Augusto: il fondatore dell'impero
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo aver consolidato la propria posizione nel corso degli anni Venti cercando di non rompere i legami con la precedente tradizione repubblicana, Ottaviano Augusto si dedica a un’ampia opera di riforma del governo e dell’amministrazione dello stato, di cui allarga anche i confini intraprendendo numerose guerre.
Con la vittoria su Antonio e Cleopatra ad Azio, nel 31 a.C., Ottaviano – questo il nome di Augusto prima del 27 a.C. – mette la parola fine a lunghi decenni di guerre civili che per buona parte del I secolo a.C. avevano insanguinato Roma ed erano riuscite ad avvelenare vita e rapporti sociali non solo nell’Urbe, ma anche nelle province. La conquista del potere da parte di Ottaviano non significa, però, che dal punto di vista formale il passaggio dalla repubblica al principato – il nome che solitamente si attribuisce ai primi secoli dell’impero romano – si sia verificato d’un tratto e secondo piani prestabiliti: si attua, invece, attraverso una serie di interventi e correzioni costituzionali, che conoscono il loro apice negli anni Venti, e che si protraggono sino agli inizi del I secolo d.C. A favorire inoltre l’assunzione del governo dello stato da parte di un uomo solo, un ruolo importante è giocato anche dall’esigenza di pace e sicurezza della popolazione dell’impero, e in primo luogo dell’Italia, che aveva profondamente sofferto per le guerre civili.
Al fine di consolidare la propria posizione di comando Ottaviano giudica come via più sicura quella di collegarla strettamente alla tradizione repubblicana, senza introdurre novità dirompenti. Dopo che riceve nel 27 a.C. il cognomen di Augustus (dalla radice del verbo augere, "aumentare", da cui deriva anche auctoritas), nel 23 a.C. il senato gli accorda i diritti e i privilegi del tribuno della plebe – la cosiddetta tribunicia potestas – che gli garantiscono l’inviolabilità della persona e il diritto di veto contro le misure decise da qualsiasi altro magistrato; e ben presto egli ottiene anche l’imperium proconsulare maius (comando proconsolare maggiore), che gli conferisce autorità su ogni governatore di provincia. Su queste basi per più di tre secoli si fonda il potere dei successori di Augusto; accanto a loro continuano a esserci consoli, pretori, questori, ma l’impegno di questi ultimi, per la presenza dell’imperatore, non ha più la forza e l’incisività dell’epoca repubblicana.
Lo stesso Augusto ci lascia un asciutto resoconto delle proprie imprese – le Res gestae – che compone, all’età di settantasei anni, nel 13, poco prima della morte, e che vuole sia esposto, trascritto su colonne di bronzo, all’ingresso del suo Mausoleo in Campo Marzio. Il testo originale, che non ci è pervenuto, lo possiamo tuttavia ricostruire con l’aiuto di tre iscrizioni che lo tramandano – una in latino, una in greco e soprattutto una in entrambe le lingue da Ancyra (Ankara) – rinvenute tutte in città del lontano e freddo altopiano anatolico. Anche lì era riuscita a giungere la parola del primo imperatore.
Cesare Ottaviano Augusto
Augusto parla di sé
Res gestae divi Augusti, cap. III, IV, XXVI
Combattei spesso in terra e in mare guerre civili ed esterne in tutto il mondo, e vittorioso risparmiai tutti i cittadini che chiedevano grazia. Preferii preservare anziché distruggere i popoli stranieri ai quali si poté perdonare senza pericolo. I cittadini romani che prestarono a me il giuramento militare furono circa cinquecentomila. Di essi, alquanto più di trecentomila, che avevano ottenuto il congedo, stanziai in colonie o rinviai nei loro municipii e a tutti assegnai campi o elargii denaro come premio del servizio militare. Catturai seicento navi, senza contare quelle minori delle triremi.
