Genina, Augusto
Regista cinematografico, nato a Roma il 28 gennaio 1892 e morto ivi il 28 settembre 1957. Entrato in contatto con il mondo del cinema nei primi anni Dieci capì subito gli elementi fondamentali del nuovo linguaggio in rapida evoluzione, acquistando in breve tempo una perfetta padronanza delle tecniche registiche, che, nel corso di tutta la sua carriera, non cessò di approfondire, consapevole della specificità e dignità del racconto cinematografico di cui sempre ritenne autore pienamente responsabile il regista. Grande artigiano, raggiunse livelli di notevole raffinatezza formale; nel corso di una lunga carriera, durante la quale entrò in fecondo contatto, soprattutto negli anni Venti e Trenta, con le più evolute cinematografie europee, quali la francese e la tedesca, si confrontò con vari generi (dall'avventura al dramma e al melodramma, dal racconto corale alla commedia) mostrando una propensione particolare per l'universo femminile. Nato in una famiglia altoborghese e iscritto, con ben poco interesse, alla facoltà di ingegneria dell'Università di Roma, si avvicinò al mondo dello spettacolo attraverso il teatro, pubblicando qualche recensione e cominciando anche a scrivere commedie che sottopose, nel 1912, alla Cines come soggetti cinematografici. Il primo che venne realizzato e di cui si abbia traccia concreta fu prodotto però dalla Film d'Arte Italiana, una filiale della francese Pathé Frères per la quale G. curò con Francesca Bertini l'adattamento cinematografico di Beatrice d'Este (1912) di Ugo Falena. In seguito, per la Celio Film e per il suo direttore artistico, nonché regista, Baldassarre Negroni, curò una serie di soggetti: storie di modeste maestrine insidiate da torvi individui (L'arma dei vigliacchi o La maestrina, 1913), di zingari (Zuma, 1914), di apaches (Ninì Verbena o In faccia al destino, 1915). Mentre fu Alberto Fassini, all'epoca direttore della Cines, che lo fece esordire come regista nel 1913 con La moglie di Sua Eccellenza. Nel corso del 1914 G. diresse, sempre per la Cines, vari film, per lo più di argomento avventuroso o storico, con attori quali Ruggero Ruggeri (Lulù), Leda Gys (Il piccolo cerinaio) e Pina Menichelli (Giovinezza trionfa! o Il getto d'acqua); sul finire dell'anno si trasferì a Milano, dove, per conto della Milano Film, operando in un ambiente meno provinciale, più tradizionalmente aperto a esperienze europee di quello romano, completò il suo apprendistato realizzando una decina di film, con una tipologia di soggetti estremamente varia: di particolare prestigio La doppia ferita, 1915, in cui diresse la famosa Mistinguett. Rientrato a Roma alla fine del 1915, continuò a lavorare, tra Roma e Torino, per diverse case cinematografiche, quindi, nei primi anni Venti, gli venne affidata dall'Unione cinematografica italiana (UCI) la direzione dello stabilimento Photodromo di Torino. In questa fase venne definendo meglio la pur sempre ampia varietà dei generi affrontati; in particolare, su testo di L. D'Ambra, girò La signorina Ciclone (1916) che costituì per G. un incontro importante con la commedia leggera e, soprattutto, con un tipo femminile diverso dalla femme fatale, dalla donna 'vipera' della tradizione divistica italiana. Infine, nel 1923, investendo direttamente nella produzione, ritornò in grande stile al genere avventuroso dei suoi esordi, avendo maturato capacità di manovra delle masse e abilità nel dosare storie individuali e momenti corali (Cirano di Bergerac, 1922; Il corsaro, 1923). Nel periodo di maggior crisi del cinema italiano, quando, dal 1924 al 1928, la produzione nazionale quasi si arrestò, G. iniziò a vendere all'estero i suoi film, ottenendo particolare successo in Germania con Il focolare spento (1925), liberamente tratto da una novella di E. De Amicis. Con questo film era iniziato il sodalizio sentimentale e artistico con Carmen Boni, un'attrice dal fisico minuto e dall'espressione maliziosa, che interpretò anche L'ultimo Lord (1926), e tutta una serie dedicata alle 'ragazzacce' ‒ che conquistano l'uomo con l'innocenza, ma sono comunque provviste di spirito e di fascino acerbo ‒ con cui G. ottenne, negli ultimi anni del muto, successo e lavoro fuori dall'Italia in produzioni per lo più tedesche e francesi (Sprung ins Glück, 1928, La storia di una piccola parigina; Das