CONTI, Augusto
Nacque a San Pietro alle Fonti, fraz. di San Miniato (Pisa), il 6 dic. 1822 da Natale e Anna Passetti. Nelle scuole di quel comune trasse "dallo studio dei poeti e dalla storia" (così ricorda in una pagina autobiografica) quell'idea di nazione come tradizione di lingua e cultura che doveva rimanere dominante nella sua vita. Proveniva da famiglia religiosissima; fu, a suo avviso, l'educazione sensistica della scuola a spingerlo verso la "crisi d'empietà" che segnò gli anni della sua giovinezza tra 1836 e 1843. I ricordi religiosi dell'infanzia e la lettura dei filosofi scolastici lo aiutarono aritrovare la fede.
Divenne giobertiano "con impeto" dopo aver scoperto nelle pagine del Primato "la verità della creazione come vertice di ogni scienza", ma sin da allora ammise di seguire il filosofo torinese "solo per quanto riguarda il fine", ossia per quanto concerne il programma di apologetica cattolica, e di "non accettare la formula cardinale del suo pensiero", l'intero contesto, cioè, della mediazione con la filosofia hegeliana. Del pari rifiutò il principio ontologico di Rosmini. Le dispute tra giobertiani e rosminiani gli sembrarono "sottigliezze"; in realtà respingeva quanto vi era di moderno nella filosofia cattolica dei suoi tempi, e, cercando una formula "combinatoria" soltanto nell'ambito delle istanze che non esorbitavano dai principl patristico-scolastici, indicava, sin dagli anni Quaranta, i limiti della filosofia che svolgerà nell'età matura.
Seguì i corsi universitari di giurisprudenza a Siena e a Pisa. Furono anni resi tempestosi e confusi dal suo carattere impetuoso. Scrisse un poemetto rimasto inedito sulla liberazione della Grecia, suggeritogli dalla lettura del Tocqueville. Non finì di pentirsi "per tutta la vita" d'aver bastonato "per eseguire giustizia" un professore in fama di reazionario. Scontò per questo faUo tre mesi di carcere a Livorno. Completò gli studi a Lucca, qui si laureò; a Firenze cominciò ad esercitare l'avvocatura. Nel 1847 pubblicò a Firenze un primo libriccino, il Saggio di canti lirici nel quale sono fuse le due fonti della sua ispirazione, la religiosa e la nazionale-patriottica. Nel '48 partecipò col 2° battaglione dei volontari fiorentini alle operazioni di guerra. Fu promosso tenente portabandiera, e il 29 maggio combatté a Curtatone, poi fu, più o meno direttamente, coinvolto negli scontri di Valeggio, Custoza, Villafranca e assistette, nel corso della ritirata, ai tumulti di Milano contro Carlo Alberto. Nel '49 gli fu affidato l'insegnamento della filosofia elementare nelle scuole di San Miniato e, pur continuando l'esercizio dell'avvocatura, tenne le lezioni sino al 1856, quando fu nominato alla cattedra di filosofia, razionale e morale nel liceo di Lucca. Si dedicò da allora solo alla scuola e agli studi. Dal matrimonio con Enrichetta Pieragnoli nacquero tre figli, dei quali sopravvisse una sola.
Alcune conferenze in materia filosofica, la pubblicazione sullo Spettatore diretto da Celestino Bianchi d'una serie di Dialoghi scelti per l'utilità della scuola (Firenze 1863), l'edizione nella Biblioteca nazionale di Felice Lemonnier delle Poesie scelte di Pietro Bagnoli (Firenze 1857), gli procurarono qualche notorietà. Nel '57 il Lambruschini lo invitò a collaborare alla Guida dell'educatore. Raccolse il frutto delle sue riflessioni, delle lezioni, degli sparsi scritti, in un volume che, pubblicato a Firenze nel '58, racchiude già in abbozzo tutte le linee del suo insegnamento filosofico: Evidenza, amore, fede o i criteri della filosofia, Discorsi e dialoghi.
