FELICI, Augusto
Nacque a Roma nel 1851. Poche sono le notizie documentarie che ci sono pervenute. Di certo si sa che studiò presso la Pontificia Accademia di belle arti, proprio nel periodo in cui questa passava, dopo il 1870, nell'organigramma del Regno d'Italia.
Nel 1869 vinse il secondo premio di disegno di nudo a pari merito con G. Micheletti, come risulta dal Catalogo di disegni della Scuola del nudo dell'Accademia di S. Luca (Archivio storico, ms., c. 172). Dal medesimo catalogo (c. 174) risulta anche che, due anni più tardi, venne segnalato con lode per l'esecuzione di disegni di nudo: ciò indica che a quella data il F. era ancora nella condizione di allievo, facendo supporre che l'inizio della sua carriera artistica sia da collocare fra il 1867 e il 1868, visto che il corso di studi aveva, in linea di massima, la durata di quattro anni. Sempre nel 1871 il F. si aggiudicò il secondo premio di scultura superiore per l'esecuzione di una non meglio identificata composizione: la notizia si ricava dalla Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 24 luglio 1871, dalla quale risulta anche la segnalazione con lode dei medesimo anno. Purtroppo non possediamo né i disegni né l'opera dell'artista e anche i documenti dell'Archivio dell'Accademia di S. Luca sono assai laconici a riguardo.
Il F. quindi si formò nell'ambito accademico romano dove, come spiega L. Càllari, attento osservatore della situazione artistica romana a lui contemporanea, "la scultura accademica aveva posto saldissime radici", esaltando gli ideali estetici della "fredda arte dei canoviani" (1909, p. 48).
Di sicuro il F. ultimò gli studi entro il 1872, perché a quella data, come risulta da una succinta biografia stampata nel catalogo della seconda edizione della Biennale di Venezia, aveva preso stabile domicilio nella città lagunare (1897, p. 109). Del resto il Càllari ricorda che qui egli realizzò una serie di bassorilievi in marmo per palazzo Franchetti (1909, p. 57). Nel 1884 e nel 1885 partecipò all'Esposizione di Brera, presentando dapprima il busto in bronzo Birichino veneziano e la seconda volta le statue in gesso Dolor e Andemo a mar. Alla esposizione di Torino del 1885 presentò nuovamente il Birichino veneziano. Sempre all'inizio della sua carriera artistica scolpì un busto di Donna veneziana, il Monello e una Testa di bambino, che gli valsero una certa notorietà (Càllari, 1909, p. 57). Ma la grande occasione per l'artista si presentò quando nel 1892 venne chiamato dall'allora raja (ragià) della città indiana di Baroda per dirimere una controversia artistica. Racconta il Centelli (1894-1895, p. 792), critico ed estimatore dello scultore romano, che "...egli disimpegnava il compito suo con tanta imparzialità e un tale disinteresse da innamorare di sé il più potente dei contendenti ... il quale lo allettava con lusinghevoli offerte". Fu così che il F. ricevette il titolo di "scultore di Stato del Gackwar di Baroda" (ibid.).
Gackwar, che in lingua marathi vuol dire "guardiano di bestiame", è il titolo di cui si fregiava l'allora raia di Baroda Farsand-i Kas-i Dowlat-i Syaij Rao, posto sul trono dagli Inglesi che curarono la sua educazione all'occidentale e lo incoronarono il 28 dic. 1881. Si spiega così il legame che si venne a creare fra lo Stato marathi e la cultura occidentale e il motivo per cui il F. lavorò accanto all'architetto inglese Chisholm che costruì il palazzo reale di Baroda.
Proprio per il palazzo il F. realizzò una serie di opere di cui non è stato possibile accertare l'esistenza attuale (fatta eccezione per la danzatrice in bronzo del Fatesingh Museurn di Baroda). Tra queste i rilievi con le allegorie della Musica, della Pittura, della Scultura e dell'Architettura, scolpiti in marino a grandezza naturale, tradiscono ancora un gusto fortemente accademico, mentre la statua in bronzo di Soldato di parata, ai piedi dello scalone di rappresentanza, dimostra che il F. si fece affascinare profondamente dalla cultura indiana. L'uso del bronzo facilitò l'abbandono dei dettami della scuola accademica romana, a cui preferì gli ideali estetici di Gemito, letti in una luce orientale. In questo senso il F. si pone fra gli epigoni della corrente orientalistica della fine dell'Ottocento.
