Attori e tempo rituale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I riti pubblici non sono affidati esclusivamente ai sacerdoti, ma anche ai magistrati cioè generalmente ai cittadini che occupano un posto importante nella gerarchia sociale. Donne e bambini svolgono però anch’essi un ruolo importante, anche se di secondo piano, nella religione pubblica. Nella religione domestica è il capofamiglia che ha il compito di assicurare l’esecuzione dei riti. Durante i giorni di festa, cioè i giorni riservati al culto degli dèi, i cittadini sono tenuti a non compiere attività lavorative se non vogliono incorrere in uno stato d’impurità.
A Roma come in Grecia ogni cittadino ricopre anche funzioni religiose. Il capofamiglia (pater familias), i membri di una corporazione, i magistrati: tutti costoro possono eseguire un sacrificio o altre pratiche di culto. L’esecuzione dei riti non è infatti riservata ai sacerdotes, che per la maggior parte sono degli “esperti” della legislatura religiosa. I veri protagonisti dei culti sono i cittadini romani. Generalmente, è colui che ha la carica politica più importante in una comunità a compiere il rito, dunque un magistrato, il capo di una congregazione, l’imperatore ecc. Questi fa da intermediario tra la comunità che rappresenta e gli dèi. Le donne non hanno un ruolo di primo piano né nella religione pubblica né in quella privata, anche se alcuni riti esclusivamente affidati a loro sono essenziali per la salvezza della comunità. Le matrone si occupano per esempio di culti di dee come Bona Dea, per la quale organizzano una festa notturna e segreta, o come Mater Matuta. Anche i bambini hanno il loro ruolo nella religione pubblica come aiutanti accanto ai magistrati mentre questi compiono i sacrifici, o anche in qualità di attori principali, come per esempio nel ludus Troiae, una processione ippica dallo schema complesso in cui sfilano i bambini delle famiglie più in vista.
Secondo la tradizione, alle origini della città di Roma, il re deteneva tutte le funzioni politiche e religiose. Era aiutato in questo compito dai sacerdoti la cui istituzione è fatta risalire al re Numa, considerato come l’“organizzatore” della religione romana.
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro I, cap. XX
Attese poi all’istituzione dei sacerdoti, quantunque egli compisse personalmente moltissimi riti sacri, soprattutto quelli che ora spettano al flamine Diale. Ma poiché pensava che in un popolo bellicoso ci sarebbero stati più re simili a Romolo che a Numa, e che essi avrebbero partecipato personalmente alla guerra, per evitare che si trascurassero i riti di pertinenza del re, creò un flamine addetto in permanenza al culto di Giove, e gli assegnò una veste speciale e una sedia curule riservata al re. A questo aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino, e nominò anche le vergini di Vesta, sacerdozio, questo, originario di Alba e non estraneo alla stirpe del fondatore […] Nominò parimenti dodici Salii addetti al culto di Marte Gradivo […] Scelse poi tra i senatori, come pontefice, Numa Marco, figlio di Marco, e gli affidò tutti i riti sacri dopo averne fatta una descrizione precisa e particolareggiata.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. M. Scandola, Milano, BUR, 1987
Con il passaggio dalla monarchia alla repubblica, raccontano ancora gli autori romani, il re perde le funzioni religiose che passano piuttosto al rex sacrificulus o rex sacrorum (“re dei riti”).
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro II, cap. I
Ci si occupò poi della religione; poiché alcuni sacrifici pubblici erano stati celebrati dagli stessi re, per evitare che si avesse in qualche modo a rimpiangere la monarchia, fu creato il re sacrificulo. Questo sacerdozio fu subordinato al pontefice, per non far sì che l’onore aggiunto al titolo potesse in qualche modo pregiudicare la libertà, che allora stava a cuore più di ogni cosa.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. M. Scandola, Milano, BUR , 1987
Questo sacerdote fa parte del più importante fra i collegi maggiori, cioè il collegio dei pontefici, in cui si trovano anche i pontefici appunto, i flamini e le vestali (per avere più dettagli si veda John Scheid, Rito e religione dei Romani, 2009, pp. 124-125). Altri collegi sacerdotali maggiori sono: il collegio degli auguri, quello dei (quin)decimviri quello dei septemviri, che si occupano dell’organizzazione dei ludi. Accanto a queste istituzioni ce ne sono altre, certamente più marginali, ma tuttavia essenziali per salvaguardare la res publica, si tratta dei sodalizi quali i feziali (la cui funzione è di comunicare attraverso riti le decisioni diplomatiche), i salii (legati a Marte, che si occupano della processione rituale), i luperci (che celebrano la festa dei Lupercali del 15 febbraio), i fratelli arvali (che si occupano dei sacrifici in onore di Dea Dia).
Tra tutte queste cariche sacerdotali ce ne sono alcune che sembrano “rappresentare” una precisa divinità. Le vestali, per esempio, dedite al culto di Vesta, sono come delle rappresentanti della dea: scelte quando hanno tra sei e dieci anni, esse sono tenute a conservare la loro verginità durante tutta la durata della loro carica e a vivere per trent’anni nella casa a loro riservata, presso il tempio di Vesta.
