GENINA, Augusto
Nacque a Roma il 28 genn. 1892, in una famiglia altoborghese, da Luigi e da Anna Tombini.
Il G. avrebbe desiderato frequentare l'Accademia navale di Livorno, ma un incidente occorsogli nell'adolescenza, procurandogli una lesione permanente a un tendine, lo costrinse a modificare i suoi programmi. Si iscrisse, quindi, alla facoltà di ingegneria dell'Università di Roma, ma era una specializzazione per la quale in realtà non aveva alcun interesse; amava molto invece il teatro e attraverso lo zio D. Oliva, critico teatrale de Il Giornale d'Italia, riuscì a introdursi nell'ambiente pubblicando, nel 1911, qualche recensione per la rivista romana Il Mondo; cominciò anche a scrivere commedie che sottopose all'amico Aldo De Benedetti, anche lui autore teatrale, il quale gli suggerì di offrire i suoi lavori alla Cines, come soggetti cinematografici.
Il consiglio non era incoraggiante: il cinema era allora agli esordi e lo sviluppo narrativo dei film prevedeva strutture e sviluppi ben poco articolati; comunque il G., alla fine, lo seguì e il copione venne accettato: era il 1912, il G. aveva appena vent'anni, e l'impatto con l'ambiente del set lo colpì e lo affascinò, risvegliando, a suo dire, una sorta di vocazione.
Di fatto, il primo soggetto poi realizzato di cui si abbia traccia concreta non si riferisce alla Cines, bensì alla Film d'arte, una filiale italiana della francese Pathé, per cui il G. curò l'adattamento cinematografico di Beatrice d'Este, con Francesca Bertini. In seguito, per la Celio film e per il suo direttore artistico, nonché regista, B. Negroni - che lo istradò nella scrittura delle sceneggiature - curò una serie di soggetti: storie di apaches (Ninì Verbena), di zingari (Zuma), di modeste maestrine insidiate da torvi individui (L'arma dei vigliacchi), mentre si impratichiva dell'ambiente e si faceva le ossa. A. Fassini, all'epoca direttore della Cines, s'interessò alla nuova matricola e volle dargli un'ulteriore possibilità chiamandolo prima come aiuto di G. Antamoro per Uomini e belve, quindi, sul finire del 1913, promuovendone l'esordio nella regia con La moglie di sua eccellenza, girato a Barcellona, presso una filiale spagnola della Cines, La film de arte española.
Nel corso del 1914 il G. diresse vari film per la Cines, per lo più di argomento avventuroso o storico, con attori anche di nome come R. Ruggeri (Lulù), Leda Gys (Il piccolo cerinaio) e Pina Menichelli (Giovinezza trionfa! o Il getto d'acqua), ma sul finire dell'anno, scontento del trattamento economico - anche perché il padre aveva abbandonato la famiglia e viveva in Sudamerica, quindi il G. si era trovato a essere un po' il capo di casa -, accettò l'offerta della Milano film, diretta dal barone P. Airoldi, trasferendosi in quella città.
L'esperienza milanese fu importante, perché il G. si trovò a operare un ambiente meno provinciale di quello romano, più tradizionalmente aperto a esperienze europee, nel momento in cui il cinema stava passando da una produzione di pellicole brevi, di tipo seriale, a quella dei lungometraggi, più articolata e caratterizzata; egli afferrò subito gli elementi fondamentali, e il relativo ruolo, di questo linguaggio in evoluzione: l'importanza del montaggio, il valore drammatico della luce, il ritmo da imporre alla recitazione e alla sequenza scenica, l'uso della scenografia, le possibilità di scomposizione e ricomposizione del racconto. Tutto un lessico e una sintassi di cui si impadronì non cessando mai, da allora, di approfondirli e aggiornarli, praticandoli nell'ambito di una tipologia di soggetti i più vari e diversi, dal dramma passionale al romanzo d'avventura, dal romanzo d'appendice al teatro di boulevard, pescando fra le più diverse ascendenze culturali (la moglie, E. Becker, ricordava, dopo la morte del G., come questi non avesse di fatto specifici e profondi interessi culturali, ma come lo avesse visto sempre leggere moltissimo alla continua ricerca di ispirazione e di soggetti), attento sempre alla tecnica del racconto cinematografico, sempre consapevole della sua specificità e dignità, e di cui fin dall'inizio ritenne autore pienamente responsabile il regista.
