Attualità dell’archeologia urbana
La gestione degli assetti architettonici e urbanistici nella città moderna e, particolarmente, nelle città del bacino del Mediterraneo, deve fare i conti con la presenza, in alcuni casi pervasiva, di un patrimonio culturale storico-ambientale e archeologico che per la sua significatività ha costituito da sempre, e costituisce specialmente oggi, un valore attuale irrinunciabile. Si tratta di un vero e proprio serbatoio di storia materiale del passato: un potente piedistallo identitario che la cultura ha assunto nel suo presente, per le memorie di cui esso è testimonianza materiale e per una qualità documentaria ed espressiva, che è spesso tale da condizionare in modo esaltante – ma anche intimidire – la programmazione urbana impegnata a stabilire rapporti integrativi nella città contemporanea. Si tratta di una vera e propria sfida nei confronti della difficile progettazione del nuovo, costretta a un confronto contestuale decisamente, per più versi, squilibrato e soggetto, oltretutto, a tensioni culturali con divaricazioni metodologiche, scientifiche e tecniche. Tensioni che si riverberano nell’organizzazione istituzionale delle attività di tutela e di valorizzazione, ritenute generalmente necessarie ma dotate di poteri prevalentemente interdittivi, piuttosto che produttivamente e creativamente promozionali.
Questo il problematico quadro che si riscontra soprattutto in presenza di grandi tradizioni culturali, ove l’elevata qualità ambientale di un insediamento recante i segni di una lunga evoluzione storica ha portato a un affinamento crescente, quanto controverso, della sensibilità collettiva verso le preesistenze e della strumentazione critica e tecnica da porre in atto negli interventi di recupero e restauro sia alla scala architettonica sia alla scala urbana.
Ne è conseguito, specialmente in Paesi come la Grecia, l’Italia e la Spagna, un grande impegno intellettuale e scientifico, sostenuto, sia pure nell’inevitabile conflittualità delle teoretiche e delle sensibilità, da una relativa supremazia scientifica, che si pone a presupposto di una interlocuzione eccellente ad altissimo livello di responsabilizzazione nella gestione progettuale e operativa. Una situazione culturale che si può quindi considerare di eccellenza, non priva però, talora, di eccessi nella complessità dei metodi e di rigidità nelle procedure.
Nella situazione culturale attuale si registrano sempre più diffusamente condizioni di pensiero e di mentalità proiettate verso la mondializzazione ed esposte alla fluidità e imprevedibilità dei processi evolutivi dell’ambiente fisico – in un presente, oltretutto, intellettualmente insicuro, tale da stentare a essere percepito come candidato a un futuro confrontabile con l’eccellenza del passato e da indurre la filosofia ad assumersi la responsabilità di parlare, come il filosofo Remo Bodei, di desertificazione del futuro. Sembra quindi naturale che, per non perdere l’utile appoggio del persistente sistema di garanzie scientifiche, si cerchi di tener ben salde le tradizionali categorie dello ‘spazio’ e del ‘tempo’: in una parola, di rifondarsi, forse troppo insistentemente, sulla contestualità ambientale e storica. Il che, come è opportuno e inevitabile, implica, in ogni programma o progetto, una crescita smisurata degli aspetti relazionali tra uomini e cose, tra oggetti e contesti, tra forme e significati, accompagnata da una grande attenzione ai rapporti di scala, ai nessi di contiguità, alle concatenazioni evolutive, alle previsioni e alle valutazioni dei rapporti di causa/effetto, di costi/benefici e alle verifiche d’impatto ambientale e socioculturale: insomma, ai vari controlli intersoggettivi e di collettivizzazione dei progetti, intesi come proposizioni processuali, da inserire in un programmatico, progressivo e condiviso iter decisionale. La progettazione diretta tende in questo modo a lasciare il passo a una più cauta e dialogica azione indiretta, fondata su meditate intese intersoggettive, tale da presupporre e avviare il predominio di una gestione pianificata di alta qualificazione, con priorità a una istanza di carattere tecnico-scientifico che sia anche criticamente agguerrita.
Nei Paesi già citati, e particolarmente in Italia e nella Penisola Iberica, una simile evoluzione disciplinare, che renda meno immediata ma sostanzi la progettazione creativa, spingendola a un livello di alta responsabilità nel governo delle scelte, è già in atto. È una evoluzione su cui sarà bene rivolgere i nostri sguardi più attenti e le nostre riflessioni più caute, per evidenziare la qualità dell’iniziativa e del controllo dialettico degli enti pubblici e, particolarmente, di quelli locali, nei processi di promozione e di mediazione attuativa, così come essi sono giunti a svolgersi nella contemporaneità. Riflettendo sul passato, infatti, non possiamo non renderci conto di come l’ambiente della città storica, esattamente come l’ambiente naturale, presentasse i due versanti, quello dei valori e quello delle funzioni, organicamente connessi e pressoché indistinguibili. La fondamentale coerenza del binomio valori/funzioni era, infatti, implicita nella generale prevalenza – verificabile in qualsiasi luogo della città e del territorio – del sussistere di un equilibrato, ‘naturale’ rapporto tra le cose e gli uomini (e viceversa), basato essenzialmente sulla presenza fondante di un valore d’uso riscontrabile negli oggetti e nei contesti materiali modellati dall’uomo. Una qualità assicurata da condizioni di continuità storica tali che, prolungando il tradizionale, organico rapporto tra produzione e consumo, sono perdurate dalle epoche più antiche fino al primo avvento del mondo borghese; per tendere poi a interrompersi e corrompersi, fino a subire un ribaltamento, con l’affermarsi dell’economia di mercato e con la corrispondente generalizzazione, invece, dei valori di scambio.
Centro storico/città nuova
Rotta l’integrità urbana garantita dai tradizionali ‘rapporti di produzione’ e pervenuti, ormai, ben dentro l’egemonia del mercato, l’evoluzione della città e del territorio ha assunto i caratteri intrinsecamente scissi e non sempre dialetticamente comparabili che la storia economica e la sociologia – senza contare la psicologia – hanno così spietatamente analizzato. Sono nate, insomma, quelle contraddizioni, la cui evidenza ambientale e linguistica, nelle aree di più recente insediamento, risulta innegabile e che hanno proposto, nel secolo scorso, un contrasto apparentemente insanabile, ancorché paradossale, tra le presunte ‘due città’: da un lato, la città storica, dall’altro, l’insediamento moderno, cioè, la parte qualitativamente alienata delle periferie cittadine che si è stati indotti a distinguere – a prezzo di un clamoroso ma tollerato nonsenso logico – come la città che storica non sarebbe più; o perfino, se si vuole, che non lo sarebbe mai stata. Se si rilegge, infatti, la celebre definizione di Cesare Brandi del restauro come «momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica in vista della sua trasmissione al futuro» (Teoria del restauro, 1963, 19773, p. 6), parrebbe, infatti, di poter affrontare il problema del rapporto del nuovo con le preesistenze in puri termini di conservazione della autenticità. Ma lo stesso Brandi non mancò di lasciare un varco dialettico, tra ‘istanza estetica’ e ‘istanza storica’, aprendo la strada a una sostanziale e realistica revisione dell’iniziale asserzione, con il sostegno, evidentemente forzante, ancorché utilizzabile come ipotesi di lavoro, del concetto «città come opera d’arte».