Ebbi due volte l’onore dell’ovazione e tre volte celebrai trionfi curuli e fui salutato imperator ventuno volte, decretandomi il senato ancora altri trionfi, ai quali tutti rinunciai. Deposi l’alloro dei fasci nel Campidoglio, sciogliendo così i voti che avevo pronunciato in ciascuna guerra. Per le imprese felicemente compiute in terra e in mare, da me o sotto i miei auspici da miei luogotenenti, il senato decretò in cinquantacinque occasioni rendimenti di grazie agli dèi immortali. I giorni, poi, nei quali per decreto del senato furono pronunciate le preghiere, giunsero a ottocentonovanta. Nei miei trionfi furono tratti davanti al mio carro nove re o figli di re. Quando scrivevo queste memorie ero stato console tredici volte, ed ero al trentasettesimo anno di potestà tribunizia.
Ampliai il territorio di tutte le province del popolo romano con le quali confinavano popolazioni riottose al nostro comando. Ristabilii la pace nelle province galliche e ispaniche, e ugualmente nella Germania, nell’area che costeggia l’oceano da Cadice allo sbocco del fiume Elba. Pacificai le Alpi dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna popolazione avendo portato guerra ingiustamente. La mia flotta navigò per l’oceano dalla foce del Reno verso oriente fino ai territori dei Cimbri, dove né per terra né per mare alcun romano prima di allora si era mai spinto, e i Cimbri e i Caridi e i Sennoni e altri popoli germanici della stessa regione chiesero per mezzo di ambasciatori l’amicizia mia e del popolo romano. Per mio ordine e sotto i miei auspici, due eserciti vennero guidati quasi contemporaneamente in Etiopia e nell’Arabia detta Felice, e vaste schiere di entrambe le popolazioni nemiche furono uccise in campo e molte città conquistate. In Etiopia si giunse fino alla città di Nabata, cui è prossima Meroe; in Arabia l’esercito marciò in territorio dei Sabei fino alla città di Mariba.
Augusto, Res gestae divi Augusti, trad. it. Luca Canali, Roma, Editori Riuniti, 1993
Nelle Res gestae Augusto è quanto mai parco di informazioni relative alla sua ascesa al potere, mostrando una certa predilezione per vaghe formule come l’affermazione che "era superiore a tutti in auctoritas ("autorità"), sebbene non avesse maggior potere di tutti gli altri che furono suoi colleghi in ciascuna magistratura". Una tale scelta a favore dell’understatement, che lo ha sempre caratterizzato, ha indotto più di uno studioso ad attribuire al primo imperatore forme di ipocrisia e di mirata autocensura, confermate dal fatto che nel testo non ricorda la grave sconfitta subita dal suo generale Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo e non cita per nome gli acerrimi nemici Sesto Pompeo e Marco Antonio, pur compiacendosi di averli annientati. Augusto d’altro canto è estremamente attento nell’evidenziare i suoi successi militari ai confini dell’impero, la sua generosità nello spendere a favore della res publica e del populus Romanus, il suo rispetto per la tradizione repubblicana in merito ai suoi poteri, il suo amore per la pace e, soprattutto, il consenso popolare che arrise alla sua azione. Individua cioè perfettamente i segreti di una comunicazione politica di successo.
Prima delle Res gestae, a diffondere e amplificare la visione che Augusto ha del proprio potere, non trascurabile è stato il contributo di Virgilio e di Orazio. Il poeta mantovano all’inizio dell’Eneide fa lodare l’imperatore da Giove, e poi nel sesto libro, in una sorta di profezia post eventum, presenta Anchise che mostra al figlio Enea le future glorie della loro discendenza: nella schiera dei Romani tra Cesare e gli antichi re Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, si erge Augusto che viene indicato come colui che darà nuovamente inizio per il Lazio "al secolo d’oro" e sarà trionfatore su numerose genti straniere. Orazio, da parte sua, in alcune delle Odi, a partire da quella che celebra la sconfitta di Cleopatra, elogia il nuovo signore come colui che era stato in grado di riportare la pace e di mantenerla con la propria saggezza. Il poeta di Venosa inoltre appare come un sostenitore della restaurazione della morale e dell’antica tradizione romana promossa da Augusto, al quale si riconosce di aver avviato una nuova età dell’oro.
