GELLIO, Aulo (A. Gellius)
Scrittore latino del sec. II d. C. Della sua vita sappiamo quel poco che ci dicono le sue Notti Attiche. V'è chi l'ha supposto africano, ma era certo a Roma quando prese la toga virile. Soggiornò qualche tempo, per amore degli studi, ad Atene, dove frequentò Erode Attico, il cinico Peregrino Proteo, soprattutto il platonico Calvisio Tauro. Ancora adulescens egli si chiama, quando, tornato a Roma, fu scelto dai pretori a giudice nei iudicia privata. Una tarda testimonianza del cronista inglese Radulfus de Diceto assegna al 169 la composizione delle Notti Attiche che G. dedicò ai figlioli. Queste, egli spiega nella prefazione, ebbero origine da appunti di letture o di conversazioni incominciati a prendere nelle lunghe notti invernali in agro terrae Atticae, alla rinfusa e senza distinzione di materia. E la stessa congerie indistinta egli dice di aver trasferita nel libro, sottoponendola però a una romana scelta che eliminasse il troppo e il vano di consimili composizioni, soprattutto di Greci.
Tra le materie comprese nella trattazione la prefazione enumera la letteratura (grammatica), la logica (dialectica), la geometria, il diritto augurale e pontificio. Ma vi se ne trovano anche molte altre: questioni astronomiche, quale quella del nome dell'Orsa, e meteorologiche, quale quella del nome dei venti; e notizie di superstiziosa medicina (le modulazioni del flauto che guariscono la sciatica), di storia naturale, di geografia, quale la classificazione dei fiumi in ordine di grandezza. Non mancano il diritto e le antichità civili, quali la notizia della nota censoria apposta sui monumenti e la distinzione delle varie specie di comizî. Aggiungi la storia soprattutto romana: l'eroismo di Q. Cedicio paragonato a quello di Leonida con le parole di Catone il vecchio, l'aureola del miracolo cinta alla fronte di Scipione maggiore, le umili origini di Ventidio Basso, primo trionfatore dei Parti.
Ma fra tutte le materie, citate o no nella prefazione, l'interesse maggiore è per la grammatica, lingua e letteratura, che si rivela conforme alle tendenze arcaicizzanti del tempo. Onde tra gli scrittori greci i classici di G. sono quelli dell'età prealessandrina, aggiunti Teocrito e i comici della Commedia nuova, e pochi altri, ai quali si erano ispirate le muse di Virgilio, di Terenzio e di Plauto; i posteriori, Plutarco, Arriano, sono citati solo come fonti a testimoniare di parole e di cose. Degli scrittori romani appaiono oggetto di lettura e di studio solo quelli dell'età repubblicana, più Virgilio che doveva trovare grazia per il suo moderato arcaismo. Di Orazio si parla una volta sola (II, 22), di Livio mai. Seneca, il maestro dello stil nuovo, è trattato come homo ineptus et insubidus per gl'irriverenti giudizî su Ennio, e su Cicerone e Virgilio per quanto hanno di enniano, e bollato come lettura dannosa all'educazione letteraria dei giovani.
Il pregio storico del libro in sé sta nel mostrarci in atto la vita delle lettere e in genere di quella che noi chiameremmo alta cultura, nell'Impero e nella Roma degli Antonini, nella quale vediamo far opera di maestri Sulpicio Apollinare cartaginese e Antonio Giuliano spagnolo, pontificare Favorino di Arelate e Frontone di Cirta. Questo pregio ingrandisce sotto un altro rispetto, se consideriamo che G. è una delle fonti più autorevoli per la nostra conoscenza della letteratura contemporanea e anteriore, ricorrendo presso di lui citazioni di quasi duecentocinquanta autori, alcuni dei quali ci sarebbero assai meno noti se non fosse per lui, quali tra i contemporanei Erode Attico e Favorino, tra gli antichi Q. Claudio Quadrigario e i primi scrittori latini di epigrammi. Così, a lui dobbiamo la prima e più autentica collezione delle sentenze di Publilio Siro (XVII, 14). Ma anche di autori sufficientemente noti a noi per altra via, egli ci ha conservato preziose reliquie: l'episodio già citato del tribuno Cedicio nelle Origini di Catone, e l'orazione del censore stesso per i Rodî con l'annessa critica di Tirone, il liberto di Cicerone (VI, 3), l'apologo dell'allodola nidificante tra il grano nelle satire di Ennio, che da un lato ci dimostra l'esistenza in Roma della favolistica in un tempo anteriore a Fedro, dall'altro ci indica la presenza nelle satire di Ennio di quelle aniles fabellae che Orazio coglieva sulla bocca di Cervio, per inserirle nei suoi Sermoni; il sunto della menippea di Varrone Nescis quid vesper serus vehat (XIII, 11). Nei riguardi della storia letteraria ha un'importanza senza eguali il capitolo terzo del libro terzo nel quale ci è spiegata la formazione di quel corpus di ventuna commedie plautine che sono giunte a noi. Reminiscenze e richiami dei Chronica di Cornelio Nepote così celebrati da Catullo e del Liber de poetis e degli Annales di Varrone stanno alla base dei sincronismi della storia greca e romana stabiliti al capitolo ventunesimo del libro XVII.