Non possiamo comunque non chiederci il motivo del fatto che, nella fase recente della nostra storia culturale, siamo stati indotti a porci, per le città più ricche di qualità storico-ambientali, la questione della storicità in termini di estremizzata e inquietante contrapposizione: centro storico/città nuova; dando, in tal modo, quasi per ovvio che tali locuzioni stiano a indicare entità urbane diverse, la cui separazione, però, crea da decenni problemi di organicità e di coerenza interpretativa e operativa. Cosa ci induce, insomma, a porre in dubbio che il linguaggio architettonico contemporaneo, che è nostro come lo è il nostro corpo, possa avere cittadinanza nella città esistente che abbiamo ereditato dal nostro passato ma rispetto alla quale siamo indotti a sentirci in soggezione, al punto di perdere il senso delle proporzioni e giungere a intendere il nostro cosiddetto centro storico come una specie di iperluogo? Ma se un ‘luogo’ è tale nel momento in cui una comunità si riconosce in esso – per la sua storia, il proprio passato, la propria attualità –, all’opposto, potrebbe definirsi un non luogo, per usare l’immagine di Marc Augé, la periferia, quasi a pervenire alla deduzione sconcertante che la progettazione contemporanea sarebbe paradossalmente degna di rapportarsi unicamente a non luoghi. E, infine, domandiamoci: perché tale anomalia valutativa si verifica nei diversi Paesi in modo così differenziato e quali circostanze storico-culturali ne hanno determinato l’insorgere e il divaricarsi concettuale?
La città storica e un’ottica progettuale reale
Negli ultimi vent’anni si è tentato in vari luoghi di evitare l’uso del concetto delimitante di centro storico, in cambio del termine topograficamente non delimitabile di città storica, proprio per sfuggire all’evidente aporia del presupporre, entro l’abitato, un limite tra storico e non storico; insomma per risolvere il problema del sussistere nell’uso, persino nelle normative di tutela, di una dicotomia, che porrebbe all’interno della città la cogenza di confini topografici, peraltro concettualmente insostenibili. Insostenibili ma attraenti per alcuni che, nell’impotenza a gestire la naturale e vitale osmosi urbana, sentono l’urgenza di dividere il reale nell’illusione di dominarlo.
Un reale urbano che Albert Einstein, nel 1938, aveva definito come «lo spazio della relatività», rilevandone una interessante divaricazione tipologica rispetto allo spazio definibile euclideo, riscontrabile, a suo giudizio, piuttosto nella città ‘americana’, cioè in quella tipologia reticolare dell’insediamento che si presenta geometricamente precostituito secondo un pattern assai diverso da quello europeo, che egli evidentemente preferiva, nel suo assetto amabilmente ‘con-fuso’. La prima, assunta come città tettonicamente organizzata in un ordine pianificato e, l’altra, nella quale invece gli elementi stentano a organizzarsi e i sistemi di riferimento si dinamizzano, mentre i corpi, come affermava Einstein, si muovono incessantemente e si modificano imprevedibilmente durante il loro moto. Con una lucida intuizione, il grande fisico assimilava questo secondo modello alla ‘città europea’, attribuendo a essa una qualità dinamica e mutevole che è proprio, possiamo rilevare, quella della quale l’urbanista ‘accademico’ ha sempre evitato di farsi carico, per l’instabilità, in essa, degli assetti urbani e delle loro caratteristiche di fungibilità, di elasticità, di imprevedibilità, evidentemente più difficili da ge-stire, implicando necessariamente una scomoda tolleranza di fronte all’alea del ‘progetto’.
Un progetto che, nelle sue condizioni di impegno a farsi carico del difficile rapporto vecchio/nuovo, pone anzitutto e soprattutto, al di là dei problemi di adeguamento delle strutture cinematiche e funzionali, problemi delicatissimi di integrazione linguistica ed espressiva. Affrontando il tema del rapporto tra storia e progetto, viene infatti in primo piano il problema del linguaggio, come rapporto interpretativo e progettuale, interattivo tra l’uomo e le cose. Non, beninteso, quale semplice scrittura, intesa come pura comunicazione; cioè come gestione compilativa di un ‘significante’. Tale, infatti, è proprio l’interpretazione riduttiva che pone il progetto nell’ambito angusto di una impostazione ottocentesca, tuttavia ancora diffusa; presente, per es., nelle pratiche di tutela del patrimonio architettonico ambientale ancora vigenti in più luoghi, là dove l’impegno difensivo verso un sistema di valori ritenuto, non senza ragioni, a rischio, prevale sul senso positivo e vitale dell’intervento progettuale evolutivo, e induce a una concezione schematicamente prescrittiva e semplificante. È in tal caso che l’azione difensiva, rivolta a un contesto plurale, considerato come opera d’arte ma solo (come direbbe Brandi) nella sua consistenza fisica, può ridursi – in tale pratica riduttiva, appunto – nei limiti di una vincolistica passiva e di una prescrittività anchilosata, orientata alla salvaguardia di una pura convenzione grammaticale e di maniera (come l’imposizione di determinati materiali o dettagli lessicali).
In realtà, nel caso più generale, il contesto sul quale si opera, sia esso urbano sia territoriale, monumentale o anche solo naturale, quali che siano i vincoli previsti dalle normative, è comunque percorso da flussi di mutamento che rendono ineffettuale ogni concetto di vincolo conservativo privo di elasticità. Facendo parte della città reale, il costruito storico è, a tutti gli effetti, luogo di un’evoluzione che riguarda, immancabilmente, le funzioni e i valori, ma anche la qualità e la quantità, pervadendo ambiti spaziotemporali tendenzialmente continui, ancorché irregolari e confusi. Il valore aggiunto apportato al contesto da un vero progetto dialogico e conoscitivo – ossia fondato su una profonda conoscenza fisica e antropologica del luogo, nella sua stratificata struttura materiale e soprattutto nei suoi contenuti semantici e simbolici – si innesta rigogliosamente in quei flussi di mutamento che ne dinamizzano l’evoluzione, come elemento di discontinuità nella continuità del processo trasformativo; partecipando così a quel fenomeno di co-evoluzione che, in sede sociologica, sta a indicare il simultaneo processo biologico dell’adattamento all’ambiente e dell’ambiente.
In questo senso, le valutazioni qualitative che preludono a qualsiasi analisi e proposizione operativa in presenza di contesti archeologici non possono che porsi in un’ottica progettuale che sia tale a tutti gli effetti. E va subito detto che una simile disposizione mentale, che giudichiamo positiva, non è in atto ovunque: essa sembra, a ben vedere, riscontrarsi più frequentemente nei Paesi ove la presenza del patrimonio culturale archeologico è meno intensa e assillante. Mentre al contrario, nei Paesi ove, per la ricchezza del patrimonio, più impegnativo si presenta il problema dalla conservazione monumentale e del conseguente ‘compromesso’ ambientale, prevale la tendenza a porsi di fronte alla complessità del reale con atteggiamenti garantisti accentuatamente selettivi, appoggiati a un sistema di preconcetti; quale è, per es., la molto insistita (soprattutto in Italia) ‘priorità archeologica’, la quale porrebbe, all’interno di un contesto urbano nel quale si effettua l’intervento, un concreto e cogente distacco che, nell’ottica integrativa di cui si è detto, rappresenta un elemento di disomogeneità e disorganicità, in un continuum la cui forza vitale consiste proprio nell’integrazione di ogni sua parte con il tutto. Per contro, in tal senso, possiamo ritenere che il progetto del nuovo debba essere inteso come l’innesto di un germoglio vivo nella linfa di un organismo preesistente in costante, ancorché irregolare e discontinua, evoluzione e, pertanto, come proposta di trasformazione integrata e vitale.