A Milano il G. restò poco più di un anno e completò il suo apprendistato girando, quasi sempre con il bravissimo C. Montuori alla fotografia e con attori come L. Serventi, Ugo ed Emilia Gracci, una decina di film, tra cui di particolare prestigio La doppia ferita, dove diresse la famosa Mistinguett (nome d'arte di Jeanne-Marie Bourgeois). Rientrò, quindi, a Roma alla fine del 1915.
Negli anni della guerra, cui non poté partecipare per la già ricordata lesione al tendine, e dell'immediato dopoguerra, il G. continuò a lavorare per diverse case cinematografiche italiane tra Roma e Torino: nel 1916 era a Roma (Medusa film), nel 1917 a Torino (Ambrosio film, con 3 pellicole); tra il '17 e il '18 di nuovo a Roma poi a Torino (quattro film per l'Itala), quindi, dopo la costituzione di un cartello di case di produzione italiane, l'Unione cinematografica italiana (UCI), gli venne da questa affidata nei primissimi anni Venti, la direzione di uno stabilimento a Torino, la Photodromo. In questo periodo, ormai perfettamente padrone delle tecniche registiche, venne meglio definendo la pur sempre ampia varietà dei generi praticati.
Del 1916 è l'incontro con L. D'Ambra, letterato, romanziere, ma anche uomo di cinema, che gli fornisce il copione di un'autentica commedia La signorina Ciclone - un'ereditiera americana che viaggia in Europa accompagnata dai suoi sette corteggiatori, ciascuno dei quali impersona e rappresenta un vizio capitale e che finisce per sposarne un ottavo, un europeo che pratica tutti e sette i vizi ma in una dimensione più "umana" - dove la comicità è ai limiti del grottesco e dell'assurdo, e in questa chiave il G. non la ripropose più; tuttavia il film costituisce un incontro importante con la commedia leggera e, soprattutto, con un tipo femminile diverso dalla femme fatale, dalla donna "vipera", della tradizione divistica italiana: senza abbandonare del tutto quest'ultima (del 1919 è Femmina, con Italia Almirante Manzini, un classico del genere) il G. si avvicina, con la Fuffly della Signorina Ciclone (la francese Suzanne Armelle), alle bellezze un po' androgine, alle maschiette, che spesso ricoprivano ruoli en travesti, ma insieme anche a un tipo di donna normale, meno distante, più tardi protagonista di vite sbagliate o di storie semplicemente malinconiche, che il G. assiduamente frequentò dai primi anni Venti. Altro film importante è Addio, giovinezza!, del 1918, dalla commedia di N. Oxilia, poiché anche questa - del giovane squattrinato che trascura la sua sartina per una signora del bel mondo - è una storia che nel corso degli anni, con qualche variante, replicò varie volte. Infine, nel 1923, ritornò in grande stile al genere avventuroso dei suoi esordi, con mezzi - capacità di manovra delle masse, abilità nel dosaggio fra le storie individuali e i momenti corali - ormai maturi, con due film, Cirano di Bergerac e Il corsaro, che ebbero successo anche all'estero e che egli produsse da solo.
Il cinema italiano, infatti, da lungo tempo in crisi, era ormai giunto a un punto morto: nel 1923 l'UCI chiuse e in pratica, dal 1924 al 1928, la produzione italiana quasi si arrestò. Per fare fronte a questa situazione il G. provò a vendere i suoi film all'estero, dove era già abbastanza conosciuto; ebbe particolare successo in Germania dove, nel 1925, riuscì a piazzare a un ottimo prezzo alla Westi, di Wengeroff e Stinnes, la lacrimevole storia de Il focolare spento, liberamente tratto da una novella di E. De Amicis. Proprio con questo film iniziava anche il sodalizio sentimentale e artistico con Carmen Boni, un'attrice dal fisico minuto e dall'espressione maliziosa, con una pettinatura à la garçonne che le dava un'aria da maschiaccio; con L'ultimo lord, del 1926 - molto liberamente tratto da Little lord Fauntleroy, originariamente un libro per ragazzi, in quanto il protagonista, attraverso una commedia di U. Falena, diventava una ragazza che, en travesti, conquista il vecchio nonno misogino e un marito -, protagonista appunto la Boni, il G. inizia la serie dedicata alle "ragazzacce" (che conquistano l'uomo con l'innocenza, tuttavia provvista di spirito, e il fascino acerbo) con cui ottenne, negli ultimi anni del muto, successo e lavoro all'estero in produzioni per lo più tedesche e francesi. La situazione in Italia, infatti, era ormai talmente grave che dal 1927 (l'ultima pellicola girata in patria, quell'anno, fu un remake di Addio, giovinezza!, sempre con la Boni), per circa dieci anni il G. lavorò esclusivamente all'estero.
