Attore
L'attore teatrale
A causa delle numerose e profonde trasformazioni avvenute nel mondo dello spettacolo durante il 20° sec., non è più possibile, o è comunque fortemente riduttivo, pensare all'a. come a un individuo che interpreta un personaggio, ovvero incarna in sé un altro essere creato dalla fantasia letteraria di un autore. È vero che una buona parte dell'attività teatrale ricorre ancora a quei canoni di interpretazione che intendono rendere umanamente verosimile il soggetto che appare in scena. Ma va anche notato che questo tipo di realismo psicologico-descrittivo è divenuto il segno portante della recitazione cinematografica e televisiva, giacché è al grande e al piccolo schermo che viene assegnato il compito di riprodurre la realtà in maniera mimetica, facendo ancora leva sul bisogno di immedesimazione degli spettatori.
Nel teatro invece, proprio perché alla scena è stato strappato il privilegio di essere l'unica riproduzione verosimile della realtà, l'intera funzione della rappresentazione si è trasformata e, di conseguenza, anche l'a. ha cambiato pelle, rinunciando, appunto, a essere soltanto la duplicazione di qualcun altro. A tale risultato avranno certamente contribuito le teorie sullo 'straniamento' di B. Brecht (1898-1956), o quelle su una maggiore astrazione del movimento, come nella 'biomeccanica' di V.E. Mejerchol´d (1874-1940), direttrici di pensiero che in effetti hanno influenzato in maniera decisiva tutto il teatro dai primi del Novecento del 20° secolo. Ma la lezione brechtiana, molto viva in tanto teatro politico dagli anni Sessanta in poi, appare piuttosto marginale, mentre le teorie mejercholdiane hanno avuto pochi seguaci per la loro arditezza sperimentale. Non vi è dubbio, dunque, che le riflessioni di questi due grandi artefici teatrali siano entrate nella visione generale dello spettacolo e della recitazione, ma le più attuali linee di approccio al personaggio appaiono molto più composite e strutturate.
Per capire quali siano i livelli di riflessione più alta intorno alla funzione e alla figura dell'a. bisogna tornare in Russia e nei Paesi dell'ex Unione Sovietica, non dimenticando di osservare la situazione in molte regioni d'Europa (mentre quella in Italia presenta alcune peculiari limitazioni). Proprio laddove il lavoro di K.S. Stanislavskij (1863-1938) è nato, l'attenzione teorica si è rivolta sul finire del 20° sec. al pensiero elaborato dal maestro russo nell'ultimo periodo della sua attività. Grazie a queste riflessioni si esce dalla semplice ricerca di una riproduzione quanto più veritiera possibile dell'interiorità di un personaggio dato, e si tenta invece di osservare in dettaglio il gesto, le cause e le conseguenze di certi atteggiamenti fisici o di certe dinamiche del movimento legate a determinati stati d'animo. Un esempio tra i più convincenti di questa nuova via interpretativa è offerto dalla compagnia Meno Fortas del teatro statale della gioventù di Vilnius diretta dal lituano E. Nekrosius (n. 1952), regista assai noto anche nel nostro Paese, dove ha prodotto alcuni spettacoli con attori italiani. Continuando a lavorare su A.P. Čechov (1860-1904), già terreno di esercizio di Stanislavskij, o su opere letterarie del suo Paese, ma avvicinandosi anche a testi shakespeariani, il regista lituano abbandona qualsiasi tentativo di riproduzione realistica della situazione scenica, resa estremamente essenziale nei suoi valori formali, e altrettanto fa con il gesto, cercando appunto una relazione meno ovvia tra il movimento e l'emozione messa in gioco da un particolare momento dello spettacolo.
Non meno significativa è l'attività di alcuni grandi registi russi o operanti in Russia come L.A. Dodin (n. 1944), A.A. Vasil´ev (n. 1942), K. Ginkas (n. 1941), P. Fomenko (n. 1932), tutti eredi diretti degli allievi di Stanislavskij, spesso a capo di compagnie composte da giovani. Nel lavoro di questi maestri il problema tanto dibattuto della inconciliabilità di una narrazione attenta alla realtà interiore dell'individuo con linee più astratte di creazione fisica ed espressiva appare completamente superato. Si nota quindi una più decisa libertà creativa dell'interprete, che punta preferibilmente alla realizzazione di una calligrafia fantastica attraverso la quale restituire linee di pensiero, situazioni, correnti emotive: e tutto ciò accennando più che descrivendo, lasciando in sospeso più che chiarendo, spostando tutto su livelli meno facilmente decodificabili attraverso il linguaggio di una gestualità quotidiana. Così è anche per le migliori formazioni del teatro tedesco, come quelle guidate dai giovani registi Th. Ostermeier (n. 1968) e M. Thalheimer (n. 1965), per il lavoro intrapreso dallo svizzero Ch. Marthaler (n. 1952) o per quello dell'ungherese A. Schilling (n. 1974). E non è un caso che si citi il lavoro di gruppo di compagini attoriali, individuandole con il nome dei loro direttori. Il teatro di inizio millennio resta soprattutto teatro di regia e la figura carismatica del grande a. appare definitivamente tramontata. Se dunque si vogliono osservare le nuove linee evolutive della recitazione bisogna andarle a trovare nel lavoro collettivo di gruppi di straordinaria levatura, di impeccabile preparazione tecnica e di solido affiatamento.