A voler pronunciare un giudizio riassuntivo di tutto questo sapere e della capacità critica di Gellio occorre tenere presente la ragione dei tempi. Chi la dimentichi, è tratto facilmente, ad esempio, a rimproverargli le sue errate etimologie, delle quali alcune non possono fare a meno di parere addirittura mostruose, come quella di indutiae da inde uti iam (I, 25). Ma chi dalla lettura di III, 19 si fa un'idea del modo tutto affatto istintivo e divinatorio pel quale gli eruditi d'allora, ignari di ogni speculazione linguistica, giungevano agli etimi delle parole, poggiandosi solo sulle loro somiglianze acustiche e ideologiche, non può muovere accusa a G. di essersi comportato in questo riguardo come l'età sua consentiva. Lo stesso valga in proposito di alcune giustificazioni morfologiche, come quando dall'avverbio compluriens si vuole (X, 21) concludere alla regolarità del plurale compluria. Così pure è chiaro che la critica d'arte di G. è difettosa: in quanto il giudizio estetico vi appare turbato da elementi del tutto estranei all'arte. Va in estasi con Antonio Giuliano di fronte agli antichi epigrammi di Valerio Edituo, di Lutazio Catulo, di Porcio Licino, pura riproduzione di motivi greci (XIX, 9); ma torce la bocca dinnanzi ai rifacimenti buffoneschi (mimica) del borghese Menandro che Cecilio Stazio aveva messi in scena. Pure in quella mimicità sta l'originalità, non solo di Cecilio, ma in buona parte anche della commedia di Plauto, comparata con la Commedia nuova dei Greci.
Con queste cautele e riserve non si può negare che G. possieda e mostri alcune buone attitudini critiche. E prima di tutto una tendenza a rifuggire dagli estremi, per la quale egli, discepolo di Frontone, appare arcaista temperato e prudente e in fondo aderisce al pensiero messo in bocca di Favorino a I, 10: Vive moribus praeteritis, loquere verbis praesentibus. Non sarebbe egli stato dunque uno di quelli i quali, dire del Kahrstedt (Die Kultur der Antoninenzeit, in Neue Wege zur Antike, III, p. 73) rigettando ogni contatto con la lingua viva del tempo furono causa della separazione della lingua scritta dalla parlata e in conseguenza responsabili dell'imbarbarimento di questa. La stessa sanità di criterio applicata a problemi storici gli dà il coraggio di opporsi altrove ad autorità rispettate dagli arcaizzanti. Per esempio a III, 11 sono stigmatizzati come levia gli argomenti con i quali Accio si era immaginato nei suoi Didascalica di provare l'anteriorità di Esiodo a Omero. Anche nella critica dei testi vediamo G. deferire a criterî che adotteremmo noi stessi, quando a I, 21 propugna la lezione amaror in Georgiche, II, 247, sulla base d'un manoscritto proveniente dalla casa e dalla famiglia di Virgilio e sull'analogia di Lucrezio IV, 221; o quando a I, 7 fa intervenire il criterio del ritmo nella restituzione di un testo ciceroniano. In un'età poi tutta protesa verso la curiosità del miracolo egli si conserva eccezionalmente diffidente verso tutta la letteratura degli ϑαυμάσια e degli ἄπιστα e si ribella alle frottole raccontate da Plinio nella sua Storia Naturale e da lui attribuite a Democrito (X, 12).
Come scrittore, si può dire che G. si propose un ideale di semplicità già provato, a sentir lui, dal titolo dell'opera. In realtà la sua è semplicità non naturale, sì ricercata, che volutamente tenta reagire contro i gonfiori dell'età antecedente. La stessa fittizia semplicità si nota nella composizione dell'opera in cui la svariata materia prende posto alla rinfusa. Può a noi non parere questo il miglior modo di prepararsi un sussidio alla memoria, come pur G. aveva inteso fare con le sue originarie annotazioni, ma egli è che anche qui sotto specie di negligenza reagiva G. agli schemi quale quello del Convito platonico, abusati dai suoi predecessori. Onde i suoi critici oggi gli rimproverano di non aver saputo inquadrare la sua materia in un'unica finzione artistica; egli, al contrario, quando scriveva, dové proprio volersi sciogliere dagli artificiosi schemi tradizionali e preferire il disordine di una trattazione saltuaria. Nel disordine della materia l'unità resta costituita dal solo curioso spirito dell'autore.