Poiché la mente può avvicinarsi solo per gradi alla verità, non solo l'insegnamento della filosofia, ma anche un'alta trattazione filosofica deve tener conto della natura e dei limiti dell'intelligenza umana, e quindi procedere per gradi, sciogliere il vero in un discorso piano, tessuto di riferimenti all'esperienza immediata. Da questo presupposto deriva la caratteristica struttura dei Criteri del '58 e di tutte le altre opere dei C.: una studiata successione di sezioni teoretiche e dialogico-letterarie; composizioni queste ultime nelle quali i "problemi supremi" sono piacevolmente, anche se con qualche prolissità, discussi tra un gruppo d'interlocutori (filosofi empi e ortodossi, sacerdoti, scienziati, popolani) e l'autobiografico "Scrittore" che sapientemente media i contrasti e con rigore difende le sane dottrine. La conoscenza del pensiero del passato costituisce anch'essa un momento importante nel processo d'avvicinamento alla verità. Ma della storia della filosofia, il C. (autore peraltro di un fortunato manuale che ebbe sei edizioni italiane, una traduzione a Bruxelles, riscosse l'elogio di Leone XIII e fu diffuso nelle scuole italiane dal 1864 ad almeno il 1909) ha una concezione non critica ma apologetica.
"...Noi cristiani sappiamo che esiste da diciannove secoli la civiltà cristiana e la teologia cristiana e su di esse è fondata la verità. Pertanto la storia della filosofia è principalmente storia della filosofia cristiana, giacché immune da errori può essere solo quella dottrina che sia conforme al Cristianesimo" (Evidenza, II, pp. 157-160). Tre, secondo il C., sono le grandi ere della storia del pensiero: quella dei dottori che si conclude con Tommaso e con Dante; l'epoca della Riforma, iniziata con Lutero e Cartesio e culminante nel criticismo kantiano che "rode tuttora le viscere della scienza"; quindi l'epoca dei rinnovamento che la sua stessa filosofia avrebbe dovuto inaugurare. Si trattava, comunque, d'un rinnovamento che non avrebbe dovuto rompere verso l'ignoto bensì "svolgere le verità principali già contenute sin dal principio nella filosofia cristiana" (Evidenza, I, p. LXVIII).
Cosicché nel pieno fiorire delle scuole positivistiche e neohegeliane il C. rimane assorto nella visione dell'ordine universale: un ordine la cui interiore struttura teologica, cosmologica, antropologica castituisce insieme il supremo impianto della realtà e l'articolazione della contiana enciclopedia filosofica. Poiché l'ordine si manifesta in Dio, nelle idee, nelle cose come verità, bellezza, bontà, la filosofia del C. si articola nelle tre sezioni della logica, dell'estetica, della morale. Questa partizione è già accennata nell'organizzazione dell'opera del '58 che svolge soprattutto il criterio dell'evidenza, cioè, il principio fondamentale, secondo il C., della logica. Un'evidenza intesa però come "relazione tra il vero in sé e l'intelletto illuminato da Dio", che non si discosta, quindi, dalla tomistica "adaequatio rei et intellectus". Negli anni Sessanta e Settanta, per sviluppare i problemi di ciascheduna delle sezioni seguiranno altrettanti saggi e trattati sino alla conclusiva Armonia delle cose, Firenze 1878, che unisce a una ispirata descrizione dell'ordine universale un riepilogo di tutta la filosofia dell'autore.
Nell'imminenza della guerra dei '59 pubblicò un opuscolo Sulla liberazione d'Italia. Discorso al clero italiano (Torino 1859). In queste pagine, in un libriccino su Napoleone III e nella di poco posteriore introduzione ad una traduzione di H. D. Lacordaire (Della libertà d'Italia e della Chiesa, Firenze 1860) ribadiva gli spunti che aveva avanzato in altri scritti recenti (nei Canti lirici, nelle note alle Poesie del Bagnoli, p. 522, in un Dialogo uscito sullo Spettatore).
Nella Liberazione d'Italia il C., rifiutando la soluzione separatista dei rapporti tra Stato e Chiesa, professava la teoria gelasiana e medievale della distinzione tra i due poteri, ma, proprio perché la distinzione non esclude la complessiva unità, rivendicava il "primato morale della Chiesa" anche nella gestione delle "cose di quaggiù". Il C. teneva viva la polemica contro i rivoluzionari e i ghibellini e difendeva il Papato anche nell'ordine temporale. Non si irrigidiva peraltro nelle tesi estreme, e, seguendo Tommaseo, affermava che per la tutela dell'indipendenza del pontefice poteva bastare "una città sola" (ibid., p. 50). Ripeteva la tesi ormai divenuta anacronistica della federazione italiana presieduta dal papa, e, giobertianamente celebrando l'accordo tra interessi cattolici e nazionali, auspicava un clero patriottico. Per questo fu attaccato dai reazionari.
Nello stesso anno '59 fu invitato dal Lambruschini, allora ispettore generale degli studi in Toscana, a coadiuvarlo in questa attività per quanto concerneva la filosofia e le lettere nelle scuole classiche. Accettò anche di collaborare al lambruschiniano periodico La Famiglia e la scuola. Nel 1860 lasciò l'ispettorato per tornare all'insegnamento. Per designazione del ministro M. Coppino fu nominato professore di filosofia teoretica a Firenze nell'Istituto di studi superiori, e qui, tranne una parentesi trascorsa tra 1862 e 367 presso l'università di Pisa, insegnò fino alla giubilazione.
