TURATI, Augusto
– Nacque a Parma il 25 agosto 1888 da Antonio e da Anna Vanoni.
Il padre, ufficiale dell’esercito, poteva vantare un glorioso passato di volontario garibaldino. Nel 1896 la famiglia si trasferì a Brescia, dove il giovane s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e mosse i suoi primi passi nel mondo della politica, con convinzioni apertamente e fermamente liberali. Sposò una maestra bresciana, Olga Guerrini, da cui ebbe una figlia, Anna Eugenia.
Alla fine del primo decennio del secolo, Turati frequentava assiduamente circoli e club liberali, e dal 1913 iniziò a comparire la sua firma su La Provincia di Brescia, un giornale di tendenza liberal-democratica, fondato da Giuseppe Zanardelli. Attivo interventista e volontario, combatté sul Carso e sull’Isonzo guadagnandosi una medaglia d’argento, una di bronzo e una croce di guerra al valor militare. Congedato nell’agosto del 1919 con il grado di capitano, tornò a lavorare per La Provincia di Brescia, di cui divenne caporedattore.
Quando, nell’aprile del 1919, Alessandro Melchiori fondò il fascio bresciano, Turati sulle prime non vi aderì. Vi si iscrisse nel gennaio del 1920, assumendovi un ruolo di spicco solo verso la fine di quell’anno. Efficace propagandista, si mosse con molta abilità, riuscendo a orientare i liberali bresciani verso il movimento fascista e, forte di quegli appoggi, si presentò candidato alle elezioni politiche del 1921, dove non riuscì eletto solo per poche centinaia di voti. Riuscì tuttavia nelle elezioni successive, nell’aprile del 1924.
Turati era stato un estimatore di Georges Sorel e aveva mostrato una spiccata simpatia per il movimento sindacalista rivoluzionario, tanto che in seguito Benito Mussolini avrebbe ricordato la sua «mentalità nettamente sindacale» (De Begnac, 1990, p. 567). Anche per questo, la sua azione politica si caratterizzò sin dall’inizio per un acceso operaismo a difesa delle classi lavoratrici, attenuatosi successivamente, quando si rafforzarono i legami tra i fascisti e i ceti padronali bresciani. Come per altri ras dell’area padana, questo non impedì a Turati di volgere l’azione squadristica senza esitazioni contro le organizzazioni e le sedi del movimento socialista e del sindacalismo cattolico. Fu un fascista intransigente ma duttile, capace di valutare volta per volta come schierarsi quando le diverse anime del movimento fascista giungevano a confrontarsi e spesso a scontrarsi. Se durante la crisi del ‘patto di pacificazione’, si mantenne equidistante dalle posizioni in conflitto, subito dopo sostenne con forza l’istanza mussoliniana di trasformazione del movimento fascista in partito. Conservò una posizione di neutralità quando il fascismo, tra il 1923 e il 1924, venne scosso dai contrasti tra revisionisti e intransigenti, ma si mostrò sordo alle istanze normalizzatrici di Mussolini, quando ritenne giunto il momento di colpire, nel dicembre del 1922, in maniera decisiva e definitiva le posizioni residue mantenute dal Partito popolare (PPI) a Brescia.
Fu un capo dei sindacati fascisti bresciani molto pragmatico, assertore di una strategia da adattare volta per volta alle esigenze che si sarebbero sviluppate ‘sul campo’, lontano dalle posizioni ideologizzanti sostenute da Edmondo Rossoni, che lo considerò sempre un suo avversario. Turati ebbe modo di mettere in pratica la sua strategia sindacale quando, nel marzo del 1925, decise di scendere in campo a fianco della FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) a sostegno delle richieste di aumenti salariali per i metallurgici lombardi.