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro II, cap. I
Ci si occupò poi della religione; poiché alcuni sacrifici pubblici erano stati celebrati dagli stessi re, per evitare che si avesse in qualche modo a rimpiangere la monarchia, fu creato il re sacrificulo. Questo sacerdozio fu subordinato al pontefice, per non far sì che l’onore aggiunto al titolo potesse in qualche modo pregiudicare la libertà, che allora stava a cuore più di ogni cosa.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. M. Scandola, Milano, BUR , 1987
La loro occupazione principale è vegliare che il fuoco sacro, che si trova nel tempio, non si spenga. La loro condizione di donne vergini e caste richiama la verginità della dea. Se lo stato romano attraversa momenti di grandi difficoltà, questo spinge spesso a sospettare un comportamento scorretto da parte di una delle sacerdotesse. Se una delle vestali è riconosciuta colpevole di avere una relazione sessuale, si decreta la sua morte e quella del suo amante. Mentre quest’ultimo è ucciso a frustate, la vestale è condotta al luogo del suo supplizio con una portantina completamente chiusa per impedire ogni contatto con l’esterno. Poiché ha perso la purezza, il suo corpo è considerato contaminante. Arrivati nel Foro Boario, la condannata è fatta scendere in una camera sotterranea dove sarà sepolta viva, con una candela e poco cibo. È destinata a morire per asfissia, una volta che la camera sia richiusa e ricoperta. I Romani si sbarazzano così di un membro importante della loro comunità che, divenuto impuro e pertanto pericoloso per tutta la città, non solo non merita più di rivestire il proprio ufficio sacerdotale, ma neppure di continuare a far parte della civitas.
Un altro caso particolare è quello dei flamini, che appartengono al collegio dei pontefici, come abbiamo detto, e sono 15, di cui tre maggiori (il flamine di Giove, di Marte e di Quirino) e 12 minori. Questi ultimi si occupano di divinità più marginali, quasi sconosciute alla fine della repubblica, come per esempio il flamen carmentalis, legato al culto della dea della profezia e della nascita Carmenta, o il flamen palatualis che si dedica al culto della dea Palatua, di cui non abbiamo ulteriori notizie. L’esistenza di questi sacerdozi ci permette di cogliere un livello molto arcaico della religione romana, che conosciamo male per la completa mancanza di fonti scritte (i primi testi letterari risalgono solamente al III secolo a.C.). Tra tutti i flamini, quello meglio conosciuto è il flamen Dialis, che si occupa del culto di Giove. Questo sacerdote deve rispettare una serie di curiose interdizioni rituali. Per esempio, egli non può uscire senza il suo berretto caratteristico (galerus) che termina con un bastoncino di legno e con un filo di lana proveniente da una pecora sacrificata. Non può inoltre avvicinarsi a un morto, toccare una capra, un cane, la carne cruda, la farina e il lievito. Non può nemmeno lasciare Roma per più giorni consecutivi. La sua stretta relazione con il suolo della città è resa evidente anche dal fatto che i piedi del suo letto sono circondati da una zolla di terra fangosa. Per rincarare la dose: possono accedere alla carica di flamen Dialis solamente coloro che si sono sposati con il rito più solenne (confarreatio) e restare in carica solo finché la loro moglie, la flaminica, che ha anche lei funzioni religiose, è viva. Non c’è da stupirsi se in qualche periodo della storia romana si è stentato a trovare chi volesse assumere questa carica! Il sacerdote di Giove incarna l’ordine perfetto di cui il suo dio è il garante. Come le vestali, anche questo flamen è una specie di “statua vivente” del dio. Di lui si dice che è cotidie feriatus, cioè, letteralmente, “ogni giorno in stato di festa”. Quest’affermazione ci invita a riflettere su che cosa sia una festa per i Romani.
La festa è il tempo forte della vita religiosa, il momento d’incontro tra uomini e dèi. Rinforza l’unione della comunità umana e ne rende percepibile la struttura. Si distingue dai giorni ordinari riservati a occupazioni profane. Come dice Macrobio (Saturnalia 1, 16, 2) i dies festi (“giorni di festa”) si contrappongono ai giorni riservati agli uomini (profesti) e ai giorni intercisi (“tagliati” a metà), cioè quelli di cui una parte è riservata agli dèi e una agli uomini. Celebrare una festa a Roma significa che le autorità previste si dedichino al compimento dei riti e che il popolo rispetti l’inattività. Macrobio (1, 16, 9) spiega che un lavoro compiuto quando la festa è già stata indetta provoca uno stato di impurità che deve essere espiato. Fanno eccezione le attività compiute per gli dèi o quelle di urgenza vitale, come per esempio far uscire un bue da una fossa in cui è caduto o riparare un tetto che rischia di crollare. Il dovere d’inattività interessa invece principalmente le attività giudiziarie e i lavori agricoli. Nessun testo parla esplicitamente di cosa dovessero fare per esempio commercianti e artigiani. Ancora Macrobio afferma che ogni atto violento compiuto in un giorno di festa esige un’espiazione: per questo precisa che si deve evitare anche il matrimonio di una vergine, perché esso rappresenta una sorta di violenza, mentre sono ammessi i matrimoni delle vedove.
La maggior parte di queste feste sono indicate nei calendari romani. Altre sono annunciate oralmente all’inizio del mese. A queste si aggiungono le celebrazioni religiose eccezionali, come per esempio quelle decretate per espiare una mancanza commessa verso gli dèi, oppure i ludi votivi, cioè i concorsi sportivi offerti come voto a una divinità, oppure ancora i munera, cioè i giochi gladiatori organizzati, almeno anticamente, in onore della morte di un personaggio abbiente.