Tuttavia, per capire quanta strada abbia fatto la figura dell'a., bisogna allontanarsi ancora di più dall'idea di un teatro legato a una drammaturgia ben precisa. La figura dell'a. ha dovuto affrontare ardui sconfinamenti, recuperando memorie che apparivano dimenticate e acquisendo saperi provenienti da territori lontani. Quanto evidenziato in questo senso è il risultato di quell'onda lunga di rivitalizzazione dell'idea di teatro che parte dalla fine degli anni Sessanta del 20° secolo. Proprio la perdita della tradizionale funzione mimetica, vanificata da mezzi più capaci di assolvere a questo compito, unita alla necessità di fare del teatro un luogo di riflessione politica e intellettuale, ha fatto riconquistare alla scena un suo spazio di sacralità, marcando il confine di un territorio lontano dalla verosimiglianza dove fosse possibile giocare idee, concetti, ipotesi, pensieri. A partire da quegli anni l'a. ha riscoperto una sfera più elevata di espressione, che lo riporta alla radice stessa dell'atto teatrale. L'operare di alcuni gruppi storici della ricerca e l'ampio panorama di studi messi in moto da certa avanguardia hanno fatto sì che l'a. riscoprisse il suo ruolo magico, avvicinandosi al teatro orientale dove l'interprete riveste una funzione sacerdotale, diviene colui che può comunicare con uno spazio altro, spesso entrando in contatto con la sfera divina.
Su un fronte opposto gli antichi saperi della commedia dell'arte hanno fatto recuperare all'a. fisicità e ruoli che affondano le loro radici in un bisogno comunicativo che abbia una risonanza immediata nel pubblico, rispolverando così alcune linee espresse dalle avanguardie storiche. Dunque, sotto la definizione di a. si raccolgono profili diversi: dopo l'iperbole espressiva di C. Bene (1937-2002) o di L. De Berardinis (n. 1940), dopo l'essenzialità degli interpreti guidati da P. Brook (n. 1925), o le trascendenze ascetiche di J. Grotowski (1933-1999), dopo le intersezioni etniche di E. Barba (n. 1936), dopo i fantocci umani e gli uomini fantoccio di T. Kantor (1915-1990), chiunque voglia affrontare la scena può intraprendere una sua strada, solitaria o in compagnia, e cercare fra le mille direttrici tracciate dalla fine degli anni Settanta quella che gli è più congeniale. Tanto che il verbo 'recitare' sembra appartenere a un polveroso vocabolario ormai in disuso.
Resta un dato di fondo: il teatro si fa per il pubblico, ed è comunque la platea a stabilire l'efficacia comunicativa del discorso culturale e intellettuale tentato dall'attore. E proprio perché tutto appare possibile, tanto più forte si sente il bisogno di un termine che serva a stabilire un confine, seppur labile e opinabile, dell'efficacia del lavoro di chi sale in palcoscenico. Il termine necessità indica la ricerca di una rispondenza, che sia estetica o ideologica, formale o di contenuto, tra l'artefice dello spettacolo o della performance e il mondo nel quale egli si trova ad agire. Questa 'necessità' passa forse per alcune qualità che venivano ascritte ai grandi interpreti dell'Ottocento e che ancora sembrano indicare la presenza in scena di una personalità particolare. Appare dunque evidente che l'a. vive della sua energia, della capacità di concentrare la sua tensione comunicativa e di renderla attraverso i suoi mezzi fisici e vocali, così che gesti, suoni, parole, azioni, seppur diversi da quelli della nostra quotidianità, tornino poi a risuonare con quelli che compongono la nostra vita. È utile ricordare in tal senso quanto pesi, nella concezione odierna della scena, l'idea di quel salto nella follia, di quell'attrazione per spazi oscuri e insondati, espressa con forza da A. Artaud (1896-1948), che fa comunque dell'a. un essere al di fuori del comune, capace di trasmettere un senso diverso, lontano da quello ordinario.