A Brescia il sindacato fascista si presentava particolarmente agguerrito, radicato nelle numerose fabbriche specializzate nella produzione di armi. La FIOM lombarda era da tempo in agitazione, ma fino ad allora non era ricorsa allo sciopero generale, limitandosi a ordinare brevi e parziali fermate del lavoro. Il 2 marzo 1925 Turati decise a Brescia la proclamazione dello sciopero generale e fece scendere i suoi organizzati sul terreno della lotta. Seimila operai, su suo ordine, abbandonarono immediatamente il posto di lavoro, e l’agitazione assunse «subito un carattere molto vasto» (De Felice, 1968, p. 92). Se l’obiettivo più immediato era la richiesta di un aumento del salario dei lavoratori metallurgici, lo scopo vero del leader fascista era tuttavia quello di «dare una prova di forza e guadagnarsi al tempo stesso la fiducia delle masse a scapito dei sindacati tradizionali» (Aquarone, 1995, p. 119). La decisione di Turati, anche se non esplicitamente sconfessata dai vertici fascisti, venne accolta con ostilità da Mussolini – anche se a cose fatte Il Popolo d’Italia avallò l’iniziativa e plaudì a essa – e attirò le critiche del segretario del partito, Roberto Farinacci, e di quello dei sindacati fascisti, Rossoni, che lo avvertirono come tali iniziative dovessero venire prima concordate con il centro. Di fronte a una successiva, minacciata astensione dal lavoro degli addetti ai servizi pubblici bresciani, Mussolini avvertì Turati che questa volta lo avrebbe fatto arrestare (cfr. Fuori dell’ombra della mia vita, a cura di A. Fappani, 1973, pp. 46 s.).
La vicenda mise in evidenza il potere che ormai Turati esercitava nella provincia di Brescia, e non fu perciò un caso se di lì a pochi mesi, alla fine di giugno del 1925, Farinacci lo chiamò a far parte del direttorio costituito a sostegno della sua segreteria.
Eletto segretario del Partito nazionale fascista (PNF) nella riunione del Gran Consiglio del 30 marzo 1926, Turati mise in atto una radicale epurazione dei più irrequieti e intransigenti tra i quadri e i militanti del fascismo, con cui andava a colpire per lo più elementi farinacciani. Da quel momento Farinacci fu un suo avversario feroce e irriducibile. A sostegno della sua azione, aveva elaborato per tempo e fatto approvare dal Gran Consiglio, l’8 ottobre 1926, un nuovo statuto del Partito, che gli assicurava «gli strumenti burocratici necessari a rendere effettivo il suo controllo su tutti gli iscritti» (De Felice, 1968, p. 181) sia a livello periferico sia a livello nazionale.
Lo statuto si reggeva su tre pilastri: l’insediamento definitivo e indiscusso di Mussolini al vertice delle gerarchie del Partito, l’elevazione del Gran Consiglio a organo supremo del fascismo e la liquidazione del metodo elettivo. Si imponeva così il sistema della nomina dall’alto di tutte le cariche, da quelle centrali a quelle periferiche, privando il partito di qualsiasi forma di autogoverno.
Per Renzo De Felice (1968), Turati fu senza dubbio «il miglior segretario generale del PNF» e trasformò il partito in una forte struttura «burocratico-organizzativa, estremamente centralizzata e rigidamente gerarchizzata dall’alto in basso» (pp. 177, 181), inquadrandolo in modo definitivo nel regime. Per Emilio Gentile, Turati svolse un ruolo importantissimo nella «istituzionalizzazione della religione fascista» e si deve soprattutto a lui «la definizione delle forme istituzionali del culto del littorio». Egli predicava la necessità di credere nel fascismo e nel suo capo «come si crede nella divinità», di accettarne con orgoglio i suoi dogmi «anche se ci si dimostri che sono sbagliati» (in Il Popolo d’Italia, 16 luglio 1929). Fece pubblicare al riguardo l’opuscolo La dottrina fascista (1929), una sorta di catechismo, con cui esaltava la fede fascista e riaffermava la subordinazione di tutti «alla volontà di un Capo» (pp. 3, 13).