Con la Boni girò Sprung ins Glück (Totte et sa chance ovvero La storia di una piccola parigina, 1928), Das Mädchen der Strasse (Scampolo, dalla commedia di D. Niccodemi, 1928), Liebeskarneval (Mascherata d'amore, 1928), Quartier Latin (1929), storielle curate anche se facili, tutte ricalcate sul medesimo stampo; nel contempo, però, era entrato in contatto ravvicinato con una cinematografia prospera e all'avanguardia come quella di lingua tedesca in cui operavano nomi quali quelli di G.W.Pabst, F.W. Murnau, F. Lang, E. Lubitsch, e con quella francese, non ancora a questi livelli ma comunque promettente.
Nel 1929 si ebbe l'evento capitale della scoperta del sonoro; il G., che in quel momento si trovava a Parigi venne spedito, insieme con R. Clair, dalla Sofar, la società francese per cui ambedue lavoravano, a Londra, perché si rendessero conto delle possibilità e potenzialità del nuovo mezzo. La reazione del G., il quale non accettò mai di farsi superare dai tempi, è indicativa non solo del concetto estetico ma anche dell'approccio etico che aveva alla sua professione, poiché egli fu, di fatto, un grande artigiano, sempre fedele al mezzo cinematografico, in tutte le sue possibili manifestazioni ed eventuali evoluzioni, più che a un linguaggio suo proprio. Infatti, laddove Clair espresse sul momento non irrilevanti dubbi circa il sonoro, il G. pubblicò, su Les Nouvelles littéraires, un articolo di pieno consenso intitolato Le cinéma est mort, vive le cinéma. Chi non sopravvisse al sonoro fu invece la Boni che, dopo qualche tentativo, abbandonò il cinema e anche il suo regista.
Il G. intanto aveva girato Prix de beauté (in italiano Miss Europa, 1929), cui venne aggiunto il parlato in seconda battuta: il film, che inaugura il periodo più spiccatamente francese del lavoro del G. all'estero, era stato affidato in un primo mometo a Clair, il quale contribuì solo alla sceneggiatura. La protagonista fu un'affascinante e intrigante attrice americana, Louise Brooks. È la storia di una piccola dattilografa la cui vita viene sconvolta dalla vittoria in un concorso di bellezza e che finisce assassinata dall'antico fidanzato da lei abbandonato: nella sequenza finale, non solo suggestiva, ma che evidentemente allude in concreto alle nuove possibilità del cinema, mentre il delitto è già stato consumato si sente ancora la voce della donna, diventata attrice, che viene dallo schermo dove è proiettato un suo primo saggio sonoro, cantare una canzone sulla gelosia (ma l'idea pare fosse stata di Clair).
Il film ebbe successo e fu seguito da altri in cui le figure femminili, così costantemente seguite e descritte dal G. in questa fase della sua carriera, subiscono un ulteriore cambiamento o evoluzione, e mettono in evidenza una sorta di predilezione del regista: "quel suo penchant alla malinconia, al modesto epos delle vite femminili sciupate" (Bianchi, p. 107). Varianti di questa storia - ma dove si incontrano anche altri temi che scaturiscono dai "tempi disordinati e seducenti" della Parigi anni Trenta - sono Les amours de minuit (1931); Paris-Béguin (1931), con un J. Gabin quasi agli esordi e, effettivamente esordiente nel cinema, Fernandel, scoperto dal G. in un varietà; La femme en homme (1932); Nous ne sommes plus des enfants (1934), con Gaby Morlay e due produzioni tedesche: Vergiss mein nicht! (1935), un film musicale con un B. Gigli pressoché impresentabile per il G., che tuttavia ebbe successo, e Blumen aus Nizza (1936).