Sul versante delle arti figurative, il potere delle immagini che non solo riflettono, ma anche puntellano la trasformazione della società romana tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C., non è da meno di quello delle parole. In riferimento a loro, però, non è forse giusto servirsi del termine moderno di propaganda, giacché quello che potrebbe apparire come un programma preordinato che attraversa architettura, scultura e architettura è di fatto il risultato di un reciproco scambio protrattosi per decenni tra l’immagine che l’imperatore stesso proiettava di sé e il complesso sistema degli onori che con maggiore o minore spontaneità gli venivano attribuiti. È, ad ogni modo, tramite il linguaggio visivo formatosi sotto Augusto che si afferma, accanto a una nuova mitologia di Roma, la nuova ritualità del potere ormai imperiale.
Dopo aver consolidato il proprio potere personale negli anni Venti del I secolo a.C., Augusto dedica il resto della sua vita – fino alla morte che lo coglie nel 14 d.C. – a riorganizzare l’amministrazione dello stato e della città di Roma che desiderava rappresentasse il modello per tutti gli altri centri dell’impero.
Un presupposto dei suoi numerosi interventi, distribuiti nel tempo e non riconducibili a un programma unitario, è la grande trasformazione sociale che nel corso della seconda metà del I secolo a.C. fa emergere una schiera di uomini nuovi destinati a costituire la futura classe dirigente dell’impero. Costoro entrano a far parte del senato, svecchiato ed epurato da Augusto, e cominciano a ricoprire da un lato le magistrature della vecchia tradizione repubblicana lasciate in vita dal primo imperatore e dall’altro i sempre più numerosi posti di governatore creati dalla nuova organizzazione delle province. Lo stesso Augusto fa grande affidamento nell’amministrazione dello stato e della città di Roma, con un netto scarto rispetto al periodo repubblicano, sull’ordine equestre: sono i cavalieri infatti a ricoprire vitali cariche di nuova istituzione come la prefettura d’Egitto, la provincia da cui giungono gli approvvigionamenti di grano per l’Urbe, e la prefettura del pretorio, che comporta il comando delle coorti pretorie, la sola presenza militare di rilievo a Roma e, in un primo tempo, anche altrove dell’Italia. I cavalieri, inoltre, provvedono all’amministrazione del patrimonio del principe anche nelle province con il titolo di procuratori.
Tra le riforme augustee relative all’ordinamento generale dello stato se ne distinguono due in particolare. La prima si occupava del sistema provinciale: l’imperatore – come ricorda il geografo di lingua greca Strabone, originario del Ponto – divide i domini di Roma sparsi per tutto l’ecumene in due grandi insiemi, attribuiti l’uno al populus e l’altro al principe. Il primo gruppo è composto da province pacificate – come quella d’Asia (che occupava buona parte dell’area occidentale dell’attuale Turchia) o di Sicilia – che non richiedevano la presenza di significativi contingenti militari, ed erano governate di solito per un anno da proconsoli, di rango pretorio o consolare, estratti a sorte dal senato. Componevano invece il secondo gruppo province, come la Siria, per lo più ai confini dell’impero, che richiedevano la presenza delle legioni: conscio dei rischi per la propria sicurezza che il comando di truppe poteva comportare, il principe inviava a governarle dei legati scelti personalmente tra i senatori di fiducia che in genere restavano in carica per più d’un anno.
A rafforzare il controllo dell’apparato militare è rivolta una seconda riforma augustea, che porta alla costituzione di un esercito permanente di professionisti, mettendo da parte il sistema della leva usato in precedenza. Sostenitore di tale opzione, in un dialogo tra Mecenate e Agrippa sulla migliore forma di governo da dare a Roma, che lo storico di III secolo Cassio Dione immagina si sia tenuto alla presenza di Augusto, è il primo dei due consiglieri e aiutanti del principe. Le ragioni che Mecenate adduce sono quelle dell’efficienza della macchina bellica, ma ad Augusto non sarà certo sfuggita l’importanza per la stabilità del proprio potere dello stretto rapporto di lealtà che con lui avrebbero stabilito soldati e veterani che tutto gli dovevano.
Quanto a Roma, valutando gli interventi edilizi di Augusto, Svetonio nella Vita dedicata al princeps scrive che questi essendosi reso conto che “le forme della città non corrispondevano alla grandiosità dell’impero ed essa era esposta alle inondazioni e agli incendi, l’abbellì a tal punto che giustamente si vantò di lasciare di marmo una città che aveva ricevuto di mattoni”. Parole confermate dai ritrovamenti archeologici e da Strabone, il quale si sofferma elogiativamente sull’ampiezza del contributo di Augusto e della sua famiglia al rinnovamento del Campo Marzio.