Turati svolse anche un’attività parlamentare molto intensa, e la sua impronta fu presente in tutti i passaggi che segnarono la progressiva costruzione del regime totalitario. Come segretario della commissione per il disegno di legge sui Provvedimenti per la difesa dello Stato fu un convinto sostenitore delle ‘leggi fascistissime’, fino a caldeggiare, dopo l’attentato di Bologna dell’ottobre 1926, la reintroduzione della pena di morte (De Begnac, 1990, pp. 462 s.). Nella stessa seduta del 9 novembre 1926 in cui passò la legge, venne approvata anche una mozione di Turati che dichiarava decaduti dal mandato parlamentare tutti i deputati dell’opposizione aventiniana. Sostenne la riforma con cui il regime ‘costituzionalizzava’ il Gran Consiglio e, memore dei suoi trascorsi sindacalisti, partecipò in modo attivo all’elaborazione e realizzazione di alcuni importanti passaggi legislativi che anticipavano la costruzione dello Stato corporativo, come la legge 3 aprile 1926 n. 563 Sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, la legge 13 dicembre 1928 n. 2832, che delegava il governo a emanare norme per la completa attuazione della Carta del Lavoro – da lui definita «la più netta, cruda espressione della nostra Rivoluzione» (Aquarone, 1995, p. 142) e la legge 20 marzo 1930 n. 206, che riformava il Consiglio nazionale delle corporazioni. Partitocrate convinto, istituiva, con una circolare dell’agosto 1927, i comitati intersindacali, che in sostanza dovevano far sì che i sindacati obbedissero alle direttive del governo (cfr. Lyttelton, 1974, p. 558), e si opponeva alla istituzione dei ‘fiduciari di fabbrica’, in cui vedeva una residua forma di autonomia del sindacato dal partito e dal governo. I conti con Rossoni e con le velleità autonomistiche delle corporazioni fasciste, Turati del resto li aveva già regolati con successo un anno prima, quando aveva spalleggiato in modo convinto l’azione di smembramento (il cosiddetto sbloccamento) che Mussolini aveva condotto contro le organizzazioni sindacali di Rossoni.
Si deve a Turati l’avvio di quel processo di progressivo inserimento del partito nello Stato, perfezionato dai suoi successori, con la dilatazione della sfera «delle sue iniziative ed attribuzioni, nel campo assistenziale, sportivo, scolastico, sindacale» (Aquarone, 1995, p. 175), con la conseguente burocratizzazione sia del Partito sia dello Stato. Nell’ambito di questo progetto, Turati fu l’ideatore dell’inquadramento degli studenti universitari nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), facendoli dipendere direttamente dalla segreteria del PNF.
Nell’aprile del 1927 sostituì Mario Giani alla testa della OND (Opera Nazionale del Dopolavoro), privandola di quel poco di autonomia che le restava e rendendola di fatto anch’essa dipendente dal PNF.
Nel dicembre del 1928, in forza dell’art. 14 della legge 9 dicembre 1928 n. 2693, che trasformava il Gran Consiglio in un organo costituzionale, Turati venne chiamato a partecipare, come segretario del partito, alle sedute del Consiglio dei ministri.
La radicalità della prospettiva politica di Turati di uno Stato partitocratico, con il completo inserimento, in una sorta di simbiosi, del partito nello Stato con compiti «esecutivi e ideologici», e con l’intento di ‘fascistizzarlo’ (Gentile, 1995, pp. 88 s.), finì per confliggere, verso la fine degli anni Venti, con i progetti di Mussolini, che al contrario intendeva il partito come «una cinghia di trasmissione a senso unico, dal centro alla periferia», del suo potere politico (De Felice, 1968, p. 314). Falliva con ciò anche la concezione del ruolo attribuita da Turati al partito all’interno dello Stato, per cui a esso avrebbe dovuto competere «la formazione della classe dirigente fascista capace di proseguire la rivoluzione nel senso di una integrale fascistizzazione dello Stato» e secondo la quale il partito doveva conservare «una posizione centrale nel regime fascista, perché spettava ad esso il controllo politico delle istituzioni economiche e sociali, senza con questo interferire con l’azione del duce» (Gentile, 1995, p. 177).
Consapevole di ciò, nell’aprile del 1930, Turati presentava le sue dimissioni da segretario del PNF, che vennero prontamente accolte da Mussolini. Dopo una collaborazione di breve durata con il Corriere della sera, il 30 gennaio 1931, assunse la direzione del quotidiano torinese La Stampa, in sostituzione di Curzio Malaparte.