Mädchen der Strasse, 1928, Scampolo, dalla commedia di D. Niccodemi; Liebeskarneval, 1928, Mascherata d'amore; Quartier Latin, 1929). Interrotto il legame con Carmen Boni, e dopo il successo di Prix de beauté (1930; Miss Europa, che venne poi sonorizzato), protagonista l'affascinante Louise Brooks, G. iniziò a interessarsi a nuove e diverse figure femminili, descrivendo donne più comuni e assecondando la sua predilezione per storie più realistiche. Su questa stessa linea, incrociata con altri temi scaturiti dai 'tempi disordinati e seducenti' della Parigi anni Trenta, sono Les amours de minuit, 1930; Paris-Béguin, 1931; La femme en homme, 1932; Nous ne sommes plus des enfants, 1934; e due produzioni tedesche: Vergiss mein nicht!, 1935, e Blumen aus Nizza, 1936. In quegli anni non si erano mai interrotti i contatti di G. con la cinematografia italiana la quale si andava gradatamente risollevando con l'interessato intervento del governo fascista. Un primo riavvicinamento si ebbe nel 1936, con la produzione italo-francese La gondola delle chimere, ma l'opera del rientro, trionfale, fu Squadrone bianco (1936), con la quale ottenne la Coppa Mussolini per il migliore film italiano alla Mostra del cinema di Venezia. Il film, considerato da alcuni, e in particolare dallo stesso G., il suo migliore, porta a compimento processi tematici ed espressivi che erano già presenti in nuce nella precedente produzione. Girato per gran parte in Libia, questo melodramma coloniale è vivificato dall'espertissima macchina da presa di G. che, forte della sua esperienza nel cinema muto, dalle raccolte inquadrature degli interni borghesi iniziali, spostandosi nel deserto ‒ coadiuvato anche dal ricordo di tanta letteratura iconografica precedente, cinematografica e non ‒ dispiega tutto il fascino espressivo di una dinamica costruzione visiva, toccando uno dei punti di massima raffinatezza e astrazione formale della cinematografia italiana, e non solo, degli anni Trenta.Intercalati da altri film, tra cui alcuni di produzione estera, e di argomento più sentimentale e leggero (Frauenliebe-Frauenleid, 1937; Naples au baiser de feu, 1937; Castelli in aria, 1939), seguirono i due successivi episodi della 'trilogia di guerra', L'assedio dell'Alcazar (1940, Coppa Mussolini per il migliore film italiano; Premio nazionale della cinematografia, 1940-41), in cui è rievocato un celebre episodio della guerra di Spagna visto dalla parte dei nazionalisti, e Bengasi (1942; Coppa Mussolini per il migliore film italiano) ambedue ben riusciti, in cui G. accompagna al gusto della costruzione visiva, sapienza di sceneggiatura e di ritmo narrativo, rispecchiando la coralità dell'episodio bellico nell'articolazione delle vicende individuali.
Benché G. si fosse professato apolitico, e non avesse voluto aderire alla Repubblica di Salò, rimanendo a Roma dopo il settembre 1943, i suoi ultimi film erano troppo schierati ideologicamente perché egli uscisse indenne dagli eventi bellici e postbellici. Dopo alcuni anni di forzato silenzio, durante i quali continuò a elaborare progetti, riprese la sua attività di regista nel 1949 con Cielo sulla palude che, presentato a Venezia, ottenne il Premio internazionale per la regia, il Premio della Presidenza del Consiglio dei ministri e il Nastro d'argento alla regia. Ricostruzione del martirio della giovanissima Maria Goretti, il film è particolarmente attento alla descrizione delle terribili condizioni di vita delle popolazioni delle paludi pontine; se questo fece parlare di Neorealismo si trattò indubbiamente di un'accezione particolare del termine in quanto nel caso specifico lo stile di G. era il prodotto di un'ibridazione del nuovo indirizzo con strutture tradizionali e collaudate e con un certo romanticismo pittorico.
A Cielo sulla palude seguirono L'edera (1950), Tre storie proibite (1952), Maddalena (1954), ulteriore attualizzazione del melodramma al femminile, e infine la commedia sentimentale, Frou-Frou (1955).
V. Martinelli, Il cinema muto italiano, 3 voll., Roma-Bari 1980-1982, ad indicem.
S.G. Germani, V. Martinelli, Il cinema di Augusto Genina, Udine 1989.
G.P. Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Roma-Bari 1991, ad indicem.
A. Cimmino, Genina, Augusto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 1999, ad vocem.