Se dunque la presenza dell'a. sembra porsi esattamente a metà strada fra il ruolo politico e la funzione sacerdotale, a questo profilo l'a. contemporaneo ha aggiunto tratti ulteriori, costretto anche a confrontarsi con altri mezzi. Proprio perché calato in un'epoca di mediazioni tecnologiche l'a. teatrale è il fulcro di complesse operazioni sceniche create in funzione dell'uso di diversi linguaggi audiovisivi. La necessità di un confronto con l'universo mediatico predominante fuori dalla scena ha fatto sì che, anche in teatro, la creatività cercasse di misurarsi con una dimensione tecnologica. Spesso, in questi casi, l'a. torna a essere una sorta di 'supermarionetta' inserita in un gioco meccanico complesso e articolato, elemento di una visionarietà fantastica resa possibile dall'uso delle nuove tecnologie. Vale l'esempio della ricerca figurativa, affermatasi negli anni Settanta, di R. Wilson (n. 1941) e di tutta quella che può essere considerata una tradizione di 'teatro immagine', dove, comunque, la presenza della figura umana non è ridotta a semplice elemento visivo. Questo tipo di ricerca ha conosciuto dalla fine degli anni Ottanta del 20° sec. uno straordinario sviluppo tecnico ed espressivo. In gioco, con i video, le telecamere in presa diretta, i microfoni e le sofisticate apparecchiature sonore, vengono messe tutte le possibilità di movimento del corpo, avvicinando il lavoro dell'a. a quello del danzatore o del mimo, ma mantenendone la funzione recitativa o aggiungendovi la modalità espressiva del canto. Basti pensare agli spettacoli diretti da alcuni registi stranieri, in cui, anche se meno strutturata e fondamentale appare la componente verbale e recitativa, molto di più si evidenzia la complessità dell'agire sul palcoscenico. Del resto il cosiddetto teatro danza, soprattutto nell'esperienza di P. Bausch (n. 1940), è stato un laboratorio di punta della contaminazione fra discipline diverse, e persino il circo ha cercato una strada di rinnovamento, rinunciando alle esibizioni di animali e contaminando il lavoro acrobatico con nuove linee drammaturgiche e con costruzioni registiche: alludiamo a quel fenomeno di altissima vivacità creativa nato e cresciuto in terra di Francia che ha preso il nome di nouveau cirque e ha impresso una svolta tutta teatrale e densa di significati a un'arte evasiva e calligrafica per eccellenza, creando, così, nuove categorie di interpreti.
In Italia si è più volte sostenuto che il prevalere del teatro di regia abbia schiacciato l'emergere di nuovi talenti attoriali. La questione posta in questi termini appare riduttiva. Certo è vero che la recente storia del teatro nel nostro Paese è stata marcata soprattutto da figure registiche, anche nell'ambito del giovane teatro e della ricerca, così com'è vero che si è assistito a una profonda crisi delle scuole di recitazione che non hanno saputo cogliere le nuove linee del cambiamento e non hanno saputo ridefinire il proprio profilo, com'è accaduto invece all'estero. Ma vero è che, comunque, le nostre scene possono contare su un certo numero di a. di solida preparazione, di grande cultura e di notevoli capacità creative e interpretative. E su un territorio di rinnovamento e di attenzione alle strutture letterarie e linguistiche del testo va citato il lavoro di S. Lombardi (n. 1951), soprattutto quello su alcune opere di G. Testori (1923-1993). Così come vanno ricordati U. Orsini, M. De Francovich, R. Herlitzka, M. Melato, A.M. Guarnieri, P. Degli Espositi.
Bisogna, però, fare i conti con l'emergere di una diversa presenza scenica, non più misurabile attraverso le categorie del rigore della formazione o della preparazione tecnica. Un certo tipo di ricerca ha tentato di portare il teatro fuori dal teatro, dando spazio a figure non provenienti dall'ambito professionale, o mescolando a. di derivazione accademica con uomini e donne che vivono la realtà della reclusione carceraria, con portatori di handicap, con immigrati, con ragazzi delle nostre periferie o bambini poveri di altri continenti; tali esperienze, andando oltre la sola necessità laboratoriale e integrativa, hanno ribaltato l'idea che sia il teatro a far bene a soggetti abitualmente lontani dalle attività artistiche, dimostrando anzi come sia proprio la presenza di figure provenienti da ambiti umani segnati da una maggiore difficoltà dell'esistere ad arricchire il teatro, con una creazione meno formalizzata e quindi più efficace sul piano espressivo.
Ultima e più indicativa trasfigurazione dell'a. è quella del narratore, diffusasi in breve tempo e con larghissimo successo. In questo caso l'interprete è anche autore del testo, ma la scrittura stessa che presiede allo spettacolo è frutto di una ricerca personale e di un successivo lavoro drammaturgico. È un teatro che spesso pesca in memorie storiche, andando a riaprire ferite del nostro passato prossimo, e in molti casi a questo lavoro documentario si uniscono elementi che hanno direttamente a che fare con la vita di chi sulla scena si esibisce. Il caso più noto è quello di A. Celestini (n. 1972), che ha raccontato la realtà delle fabbriche italiane della seconda metà del 20° sec. o episodi di vita romana alla fine della Seconda guerra mondiale, rimontati a partire dalle voci raccolte nel suo stesso ambito familiare: narrazioni stimolanti non solo per la capacità di scrittura scenica, ma anche per la sapienza di una creazione nata direttamente dalla propria esperienza e trascritta poi sul proprio corpo, mettendo in mostra soltanto sé stessi. La strada è stata aperta dalle esperienze di M. Paolini (n. 1956), di L. Curino (n. 1956) e G. Vacis (n. 1955), di M. Baliani (n. 1950), e conta una vasta schiera di giovani seguaci. Il successo decretato a questi a., soli in scena con la loro parola e con la traccia di una storia da raccontare, mostra quanto sia sentito il bisogno di un teatro che riscopra la sua funzione più immediata e diretta, quella di una riflessione compiuta davanti a una collettività disposta a farsi coinvolgere in una ricerca di senso.
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