Si aprì un periodo intenso per l'attività culturale e politica. Nel '69 fu nominato accademico della Crusca, e nel '73 ne fu eletto arciconsolo, carica che, tolta una breve interruzione, tenne sino alla morte. Diede nuovo impulso ai lavori per la compilazione del Vocabolario; col Tommaseo, col Alamiani, col Capponi sostenne il dibattito sulla voce "cattolicità"; promosse le conferenze sui dialetti della Toscana. Nel '74 rappresentò l'Accademia alle onoranze centenarie rese ad Avignone al Petrarca; nel '75 commemorò a Firenze il centenario del Buonarroti. Col Tommaseo e col Capponi fondò e diresse una Società italiana contro le cattive letture.
Dal '64 al '67 fu chiamato dal ministro D. Berti al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e, a partire da quegli anni, e con vari intervalli sino al 1888, fu consigliere, spesso assessore, al comune di Firenze e membro della giunta provinciale. Nel '65 fu eletto deputato per la circoscrizione di San Miniato. Chiese i voti come "cattolico e non clericale". Aderì al programma moderato de L'Opinione, sedette per due legislature a Destra. Si oppose alla legge per la liquidazione dell'asse ecclesiastico ed a quella sulla leva dei chierici, appoggiò le spese militari e la guerra di liberazione del Veneto. Si astenne dal voto col quale il Parlamento si impegnava a risolvere la questione romana secondo le aspirazioni nazionali, condannò l'acquisto di Roma con le armi, senza per questo far propri i toni esasperati dei cattolici intransigenti. Aveva abbandonato le tesi federalistiche della giovinezza per una professione nazionale unitaria e monarchico-sabaudista, biasimava però che in Roma coesistessero la capitale del Regno e la sede del Papato. Lasciò il Parlamento il 17 nov. 1870. La leggenda disse che lo aveva fatto per protesta contro la soppressione dei potere temporale. In realtà si presentò candidato alle elezioni del '70, del '74, del '76, soccombendo ogni volta. Aveva definito "una piaga" il non expedit. Secondo un contemporaneo, il liberalismo e la coraggiosa professione nazionale-unitaria gli fecero perdere l'appoggio dei cattolici, fl cattolicesimo quello dei liberali.
Dopo la morte di Pio IX, nei primi mesi del '79, alcuni gruppi di cattolici, tra i quali fa spicco il nome del C., credettero che fosse giunto il momento di uscire allo scoperto, di distaccarsi polemicamente dalla linea degli intransigenti e di costituire un forte partito "di vera destra". Innanzi alla avanzata dei radicali e dei democratici essi volevano indurre i cattolici ad accettare la realtà dello Stato nazionale e a riequilibrare, entrando nel Parlamento, la vita pubblica su posizioni conservatrici. Pensavano così di impedire la "scristianizzazione" della società: Gli esponenti del movimento, che si espresse con una notevole fioritura di opuscoli ed articoli, si riunirono, a partire dal febbraio, a Roma nella casa dei conte Paolo Campello della Spina ed in una serie di incontri stesero lo statuto della Associazione conservatrice nazionale. Il C. partecipò ad alcuni di questi colloqui e, nel corso della formulazione del programma, i suoi interventi tesero a sottolineare esplicitamente la funzione nazionale della dinastia, opponendosi al prevalente orientamento di quanti preferivano un riconoscimento implicito o sottinteso del ruolo dei Savoia. Non si sa molto intorno al "dissidio" per cui il 4 aprile si costituì a Firenze una associazione dei conservatori nazionali presieduta dal C. e almeno organizzativamente distinta dall'associazione romana. Comunque questi tentativi di fondare il partito dei cattolici conservatori erano destinati a cadere poco dopo sotto la condanna della gerarchia ecclesiastica.
Nell'87 il C. pubblicò a Firenze la Lettera ad un amico sulla comiliazione tra il papato e il Regno d'Italia. Forte delle recenti prese di posizione leoniane, riaffermò, come nel '59, la "distinzione" tra la Chiesa e lo Stato "ciascuno nell'ordine suo indipendente e sovrano" (p. 16).