Sul piano amministrativo, come ricorda ancora Svetonio, Augusto divide la città – che cresceva rapidamente in estensione e in numero di abitanti – in quattordici regiones (distretti), a loro volta ripartiti in vici (quartieri), con lo scopo di facilitare l’organizzazione di vecchi e nuovi servizi. Per proteggere la sicurezza pubblica Augusto "stazionò sette coorti in luoghi adatti, in modo che ogni coorte proteggesse due distretti della città". Al loro comando pone un cavaliere con il titolo di prefetto dei vigili: secondo quanto riporta il Digesto – la summa dell’antica giurisprudenza romana – egli doveva indagare e porre rimedio a furti, scassi e incendi, questi ultimi particolarmente frequenti per l’allora diffuso uso del legno nelle costruzioni.
In difesa della sicurezza pubblica: il prefetto dei vigili
Digesto, I, 15, 3
Nel Digesto (I, 15, 3), la summa della giurisprudenza romana compilata sotto Giustiniano, è contenuto il testo di Paolo relativo all’istituzione della carica di prefetto dei vigili da parte di Augusto.
Augusto ritenne che la protezione della sicurezza pubblica appartenesse a nessun altro se non all’imperatore e che nessun altro fosse all’altezza della carica. Perciò stazionò sette coorti in luoghi adatti, in modo che ogni coorte proteggesse due distretti della città; al comando delle coorti vi erano dei tribuni e a capo di tutto vi era un cavaliere degno del titolo di spectabilis, chiamato prefetto dei vigili. Il prefetto dei vigili indaga sugli incendiari, gli scassinatori, i ladri, i rapinatori, e i ricettatori di criminali, a meno che l’individuo non sia persona tanto efferata e famigerata da dover essere inviata al prefetto urbano. E dato che gli incendi sono generalmente causati dalla negligenza degli occupanti, punisce a frustate coloro che sono stati gravemente imprudenti nell’uso del fuoco, oppure sospende la pena delle frustate dopo aver comminato un severo rimprovero. L’effrazione è commessa in genere negli appartamenti e nei magazzini dove le persone depositano la parte più preziosa dei loro averi, può essere scassinato sia un locale, sia un armadio che uno scrigno; in questo caso sono puniti generalmente i custodi. […] È da notare il fatto che il prefetto dei vigili deve essere in servizio per tutta la notte e deve indossare calzature appropriate e deve essere equipaggiato con secchi e asce. Deve ammonire tutti i residenti affinché prendano cura che non scoppino incendi per negligenza, in più si prescrive che avverta ogni residente di tenere dell’acqua al piano superiore. A lui è stata inoltre assegnata la giurisdizione sui guardarobieri delle terme; e se, nel prendersi cura dei vestiti, commettono delle frodi, spetta a lui l’indagine.
Digesto, trad. di Carla Salvaterra
Augusto non manca neppure di rivolgere le sue cure al rifornimento idrico della città, trasformando in pubblica l’organizzazione che creata da Agrippa e che da quest’ultimo aveva ricevuto in eredità, e stabilisce che a dirigerla sia un senatore con il titolo di curator aquarum (soprintendente agli acquedotti).
Quelli qui presentati non sono che pochi esempi delle riforme di Augusto: ve ne sono infatti numerose altre di notevole importanza relative, per esempio, ai sistemi di tassazione e allo svolgimento dei processi civili, oppure all’approvvigionamento granario dell’Urbe. Nel suo insieme il nuovo ordinamento predisposto da Augusto per lo stato e per la città di Roma nel corso del suo lungo regno è rimasto in vigore, pur con adattamenti e trasformazioni, per circa tre secoli, costituendo la linea guida per i suoi successori. In un tema come quello dell’amministrazione provinciale per di più, ben oltre la fine del mondo antico, gli interventi di Augusto hanno indirizzato in età moderna le scelte e la pratica non solo dell’impero spagnolo, esteso dalla Sicilia all’America del Sud, ma anche della repubblica di Venezia i cui inviati a reggere il lontano possesso di Creta partivano con un preciso elenco di mandata e a volte assumevano nelle iscrizioni il titolo di proconsole. E i cardinali prefetti, tuttora presenti nell’ordinamento della Chiesa cattolica, sono da considerare come diretti discendenti dei vari prefetti del pretorio, dei vigili, dell’annona, dell’Urbe istituiti da Augusto.