Al di fuori e oltre questa voluta assenza di un generale disegno, l'arte, o se si vuole la preoccupazione d'arte, dell'autore si rivela nella costruzione dei particolari. Ricorrono infatti nell'opera capitoli che presentano la forma grezza di annotationes con l'indicazione del libro onde sono state derivate. Ma spesso e volentieri la materia è drammatizzata in una forma aneddotico-dialogica. Precede l'indicazione del luogo o della circostanza in cui il dialogo è avvenuto. Lo sfondo è chiesto ora alla Grecia ora all'Italia. Ora siamo a Pozzuoli e a Napoli con Antonio Giuliano presenti a declamazioni e letture; ora in Atene con lo splendido Erode Attico che mette a posto i falsi filosofi; ora con Favorino e con Frontone sull'area palatina in attesa della salutatio Caesaris, alle terme o a cena o a diporto sulla spiaggia di Ostia, dove assistiamo al contrasto di due filosofi, uno stoico e uno peripatetico; ora fermiamo il dotto poeta Giulio Paolo di passaggio nel Foro a domandargli il significato preciso di una parola, ora ci intratteniamo con lui in una bottega di libraio. E negli aneddoti, sul mutevole sfondo, si profilano le figure dei discenti e dei docenti. Sebbene sia più esatto dir tipi, ché dentro i tipi i singoli individui non arrivano a differenziarsi. Dei discenti la differenziazione non è neppure cercata: p. es. non è fatto neppure il nome dei due filosofi introdotti a disputare sulla spiaggia di Ostia dinnanzi a Favorino. Di fronte al tipo dell'impronto, del petulante, del saccente sta quello del maestro fatto di sapienza senza iattanza, di una superiorità alla quale non resta estranea l'indulgenza. E qui i nomi ci sono, ma non si può dire siano tratteggiati caratteri, per i quali Favorino appaia persona diversa da Frontone, da Erode, da Calvisio Tauro. L'arte si arresta al tipo e alla vivacità del dialogo, talvolta veramente notevole, quale si manifesta, p. es., nel prandium caninum, in cui protagonista appare Gellio stesso (XIII, 31).
Nell'antichità e nel Medioevo la lettura di Gellio non venne mai meno. Il Medioevo fuse l'iniziale del prenome col nome, e chiamò lo scrittore con una sola parola: Agellius.
Manoscritti ed edizioni: L'opera, costituita di 20 libri, per la necessità della libreria antica dové essere già in origine divisa in due volumi. Della qual divisione ci è rimasta traccia in una soscrizione di tale Aurelio Romolo alla fine del libro IX. Poi dové prevalere l'altra divisione I-VIII, IX-XX la quale spiega la perdita del libro VIII e si trova riflessa nei manoscritti più antichi giunti a noi, dei quali alcuni contengono i primi sette libri, altri gli ultimi dal nono in poi. Le due parti si ricongiungono in manoscritti del sec. XIV e più in giù.
L'edizione principe è di Roma 1469; poi occorre citare quella parigina del Carrion (1585) che ebbe a mano un codice oggi perduto. Fondamentale a tutt'oggi l'editio maior di M. Hertz (Berlino 1883-1885, in due volumi). Nella collezione teubneriana di Lipsia il posto dell'editio minor dello stesso (1853 e 1886; per quella del 1853, criticata da R. Klotz, v. le vindiciae Gellianae del Hertz in Opuscula Gelliana, Berlino 1886) è stato preso da una nuova edizione di C. Hosius (1903) nella praefatio della quale è un elenco diligente, libro per libro, capitolo per capitolo, delle fonti alle quali Gellio avrebbe attinto.
Bibl.: Alla bibl. contenuta nella citata prefazione del Hosius, sono da aggiungere per la lingua: L. Dalmasso, A. G. lessicografo, in Rivista di filol. class., 1923, p. 195 segg.; id., Notizie lessicali in A. G., in Atti della Reale Accademia delle scienze di Torino, LVIII (1923), p. 80 segg.; per l'età di G., B. Romano, Quibus temporibus fuerint A. Gellius et M. Valerius Probus, in Rivista di filol. classica, 1916, p. 547 segg.
Sull'uso di G. da parte di Nonio Marcello e Ammiano Marcellino, M. Hertz in Opuscula Gelliana, pp. 85-201. Per il Medioevo oltre la prefazione del Hertz, p. xiii, segg., sono da consultare gl'indici ai tre volumi della Gesch. der latein. Literatur des Mittelalters del Manitius. Su G. in Radulfo di Diceto, v. G. Gundermann e G. Goetz, in Bericht über die Verhandl. der Sächs. Akad. der Wiss., Phil-hist. Klasse, LXXVIII (1926), fasc. 2; V. Ussani, in Riv. di filol. classica, 1928, p. 146 segg. Sulle antologie composte di excerpta da G. e da Valerio Massimo, v. R. Valentini, in Classici e neolatini, VI (1910).