Nel 1935 il G. era stato lì lì per firmare un contratto con la Paramount e trasferirsi negli USA, progetto da cui aveva receduto all'ultimo momento rendendosi conto che gli avrebbe tolto ogni libertà di movimento, per non dire che in realtà egli non fu mai veramente attratto da Hollywood. I tempi, invece, erano ormai maturi per un suo rientro in Italia, dove, con il concreto, anche se interessato, intervento del governo fascista, il cinema stava riprendendo fiato. Benché nei sette anni precedenti il G. avesse lavorato quasi esclusivamente all'estero, i suoi contatti con la cinematografia italiana non si erano mai interrotti: nel 1927, il G. era stato, insieme con il cugino M. Camerini, con De Benedetti, L. Doria, G. Zorzi e altri, fra i soci fondatori dell'Autori direttori italiani associati (ADIA) e fra i sottoscrittori della cooperativa Augustus che, nel 1929, aveva prodotto Sole di A. Blasetti. Un primo riavvicinamento si ebbe nel febbraio '36, con la produzione italo-francese La gondola delle chimere, in cui figurano anche attori italiani, tra l'altro Doris Duranti, ma il film del rientro può senz'altro indicarsi in Squadrone bianco del 1936.
Questo, considerato da alcuni e in particolare dallo stesso G., il suo film migliore, porta a compimento processi tematici ed espressivi presenti in nuce nella precedente produzione, e ora giunti a maturazione nell'ulteriore raffinarsi dei mezzi tecnici, work in progress mai considerato risolto dal G., e nel fecondante contatto con le cinematografie europee più evolute. Il film, tratto da un racconto di J. Peyré, è diviso nettamente in due parti: la prima si svolge negli interni lussuosi di appartamenti altoborghesi: il protagonista, il giovane ufficiale di cavalleria Ludovici (A. Centa), offeso e deluso dalla sua donna (Fulvia Lanzi), per allontanarsi da lei chiede di essere destinato alle truppe mehariste che operano in Libia. Qui, dove si apre la seconda parte en plein air, viene a contatto con il rude ma nobile capitano Santelia (F. Giachetti, poi uno degli attori preferiti dal G.), con il semplice coraggio delle truppe indigene, con la natura grandiosa e incontaminata del deserto: uscirà dall'esperienza completamente trasformato e prenderà stabilmente il posto di Santelia, ucciso in combattimento. Questo classico racconto di passione, morte dell'io precedente, maturazione e risurrezione, viene vivificato dal sintetico copione, ma soprattutto dall'espertissima macchina da presa del G. che uscendo dalle raccolte inquadrature degli interni borghesi, quando si sposta nel deserto, coadiuvato anche dal ricordo di tanta letteratura iconografica precedente, cinematografica e non, si lascia prendere dal fascino costruttivo ed espressivo dell'immagine in movimento, cioè dal fascino del cinema puro - quale veniva al G. dall'esperienza mai completamente superata del muto -, toccando il punto di massima raffinatezza e astrazione formale degli anni Trenta, "ritmo e scelta visiva diventano tema dominante, forma del film che assoggetta e annulla il nucleo narrativo" (Brunetta, p. 226). La pellicola ottenne la coppa Mussolini per il miglior film italiano alla Mostra di Venezia di quell'anno, segnando un rientro trionfale del G. in Italia.
Intercalati da altri film di produzione estera e di argomento più sentimentale e leggero (Frauenliebe-Frauenleid, Germania 1937; Naples au baiser de feu, Francia 1937; Castelli in aria - Ins blaue Leben, Italia-Germania 1939), seguirono gli altri due episodi della "trilogia" di guerra, L'assedio dell'Alcazar (Italia-Spagna 1940, premio coppa della Biennale a Venezia, Premio nazionale della cinematografia 1940-41; con Giachetti, A. Checchi, Mireille Balin e Maria Denis, dove è rievocato un celebre episodio della guerra di Spagna visto dalla parte dei nazionalisti, e cioè la vittoriosa, drammatica resistenza della fortezza di Toledo all'assedio delle truppe repubblicane) e Bengasi (Italia 1942, coppa Mussolini per il miglior film italiano, coppa Volpi per l'interpretazione maschile a Giachetti; oltre a Giachetti vi figurano nei ruoli principali A. Nazzari, Vivi Gioi, Maria de Tasnady; la storia dei 57 giorni di assedio agli Italiani in Bengasi da parte delle truppe inglesi) ambedue ben riusciti, in cui il G. accompagna al raffinato gusto della costruzione visiva la sapienza, di sceneggiatura e di ritmo narrativo, nel risolvere le storie individuali nell'episodio corale e nel rispecchiare questo in quelle.