Nell’estate del 1932, esplose il ‘caso Turati’. Una ex tenutaria di un bordello, tale Paola Marcellino, per rancori personali, consegnò a Farinacci alcune lettere compromettenti che Turati le aveva inviato, contenenti richieste di giovani minorenni disposte a particolari prestazioni sessuali; il ras di Cremona ne inoltrò immediatamente copia a Mussolini, e fu la fine politica di Turati. Avevano preso nel frattempo a circolare voci incontrollate su manifestazioni da parte di Turati di perversioni sessuali, di pedofilia e di omosessualità. Perciò il capo del fascismo prima lo tolse dalla circolazione facendolo internare in una casa di cura a Ramiola vicino a Parma, poi lo costrinse a lasciare l’Italia. Nel gennaio del 1933 Turati partì per Rodi con la moglie e la figlia.
A Rodi, Turati rimase fino al 1937 dedicandosi con alterne fortune all’agricoltura, fino a quando non ottenne di tornare a Roma. Nel frattempo aveva cercato di riacquistare, almeno in parte, la benevolenza di Mussolini, chiedendo invano di partecipare prima alla guerra di Etiopia e poi alla guerra civile spagnola. Con molta prudenza tentò anche di avvicinarsi di nuovo alla politica, ma per lui le porte di Palazzo Venezia erano ormai definitivamente sprangate. Nell’agosto del 1937, riuscì a ottenere la direzione di un’azienda agricola in Etiopia, ma nel gennaio del 1938 era di nuovo di ritorno a Roma. Dal 1938 al 1940 s’interessò di cinema entrando a far parte di una società cinematografica di produzione. Svolse anche assistenza legale a società edili e ricoprì la carica di presidente di un cotonificio di Bergamo e della Ilpes, una società per la pavimentazione stradale. In quel periodo perse la figlia e il genero, morti nel corso di un bombardamento.
Turati non aderì alla Repubblica sociale italiana. Dopo la liberazione di Roma (giugno 1944), venne fermato dalla polizia alleata il 2 agosto, interrogato e subito rilasciato. L’11 agosto l’Alto Commissario per le sanzioni dei reati fascisti spiccò un ordine di cattura nei suoi confronti, ma nel frattempo egli si era reso latitante.
Il processo, istruito nei suoi confronti sulla base degli articoli 2, 3 e 7 della legge 27 luglio 1944 n. 159, terminò il 29 novembre 1947 con la condanna a quattro anni di reclusione. La pena veniva peraltro «condizionalmente condonata». La sentenza tenne benignamente conto delle attenuanti derivate dalla sua partecipazione «al movimento dei partigiani, al quale ha dato aiuti perdendo anche una sua autovettura, ed assumendo presso il suo ufficio, durante l’occupazione tedesca, sotto falso nome l’ebreo Ascoli Vittorio». Il suo contributo alla lotta contro i tedeschi era certificato «da una dichiarazione in atti del Comando Brigata Garibaldi», anche se indagini condotte dagli Alleati avevano accertato che non vi fu affatto il presunto aiuto che egli avrebbe fornito ai partigiani durante l’occupazione tedesca (Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello, Sezione Istruttoria). L’‘amnistia Togliatti’ gli restituì la piena libertà.
Morì a Roma il 27 agosto 1955.
Opere. Ragioni ideali di vita fascista, Roma 1926; Una rivoluzione e un capo, Roma 1927; Il partito e i suoi compiti, Roma 1928; Fuori dell’ombra della mia vita, a cura di A. Fappani, Brescia 1973.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione polizia politica, Serie A, Fascicoli personali, b.101; Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione polizia politica, Serie A, Fascicoli personali, b.102; Divisione affari riservati, Categorie permanenti, Categoria B, b. 368; Direzione generale pubblica sicurezza, Categoria A1, anno 1941, b. 101; Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 98; Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello, Sezione istruttoria, f. 135.
P.A. Vecchia, Storia del fascismo bresciano 1919-1922, Brescia 1929, ad ind.; R. De Felice, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino 1968, ad ind.; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1974, ad ind.; P. Morgan, A. T., in Uomini e volti del fascismo, a cura di F. Cordova, Roma 1980, pp. 474-519; P. Corsini, Il feudo di A. T. Fascismo e lotta politica a Brescia 1922-26, Milano 1988, ad ind.; Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Bologna 1990, ad ind.; A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino 1995, ad ind.; E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Roma 1995, ad indicem.