Molti sono infatti i soggetti che il F. trasse dall'esperienza di quel nuovo mondo. Dal Bramino, pure in bronzo, che, seduto a gambe incrociate, con gesto misurato sta per declamare le proprie verità (racchiuso in una posa che ricorda lo Scriba egizio del Louvre), al Portatored'acqua, nudocon il turbante e l'otre, che sembra una versione orientale dell'Acquaiolo di Gemito, precedente di una dozzina d'anni. Si tratta di frammenti di una realtà quotidiana che il F. riprodusse con felice maestria, senza monumentalismi, come nel caso del cosiddetto Suonatore di violoncello (in realtà un "sarangi", strumento cordofono diffuso nell'India settentrionale e caratterizzato da un piano armonico di pergamena) colto nella sua posa abituale, ossia "accoccolato sulla gamba sinistra, mentre con la destra ripiegata egli si regge a guisa di puntello" (Centelli, 1894-95, p. 801).
Il tipo di lavoro intrapreso portava il F. a dividersi fra Baroda e Venezia, giacché da novembre a giugno egli modellava la creta in India per ripartire alla volta della città lagunare in compagnia delle nuove creazioni che qui venivano fuse in bronzo e successivamente riportate a Baroda (ibid.). Particolarmente spettacolare è il gruppo bronzeo che rappresenta La cacciacon i "cheetan", ossia con i ghepardi, tutta giocata sul contrasto fra il cacciatore indiano e il ghepardo, pronti a scattare, a sinistra e le altre due figure a destra, dove il cacciatore accoccolato sotto il turbante scruta la preda prima di togliere la benda al ghepardo per fargli compiere la sua missione di morte. Il F. quindi non recise di netto i propri legami con l'Italia, ricevendo anzi ancora conimittenze nonostante il suo pendolarismo fra Baroda e Venezia. Nel 1894, infatti, realizzò la statua marmorea di S. Antonio di Padova (ancora in loco), alta due metri e quaranta, che venne collocata nella nicchia di facciata della basilica in sostituzione dell'originale quattrocentesco.
L'opera mostra il santo chiuso nel saio, con un mazzo di gigli e un libro in mano, che pare però quasi un'involuzione rispetto alle realizzazioni di tema orientale. Essa è fredda e scontata nel tentativo di rappresentare una ieraticità evidentemente non sentita, tale da sconfinare nel "santino".
L'opera che dovette impegnare di più il F. fu comunque il Monumento alla principessa indiana Chimnabai, sfortunata moglie del raja di Baroda morta in giovane età, che il sovrano fece realizzare in marmo di Carrara.
Emerge qui tutta l'abilità tecnica del F. impegnato nelle trine del trono e del tappeto; opera tutta soffusa di un'insondabile tristezza (Centelli, 1898).
Dai cataloghi della Biennale di Venezia sappiamo che lo scultore prese parte a diverse edizioni della manifestazione artistica esponendo, oltre che nella ricordata seconda edizione, nella quarta (1901) dove inviò un soggetto a lui congeniale: una statua in bronzo di Donna maratha. Alla Biennale del 1905 partecipò con un bronzo dal titolo Vinto che, come indica l'asterisco che accompagna la citazione in catalogo, venne accettato dalla giuria. Alla settima Biennale (1907) espose nel salone centrale internazionale un bronzo intitolato Preoccupazione insieme col Pensatore di A. Rodin; nel 1921 il F. partecipò alla I Biennale di Roma con l'opera Ritorno alla terra.
Non si conoscono né il luogo né la data di morte del Felici.
Fonti e Bibl.: A. De Gubernatis, Diz. degli artisti ital. viventi, Milano 1898, p. 197; A. Centelli, Un artista ital. in India, in Natura ed arte, IV (1894-1895), 9, pp. 791-803; Id., Una statua di s. Antonio a Padova, ibid., VIII (1898-99), pp. 652-656; Id., Un monumento ital. in India, in L'Illustraz. italiana, 27 febbr. 1898, p. 142; A. R. Willard, History of modern Italian art, London 1904, pp. 241, 550; L. Càllari, Storia dell'arte contemporanea ital., Roma 1909, pp. 56 s.; La Biennale di Venezia. Storia e statistiche con l'indice generale degli artisti espositori dal 1895 al 1932, Venezia s.d., p. 159; H. Goetz, Notes on the Maharaja Fatesingh Museum, Baroda, in East and West, n.s., XII (1961), pp. 254 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XI, pp. 368 s.