aulico (aulicus)
È il terzo aggettivo con cui D. definisce il suo concetto di alto volgare italiano unitario in VE I XVI 6 (e XVII 2) - ma con anticipi anche in precedenza -, spiegandone in I XVIII 2-3 il valore. Con questo passo, e con quello successivo sul volgare curiale, si precisa quella funzione potenzialmente politica assegnata al volgare illùstre che costituisce uno degli aspetti più notevoli della teoria dantesca (v. ILLUSTRE) : in questo senso il capitolo non è separabile dal precedente I XII, dove la nascita di una lirica italiana in volgare illustre in terra di Sicilia è messa acutamente in rapporto con l'azione politica moderna e unitaria di Federico II e Manfredi e col fervore morale e intellettuale creatosi attorno alle loro persone.
Aulicus è mal reso dal nostro ‛ aulico ', mentre significa letteralmente " proprio della reggia ", " appartenente alla reggia " come precisa l'equivalenza contestuale con palatinus (" idest de palatio existens ": Uguccione da Pisa), che torna anche in Ep IT 5 et qui Romanae aulae palatinus erat in Tuscia, nunc regiae sempiterne aulicus... Se il senso generale del passo è chiaro, vanno tuttavia messi a fuoco alcuni particolari non irrilevanti. Scartata senz'altro l'errata interpretazione rinascimentale che vedeva qui un anticipo della teoria linguistica cortigiana (per il tramite, complice il Trissino, di un'interpretazione deformante di ‛ conversari ' come " conversare ", mentre ha valore sinonimico di ‛ habitare ', con cui è coordinato), resta che D. viene a dire, letteralmente, quanto segue : il volgare illustre è aulicus perché, se noi Italiani avessimo una reggia (aula), le apparterrebbe di diritto : infatti, poiché l'aula è la casa comune di tutto il regno, e il volgare illustre (come da VE I XVI) è comune a tutti, è giusto e doveroso che esso vi dimori, e anzi solo una tale dimora è adeguata alla sua nobiltà; perciò coloro che frequentano le regge parlano sempre in volgare illustre, ma d'altra parte il volgare illustre d'Italia è costretto ad andar ramingo come un pellegrino e a trovare ospitalità in umili asili, poiché gl'Italiani non hanno una reggia.
Va senz'altro respinta l'interpretazione del Marigo, secondo cui i frequentatori delle regge (in regiis omnibus conversantes) sarebbero per D. anche Italiani, sebbene " non ... tutti quelli che hanno familiarità nella reggia, ma solo coloro che ne sono degni per ingegno e scienza: poeti, oratori e prosatori d'alto stile ", sicché dunque locuntur significherebbe " esprimersi con eloquenza ". Locuntur ha senza dubbio il valore letterale e generale di " parlano ", e il riferimento è a una situazione, non italiana, in cui esista una vera reggia, che eo ipso comporta l'uso del volgare illustre in chi la frequenta, e che in Italia, come è detto a tutte lettere, manca. Ci sono, s'intende, anche in Italia coloro che per ‛ altezza d'ingegno ' possiedono il volgare illustre, ma costoro non si appoggiano a una vera reggia esistente; tutt'al più, come si dirà a proposito della curia, costituiscono un'aula potenziale (sul fatto che questi privilegiati siano per il momento poeti e solo poeti, v. ILLUSTRE). Come poi per la nozione di volgare curiale, è qui evidente che agisce fortemente sulla teoria dantesca il metodo di quelle nazioni (Francia, Germania) in cui l'unificazione linguistica era o appariva a D. frutto di unità politica, incentrata nell'aula di un regnum; mentre l'immagine del volgare illustre italiano che velut accola peregrinatur et in humilibus hospitatur asilis riflette chiaramente la vicenda personale del D. esule (e forse quella parallela di Cino da Pistoia).
Bibl. - D.A., De vulg. Eloq., a c. di A. Marigo, LXVIII-LXXXVI, 151-154; G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 266-270; id., La teoria linguistica del " De vulg. Eloq. ", in " Cultura e Scuola " II (1962) 5, 38-39.