Rapporto conoscenza/progetto e concettodi storia
Enunciata così la proposta di metodo, i corrispondenti strumenti di verifica e di controllo possono apparire labili, specie se comparati all’ampiezza delle responsabilità. Ci si è spostati di fatto, con un vero e proprio salto epistemologico, da una visione idealistico-positivista di tipo statico, categoriale e concisamente selettivo – secondo una mentalità che potremmo definire tipicamente latina – all’idea della conservazione ‘in vita’, che spiazza ed elude le tradizionali difese rigide della vecchia ‘tutela’, insieme alle stampelle o all’effetto placebo di una manualistica, lodevole per il dignitoso rigore pedagogico ma necessariamente antievolutiva. Siamo insomma, e intendiamo esserci, al passaggio dalla conservazione ‘testuale’ (feticistica o precettistica che sia) e dalla introversione ‘filologica’, agli spazi aperti e fluidi – ancorché rigorosamente scientifici se bene agiti –, tipici del rapporto conoscenza/progetto. È un nodo teorico e operativo che può essere sciolto in modi diversi a seconda del senso che diamo al termine storia. E qui si apre una questione effettivamente dirimente, in senso teoretico, riguardo ai differenti modi e metodi invalsi nei vari Paesi che, nell’attività valutativa e programmatoria, si pongono il problema della conservazione della qualità storico-artistica e ambientale.
Nei contesti culturali che mantengono un approccio di tipo tradizionale prevale una tendenza a identificare la storia con ‘il passato’ e gli accadimenti che si collocano cronologicamente alle nostre spalle. Ove invece il pensiero ha maturato una disponibilità ad aprirsi verso un’ottica più avanzata, coerente con gli attuali sviluppi delle scienze cognitive, non si limita il significato del termine al solo passato, ma lo si estende nei due versanti: del presente e del futuro. Lo spazio storico, allora, consisterà nella mutevole relazione tra gli uomini e le cose, con il suo continuo evolversi nel tempo e nello spazio. Nella prima interpretazione, quella tradizionale, i fatti e gli oggetti che esaminiamo ci vedono osservatori esterni, che analizzano fatti e oggetti con distacco, per così dire monumentalizzati. Nella seconda, noi siamo dentro lo spazio storico e le nostre interpretazioni trasformano i fatti e gli oggetti che interagiscono con noi, modificandoci. Nel primo caso la storia resterà depositata nella materialità degli oggetti su cui il progetto agirà discrezionalmente dall’esterno. Nel secondo, tra storia e progetto esiste e permane un’essenza comune, e ogni intervento progettuale, essendo calato nel senso delle cose, convive con la loro naturale, relativa e relazionale evoluzione. Nel nostro universo spaziotemporale questa spaccatura non c’è e, come ogni altra ‘separazione’, è soltanto uno schema inventato dall’uomo moderno, nel suo affanno di rendere assumibile per parti la complessità del reale, sezionandone in modo artificiale l’ineludibile continuità.
Bisogna insomma rassegnarsi al fatto – a cui però deve essere riconosciuto un grande valore – che noi, essendo nella storia, siamo anche, lo si voglia o no, nel progetto. Storia e progetto, in definitiva, sono fatti della medesima essenza concettuale: prendono forma e mutano nel tempo in ragione del legame interattivo che lega ogni cosa nel mondo registrando, sia in sede di bilancio consuntivo (la storia) sia preventivo (il progetto), la complessa vicenda di quel rapporto e, cioè, delle modalità con cui si avvolge e si svolge la fondamentale funzione dell’adattamento degli uomini all’ambiente mutevole, nella nostra necessità/intenzionalità di viverlo, abitandolo.
Il patrimonio archeologico
Così considerata, la questione della contemporaneità e del progetto architettonico in presenza di contesti archeologici si presenterebbe affidata a una ulteriore schematizzazione semplificante (‘tutto è storia’), che ci offre scarsi appigli per una definizione metodologica del lavoro progettuale, sfumandosi i contorni del problema su un tessuto evolutivo generalizzato, in cui il passato si accosta al nostro presente, variamente qualificato, in una successione di eventi e di assetti, dei quali entrerà a far parte, da un lato, il contesto archeologico sopravvissuto a una lunga convivenza e, dall’altro, anche il progetto contemporaneo. Ma c’è da rilevare come non si tratti solo di distanza temporale. Il patrimonio archeologico, pur spazialmente vicino e talora incombente, si pone davanti a noi con una ulteriore, fondante specificità. Riprendendo l’esempio della storia europea, che presenta una forte articolazione e varietà di processi e di eventi, vi è infatti, in corrispondenza del Tardo antico, una svolta epocale che, preludendo al Medioevo, vede il modello greco-romano, con la sua ipostatizzazione classica di attingibilità dell’assoluto e dell’eterno, sfaldarsi non solo fisicamente. Essa diviene suggestivo scenario di un panorama di processi evolutivi, lenti ma talora improvvisi, destinati a durare quattordici secoli. Basterà ricordare, a prova della repentinità del passaggio, l’incredibile contestualità, a Roma in epoca costantiniana, del completamento della Basilica di Massenzio, che fu un caposaldo della monumentalità muraria e dell’organicità spaziale tardoimperiale, con l’esordio delle basiliche paleocristiane, improntate a un senso di precarietà programmatica, sia strutturale sia formale e simbolica. Con l’evidente compresenza, nello stesso luogo e nello stesso momento, delle formalizzazioni di due diverse temporalità. È un’inversione del senso stesso del costruire, comune a tutta la produzione architettonica europea, che le mentalità registrano limitatamente, ma è per questo, forse, che la monumentalità classica, con la sua auctoritas antica, uno dei valori sostanziali della nostra archeologia urbana, sopravvive nelle rovine anche quando l’integritas è largamente compromessa.
L’archeologo Salvatore Settis afferma che le rovine segnalano al tempo stesso una presenza e un’assenza; mostrano, anzi sono, un’intersezione tra il visibile e l’invisibile, tra il tempo e la storia. Settis coglie così il senso duplice del rudere, come valore in sé e come rimando, semantico e metaforico ancor più che documentario, a un’antica stagione di grandezza (Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, 3 voll., 1984-1986). Ma se, riguardo al patrimonio archeologico, il senso soprastorico dell’antichità classica sopravvive nel rudere, ciò non si verificherà per le rovine medievali o moderne (salvo agli occhi del tardo ‘rovinismo’ romantico, in Francia e Inghilterra). Questo non è senza effetti sulla considerazione del patrimonio archeologico antico in termini di distacco nonché di una soggezione e un rispetto che sostanziano il senso dell’archeologia urbana, come contaminazione di diversità. È uno scarto relazionale che non riguarda il livello di familiarità e l’estremo interesse che nutriamo verso gli oggetti e le tracce delle produzioni postantiche di ogni epoca, lontana o vicina, ivi comprese anche le renovationes classiche o classiciste. In realtà il passato ci si mostra nella continuità evolutiva della storia urbana, e sono due, a ben vedere, i momenti che, agli occhi della contemporaneità, possono collocarsi su un piano diverso, generando, soprattutto in Europa e nell’area del Mediterraneo, effetti di ‘separazione’: l’antico e il contemporaneo.