Auspicava la conciliazione che avrebbe posto la società italiana a riparo della "colossale potenza conservatrice del papato". Per realizzare l'accordo lo Stato avrebbe dovuto abrogare la legislazione "persecutrice", riconoscere solennemente in un concordato il "ruolo sovranazionale" e "l'indipendenza" del pontefice. Lasciava nel vago il discorso sui "vari espedienti" che avrebbero garantito l'autonomia della S. Sede, ma insisteva sul carattere eccezionale che avrebbe dovuto assumere entro il Regno l'amministrazione della città di Roma "politicamente italiana".
Nello stesso anno '87, dopo la sconfitta di Dogalì, fondò l'Associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici italiani e con i discorsi e gli articoli sostenne la ripresa in Africa di una politica di espansione che egli affermava giustificata dalla missione di diffondere la lingua italiana e la civiltà cristiana nelle "terre barbariche".
Mostrò di avvertire con grande sensibilità i processi che trasformavano la società civile e il costume tradizionale, l'avanzare di una nuova concezione dei rapporti umani, familiari, politici e scrisse le sue ultime opere in difesa dei valori di un mondo che stava scomparendo. Pubblicò così a Firenze i quattro tomi della Religione e arte. Collana dei ricordi nazionali (1891-92), i Nuovidiscorsi del tempo (1896), le Sveglie dell'anima (1902). Più che opere di getto sono voluminose raccolte di dialoghi, bozzetti, versi, commedie, pagine autobiografiche, sorrette tutte da un'intelaiatura apologetica e politica. Poiché, oltre a essere un poligrafo, era un abile editore della propria opera, mise insieme in questi ben articolati centoni la maggior parte dei suoi scritti minori e doccasione già sparsamente pubblicati.
I Ricordi nazionali si dividono in due serie: in quella intitolata alla religione ed all'arte raccolse gli scritti che illustravano la vita dei santi e dei papi, cui fece seguire la descrizione delle opere (architettura, scultura, pittura, musica) che nel corso dei secoli avevano testimoniato lo svolgimento della civiltà cristiana e nazionale. Nella sezione intitolata alla letteratura e alla patria pose, accanto alle pagine che esaltavano la cultura italiana da Boezio a Lambruschini, gli scritti ispirati dai sovrani dei Risorgimento, dagli esploratori e missionari, dai recenti fatti d'Africa. Circola in questi volumi un nazionaliamo elementare ed arcaico: la storia d'Italia è contratta in uno schema epico e rivissuta come lotta contro lo straniero voluta e protetta da Dio. Al centro di questo processo il C. pone i miti della dinastia e dell'esercito regio. Salda senza contrasto il Processo d'unificazione nazionale con la politica d'espansione coloniale: "perché sbraitare di conquista iniqua co' barbari e selvaggi? ... solo una nazione guerriera ... può chiamarsi veramente grande" (ibid., p. 400).
Nei Nuovi discorsi del tempo, famiglia, patria e Dio. Rievocazioni (Firenze 1896), trasformando e arricchendo lo schema di un'opera già pubblicata nel '67, volle raccogliere nelle sezioni intitolate alla famiglia, alla patria, a Dio una vastissima serie di scritti eterogenei. Si proponeva di "rappresentare i tempi, cioè la vita interiore palesata nel conversare umano". In queste pagine, che dedicava all'industriale A. Rossi, si cimentava in un genere letterario intermedio tra il giornalismo descrittivo e intervistatore e l'autobiografia. Esplicito è l'intento di edificazione religiosa e patriottica, violenta ma semplicistica la polemica contro socialismo e anarchismo ("un sistema comodo per gente oziosa, manesca, che vuol vivere con la roba d'altri", II, p. 195), contro la scuola positivistica e i professori "sciupateste".
Nell'Imminenza. della crisi chiedeva il rafforzamento delle prerogative regie, il superamento della "rissa dei partiti", il ritorno alla fede e alle pratiche devote, la difesa della struttura patriarcale della famiglia, la restaurazione della scuola su principl cattolici. Nel 1901 scrisse un libretto dedicato ai braccianti pistoiesì che voleva sottrarre "alle sirene dei socialismo". In una serie di capitoletti dimostra le ragioni per cui si deve evitare "la bestemmia e il turpiloquio, e invece seguire i comandamenti della Chiesa, venerame i ministri, amare la patria terrena secondo i comandamenti delle Scritture".
Nell'ultimo suo volume Sveglie dell'anima ("sono squilli che destano dal sonno, utili a rammentare la verità, a evitare gli errori", ibid., p. 8) raccolse, questa volta senza ordine alcuno ("dovrei chiamarlo scartafaccio di annotazioni anziché libro") altre disperse testimonianze della lunga battaglia che aveva combattuto in difesa degli equilibri tradizionali della società nazionale.
