembra utile più nel processo di preparazione che nello spettacolo, più come spazio cui l'attore può far ricorso ogni volta che la sua azione a forza di ripeterla si intorbidisca, che come strumento della recita in atto. Qui l'attenzione al contesto è sufficiente per immettere l'aleatorio nella struttura fissa della partitura. Alcuni grandi attori e attrici ‒ prima fra tutti la Duse ‒ utilizzavano un'estrema concentrazione sulle microreazioni dei colleghi in scena, lavorando non tanto con il partner, quanto su di lui, e cioè servendosene come d'uno stimolo per reazioni e microreazioni non prevedute.
H. Weigel lo testimonia: "In un'esecuzione teatrale ben fatta e ben preparata, dove anche il partner domina i dettagli, comincia qualcosa di completamente nuovo: propriamente un'improvvisazione all'interno della battuta, anzi: della parola. Nel rispondere in modo acconcio alle sfumatissime variazioni di tonalità del partner, si può costruire una battuta rendendola perfettamente viva e quasi nuova, senza con questo spostare e cancellare qualcosa nell'insieme dell'esecuzione". Aggiungeva inoltre: "Ma questa libertà si ha solo dopo moltissime rappresentazioni" (Theaterarbeit 1961, trad. it., p. 357).
Benché il paragone appaia incongruo, il rapporto con il partner in scena è in tal caso sostanzialmente corrispondente a quello che lega l'attore-danzatore, in certi teatri classici asiatici, al tamburo. Qualcosa di simile era quel che i tecnici di teatro francesi riconoscevano come il 'segreto' degli attori italiani, la cui naturalezza, dicevano, dipendeva dalla necessità di fondare il proprio ritmo sulle microreazioni dei partner dei quali non conoscevano in anticipo la partitura verbale e vocale. Questo che sembra solo un problema collaterale è invece la via che conduce alla comprensione di come concretamente funzioni, nel lavoro dell'attore, l'intreccio di fisico e mentale, di 'anima' e 'corpo', se si vogliono usare parole forse troppo tradizionali o forse troppo chiare. Qui il discorso non può fare a meno di ingarbugliarsi, ma se non si accennasse a come anche questi intrecci possano entrare a far parte d'un corpo-mente finto, cioè rifatto ad arte, tutto il resto si perderebbe nel meccanicismo d'un attore vuoto.
L'intreccio di fisico e mentale, di partitura esterna e partitura interna in pratica significa il rapporto fra premeditazione e improvvisazione, fra la precisione dei dettagli premeditati fissati nella partitura e ‒ perciò tanto più forte ‒ la presenza del caso, dell'imprevisto.
È vero che il discorso non può fare a meno di ingarbugliarsi, non prima però d'aver toccato un altro punto certo: che quel crinale, vago e confuso a parole, in cui il somatico s'incontra con il mentale, in cui la rigida, ben disegnata precisione dell'azione fisica si muta in improvvisazione, in cui alla mente che agisce si intreccia la mente che comanda, osserva e si sorprende, non è un sovrappiù ideale, ma la concretezza del mestiere dell'attore, la materia della sua arte. Campo praticabile, ma difficilmente descrivibile, al quale le diverse tecniche e i diversi accorgimenti mirano nell'unico modo possibile: per via indiretta. Contrapporre, sia pure a parole, il fisico e il mentale è a questo punto quanto mai inopportuno: l'espressione 'uso del corpo' mostra tutta la sua convenzionale approssimazione mentre con altrettanta verità e altrettanta approssimazione, si potrebbe parlare d'un uso della mente da parte del corpo. In questo territorio sottile dell'arte dell'attore, quello in cui si condensa tutto il valore, e dal quale dipende il senso sia per chi agisce sia per chi guarda, non ci si può addentrare con il linguaggio della tecnica. Prevalgono le immagini. La stessa unità della mente appare nozione grossolana non più funzionale al discorso.
Ciò verso cui l'attore si dirige è in realtà una dialettica fra i due poli della coscienza di sé, quelli che alcuni rappresentano con l'immagine dei due uccelli, l'uno che becchetta il grano, l'altro che dal ramo lo contempla, il primo passivo, il secondo attivo (qui sta il punto, in realtà, più ancora che nel legame fra i due). Probabilmente l'immagine migliore ‒ la meno carica di illusoria precisione e la più semplice ‒ sta nelle parole di Ryszard Cieslak, che assieme alla Duse rappresenta uno dei vertici dell'arte dell'attore nel 20° secolo. Cieslak fu soprattutto l'attore d'uno spettacolo composto da Grotowski, Il Principe costante (1965). È di questa sua opera che sta parlando: "La partitura è come un bicchiere dentro il quale c'è una candela accesa. Il vetro è solido, è sempre lì, puoi farci affidamento. Contiene e guida la fiamma. Ma non è la fiamma. La fiamma è il mio processo interiore, ogni sera. La fiamma è ciò che illumina la partitura, ciò che lo spettatore vede attraverso la partitura. La fiamma è viva. Così come la fiamma dietro il vetro si muove, fluttua, cresce, si abbassa, sta per spegnersi, all'improvviso brilla con forza, reagisce a ogni alito di vento, anche la mia vita interiore varia di sera in sera, di momento in momento. Ogni sera comincio senza anticipare nulla. Questa è la cosa più difficile da imparare. Non mi preparo a provare nulla. Non mi dico "la volta scorsa questa scena era straordinaria, proverò a rifarla". Voglio soltanto essere pronto per ciò che potrà accadere. E mi sento pronto a cogliere quel che potrà accadere se mi sento sicuro nella mia partitura, se so che anche quando non sento quasi niente, il vetro non si romperà, che la struttura obiettiva, lavorata per mesi, mi aiuterà. Ma quando viene la volta che posso ardere, brillare, vivere, rivelare ‒ allora sono pronto perché non ho anticipato. La partitura rimane la stessa, ma ogni cosa è diversa, perché io sono diverso" (da Barba 1993, p. 196).
Eleonora Duse fu attrice di repertorio, volutamente ristretto, ma pur sempre vastissimo se paragonato a quello di Cieslak. Fu alla sommità del sistema teatrale del suo tempo. Cieslak fu agli avamposti, alla frontiera fra spettacolo e non spettacolo. La Duse fu talmente famosa che il suo nome è divenuto quasi un simbolo. Cieslak è stato per molti un luminoso punto di riferimento, ma resta lontano e quasi invisibile per il teatro ufficiale. La differenza fra questi due vertici dell'arte dell'attore nel Novecento sintetizza il profondo mutamento della natura del teatro nel passaggio fra la prima e la seconda metà del secolo. Ma sia la Duse sia Cieslak testimoniano come gli apici dell'arte dell'attore coincidano con una strategia personale che ha a che fare con la presenza e l'ubiquità, con la capacità d'essere integralmente presenti nell'azione e d'esserne fuori (Schino 1992). E meraviglia che quando da punti di vista extra-teatrali si guarda all'arte dell'attore per trarne indicazioni utili non all'arte ma alla vita, si continui a praticare l'ovvia metafora del dualismo, dell'individuo intimo distinto dal personaggio o dal ruolo che egli 'recita' in società, e non si usi il ben più ricco triangolo che l'attore sperimenta nella concretezza del mestiere, in cui oltre all'esteriorità e all'interiorità del personaggio o della partitura di azioni fisiche, c'è poi qualcuno o qualcosa che le osserva da distanza e in posizione d'attesa. E forse per questo le muove.
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