L’antico e il contemporaneo
L’antico è termine generico che designa nei vari luoghi periodizzazioni notevolmente diverse, risalendo, per es., nel continente euroasiatico, e con notevoli differenziazioni, alle vicende storiche dell’affermarsi egemonico delle grandi culture greco-romana e poi cristiana, seguite dal diffondersi, tra il 7° e l’8° sec., di quella islamica; tutte precedute dalle civiltà egizia e cinese. Il contemporaneo, invece, sembra tendere linguisticamente in tutto il mondo a omologarsi sui moduli lessicali della produzione industriale. La fase storica che corre tra questi due momenti – la lunga evoluzione cristiano-occidentale che si conclude con le rivoluzioni culturali del tardo 18° sec. e con l’industrializzazione capitalista, almeno in Europa – è caratterizzata da un costante processo evolutivo, la cui interna coerenza può essere riferita al prevalere e al generalizzarsi del lavoro concreto, inteso come rapporto tra gli uomini e l’ambiente da essi abitato. Po-tremmo anzi dire ‘usato’, riconoscendo nel valore d’uso la qualità che maggiormente ci affascina nei centri storici; una locuzione, quest’ultima, ereditata da una cultura selettiva idealistico-positivista risalente a Gustavo Giovannoni (1873-1947), oggi entrata a pieno titolo nella pianificazione urbana.
Nel lungo intervallo postantico caratterizzato dall’evidenza del lavoro ‘concreto’ e della sua attitudine a dare valore alle cose, non c’è distinzione, nella produzione intellettuale, tra momenti induttivi e processi deduttivi, quindi anche tra autoreferenzialità del linguaggio e il suo contrario. In altre parole, la dialettica produttiva, non tendendo a divaricarsi tra ideazione e realizzazione, non mette in crisi il linguaggio e la sua mutevole ma coerente evoluzione, che il pensiero classico tendeva a bloccare e il pensiero critico contemporaneo ha interrotto. Con la massificazione dei valori di scambio si pone, invece, il problema della ricerca linguistica in forma ‘indiretta’, avendo il linguaggio perduto il ruolo naturale di medium tra gli uomini e le cose. Basti pensare alle avanguardie figurative dell’inizio del 20° sec., che rivelano un implicito intento di conversione del linguaggio artistico da un rapporto diretto tra significante e significato a un rapporto nuovo, di riduzione semantica del significato, verso un suo tendenziale azzeramento in un significante, che appare persino disposto – per es., in Kazimir S. Malevič e nel suo Quadrato bianco su fondo bianco del 1918 – a trasmettere il messaggio del ‘vuoto’. Ora il progetto deve tentare di garantire un tardivo recupero della pregressa naturalità, ponendosi nella forbice tra permanente e divenire senza il sostegno di una tradizione. Con il rischio, nei confronti del passato, di avere a che fare con un permanente congelato o devitalizzato e un divenire addomesticato o spericolato.
Se questa analisi ha del vero, potrebbe riscontrarsi una inattesa analogia – mutatis mutandis – tra il senso della produzione antica, coerente con rapporti di produzione paleoborghesi, e il senso di quella contemporanea, frutto dell’alienazione del lavoro. Spingersi alla ricerca di questa analogia per ritrovare un’improbabile attinenza di natura epistemologica tra l’antico archeologico e l’intervento contemporaneo è certo forzante, nella direzione di possibili attinenze anche linguistiche. Non vi è dubbio che in sede progettuale, segnatamente nel caso dell’archeologia urbana, si incontrino grosse difficoltà nel confrontarsi con i diversi momenti evolutivi della città. La cultura archeologica, animata da ottocentesca selettività, tende a risolvere ogni disomogeneità seguendo il criterio della ‘priorità archeologica’. In sede di progetto moderno ciò tende a esprimersi come resistenza all’integrazione; quando è invece proprio tale integrazione a costituire un irrinunciabile valore.
La cultura della separazione ha dominato il Mo-derno; e ciò in modo particolare in Italia. Fare un salto nella cultura della complessità significa contraddire molte delle abitudini mentali in cui siamo radicati e che fondano in gran parte le nostre istituzioni, l’attività scientifica e l’operatività del nostro presente. Serve, tuttavia, a far cadere una quantità di tabù, a superare situazioni di stallo che, non solo in Italia, hanno avuto luogo: basti pensare alle vicende connesse all’attività progettuale nella città storica e nei rapporti con l’archeologia. Si tratta, infatti, di stabilire con il passato un rapporto rivolto non tanto alla fisicità degli oggetti – che in quanto tali appunto appartengono a un mondo che non ci riguarda più, se non come precedente storico – quanto al senso che tali oggetti hanno avuto nel passato e che mantengono oggi per l’uomo e la società contemporanea.
Le città storiche sono sempre state un test particolarmente scabroso per la progettazione architettonica contemporanea. In esse, il peso di una storia spesso ‘ipertrofica’ può diventare, come affermava Friedrich Nietzsche, paralizzante. C’è stato chi si è preoccupato dell’eccesso di remore che un sottosuolo archeologico pervasivo, come in molte città dell’area mediterranea, comporta per qualsiasi intervento di trasformazione urbana; ma ciò, a ben vedere, deriva dal fatto che si è sempre assunta la storia del passato come un archivio, anzi un deposito, di oggetti. La grande differenza tra il concetto di storia a cui qui ci si riferisce e quello tradizionale consiste proprio nell’evitare di identificare la storia nell’accumulo di oggetti che il passato ci propone. La storia è uno status che ci comprende in pieno, insieme al nostro rapporto con questi oggetti anche quando tale rapporto è di tipo dinamicamente progettuale: solo in questo modo si evita il rischio che il passato possa porsi in contrapposizione rispetto al futuro.
Il concetto di rudere
Certamente, nella sua ingombrante presenza ur-bana, il passato si pone in modo problematizzante. E ciò perché un ruolo delle preesistenze materiali che, sia pure a livello di identità ambientale, si riverbera su di noi e interagisce con la nostra identità attuale, è indubbiamente presente; ma va colto nella sua importanza essenziale, quale vero e proprio motore della progettazione. Perché non sia un freno, basta assumerlo entro un approccio che sia veramente attuale; quindi conoscitivo e dialogico. Il reperto archeologico, rovina o rudere che sia, vive nell’immaginario collettivo con una presenza significativa – talora addirittura sacrale – quanto familiare. In molti casi, esso è parte di un contesto che è il nostro e che lo accoglie ab origine, entro il quale si colloca con un’attinenza organica e consolidata che, nel presente, può apparirci armonica o disarmonica ma comunque difficilmente indifferente. Un contesto sul quale l’oggetto storico riverbera il proprio specifico senso, rivelando il profilo di un’evidente congruità culturale che, in quanto tale, è anche strutturale e sistemica.