Nelle Res gestae Augusto scrive: “Quando tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia, sotto il consolato di Tiberio Nerone e di Publio Quartilio, portate felicemente a termine alcune imprese in quelle province, il senato decretò che si dovesse consacrare per il mio ritorno l’ara Pacis Augustae [ara della Pace Augusta], prossima al Campo Marzio, e dispose che in essa i magistrati e i sacerdoti e le vergini Vestali ogni anno celebrassero un sacrificio”. Il monumento, inaugurato effettivamente solo nel 9 a.C., secondo la definizione di Ranuccio Bianchi Bandinelli – grande archeologo del secolo passato – non è un’opera d’arte di eccelsa qualità, ma è indubbiamente un’importante testimonianza della centralità che la pace e la sua esaltazione rivestono nell’azione di governo di Augusto. L’imperatore del resto, ancora nelle Res gestae, scrive con malcelato orgoglio: “Il tempio di Giano Quirino, che i nostri antenati vollero rimanesse chiuso quando in tutto l’impero del popolo romano per terra e per mare fosse stata stabilita la pace con vittorie, mentre, prima della mia nascita, fin dalla fondazione della città, si tramanda che era stato chiuso soltanto due volte, durante il mio principato il senato decretò per tre volte che si dovesse chiudere”. L’insistere, comunque, sulla pace da parte di Augusto, già dalla fine delle guerre civili, sembra avere soprattutto una valenza ideologica volta a rafforzare intorno a lui il consenso degli abitanti dell’impero e a differenziarlo dai condottieri dell’epoca repubblicana che – pur titolari di elogi nel suo Foro – della pace non avevano colto la fondamentale funzione politica. Di fatto Augusto è il romano che maggiormente allarga i confini dello stato con la guerra, mostrando una forte tensione di natura imperiale verso il dominio universale, sottolineata anche nel profilo, più su ricordato, che di lui si offre nel sesto libro dell’Eneide virgiliana.
In Occidente, dopo la vittoria di Azio, con due campagne militari condotte dallo stesso imperatore (26-25 a.C.) e una da Agrippa (19 a.C.) è completata la conquista della penisola iberica iniziata due secoli prima, e sono quindi istituite le tre province di Betica, Tarraconense e Lusitania. Negli stessi anni, nelle regioni alpine, nel 25 a.C. vengono sconfitti i Salassi (nell’attuale Val d’Aosta), mentre tra il 17 e il 13 a.C. sono sottomessi il Norico, la Rezia e la Vindelicia ad opera di Tiberio e Druso – figliastri di Augusto, come si vedrà – e il regno di Cozio venne ridotto a prefettura. Successivamente l’annessione della Pannonia, dell’Illirico e della Mesia porta al Danubio il confine dell’impero. Ad est del fiume Reno, invece, prima Druso e, subito dopo la sua morte nel 9 a.C., Tiberio conquistano ampi territori fino all’Elba; in Germania Tiberio ritorna nel 5 d.C. per continuare l’opera, ma una rivolta scoppiata in Pannonia l’anno successivo lo tiene a lungo impegnato: in sua assenza Arminio, figlio di un principe dei Cheruschi, già comandante di un reparto di truppe ausiliarie germaniche, nonché cittadino romano, ha modo di porsi a capo di una sollevazione della sua terra. Nel 9 d.C. nella selva di Teutoburgo egli stermina tre legioni affidate al generale Quintilio Varo, e infliggendo questa sconfitta – un colpo durissimo per Augusto, che su di essa tace nelle Res gestae – blocca l’espansione romana nell’area.