Benché il G. si fosse sempre professato apolitico, come probabilmente fu in quanto suo interesse centrale apparve essere sempre e solo la sua attività professionale, e benché non avesse voluto spostarsi al Nord rimanendo a Roma anche dopo il settembre 1943, i suoi ultimi film erano troppo schierati ideologicamente perché egli uscisse indenne dalla guerra. Il G. non cessò mai dall'interessarsi di cinema e espresse una lunga serie di progetti non realizzati (fra l'altro a uno stadio avanzato di preparazione giunsero una vita di San Francesco, e una riduzione di Huis clos di J.-P. Sartre, A porte chiuse, per cui prese anche contatto con il filosofo francese), ma sta di fatto che per vari anni non girò più. Riprese nel 1949 con Cielo sulla palude, ricostruzione della breve vicenda terrena di s. Maria Goretti che, presentato a Venezia, ottenne il premio internazionale per la regia, il premio della presidenza del Consiglio dei ministri e due nastri d'argento alla regia e a G.R. Aldo come miglior operatore.
Al di là della storia del martirio della giovanissima Maria, il film è particolarmente attento alla descrizione delle terribili condizioni di vita delle popolazioni delle paludi Pontine; se questo poté far parlare di neorealismo si trattò indubbiamente di un'accezione molto particolare del termine in quanto il linguaggio realista non nasceva nel G. dalla necessità, di ordine morale, di raffigurare la realtà nella sua immediatezza, come accade in R. Rosselini o in V. De Sica, ma era, semmai, più vicino a L. Visconti, prodotto, cioè, da un'ibridazione del linguaggio nuovo - e mai il G. fu restio al nuovo - con strutture rigide e collaudate e con un certo romanticismo pittorico; come scrisse A. Bazin in una sua recensione dell'epoca il linguaggio del G. nasce dalla capacità di: "integrare al realismo una realtà pittorica e decorativa che non è meno caratteristica, non solo del cinema, ma del temperamento artistico italiano in generale" (in Germani-Martinelli, p. 314).
A Cielo sulla palude, seguirono L'edera (dal romanzo di Grazia Deledda, del 1950, con l'attrice messicana Columba Dominguez), Tre storie proibite (1952, con Lia Amanda, Antonella Lualdi, Eleonora Rossi Drago, G. Ferzetti, R. Risso; le storie di tre donne coinvolte in modo assolutamente casuale nel crollo di una scala in un palazzo popolare) e Maddalena (1954).
Quest'ultimo film può, in certo modo, essere considerato esemplare dell'ultima fase nella produzione del G., tutta concentrata sullo studio dell'universo femminile: una ragazza Maddalena (Marta Toren), che in realtà è una prostituta, in odio al parroco (G. Cervi) viene chiamata, dal signorotto (Ch. Vanel) di un paesino in cui si celebra tradizionalmente una rappresentazione della Passione, a interpretare la Madonna; la ragazza accetta come una sorta di vendetta per la morte della sua unica amatissima figlia, che aveva consacrato appunto alla Madonna. Quando i paesani scoprono la verità, viene lapidata dalla folla. Anche solo dall'esame del plot appare evidente una sorta di ulteriore ibridazione fra il realismo particolare del G. e un mélo a forte connotazione erotica che, facendo comunque parte del suo bagaglio culturale fin dai tempi del muto, egli ora ripropone attualizzandolo, sulla linea di autori contemporanei che lavorano in questa stessa direzione, come R. Matarazzo e G. De Santis.
L'ultimo film del G., Frou Frou, una commedia sentimentale ambientata nella belle époque, è del '55. Dopo questa data si accentuò l'endocardite di cui il G. soffriva da tempo.
Morì a Roma il 28 sett. 1957.
Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero e Il Tempo, 29 sett. 1957; la filmografia più completa, allo stato attuale degli studi sul G., insieme con interviste, articoli, bibliografia e documenti si trova in S.G. Germani - V. Martinelli, Il cinema di A. G., Udine 1989; vedi anche: P. Bianchi - F. Berutti, Storia del cinema, Milano 1957, pp. 92 s., 96 s., 136; G. Calendoli, Materiali per una storia del cinema italiano, Parma 1967, ad ind.; P. Bianchi, La Bertini e le dive del cinema muto, Torino 1969, ad ind.; V. Martinelli, Il cinema muto italiano, I-III, Roma-Bari 1980-82, ad ind.; G. Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Roma-Bari 1991, ad indicem.