Quando costituisce un oggetto decontestualizzato, l’immagine della preesistenza, se insorta da tempo, non assume di solito il disvalore di una intrusione ma, anzi, appare evocativa di una serena relazione storica, carica di senso e, a un tempo, allusiva a un distacco, attinente alla sequenza temporale distanziata. Distacco tutt’altro che incolmabile, in quanto non implicante una distanza anche spaziale, per la solitamente stretta contiguità e per quella confidenza che il rudere, considerato in quanto tale – e specialmente nel caso dell’archeologia urbana – suscita ed esprime. Cosa si intende allora per rudere? Nel suo senso più tipico e specifico, oltre a rimandare un messaggio generalmente sereno e non conflittuale, come si diceva, il rudere potrebbe, in senso generale, qualificarsi come una testimonianza interpositiva, che rimanda ad altro da sé. Sarebbe possibile quindi considerarlo un’eterotopia, che ‘significa’, innanzitutto, il senso di una ‘mancanza’ non risarcibile, sostanziata per converso, in quanto tale, da una profonda semanticità.
Alla perduta qualità di testimonianza storica, sostanziata dall’antica integritas del monumento nella sua edizione originale – peraltro, spesso, persino eccessivamente assertiva e saturativa di contenuti linguistici nella sua conclamata completezza esteriore – il rudere presenta, di norma, l’assunto del nucleo murario portante, che possiamo considerare la sua essenza denotativa, spoglia delle sue connotazioni materiali; stilisticamente inevitabili, queste ultime, ma spesso – in un manufatto d’epoca classica – sostanzialmente deduttive, e talora ridondanti. La compendiosità icastica del rudere può apparire, all’occhio critico contemporaneo, come il precipitato consuntivo di un apparato comunicazionale rivelatosi, almeno in parte, non sostanziale. Questa superfluità del perduto apparato linguistico ornamentale, intesa come caduta di interesse intervenuta a spese della facies originaria integra del monumento, può essere considerata, secondo un’ottica idealistica, un concetto criticamente improprio; essa, però, può permanere come un dato, attestato dallo stesso stato comunicazionale esteticamente ‘saturo’ di rudere, nonché dallo stato di degrado denunciante, in tutta evidenza, la mancata manutenzione e la corrispondente assenza di un uso, da intendersi cioé come rapporto vivo con gli uomini e partecipazione lungamente protrattasi al mondo e alla vita. Tutto ciò è il rudere stesso, per il suo essere tale, a raccontarlo; e diviene, insomma, il suo senso primario nonché il suo valore, almeno come ‘istanza storica’. Ma, come sappiamo, non vi è istanza storica che non si accompagni non solo a quella estetica, prendendo a riferimento il vecchio schema binario brandiano, ma anche a ogni altra istanza; prima tra tutte quella semantica: l’attenzione al senso.
A ben vedere, il rudere può dirci molto di più. La sua struttura materiale, che risulta smascherata, evidenzia molto degli artifici e degli artefatti che della ‘maschera architettonica’ avevano costituito parte integrante, contribuendo all’enfasi di una perfezione formale che, in alcune fasi storiche e segnatamente in periodo classico, era finalizzata implicitamente a dissimulare i segni del lavoro valorizzante nel rapporto di produzione schiavistico. Una perfezione già predisposta a testimoniare l’onnipotenza di un potere terreno capace di opporsi al degrado del tempo e di controllare, senza incertezze o imperfezioni, lo spazio. Un’onnipotenza costitutiva del senso stesso del linguaggio architettonico, della quale, al contrario, il rudere, con la sua perdita dell’integritas, denuncia espressivamente la mancanza.
La naturalità materiale dell’edificio che, proprio in quanto accurato, resta tendenzialmente dissimulato nel linguaggio classico e che, invece, in periodo medievale sostanzierà l’orgoglio architettonico più esteriorizzato, riaffiora nel rudere antico con evidenza nella sua scotomizzata autenticità, a parlarci degli uomini e della loro faticosa – o gioiosa, ancorché dissimulata – manualità materica, certo non dissimile da quella dei costruttori medievali; ben felice, nella sua concretezza, di essere programmaticamente offerta alla relazione percettiva più immediata. E ciò spiega, evidentemente, la vicinanza che riscontriamo tra l’aspetto del rudere di un monumento antico e quello di una struttura muraria medievale; e anche, evidentemente, la naturale attinenza delle aggiunte medievali alle preesistenze ruderizzate; nonché, del resto, può spiegare anche la difficoltà in cui si incorre parlando di ‘rudere’ in riferimento a preesistenze postantiche, quasi che lo specifico del rudere sia proprio nel senso di ‘smascheramento’ di quel sistema di messaggi tecnico-culturali sfuggiti deliberatamente all’avallo linguistico dell’establishment ufficiale e, pertanto, destinati alla dissimulazione.
Ciò che attiva l’attuale interesse per l’archeologia urbana nella nostra temperie culturale è, ancora, l’istanza storica nella sua pretesa autonomia, rivolta a un oggetto del passato verso il quale registriamo, a un tempo, attrazione e distacco, di fronte alla complessità semantica che il contesto ruderizzato offre, la quale, al di là di un eventuale apporto informativo, comporta un reale arricchimento della conoscenza intesa nel senso più profondo e integrato. Oltre, ovviamente, al valore conoscitivo della comprensione di una cultura costruttiva che nel rudere rivela i suoi segreti e le intenzionalità più riposte del lavoro valorizzante che se ne è fatto espressione. Ma qui occorre un distinguo assolutamente propedeutico alla comprensione stessa: se l’approccio è di tipo ‘archeologico’ o filologico in senso specifico, mirato cioè ad acquisire la conoscenza di dati oggettivabili, analitici in senso sia tecnico sia tecnologico, il rudere offre all’analisi tracce documentali insostituibili per l’accertamento dei dati di realtà, impliciti nel documento fisico offerto all’osservazione diretta. Ma una simile attenzione conoscitiva, che definiamo, appunto, archeologica, non può che richiedere e indirizzarsi, ai fini della tutela, alla conservazione della materia ruderizzata, per la salvaguardia del suo portato documentale. Portato utilissimo che lascia, però, sullo sfondo il valore relazionale dell’oggetto nel suo contesto, a partire dalle sue qualità originarie che definiremmo autoreferenziali e fino alla valutazione, nella contemporaneità, del messaggio culturale e del corrispondente investimento simbolico collettivo.
L’approccio storico-culturale all’archeologia
Il nostro approccio, oggi – a differenza di un passato anche recente – è necessariamente storico-culturale: quindi, architettonico in senso pieno. Pertanto tali considerazioni vengono in primo piano e il nostro rapporto con l’oggetto non può che essere ‘integrato’, sia sul piano conoscitivo/interpretativo sia su quello conservativo/valorizzativo. Su quest’ultimo piano, infatti, non è l’analisi archeologica a tenere il campo, ma è di una corretta analisi storico-critica che c’è bisogno; laddove emerge con chiarezza come lo stesso ‘restauro archeologico’ si dimostri inadeguato. E la conservazione, insieme alla eventuale reintegrazione di un rudere che non sia puro reperto materiale, non possono che rivolgersi alla disciplina del restauro architettonico, inteso in senso corretto, nella sua teoretica (sia pur controversa) complessità. Cioè anzitutto e soprattutto, inteso prioritariamente come ‘recupero del senso’. E del senso depositato nella materialità del costruito e sostenuto semanticamente dal linguaggio.