Ad Oriente, non è la guerra la forma d’intervento favorita da Augusto per regolare i rapporti con i popoli vicini e affermare le sue istanze di dominio universale. A esclusione della spedizione inviata al comando di Elio Gallo nel 25-24 a.C. alla conquista dell’Arabia al fine di ottenere il controllo sul traffico degli aromata, che non ha un risultato positivo, l’imperatore preferisce servirsi delle armi della diplomazia. Nelle Res gestae si vanta delle ambascerie che gli vengono inviate dall’India e da tutte le genti insediate al di là dei confini orientali dell’impero, anche se ciò che gli preme soprattutto comunicare è di aver esercitato una notevole influenza sull’impero dei Parti. Da questi ultimi nel 20 a.C. ottiene la restituzione delle spoglie e delle insegne di tre eserciti romani – al comando rispettivamente di Crasso, Decidio Saxa e Antonio – da loro sconfitti: ma si tratta di un successo d’immagine che non può essere equiparato a uno militare, come Augusto cerca di far credere. Ben lontano dal sogno di stabilire una sorta di protettorato sui Parti appare inoltre l’incontro che nel 2 d.C. suo nipote Gaio Cesare ha con il loro re su un’isola dell’Eufrate per definire le reciproche sfere d’influenza. L’imperatore riesce invece a intrecciare rapporti di clientela con i regni di Tracia, Ponto, Cappadocia e a imporre come re all’Armenia, anche se per breve tempo, il filoromano Tigrane nel 20 a.C. Al centro dell’Anatolia, morto il re Aminta nel 25 a.C., il regno di Galazia è a sua volta trasformato in provincia, mentre in Oriente la Giudea, dopo la scomparsa di Erode, è annessa come prefettura alla provincia di Siria nel 6 d.C.
Per nulla scontata e pacifica è dunque la vicenda dell’impero negli oltre quarant’anni del principato di Augusto, percorsi da guerre e riforme, e durante i quali lo stato romano conosce la più profonda trasformazione della sua storia: esso diviene – pur con una certa riluttanza ad ammetterlo da parte dei protagonisti – una monarchia, per alcuni aspetti non dissimile dai regni ellenistici dei secoli passati. Un esito questo a cui portano da un lato i decenni delle guerre civili con i conflitti tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo, tra lo stesso Ottaviano e Antonio, che puntavano nella direzione della conquista del potere da parte di un uomo solo, e dall’altro l’ampiezza dei territori conquistati nel corso dei secoli che richiedeva alla propria testa una figura carismatica in grado di garantirne la coesione, al di là dei proconsoli inviati annualmente a reggerli.
Ben conscio della situazione, nella scelta del suo successore Augusto comunque non può o, forse ancor più, non vuole seguire apertamente la via dinastica. Alla sua morte, infatti, dal punto di vista formale avrebbe dovuto essere il senato a decidere se continuare lungo la strada intrapresa del regime di tipo monarchico e a chi fosse da assegnare il trono; il primo imperatore, del resto, non ignaro delle propensioni repubblicane di parte dell’aristocrazia romana del suo tempo e privo di un figlio maschio, piuttosto che nominare esplicitamente un erede alla maniera dei re ellenistici segnala le sue preferenze accrescendo il prestigio di membri della propria famiglia e di qualche amico e collaboratore. Attraverso matrimoni, adozioni e abbreviando i tempi delle carriere di magistrato dei suoi prescelti, Augusto crea – per usare le parole di Tacito all’inizio degli Annali – una serie di "sostegni al suo potere" (subsidia dominationi).
Il primo a guadagnarsi il favore del principe è il nipote Marco Claudio Marcello, figlio della sorella Ottavia Minore: nel 25 a.C. gli concesse in sposa la figlia Giulia, nata dal proprio matrimonio con Scribonia, e ne sostiene in ogni modo la carriera fino alla candidatura al consolato con un anticipo di dieci anni sull’età canonica. Ma nel 23 a.C. Marcello si ammala e muore, pianto nel sesto libro dell’Eneide come "il maggior vanto della terra di Romolo". A sostituirlo è chiamato Agrippa, "uomo di origini oscure" nella definizione di Tacito, ma validissimo generale che nel 36 a.C. era stato risolutivo nella vittoria della guerra contro Sesto Pompeo in Sicilia.