Nonostante si fosse progressivamente ridotto alla quasi completa cecità, continuò le settimanali lezioni all'Istituto superiore sino a quando, nel '99, sopravvenne la paralisi alle gambe. Trascorse serenamente gli ultimi anni, la morte lo colse a Firenze il 6 marzo 1905. Il suo corpo, rivestito del saio dei terzo Ordine francescano, fu avvolto nel tricolore. Gli furono tributati solenni funerali e fu sepolto nel cimitero monumentale di San Miniato.
Dei numerosissimi scritti del C. si ricordano qui, oltre ai già citati, alcuni tra i titoli più significativi. Tra i versi e le opere teatrali: Giovanna d'Arco, tragedia (1849, inedita); Buondelmonte, tragedia, Firenze 1868; I maestri rurali, commedia, Milano 1871; Famiglia, Patria, Dio, o i tre amori, Carmi, Firenze 1887. Tra gli scritti di filosofia: Storia della filosofia. Lezioni, Firenze 1864; 6ed., Roma 1909; trad. Bruxelles 1881; Il bello nel vero, libri quattro, Firenze 1872; Il buono nel vero, libri quattro, ibid. 1873; Il vero nell'ordine. Ontologia e Logica, libri cinque. Aggiuntovi un cenno di tutta la filosofia, ibid. 1878. Tra gli scritti vari di letteratura politica e arte: I doveri del soldato. Trattatello, Firenze 1859; Napoleone o la norma degli italiani. Dialogo, Lucca 1859; La rosa d'ogni mese, calendario fiorentino, Firenze 1863-67; I discorsi dei tempo in un viaggio d'Italia, ibid. 1867; Cose di storia e d'arte, ibid. 1874; Inaugurazione della statua di s. Francesco d'Assisi nel 7°centenario, Assisi 1882; Leggi musicali, Conferenze al Circolo filologico, Firenze 1886; Illustrazione delle sculture e dei mosaici nella facciata dei duomo di Firenze, ibid. 1887; Discorso per i morti di Dogali, ibid. 1887; Discorso nel V centenario della morte del Tasso, ibid. 1895; Ai figli del popolo. Consiglii del vecchio A. Conti, ibid. 1901; La mia corona del rosario, pensieri, ibid. 1901. Tra le traduzioni, introd., edizioni varie: G. Galilei, Scritti vari ordinati da A. Conti;A. De Margérie, Teodicea, introduzione di A. Conti; E. Naville, Il padre celeste, introd. di A. Conti, Firenze 1896.
Fonti e Bibl.: La fonte più import. per la ricostruzione della vita e dell'opera del C. è costituita dai suoi stessi scritti, nei quali le notazioni autobiografiche sonoricorrenti. Una cospicua raccolta di notizie, docum., testimonianze dirette è in A. Alfani, Della vita e delle opere di A. C., Firenze 1906, un'opera il cui valore è limitato dell'intento celebrativo e dalla dispersione aneddotica. Utili rimandi bibliogr. sono nella monografia, pur essa apologetica, del card. C. Salotti, Il pensiero e l'anima di A. C., Roma 1905. Accanto ai giudizi, con qualche riserva sostanzialmente positivi, di G. Vidari in Riv. filosofica, VII (1905), pp. 282-289; di G. Barzellotti, in La Nuova Antologia, 16 luglio 1908, pp. 177-192; di G. Tagliero, in Salesianum, XVII (1956), pp. 3-47, spicca la durissima confutazione che G. Gentile fece della filosofia del C. in Le origini della filosofia ital. contemp., I, Firenze 1957, ad Indicem. Altrettanto severo è il breve accenno dedicato alla filosofia dei C. da G Della Volpe in Enc. Ital., XI, pp. 233 s. Per la prima fase dell'attività culturale del C. cfr. F. Baroni Guarinoni, Il soggiorno a Lucca di A. C. e la cultura lucchese alla metà del secolo passato. Lucca 1914;per la fondazione dell'Associazione conservatrice nazionale, cfr. F. Malgeri, Le riunioni del 1879 in casa Campello, in Rass. di Polit. e storia, VI (1960), 65, pp. 22-32; 68, pp. 6-19; ivi, ulteriori riferimenti bibliografici e lo statuto dell'assoc. fiorentina. Sparsi accenni all'attività politica e culturale dei C. sono in P. Scoppola, Crisi modernista e rinnov. cattolico in Italia, Bologna 1961, pp. 95-101;L. Avagliano, A. Rossi e le origini dell'Italia industriale, Napoli 1970, pp. 96 s., 289, 383 (con ulteriore bibliografia).