Se prendiamo in considerazione, come è inevitabile, il tema del linguaggio, occorre anzitutto assumere o respingere un’affermazione che va ritenuta fondante; quella sostenuta da Augé: un linguaggio che non si evolve nel tempo è solo una lingua morta. Qualsiasi lingua che non appartenga alla categoria delle lingue morte si modifica costantemente per apporti occasionali e discontinui, che agiscono sul linguaggio collaudandone la vitalità: una lingua, insomma, si mostra viva proprio nel suo perenne modificarsi. Si può dire che per la città storica valga lo stesso assioma? Le interminabili occasioni di scontro riguardo alle scelte metodologiche negli interventi di restauro, e soprattutto di recupero urbano in contesto esistente, più che da definite preferenze di tipo linguistico, dipendono, a ben vedere, da un diverso modo di identificarsi nello spazio e nel tempo. Quindi nei luoghi e nella storia. In merito, le disparità tra le varie aree geografiche del mondo e i diversi Paesi restano eclatanti, anche se, negli ultimi due secoli, si è registrata la tendenza a una graduale omologazione.
Lo stesso termine archeologia può riguardare, posto in relazione alle diverse situazioni storico-culturali, oggetti e fatti diversi. In alcune nazioni, come negli Stati Uniti, l’archeologia tende a essere vista come una scienza storica che attiene a etnie diverse da quella che agisce la contemporaneità. Intesa come tale, più che una conoscenza autobiografica delle origini, come in molte aree europee, è stata considerata come una branca dell’antropologia, rivolta alla documentazione di storie e popoli stranieri.
Sentendosi eredi della cultura classica, i popoli del Mediterraneo invece hanno usato il termine nel senso in cui lo usava Tucidide: come discorso sul nostro passato, fondato su testimonianze materiali, con una significativa e prepotente accentuazione di interesse, in modo particolare in Italia a partire dall’Umanesimo, per la tradizione greco-romana. Verso la quale, anzi, si è fatta attiva, da Ciriaco d’Ancona in poi, l’intenzionalità di una proponibile e rituale ‘restituzione alla vita’, in funzione di adesione identitaria ai predecessori. Ed è su tale tradizione, evidentemente, che fonda le sue prime radici una prospettiva operativa e una tradizione attuativa, che viene da lontano e si è protratta naturalmente nel tempo, ma che oggi la città moderna assume, in molti luoghi, tra le tecniche di intervento urbano d’avanguardia, dandole il nome e la veste disciplinare di archeologia urbana. Un’attività trasformativa che, per le diverse storie dei vari Paesi e per la sua specificità di integrazione evolutiva nella vicenda urbana, non ha gran spazio nelle culture anglosassone e tedesca, che pure sono tra quelle più attente alla ricerca e alla valorizzazione dell’archeologia, intesa nel suo senso più tradizionale di branca della storia dell’arte o della storia materiale, rivolte soprattutto alle origini e alle fasi evolutive più lontane dall’attualità.
L’archeologia urbana
L’archeologia urbana vera e propria, nell’accezione che la distingue dalle altre attività e conoscenze tradizionali rivolte all’antico, sembra aprirsi a una prospettiva nuova di cui è legittimo parlare solo dalla fine del 19° sec.; e soprattutto in connessione con circostanze conoscitive e interessi scientifici non di tipo analitico e filologico né, tanto meno, antiquario, ma di tipo decisamente attivo: quindi trasformativo e inevitabilmente anche progettuale. Il primo esempio richiamato è, di solito, il centro storico di Firenze. Un precedente calzante, a tutti gli effetti, nel suo essere stato investito, a seguito dell’Unità d’Italia e dopo la designazione della città a capitale, da lavori trasformativi radicali e pervasivi, attuati su un abitato insistente su sedime antico; con l’insorgere, in pieno abitato urbano moderno, di problemi relativi ai diffusi ritrovamenti di preesistenze ipogee d’età romana.
Ma, evidentemente, i luoghi nei quali più clamorosamente si è palesato nei cantieri urbani l’intreccio significativo di tracce e strutture storiche delle fasi evolutive della città sono i grandi centri delle civiltà mediterranee, primi tra tutti Roma, Atene, Istanbul e quelli della Provenza, della Sicilia, dell’Africa settentrionale. È qui che l’archeologia urbana ha assunto un ruolo e una pregnanza inconfrontabile con altre situazioni del mondo, e in questa branca – nuova ma, ovviamente, anche antichissima – della gestione urbana trova i suoi luoghi deputati a una specifica trattazione. Quanto alle origini, può essere un utile richiamo quello colto acutamente da uno studioso come Stefano Gizzi il quale, con riferimento alla pratica dell’anastilosi – così implicata concettualmente e tecnicamente nell’archeologia urbana – ha richiamato la data dell’842 d.C., anno in cui l’imperatrice bizantina Teodora ripristinò il culto delle immagini sacre, al termine dell’Iconoclastia, riferendosi anche alle feste che accompagnano, a Costantinopoli, il recupero e il restauro delle immagini (Gizzi, in Archeologia urbana, 2002, p. 53). Questo richiamo risulta quanto mai utile a stabilire i profondi fondamenti ideologici implicati da una attività che potrebbe erroneamente essere interpretata come marginale, all’interno di quella vastissima area di problemi e di intenzionalità che concerne, da sempre, la gestione urbana.
Ma per cogliere la portata di queste implicazioni e gli effetti tuttora operanti nella realtà, non si può non porre in primissimo piano il caso di Roma e di un sito urbano come l’area archeologica centrale la quale, qualificandosi, per così dire, come il centro per antonomasia, torna opportuno richiamare per il suo carattere di sito archeologico ‘urbano’ assolutamente emblematico, sul quale parametrare le nostre più specifiche e realisticamente estremizzate considerazioni. È qui che possiamo meglio misurare le differenze e le tensioni che l’archeologia urbana genera con il suo emergere prepotente entro la contemporaneità.
L’area archeologica centrale di Roma
Affacciarsi e specchiarsi nel corso dei secoli sull’area dei Fori Imperiali, in un incontro trepidante con la pietrificazione monumentale dell’antica aeternitas, sembra, per la città di Roma, un destino ineludibile e perenne. Ed è un confronto urbs/civitas –antico/contemporaneo – sempre carico di profonde tensioni tra la contingenza storica e quella attuale, su cui pesa una mutevole vicenda antropologica, intrecciata con la fissità metastorica di un contesto monumentale, quello forense, realizzato, in poco più di un secolo, quasi duemila anni fa. Oggi, alla luce della nostra cultura ermeneutica, che è soprattutto cultura progettuale, dovremmo essere in grado di elaborare senza complessi queste tensioni, superando il senso di inadeguatezza e la paralisi che ne deriva, per liberare la scienza urbana dalla paradossale impasse che da decenni la tiene in scacco, con il sussistere di profonde divaricazioni ideologiche e metodologiche. Ma basterà prendere atto, finalmente, che non esistono scorciatoie né vecchie idee da rilanciare, quale è quella della prioritaria eliminazione dell’assetto degli anni Trenta del Novecento (oggi, del resto, vincolato da un provvedimento della Soprintendenza).