Agrippa è associato dal principe ai suoi poteri e nel 21 a.C. ottiene in moglie Giulia, da poco vedova di Marcello. Gaio e Lucio, figli della coppia, nel 17 a.C. sono adottati dal nonno e assumono il nome di Cesari. Agrippa, però, si spegne nel 12 a.C., ed essendo i nipoti ancora fanciulli, in vista della successione Augusto si orienta verso Tiberio, figlio della sua terza moglie Livia e di Tiberio Claudio Nerone.
Molto sostenuto dalla madre, Tiberio è acclamato imperator (nel senso di "generale vincitore") per i suoi successi militari in Pannonia e Germania e anche lui sposa Giulia, già vedova di Marcello e Agrippa. Giulia è forse il principale strumento di cui Augusto si serve nella strategia di ricerca di un erede, e il suo coinvolgimento in uno scandalo politico-sessuale, che costringe il padre a relegarla nel 2 a.C. nell’isola di Pandataria (Ventotene), può ben essere considerato come una forma di reazione alle logiche di potere che avevano ingabbiato la sua vita. Quanto a Tiberio, alla fine del 6 a.C., decide di ritirarsi nell’isola greca di Rodi, luogo di raffinata cultura artistica e letteraria, adducendo a ragione – come riporta Svetonio – l’esigenza di riposo (requies laborum), ma in realtà indotto a tale gesto da motivi più profondi collegati al suo infelice matrimonio e all’ormai impari contesa per la successione con Gaio e Lucio Cesare. La mossa di Tiberio, comunque sia, indispettisce tanto profondamente Augusto, che non concede al figliastro di rientrare a Roma per vari anni; nel frattempo tutte le sue attenzioni sono rivolte ai due figli adottivi. Secondo quanto scrive Tacito: “prima ancora che deponessero la toga pretesta degli adolescenti, Augusto aveva desiderato ardentemente, pur fingendo il contrario, che ricevessero il titolo di principi della gioventù e fossero destinati al consolato”. Nonostante tutto però la sorte, come non lo era stata con Marcello, non è benigna neppure con Gaio e Lucio: quest’ultimo infatti in viaggio per la Spagna spira improvvisamente a Marsiglia a diciannove anni di età, nel 2 d.C. (Tacito suggerisce per una trama ordita da Livia); Gaio invece, inviato nell’1 a.C. in Oriente per dare una soluzione al problema armeno, nel corso dell’assedio di Artagira si procura una brutta ferita, per i postumi della quale muore in Licia, nel sud dell’Asia Minore, durante il viaggio di ritorno a Roma, agli inizi del 4 d.C. Per Augusto si riapre dunque il problema della successione. Ad essere favorito è ancora una volta Tiberio che, sempre con l’aperto aiuto dalla madre, rientrato da Rodi, viene adottato dal principe – entrando così a far parte della famiglia Giulia – insieme ad Agrippa Postumo, l’ultimo figlio di Agrippa e Giulia, ed è da parte sua costretto ad adottare Germanico, figlio del fratello Druso morto ormai da un quindicennio e di Antonia Minore, a sua volta nata da Marco Antonio e dalla sorella del principe Ottavia Minore. In tal modo Augusto fornisce nuovi "sostegni" al suo potere e, anche se Agrippa Postumo è diseredato come figlio adottivo nel 6 d.C., restavano pur sempre Tiberio e Germanico, nei quali si saldavano le storie delle più potenti famiglie romane della seconda metà del I secolo a.C., senza dimenticare che Germanico aveva preso in sposa Agrippina Maggiore la prima figlia di Agrippa e Giulia.
La morte di Augusto avviene a Nola, in Campania, il 19 agosto del 14 d.C.: al suo capezzale è Tiberio che, insieme alla madre Livia, ne raccoglie l’eredità e che, dopo un iniziale rifiuto, risponde positivamente alla richiesta del senato di divenirne il successore alla guida dello stato romano. Così si chiude la lunga ricerca da parte di Augusto di un erede: ai quarant’anni che dura – costellati di intrighi, divorzi, matrimoni d’interesse, avvelenamenti, ma anche di nobili e degne imprese – si può guardare come a un preludio della futura vicenda dell’impero.