A valle degli importanti lavori di scavo portati avanti in questi anni dagli organi di tutela archeologica romani, con ricerche dirette condotte con lo scavo del suolo, ricerche che pure non hanno mancato di integrare e correggere conoscenze archeologiche consolidate (ancorché fallaci), facendo tesoro dei nuovi strumenti programmatori di natura gestionale e indiretta previsti dal Nuovo piano regolatore, saremmo oggi in grado di stabilire le coordinate metodologiche per un progetto di assetto ‘dell’ambito strategico archeologico monumentale dei Fori e dell’Appia Antica’, di cui il piano regolatore della città prevede la valorizzazione. In esso, per quanto attiene alla salvaguardia dei prevalenti valori storico-ambientali del bacino forense, la forma e l’immagine del contesto urbano, pur mantenendo un carattere decisamente complesso e ‘con-fuso’, a testimonianza e memoria della lunga e mutevole vicenda storica, saranno dominate da due grandi e diverse fasi architettoniche: la facies antica, innanzitutto, splendidamente documentata – sia pure nella forma discontinua e depauperata a noi pervenuta – dall’orgoglioso disegno delle preesistenze imperiali sopravvissute; e, dialetticamente connessa a questa, la fase degli anni Trenta del Novecento, nella quale, sia pure attraverso un intervento improntato a un retorico ‘uso della storia’, fu restituito alla vista, demolendo un ampio settore urbano esistente, buona parte del panorama archeologico conservato e fu tracciato tra piazza Venezia e il Colosseo il disegno urbano più unitario e storicamente determinato della Roma moderna. A prezzo, va sottolineato, della perdita di un non limitato settore dell’area archeologica, rimasta sotto la via dell’Impero e i suoi contestuali commenti d’arredo urbano.
Tra le due fasi, certamente determinanti la forma urbana attuale, ve ne è stata, però, una terza, non meno definita e assertiva, sia funzionalmente sia ideologicamente: la fase tardorinascimentale, con il quartiere di Pio V solcato da un impalcato cardo-decumanico di strade costituenti la ‘croce esorcistica’ delle vie Alessandrina e Bonella. Un assetto urbano forte e chiaro della seconda metà del 16° sec., motivato – come lo è di norma ogni grande intervento urbano – da un doppio scopo: l’innegabile produttività socioeconomica della grande impresa edilizia e il suo stesso assetto topologico, formale e simbolico; tale, in questo caso, da seppellire volutamente e cancellare la fase antica, documento eclatante di una storia pagana, con un nuovo tessuto di case e di chiese, promosso da un cardinale, Alessandro Bonelli, e segnato dalla strutturante, emblematica croce di strade. Un pezzo vitale di Roma che è andato improvvisamente distrutto, con effetti laceranti sul piano della storia urbana sia architettonica sia sociale.
Ora, a consuntivo di una vicenda così traumaticamente consolidata, ci sono due modi di vedere questo luogo. Il primo è l’atteggiamento di chi è abbagliato dal mito: quello, evidentemente, del ‘grande Antico’ e della sacralità dell’Impero Romano; è un atteggiamento fermo nel ritenere che la sequenza delle grandi piazze forensi, nella sua aeternitas, esista in qualche modo ancora, invariata, sotto il livello urbano moderno; e che l’ampio asse stradale fascista l’abbia ‘violentata’, con un intervento che, mentre vantava il fatto di offrire alla vista le antichità romane nel quadro di una millantata identificazione imperiale, in realtà dopo gli scavi archeologici, ne ricopriva una parte, con un orgoglioso ‘stradone di cemento’. Questo comportamento, interpretato nel modo qui enunciato e giudicato evidentemente paradossale, è stato denunciato infinite volte dagli ambientalisti e dai sostenitori dell’eliminazione della strada.
Ma è facile dimostrare come si tratti di un’affermazione tendenziosa, un’evidente deformazione strumentale: le ‘piazze imperiali’ che ci si aspettava di trovare in base alle piante archeologiche di un secolo fa, infatti, nell’ambito sottostante la strada, già ai tempi degli scavi degli anni Trenta del Novecento, non erano più presenti in situ. Le acquisizioni di conoscenza indubbiamente importanti dovute ai recenti scavi hanno dimostrato quanta fantasia covasse nelle autorevoli prefigurazioni di archeologi come Rodolfo Lanciani (1845-1929) e Giuseppe Lugli (1890-1967), autori delle carte archeologiche ritenute fondamentali per la conoscenza della zona.
Riguardo al Foro di Traiano, per es., il tempio e l’arco, ai due estremi del Foro, e anche il monumento equestre dell’imperatore al centro dell’esedra dei Mercati, in realtà nei siti indicati non ci sono mai stati, come è stato dimostrato dagli scavi. Di tutta la zona scavata del Foro di Nerva, l’unica testimonianza litica che la recente campagna di ricerche ha messo in luce, è costituita dalle cosiddette colonnacce, che peraltro erano già fuori terra dal Medioevo e hanno attraversato il tempo, fino a noi, restando perennemente in bella vista. Il fascismo ha eliminato un colle, la Velia, che copriva la visione del Colosseo da piazza Venezia: anzi esattamente dal balcone del Duce. Tale asse visivo si materializzò, su istanza di Benito Mussolini, nella via dell’Impero. Da una volontà di dominio dello spazio nacque così, paradossalmente, il segno più espressivo prodotto negli anni Trenta, sopravvissuto fino a noi come una passeggiata straordinaria.
E ciò, anche se la rapidità con cui si sono svolti i lavori di demolizione di questa parte del centro storico e la loro enorme ampiezza ha lasciato una cicatrice dolorosissima, qui come in Vaticano, in via della Conciliazione o, in Campo Marzio, all’Augusteo. Questi e altri siti romani costituiscono, nel bene e nel male, un campionario di esempi di archeologia urbana assolutamente inconfrontabile con altri luoghi d’Europa e del mondo. Non solo e non tanto per la vastità del territorio urbano investito, che può essere avvicinata da altri siti archeologici orientali, mediorientali o latinoamericani; quanto, soprattutto, per la complessità estremamente significativa e la continuità evolutiva delle vicende urbane di cui i luoghi – se scavati con mentalità progettuale veramente e modernamente scientifica – recano vistose tracce culturali e antropologiche. Sono vicende più o meno traumatiche che la città ha vissuto alternando momenti di sofferenza o esaltazione, e di cui sembra debba continuare a soffrire, mentre non si scorge ancora il momento dell’approdo esaltante. Anche se, nel caso dei Fori, l’atteso grande progetto non potrà essere procrastinato sine die. Mentre – senza alcun progetto urbano – ha proceduto la ricerca archeologica condotta con metodi tradizionali, secondo una campagna di scavi che recentemente ha portato sull’area dei Fori Imperiali una devastazione esteriore che ha coinvolto anche i giardini e la serie di grandi pini marittimi che formavano sistema, agganciando quest’area centrale all’ampio ventaglio del parco dell’Appia Antica.
Al vasto cantiere di ricerca conoscitiva (ma anche distruttiva) avrebbe dovuto corrispondere un adeguato processo di progettualità volto a un gigantesco recupero di storia urbana, non solo archeologica, che sinora è mancato e tuttora risulta inceppato; con la conseguenza evidente di aver paradossalmente trasformato il fatidico luogo, che ha l’autorità e la pregnanza di una eccezionale vicenda storica, in un clamoroso esempio di non luogo. C’è chi lavora da anni a una soluzione progettuale intersettoriale ed equilibrata, attenta ai valori architettonico-ambientali nella loro plurivalente qualità culturale che, proprio in quanto storica, deve ritenersi, in ogni aspetto e in ogni sua parte, squisitamente attuale. E lo è, conviene sottolinearlo, nella fisicità delle preesistenze, di cui va conservata e valorizzata non solo la presenza icastica, ma anche l’essenza documentaria antropologica e culturale, quindi la materialità e il senso originario nel suo altissimo ‘valore d’uso’.
Interventi in Spagna e a Colonia
Qui si toccano i temi caldi di una discussione tuttora aperta, non solo sul grande tema di scienza urbana dell’area archeologica centrale di Roma, ma anche su altri contesti romani in cui la cosiddetta priorità archeologica fa sentire il suo peso, come l’area dell’Augusteo, quella di Castel Sant’Angelo e di molte altre di pari o minore importanza. Una discussione non solamente romana, che ha registrato, per es. in Spagna, una grande battaglia, occasionata da un importante progetto di archeologia urbana elaborato da Giorgio Grassi e Manuel Portaceli, per il ripristino architettonico (1990-1993) del Teatro romano di Sagunto: un bell’intervento che è tuttora a rischio di demolizione. Sono discussioni tra orientamenti che, nominalmente, possono anche apparire convergenti, in quanto accese dalla stessa fiamma dell’attenzione alla storia; ma che comunque confliggono per il sussistere, nella realtà, di modi diversi di intendere tale attenzione. Da un lato, c’è chi intende la storia come mito delle origini: suscitato da quell’ansia degli inizi – ‘ossessione embriogenetica’, la definiva lo storico Marc Bloch – che appare tesa al recupero del momento ‘antico’ di eccellenza, come immanenza identitaria; dall’altro, c’è chi vive e considera la storia come evoluzione catastrofica, in perpetua metamorfosi. Mentre il verificarsi e il perpetuarsi di una discussione contrappositiva e inestinguibile tra le diverse posizioni sembra dar ragione alla preoccupazione di Nietzsche per un’egemonia della storia nella contemporaneità.
Questa però non è una situazione diffusa nella Penisola Iberica. Oltre al caso di Sagunto e all’altrettanto eccellente Museo nacional de arte romano a Mérida, progettato da Rafael Moneo e inaugurato nel 1986, la progettazione architettonica vive qui una fase felice anche in presenza dell’antico: si pensi, per es., a ciò che è stato fatto nella centrale Plaza de la Villa a Madrid. Qui la sistemazione ha riguardato reperti altomedievali non diversamente da ciò che è avvenuto in Inghilterra o in Germania. In quest’ultimo Paese, nella città di Colonia, si può ammirare il Kolumba Museum (2007) sistemato con grande eleganza dall’architetto svizzero Peter Zumthor: nella sovrapposizione del nuovo sul preesistente contesto medievale, viene proposto un raffinato metodo d’integrazione fondato sulla pura contiguità paratattica. Nel citato caso di Mérida, città non grande ma erede di una importante storia antica, essendo stata una delle maggiori dell’Impero Romano, l’eccellente magistero progettuale di Moneo trova i toni giusti per dialogare con le grandi strutture risalenti al tempo di Agrippa, con una sistemazione museale che riesce a entrare in sintonia, senza alcuna soggezione, con l’imponenza delle preesistenze. Due approcci, questi di Moneo e di Zumthor, che aprono due strade diverse alla soluzione del problema di un incontro delle diverse temporalità; soluzione che chiude la tensione di quella che potremmo definire attesa archeologica, senza aspirare a usarla come motore del progetto.
Un ‘dialogo’ necessario con le preesistenze antiche
Ciò che tuttavia sembra pesare, quasi ovunque nel mondo ove si pongano problemi di archeologia urbana, che se ne esaminino sia la genesi disciplinare sia le implicazioni architettoniche e ambientali sul volto cittadino, è infatti il persistente senso dell’attesa di un dialogo che le preesistenze antiche, riemerse dialetticamente nel pieno della quotidianità indifferente della città contemporanea, pretendono, ma che non è facile rendere dinamicamente dialogico. Non è facile, infatti, superare il sussistente distacco e realizzare un valido incontro dell’attualità cittadina, portatrice di per sé della complessità di una storia urbana già, nella sua pluralità, ricca di contrasti, con l’oggettiva inattualità di resti più o meno monumentali il cui senso risiede specificamente in una propria materiale e persistente, ancorché circoscritta, condizione di vetustà; rispettabile se non sacra, certo, e degna di ogni cura e soggezione, ma identificabile proprio con uno status senile, presente in forma limitata e frammentata, ma consustanziale alla realtà urbana. I nostri interventi in tale campo – sempre esistiti, evidentemente, ma venuti alla ribalta con una loro specificità solo da un secolo e mezzo – sembrano pertanto tesi, se di archeologia urbana si tratta, a conservare le venerande tracce e le memorie materiali (fortunatamente e giustamente contenute) di una città decrepita di cui sopravvivono più o meno ampi episodi, alla quale si è legati, per essere espliciti, da qualcosa di simile alla tollerante affezione con cui si assiste la vecchiaia dei propri cari. Se questo nesso relazionale – qui forse trasposto con qualche forzatura – è anche solo in parte avvertito, dobbiamo riflettere se non si tratti, per caso, di una distorsione interpretativa che varrebbe la pena di studiare. Essa, infatti, fotografa una situazione che potrebbe, altrimenti, essere assunta secondo un rapporto di relazione temporale letteralmente ribaltato.
È evidente che i frammenti urbani archeologici che si riscoprono scavando, o che comunque interrompono con la loro autorevole interposizione la contestualità delle città contemporanee, possono considerarsi, a ben vedere, non già (o non solo) pezzi residuali di una città decrepita da conservare musealizzati ma, al contrario, testimonianze concrete e autentiche di una fase ‘giovanile’ e particolarmente vitale della città e del lavoro artistico. Frammenti tanto più acerbi e turgidi di vita quanto più remoti, pronti a confrontare la loro palese età ‘immatura’ – si pensi all’ingenuità iconografica di una sfinge egizia o dei leoni della Porta di Micene; ma anche i Propilei dell’Acropoli di Atene sono ‘elementari’ – con la posterità ‘grondante di storia’ dell’ambiente urbano attuale, in cui si vive, uno spazio affollato di stili e di linguaggi. Ed è altrettanto chiaro che una parametrazione qualitativa, che si fondi sul ribaltamento di lettura proposto in questa sede, sconvolge le nostre valutazioni e carica di una nuova prospettiva l’ispirazione e le intenzionalità trasformative e valorizzative di chi si proponga di ristabilire progettualmente nessi dialogici con l’antico, a rifondare un senso relazionale, entro la flagranza della contemporaneità. In tal modo si potrebbe aprire un varco a progetti nuovi e diversi, a partire, forse, da diversi linguaggi. Tra cui pensare, ripristinata una piena attualità dell’archeologia urbana, a una pregiudiziale revisione terminologica del suo stesso nome.
Bibliografia
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Progetto archeologico. Progetto architettonico, Atti del Seminario di studi, Roma 13-15 giugno 2002, a cura di M.M. Segarra Lagunes, Roma 2007.
«Economia della cultura», 2008, 2, n. monografico: Spazi e tempi del restauro.